HUFFINGTON.IT — 24 LUGLIO 2020 PUBBLICA IL DOCUMENTO DI GIANNI CUPERLO CHE E’ STATO PRESENTATO AL NAZARENO IL 25 LUGLIO — PRESENTAZIONE DI ALESSANDRO DE ANGELIS, VICE DIRETTORE

 

 

 

HUFFINGTON.IT — 24 LUGLIO 2020

 

 

Alessandro De Angelis

ViceDirettore

https://www.huffingtonpost.it/entry/bravo-cuperlo-a-sinistra-non-si-puo-ricostruire-senza-radicalita_it_5f1afa97c5b6f2f6c9f5acc5?utm_hp_ref=it-blog&ncid=other_homepage_tiwdkz83gze&utm_campaign=mw_entry_recirc&fbclid=IwAR1sw8P3-KU8ac_TNII_8vJgsVp3wTDdmeAnDiySsNi8wOmpX4ameoU3u88

 

 

 

IL BLOG

24/07/2020 17:47

Bravo Cuperlo, a sinistra non si può ricostruire senza radicalità

 

 

ROME, ITALY - MARCH 17:Gianni Cuperlo partecipates at the Public initiative
SIMONA GRANATI – CORBIS VIA GETTY IMAGES

Radicalità è una parola bella, molto bella. Che non è sinonimo di estremismo, chiacchiera ideologica, inconcludenza parolaia. In verità non c’è niente di più radicale del riformismo, della capacità cioè di perseguire con determinazione un obiettivo di trasformazione possibile, con concretezza di azione e, appunto, radicalità nei principi. Radicalità per ricostruire è il titolo di un documento molto articolato che Gianni Cuperlo illustrerà domani nel corso di una riflessione al Nazareno, aperta e (per fortuna) non cristallizzata nel gioco di corrente.

Nelle redazioni accade spesso di imbattersi in “documenti” di partito, che normalmente vengono accolti con scarso entusiasmo e raramente tradiscono la noia dell’aspettativa. Questa è una eccezione, e per questo merita di essere pubblicato e letto. Diciamola così: è, finalmente, un segnale di vita (intellettuale, innanzitutto) nel dibattito a sinistra. A proposito: sì, il “dibattito sì”, aridatecelo, dopo mesi in cui la velocità degli eventi ha imposto anche un’apnea di pensiero ed elaborazione, e sarebbe ora di recuperare una dimensione di “profondità”. E questo documento è, per usare un’altra espressione abusata, una “cosa di sinistra”, anzi la cosa più di sinistra prodotta dal Pd negli ultimi tempi. A leggerlo bene rappresenta la chiave – politica, valoriale, simbolica – di una agenda (e di una iniziativa) possibile.

Senza farla troppo lunga, innanzitutto c’è il recupero di un sano principio di realtà. Già, del senso reale di quel che sta accadendo: l’emergenza sanitaria, quella economica più in generale un mutamento profondo della mentalità, della società, della natura stessa delle democrazie. Si misura con gli indici di contagio? Sì, ma non solo. Con i dati di Pil? Sì, ma non solo. C’è un cambiamento non misurabile con le statistiche, che è quello del rapporto tra cittadini e Stato: la concezione della libertà, i nostri diritti, i rapporti sociali, affettivi, il lavoro. Insomma, la politica. Ne usciremo diversi, e siamo già diversi, anche se, forse non ne abbiamo ancora piena consapevolezza.

Ascoltando il dibattito alla Camera dopo la svolta europea sul recovery fund, si è avuta appunto questa sensazione: un’aria da problema risolto, come se i soldi fossero già ottenuti, allocati e spesi. E come se la partita europea fosse già finita. Più della modestia del cimento, in un’impresa senza precedenti che ha bisogno di una grande tensione morale e ideale nel paese, si vive un’euforia da scampato pericolo. Uno spirito ordinario per tempi straordinari, tra una chiacchiera sulla task force e un rinvio del Mes.

Ecco il punto. Cuperlo nel suo documento recupera la necessità di questa modestia. E, con essa, di una “visione” e della altrettanto urgente fuoriuscita dalla logica dell’emergenza. Questo però chiama in causa la qualità stessa delle classi dirigenti nazionali cresciute in epoca di populismo, formatesi sull’istinto, sulla risposta immediata, incapaci di vedere oltre l’orizzonte del presente. Giustamente, si legge, “il passaggio di adesso è l’occasione unica per rifondare quel discorso pubblico, recuperando una lettura critica dei processi in atto che un tempo lungo ha cercato di archiviare, purtroppo a volte con successo”. Si può aggiungere, con un po’ di enfasi: ora o mai più, anzi speriamo che non sia troppo tardi?

Perché il problema è tutto qui: questa è la prima emergenza dell’Italia populista, precipitata non su una democrazia forte, ma su un sistema sull’orlo di una “crisi strutturale”: un governo immobile, il Parlamento non più specchio di un paese reale, una crisi economica già difficile, una destra maggioritaria. E anche qui: un’assenza di visione per contrastarla, sin dalla genesi dell’attuale governo. Il punto è questo. E diciamocelo, è ben altro dal “quanto dura” e dal “chi andrà al Quirinale”. È ben altro. Il Covid è stato la spazzola della storia che ha tolto la coltre di polvere, facendo emergere in modo impietoso contraddizioni, ritardi, limiti di lungo periodo, dal disastro sui tagli alla Sanità al sito dell’Inps che si blocca. Solo lo stato di eccezione ha tenuto assieme il tutto. L’emergenza e, con essa, la costruzione di un potere nuovo fondato sull’anomalia e sulla necessità. Col rischio, come ha scritto Ezio Mauro, di infettare anche la democrazia giocando con le paure.

Adesso però, diciamocelo, siamo al dunque. Il problema non è neanche Salvini, il problema, squadernato, è il declino dell’Italia, la rabbia, il rischio di un autunno di tensioni sociali, di una crisi di sistema anche se non di governo. Ed è vero, come è scritto: la metafora nella guerra non c’entra nulla, perché non abbiamo alle spalle un regime oppressivo ma l’opposto, una perdita di sicurezza e anche di libertà. Adesso la sfida è coniugare ricostruzione rinnovando i pilastri della democrazia. Serve un’agenda? Sì, se questo documento venisse accolto avremmo un programma più avanzato perché qui dentro c’è un’idea di società.

Però prima ancora serve una politica. E una iniziativa un po’ più ambiziosa del Pd, che non sia la difesa dello status quo, accompagnata dalla solita litania “non c’è alternativa sennò arriva Salvini”. Nel registrare l’ottimismo della volontà, con pessimismo della ragione penso che questo governo sia incapace di essere alternativo a se stesso, superando quei limiti evidenti sin dalla nascita. Non si è trasformato in una coalizione politica di fronte alla minaccia della destra, non lo ha fatto di fronte alla peggiore emergenza della storia repubblicana, è lecito porsi dei dubbi sulla capacità di fare un salto di qualità. Che però sarebbe necessario e ineludibile. Buona lettura.

 

 

 

RADICALITA’ PER RICOSTRUIRE

Creare un’Alleanza per il dopo

 

In un pugno di mesi sull’Italia, sull’Europa e sul mondo è piombata la crisi del Covid-19 e ogni cosa è mutata.

Per noi, oltre alle migliaia di vittime, ha significato la recessione peggiore della storia repubblicana. Il governo ha affrontato l’emergenza e retto l’urto, anche se limiti ed errori non sono mancati. In prima battuta la BCE, poi il Consiglio Europeo hanno agito diversamente rispetto al 2008 e oggi dopo le “5 giornate di Bruxelles” e il loro impatto di svolta siamo alle prese, come altre nazioni, con la prova più impegnativa: sfruttare un deficit senza eguali e le ingenti risorse a disposizione per aggredire riforme incompiute da decenni (sulle scelte e sulla visione da coltivare è fondato il contributo programmatico allegato a questo testo).

L’Occidente e la democrazia sono entrati in una stagione di emergenza.

Numerosi paesi a guida autoritaria hanno usato la pandemia per introdurre norme repressive delle libertà civili e costituzionali. Alcuni tra i principali leader “populisti” hanno negato l’evidenza sino ad ammalarsi precipitando le rispettive popolazioni in una tragedia non ancora conclusa.

Le grandi istituzioni sovranazionali sono apparse nell’insieme fragili sino a rivelare un paradosso: la crisi peggiore dell’ultimo mezzo secolo è coincisa col punto più basso di autorità e iniziativa del multilateralismo.

Un mondo senza una potenza-guida e un ordine riconosciuti: con questa novità bisogna misurarsi nell’immaginare il “dopo”.

Le grandi famiglie politiche, eredità del vecchio secolo, hanno visto convivere al proprio interno reazioni e persino valori opposti. A testimonianza, due tra i quattro paesi anti-federali (i cosiddetti frugali) sono guidati da coalizioni che comprendono partiti socialdemocratici e ambientalisti. Sull’altro fronte, i governi “sovranisti” di Budapest e Lubiana sono diretti da forze integrate a pieno titolo nel Partito Popolare Europeo.

Da destra come da sinistra la risposta è stata concentrare nel potere esecutivo un sovrappiù di dirigismo, reazione inevitabile nell’immediato.

Adesso però ogni nazione e l’Europa nel suo complesso sono dinanzi a decisioni che investono il modello di società, il suo modo di pensare, organizzarsi, di rinnovare e rafforzare i pilastri della democrazia.

Se parliamo della pandemia e delle vittime il paragone con la guerra non ha ragione d’essere. Diverso è fondare un parallelo con la ricostruzione che consentì all’Italia di lasciarsi alle spalle un regime oppressivo per divenire una delle grandi nazioni sulla scena europea e globale.

Oggi alle classi dirigenti del paese – nella politica, nel lavoro e nell’impresa, nella cultura e nella scienza, nell’informazione – spettano un compito e ambizioni analoghe perché viviamo un passaggio rilevante della storia d’Italia, come fu il 1946 nel suo slancio unitario di ricostruzione nazionale o, in un contesto diverso, il 1992-93.

Per affrontarlo servono decisioni radicali, serve un indirizzo – i più la chiamano una “visione” – sulla stagione che si apre.

A non bastare è la logica dell’emergenza, l’accompagnare lo sviluppo dei processi e degli eventi governandoli di giorno in giorno.

Insomma, se una chiave il momento ci consegna è la riscoperta di una politica fondata sul binomio tra principi ideali e traguardi di emancipazione, diritti, libertà in una concezione cooperativa e solidaristica della società.

Questo è il tema che in tutta Europa interroga il socialismo e la sua radice liberale e libertaria. Questa è anche la sfida che il Partito Democratico ha il dovere di raccogliere ora.

Farlo significa avere un giudizio sul come e il perché siamo arrivati qui.

In questo la pandemia, seguita al collasso del 2008, ha rivelato tutta intera la debolezza e pericolosità del modello finanziario, economico e sociale che ha scandito gli ultimi quarant’anni e della sua ideologia improntata a un individualismo privatistico e anticoperativo.

A lungo la dipendenza della politica da un unico pensiero economico ha sottratto agli “sconfitti” della società l’orgoglio di sé e la speranza di riscatto.

La fotografia dell’ascensore sociale inchiodato al pianterreno ne è stata la traduzione logica.

A differenza della seconda metà del ’900 quando sulle due sponde atlantiche l’insieme della classe politica, dal fronte liberale e conservatore a quello democratico e socialista, hanno favorito una riduzione delle disuguaglianze, la stagione prossima a noi quella forbice ha sistematicamente allargato riducendo lo spazio del pubblico, l’azione regolatrice dello Stato in una subalternità dello stesso vocabolario delle culture progressiste.

Si è così regrediti a una concezione aziendalistica dei servizi pubblici, con un impianto caritatevole a sostituire la spinta universalistica che aveva generato un senso di comunità e coinvolgimento della classe media.

Al posto di sicurezza, crescita nella coesione sociale, servizi universali e maggiore uguaglianza si è imposta l’ideologia costruita ad arte del prezzo eccessivo di questi benefici sotto la forma di una inefficienza economica, di una tassazione esosa, del soffocamento dello spirito d’impresa e di un debito pubblico fuori regola.

La tragedia della pandemia con i dati angoscianti sulle carenze dei servizi sanitari in alcuni territori ha finito col confermare una verità: ogni società che distrugge il tessuto del proprio Stato “si sfalda in una polverosa disgregazione di individualismi”. Con una coda solo in apparenza paradossale: nell’emergenza si sono rivelati più “liberi” quanti vivono in società che hanno mantenuto un buon livello qualitativo e quantitativo del sistema sanitario pubblico.

A quel punto, la denigrazione e distruzione del pubblico è divenuta anticamera di una fragilità del diritto con effetti perversi sulla tenuta delle democrazie.

Il passaggio di adesso è l’occasione unica per rifondare quel discorso pubblico, recuperando una lettura critica dei processi in atto che un tempo lungo ha cercato di archiviare, purtroppo a volte con successo.

Premessa per riuscirci è superare l’idea che nelle nostre società tutti vogliano le stesse cose e che la differenza riguardi solo il modo per ottenerle. Non è così e insistere sulla fine della distinzione tra destra e sinistra è solo l’inganno retorico in uso alla destra per coltivare la sua concezione della politica e del potere. Anni addietro lo spiegava benissimo un liberale non tenero verso la sinistra come Raymond Aron: scordarselo oggi sarebbe un peccato imperdonabile.

Alla sinistra e ai democratici spetta dire con quale struttura politica e morale, con quale linguaggio dei fini e con quali mezzi a quei fini coerenti, intendono restituire la dignità a una cittadinanza che la modernità piegata a un pensiero unico ha cercato di ridurre e talvolta azzerare.

Per l’insieme di queste ragioni quello davanti a noi può e deve tornare a essere il tempo della speranza e della fiducia in una società ricostruita sul primato della persona e della sua dignità, in ogni contesto e passaggio della vita.

Il messaggio giunto dall’Europa con la scelta di fare della crisi peggiore la base di una più forte integrazione è la conferma fondamentale della nuova strada che le democrazie del continente, e non solo, devono imboccare.

*

In Italia poco meno di un anno fa è nato un governo pienamente legittimo che aveva come scopo evitare di consegnare l’Italia a una destra nazionalista e antieuropea, in particolare dopo l’evocazione di “pieni poteri” da parte del suo leader.

Per farlo abbiamo dato vita a una maggioranza con il Movimento 5 Stelle, la forza negli anni più distante dal Pd e in generale dal centrosinistra,in particolare sulla democrazia rappresentativa e sul ruolo dei corpi intermedi. Siamo così tornati al governo un anno dopo la peggiore sconfitta di sempre (elezioni politiche del 4 marzo 2018) e senza passare da nuove urne.

A governo insediato la maggioranza si è allargata a una nuova sigla come effetto della scissione di Italia Viva.

Il Pd ha sostenuto la nuova esperienza sollecitando i protagonisti a condividere un accordo dotato di respiro e non figlio del momento.

L’appello non ha impedito l’emergere di due letture: quella di chi interpretava la nuova maggioranza come strategia destinata a riprodursi in città e regioni, e quella di chi la giudicava momentanea e senza l’ambizione di consolidarsi altrove.

Oggi siamo di fronte a una novità: arriviamo alle elezioni in diverse regioni senza un quadro di accordi tra le forze che sostengono il governo.

Il Pd affronterà il voto con la fiducia nei buoni programmi e l’impegno, già vincente in Emilia-Romagna, a non consegnare la guida di quelle realtà alla destra.

Rimane la fotografia: il perimetro del governo attuale non coincide a oggi col perimetro di un nuovo centrosinistra. Non si tratta di un fatto formale. Affrontare spesso divisi la prossima sfida nelle urne rende meno coesa la maggioranza in uno dei passaggi più complessi per il futuro del paese.

Di fronte a questa immagine e alla vigilia di un autunno che potrebbe accentuare sofferenza e rabbia spetta al Partito Democratico assumere una iniziativa chiara e rivolgere al Paese un progetto di ricostruzione.

Perché il messaggio risulti credibile deve poggiare su un campo progressista largo e su una sinistra radicale nei principi e capace di aggregare, nel pluralismo delle sensibilità, le componenti innovative della società italiana.

In questo senso la stagione dell’Ulivo è un riferimento nel metodo: si comprese allora come solo intrecciando le tradizioni della sinistra storica, del cattolicesimo avanzato, di ambientalismo e cultura laica dei diritti e delle donne, si poteva offrire un riscatto dopo il crollo del vecchio sistema politico. Di quella stagione il risanamento della finanza pubblica e l’ingresso nell’euro furono i capisaldi.

Oggi il contesto è mutato: si sono imposti bisogni diversi mentre le classiche formazioni sociali (operai, lavoro dipendente tutelato) hanno lasciato spazio a nuovi soggetti (donne e giovani marchiati da disoccupazione e precarietà).

La condizione attuale chiede una proposta diversa anche come replica all’impatto del Covid-19 sull’economia e sulla vita di milioni di famiglie.

A partire dall’esperienza positiva del governo Conte, oggi l’Italia ha bisogno di una Alleanza fondata sul patto solidale tra generazioni, sull’ascolto e rispetto di movimenti e associazioni impegnati a disegnare l’Italia dei prossimi anni in una sfida di valori e programmi capaci di ripensare:

  • Il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo e nel mondo come paese promotore della pace, dei diritti umani, del dialogo tra religioni, culture, civiltà;

 

  • Una giustizia ambientale e sociale dove diritto alla salute e a un reddito siano fondamento della più radicale azione di contrasto alle disuguaglianze e condizione di una libertà dal bisogno a cominciare dal futuro dei giovani e delle donne.

 

  • Il compito di una formazione distribuita lungo l’arco intero della vita, premessa di cittadinanza;

 

  • Il ruolo dell’impresa in un’economia investita da una trasformazione tecnologica e dei modelli di produzione;

 

  • La funzione dello Stato nello sviluppo del paese a partire dalla rivoluzione digitale e il suo impatto sulla cittadinanza;

 

  • La qualità della vita nelle città sul piano abitativo, del rispetto di ambiente e paesaggio, del legame tra tempi di vita e di lavoro, come perno e patrimonio di una rete di beni comuni da valorizzare.

 

  • La cura, assistenza, vicinanza alla persona intese come valore della società tutta e primo ammonimento a un cambio di rotta e strategie dopo la pandemia.

Muovendo dall’esperienza di questi anni nella sinistra del Partito Democratico proviamo a offrire questo contributo a tutto il Partito Democratico: al suo Segretario e al gruppo dirigente, a parlamentari e amministratori, alle migliaia di militanti e segretari di circolo, alle donne e uomini che sentono il peso del momento e la responsabilità in capo alla principale forza della sinistra italiana.

Presentiamo queste note come l’occasione per aprire questa riflessione al giudizio e all’integrazione necessari: la volontà è a lavorare assieme oltre gli steccati di un correntismo esasperato. Vorremmo portare queste idee all’attenzione di una sinistra diffusa, in parte dispersa, ma consapevole che una nuova unità non è più rinviabile. Un percorso, dunque, nell’Italia turbata e colpita dalla tragedia, ma insieme animata di voglia e passione per una rinascita possibile.

Scegliamo di partire da qui perché capiamo quanto l’invito di questi mesi a dotare la sinistra e il governo di una “visione” sia fondato, ma quella “visione” è sempre coincisa con una lettura delle alleanze da costruire nella società, nelle pieghe dei suoi conflitti, nelle sue potenzialità, prima che dentro il Palazzo.

Così dovrà essere oggi dopo lo spartiacque di questi mesi. Anche per tutto questo provarci è più di una scelta. Oggi diventa quasi un dovere.

PER L’ITALIA DEL DOPO E SUBITO

 

Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per

considerare un momentino la situazione storica.

La trovò poco chiara.

Raymond Queneau, I fiori blu

 

Quell’idea di scrutare il mondo esaminando la storia dall’alto di un torrione strappa un sorriso. Eppure la manciata di mesi alle spalle spingerebbe a qualcosa di simile. Col problema di salire in cima a una torre abbastanza alta da consentire lo sguardo più lungo, e subito poi con il dovere di elaborare le novità indicando soluzioni coraggiose. Questo chiede a tutti di cambiare in profondità – cambiare linguaggi, partecipazione, concezione della politica – sola via per collocare una nuova sinistra nel cuore della società italiana.

Questo è un contributo a farlo.

 

CAMBIARE PER TORNARE A VIVERE

Che si abbiano vent’anni o qualunque altra età, una pagina così non l’avevamo mai vissuta.

Oltre 600.000 morti nel mondo, più di 34.000 in Italia, numero destinato a crescere nel calcolo finale. Ci è stato ripetuto che erano soprattutto anziani, fragili, spesso malati da prima. Assurda motivazione se tesa a rendere meno tragica la scena.

La verità è che sono morti anche donne e uomini giovani, centinaia di medici e operatori catapultati in prima linea. Troppe case di riposo sono divenute i lazzaretti del tempo digitale.

Anche per questo l’anno 2020 sarà per sempre la nostra Spoon River.

Quasi tre mesi chiusi in casa con la mobilità ridotta al minimo.

L’Occidente al culmine della sua potenza privo di camici, mascherine, reagenti per i tamponi. L’economia colpita come mai per dimensioni e impatto.

Potremmo perdere quest’anno il 9 o l’11 per cento del Pil, forse di più.

L’Europa ci consentirà di fare deficit in doppia cifra, ma la disoccupazione toccherà un picco e decine di migliaia di imprese a rischio andranno aiutate a superare la piena.

Metà, poco meno, dei lavoratori dipendenti e autonomi ha avuto e probabilmente avrà bisogno di un supporto al reddito mentre si aggrava il pericolo di una forbice più ampia delle disuguaglianze perché non tutte le case sono uguali, non tutte le famiglie dispongono di un computer o della banda larga, non tutti i lavori godono delle stesse tutele.

Il governo, al netto di limiti oggettivi, ha reagito e si è fatto carico dell’emergenza, quella sanitaria in primo luogo scegliendo la via del distanziamento fisico, chiudendo scuole e attività. Ha poi aggredito il capitolo economico e sociale con un ventaglio di misure anch’esse prive di eguali.

Oltre 80 miliardi per fronteggiare il dramma: allargare la cassa integrazione alla platea più vasta, quasi 8 milioni di persone; un supporto a partite Iva e lavoro autonomo; crediti garantiti interamente dallo Stato per le piccole e medie attività; una diversa garanzia a sostegno delle imprese maggiori.

E poi, provvedimenti mirati alle fasce di popolazione colpite in modo pesante: sostegno alle famiglie, in particolare se con figli, un pacchetto di investimenti di dimensioni sconosciute per rimettere in moto settori in ginocchio. E ancora, risorse per la sanità pubblica e la scuola con l’impegno ad assumere medici, infermieri, insegnanti, e un reddito di emergenza per chi era rimasto senza alcuna rete di protezione.

Cancellata l’Irap per il saldo 2019 e l’acconto 2020, sospesa la tassa sull’occupazione del suolo pubblico, proroga della cassa integrazione ordinaria e in deroga, prolungato il blocco dei licenziamenti, credito d’imposta per adeguamento delle strutture, sostegno alle spese per affitti e bollette….

Se vogliamo riflettere e agire con onestà bisogna riconoscere i meriti senza tacere i ritardi spesso gravi a partire dalla comprensione della tragedia che stava per consumarsi.

Dal governo centrale alle Regioni e ai Comuni, sino al tessuto dell’associazionismo sindacale nel lavoro e nell’impresa, al ruolo del Terzo settore e del volontariato, una nazione si è mossa per arginare l’onda che poteva travolgerci.

Adesso i dati dell’epidemia consentono una cauta fiducia, ma il rigore nel rispettare ogni prevenzione è la via per non ricadere nell’angoscia vissuta.

Va programmata meglio di come fatto sin qui la sicurezza di bambini, ragazzi, insegnanti e operatori della scuola; va protetto ogni singolo cittadino nella sua attività come nel percorso da casa al luogo di lavoro, va potenziata la medicina territoriale come prima precauzione al riesplodere del contagio.

Tutto questo è dovere di un grande paese e i prossimi mesi diranno quale grado di responsabilità un civismo diffuso, a partire dal rispetto del patto fiscale, e le classi dirigenti a tutti i livelli sapranno esprimere.

Assieme a questa prova dobbiamo affrontarne un’altra che investe la politica, i soggetti che la organizzano chiamati a elaborare in pensiero e azione lo scenario sociale, culturale e morale del “dopo”.

Questo compito non va rimosso perché è toccato sempre ai passaggi che distinguono un mondo da uno successivo consegnare anche alle culture politiche una missione ambiziosa e radicalmente nuova.

 

PER LA DIGNITA’ DELLA PERSONA

Per sollevare un peso serve una leva. La leva necessaria a ripensare il modello di società, convivenza, economia, è la dignità di ciascuno nel senso del pieno sviluppo della persona umana.

Quella che si afferma nel diritto al lavoro (il diritto e “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”: Articoli 1 e 4 della Costituzione). Quella che si afferma nel contrasto a ogni forma di discriminazione (Articolo 3) e nell’accesso a diritti e doveri della partecipazione alla democrazia.

Il futuro dell’emancipazione passa da qui e non esistono scorciatoie. Riportare al centro del pensiero e dell’azione di governo la persona nei suoi diritti inviolabili di libertà e di partecipazione implica:

  • La rottura di equilibri e rendite di potere incrostate nel tempo e divenute alimento delle disuguaglianze indecenti nel presente. In primo luogo con un Piano per l’occupazione delle donne e dei giovani, con politiche fiscali in grado di colmare il gap tuttora drammatico con altri grandi paesi.

 

  • Indirizzare la svolta tecnologica verso la sostenibilità ambientale e sociale attrezzando i mercati del lavoro a una relazione nuova tra profitti, merito e formazione permanente. Società digitale e spinta all’innovazione nel pubblico e nel privato, economia green, parità di genere e inclusione assumono un valore solo sulla base di questa premessa.
  • Ridefinire funzioni e poteri tra i diversi livelli istituzionali in cui si articola la Repubblica; riorganizzare e modernizzare le rispettive amministrazioni alla luce dei principi fondamentali di una democrazia plurale ed “emancipante” e di un regionalismo cooperativo e solidale (art.117 della Costituzione).

 

  • Completare e rinnovare l’impianto di welfare oltre la logica della “carità pubblica” o della “filantropia privata”. La via è un moderno sistema di protezione sociale, universalistico nel senso di essere premessa di una cittadinanza come diritto di ciascuno. In tal senso va anche la scelta di rafforzare e modernizzare quell’impianto restituendo centralità ai legami sociali e familiari in ogni fase della vita.

 

  • Offrire un patto generazionale che investa sulla scuola a ogni livello per contrastare il digital divide e sull’accesso a una piena cittadinanza in termini di vivibilità: dalla salute alla casa, da un territorio posto in sicurezza a un’economia ecologicamente sana.

 

  • Investire risorse e programmi in una stagione di partecipazione civica di lavoratori e cittadini, singoli e associati, all’azione pubblica, all’attività culturale, all’impegno economico come fattore strategico per una democrazia partecipata e inclusiva nel solco testimoniato dai soggetti promotori di una cittadinanza attiva. Non “grandi piani” concepiti in “Palazzi” lontani, ma chiari indirizzi generali (coordinati con le Regioni) sui vari settori (servizi essenziali, abitare, mobilità, cura del territorio, promozione aree interne…) e strategie per adattare quegli indirizzi ai diversi contesti col pieno coinvolgimento dei Comuni, di lavoro e imprese (private e sociali), della partecipazione attiva e organizzata dei cittadini.

 

UN’ALTRA AGENDA

Molti hanno perso o perderanno il lavoro e parte della forza produttiva non supererà l’impatto di questa crisi, la peggiore tra tutte.

Troppe donne pagheranno il prezzo maggiore perché ostaggio da prima di salari inferiori e della fatica, spesso esclusiva, del lavoro di cura. Si manifesta la paura per nuovi squilibri tra territori ricchi e altri segnati da ritardi antichi.

C’è chi teme il ritorno a uno statalismo prigioniero della burocrazia e chi minaccia il superpotere su conoscenza, dati sensibili, traffico digitale da parte di pochi colossi.

Anche in questo caso tocca all’Europa pensare un suo hub, nel digitale come nella farmaceutica (il Covid-19 insegna dove serve investire e coordinare competenze e risorse), nel governo dei dati sull’onda di esperienze pilota come a Barcellona, Amsterdam, Milano.

Insomma, che si salga o meno in cima a quella torre, scorgere i pericoli è un dovere perché una politica onesta è quella che li affronta indicando per ciascuna delle urgenze di ora la frattura imposta col mondo di ieri.

La verità è che gran parte di questi guasti non è frutto del Covid-19: la pandemia ne ha solo accentuato la gravità.

Se è così per entrare nel nuovo mondo servono una radicalità di impianto assieme a buone alleanze da cucire nella società e dentro i conflitti tra interessi e bisogni.

Per tutto questo chi oggi rivendica una “visione” del futuro prossimo è nel giusto.

Visione equivale a dotarsi di una strategia dove trovi sostanza un equilibrio diverso di convivenza e società. Ecco perché per noi la prima rottura vive nel metodo: lo spartiacque della pandemia impone un ripensamento sociale, culturale, tecnologico e delle istituzioni che un tempo ordinario non avrebbe reso possibile.

Con la stessa chiarezza vediamo il pericolo che altre forze spingano per un cambiamento segnato da principi regressivi tanto sul fronte dell’equità, offrendo come sbocco alle disuguaglianze solo sussidi senza aggredirne la radice, quanto nell’abuso di un potere autoritario.

Al fondo la stessa pandemia almeno nel suo effetto tragico, l’avere colpito la parte più vulnerabile delle società, gli esseri umani, è frutto di un modello distruttivo di risorse e diritti che può condurre a una crisi irreversibile del capitalismo occidentale e del sistema politico liberale.

Per “salvare” il capitalismo da sé stesso e scansare pulsioni o derive autoritarie serve un nuovo compromesso come fu quello keynesiano – socialdemocratico nella seconda metà del Novecento.

Sta alla parte consapevole della società indirizzare gli eventi a difesa della democrazia e dei suoi contrappesi.

Per riuscirci ogni timore di scuotere la pianta, ogni ipotesi di tornare al paese di prima, va rimossa.

Bisogna coltivare questa volontà perché il mondo non tornerà eguale a com’era e in ogni caso dopo la valanga del virus non potrebbe conservare gli stessi caratteri.

Dovremo farlo anche perché nella stagione lunga che ha preceduto la crisi di adesso troppe scelte della politica si sono travestite da una tecnica descritta come sola chance per affrontare il corso irriducibile degli eventi, dell’economia in primo luogo.

Non era vero.

L’avere taciuto l’impatto di quelle decisioni nell’allargare le disuguaglianze e nell’immiserire il tessuto solidale di nazioni e continenti ha scavato le fondamenta per il collasso del 2008 e per i tanti, troppi, ritardi nella prevenzione della tragedia di oggi. Quindi, che indietro non si possa e non si debba tornare è un fatto.

La sfida diventa immaginare il futuro.

 

L’EUROPA DA RIGENERARE

Non è come nel 2008.

Lo si è compreso dal linguaggio e questo conta perché “i limiti del nostro linguaggio sono i limiti della nostra visione e del nostro pensiero”.

Abbandonato il richiamo a rigore e austerità la grande maggioranza dei Governi si è misurata con la sfida: fare del destino della prossima generazione la missione del tempo. Possiamo dire che con vent’anni di ritardo l’Europa è entrata nel nuovo secolo.

Le conclusioni dell’ultimo combattuto Consiglio Europeo con la dotazione senza precedenti di 750 miliardi sul Recovery Fund a sostegno di un piano di investimenti straordinari per la ripartenza dell’economia e il sostegno sociale rappresentano un passaggio storico che nessuna polemica può ridurre nella sua portata.

Il futuro è ancora incerto, bisogna saperlo, e per questo è giusto lavorare e impegnarsi affinché i passi avanti di queste settimane conoscano sviluppi coerenti nei prossimi mesi.

Il fatto nuovo è che il piano della Commissione, ora al vaglio di governi e parlamenti, utilizza categorie diverse. Dalla sospensione del Patto di stabilità alla revisione delle norme sugli aiuti di Stato, dal primo intervento della Bce per l’acquisto di titoli sul mercato secondario ai 540 miliardi del pacchetto di misure articolate tra l’iniziativa europea contro la disoccupazione (SURE), alle voci della Banca Europea degli investimenti e del MES, da ribattezzare “Fondo salva-salute”: per immediatezza e volume le misure adottate hanno corrisposto all’emergenza.

Da Francoforte e Bruxelles si è levato il messaggio di un’Europa vicina alle ragioni dei popoli che ne interpretano costituzione e anima.

La proposta di 750 miliardi rende irreversibile questa visione e consente a paesi come il nostro di progettare una ripresa dell’economia, dei beni pubblici e comuni, dei servizi essenziali, sola via per restituire una speranza di vita a milioni di famiglie, lavoratori, imprese.

Adesso tocca all’Italia programmare una spesa responsabile e non opaca di quelle risorse perché mai come questa volta conterà il modo in cui i fondi verranno impiegati.

Sarebbe un errore drammatico se venissero dispersi nei rivoli di opere, sussidi e trasferimenti a persone e imprese senza alcuna ricaduta sulla qualità dei servizi e della coesione sociale. In quel caso malaugurato, forse per un tratto si “comprerebbero” consenso o acquiescenza dei beneficiari, ma torneremmo a un passato conosciuto a fondo per i danni e le patologie che ha generato. Non è quindi con le logiche di antichi intermediari tra risorse pubbliche e interessi corporativi, tanto meno lasciando campo a vecchi e nuovi rentier, che usciremo dalla stagione più dura.

I capitoli per evitarlo sono noti:

  • una amministrazione pubblica adatta a una nuova democrazia dove il potere politico torni a dare forti missioni strategiche e le amministrazioni abbiano solidi poteri discrezionali su come attuarle;
  • investire come mai prima su formazione, transizione ecologica;
  • una gestione pubblica e democratica dei dati, delle piattaforme digitali degli algoritmi di apprendimento automatico;
  • la riqualificazione di beni comuni e servizi essenziali; dotarsi nuovamente di una politica industriale;
  • imporre la certezza del diritto e tempi rapidi per la giustizia; attrezzare “tutto” il paese a una mobilità sostenibile.

E naturalmente un Piano di investimenti ad alto moltiplicatore, in grado di produrre il massimo impatto sulla crescita. Un moltiplicatore sul versante della domanda, ma soprattutto un “moltiplicatore sociale” che deriva dalla qualità e contenuto del nuovo lavoro attivato. Parliamo di investimenti pubblici, investimenti privati, investimenti pubblico-privati capaci di creare lavoro e occupazione in forma stabile.

La prova del “dopo e subito”, dunque, è accelerare la trasformazione socio-economica per l’Italia del 2030, condizione per un riequilibrio sociale in termini di accesso al lavoro, a un reddito, a una condizione di vita autonoma.

 

 

INVESTIRE IN EDUCAZIONE. INVESTIRE NELLA CULTURA

Il volume di risorse che l’Europa ha riversato sulla ripartenza assieme allo sforzo del governo con le misure adottate sono una risposta necessaria.

Consentiranno di lasciarci il peggio alle spalle, ma graveranno sul debito complessivo consegnato alle generazioni prossime.

Questa consapevolezza spinge a rendere straordinario l’investimento sui più giovani a partire dalla formazione, prima risposta alla distruzione di parte della capacità produttiva determinata dalla crisi.

Scuola e Università vanno ricondotte alla loro missione: garantire il massimo della continuità didattica e della ricerca con una verifica dei risultati conseguiti e del successo dei piani formativi.

La scuola pubblica, colpita pesantemente dal lockdown, non ha bisogno di ennesime riforme estranee a una visione di sistema.

Servono linee di indirizzo da tradurre in “Patti territoriali” col coinvolgimento dei Comuni, del privato-sociale, del più vasto tessuto professionale e associativo così da rendere l’istituzione e le strutture funzionali e fruibili in ogni contesto. Non è vero che le grandi riforme vivono solo in una scala sovranazionale, ci sono mille azioni innovative che si possono sviluppare sui territori.

Se consideriamo la scuola come patrimonio da promuovere dobbiamo incrementare i finanziamenti ordinari e straordinari, prevedere un potenziamento di organici e stipendio degli insegnanti, ampliare il Fondo di contrasto alla povertà educativa. E naturalmente agire per la messa in sicurezza e l’adeguamento strutturale degli edifici in previsione di una ripresa della didattica in presenza.

Scuole sicure e accoglienti sono la premessa per ogni investimento sul capitale umano più prezioso di cui il paese dispone e che in questi anni non è rimasto fermo se è vero che esistono innovazioni e sperimentazioni dal basso sorte per impulso di singoli e gruppi.

Allo Stato spetta il compito di sconfiggere la dispersione scolastica: lo si ottiene anche innalzando da subito l’obbligo scolastico a 18 anni di età e 12 di frequenza. Dove si è fatto, ad esempio in Portogallo, in un quinquennio quell’evasione è stata significativamente abbattuta.

Nelle organizzazioni della cittadinanza attiva (Asvis, Forum DD, CNCA…) il tema non solo è sentito, ma vi sono proposte operative che la strategia del pubblico deve raccogliere: patti educativi territoriali tra enti locali, comuni, scuole pubbliche, privato sociale e terzo settore dentro una cornice di livelli educativi essenziali e che uniformino l’offerta educativa con l’obiettivo di istituti aperti per tutto il giorno e aperti alla fruizione di servizi e opportunità culturali da parte dell’intera comunità; avviare da subito un’offerta educativa personalizzata per il 10 per cento di bambini e ragazzi rimasti esclusi dalla didattica a distanza durante il lockdown; operare affinché il 15 per cento delle risorse per la ripartenza si dirottino sull’educazione, per altro in rispetto degli standard europei contro la povertà educativa.

Una cura specifica e una nuova programmazione dev’essere rivolta alla formazione tecnica e professionale e alle “lauree professionalizzanti”.

Nel nuovo modello produttivo devono trovare spazio saperi, competenze, professionalità di altissima specializzazione nei settori dell’artigianato di qualità e di quella manifattura che ha reso unico il Made in Italy.

Questo patrimonio va esteso al soft power, anche grazie alla capacità di molti produttori di integrarsi con soggetti globali di mercato.

Per i nostri poli di eccellenza la premessa è identica: innalzare la quota di risorse pubbliche rivolte alla ricerca come volano per un incremento degli investimenti da parte delle imprese (attualmente la loro spesa ammonta allo 0,9% del Pil a fronte dell’1,7% della media Ocse).

Ogni anno spendiamo per la ricerca 8 miliardi, la metà in rapporto al Pil di quanto sostenuto da paesi nostri concorrenti.

Metterci al pari con la media delle principali economie è condizione indispensabile per colmare il gap su fronti diversi dell’innovazione.

Sulle università bisogna lasciarsi alle spalle l’assurdità di valutare la capacità degli atenei dal numero di brevetti che licenziano.

Quell’indicatore è importante, ma la logica va ribaltata e i luoghi della formazione qualificata vanno premiati in rapporto alla conoscenza messa al servizio della comunità, non al rendimento prodotto nel privato.

 

Per questo vanno declinati i tre obiettivi di una programmazione e della loro verifica al termine del prossimo triennio: un balzo immediato nell’accesso e nelle iscrizioni; una strategia di trasferimento tecnologico al tessuto territoriale della piccola e media impresa; un piano per la formazione permanente della popolazione in età adulta anche con la previsione di un voucher personale per ogni cittadino da spendere in aggiornamento e cultura.

Abbandonare per sempre il penultimo gradino in Europa per la percentuale di giovani laureati lasciando ad altri il primato per numero di ragazzi che non studiano e non lavorano equivale a promuovere il nostro patrimonio culturale. Bisogna capire che sapere, ricerca, cultura progrediscono assieme, richiedono qualifiche, energie motivate, preparazione.

Dall’ambiente come risorsa al benessere dei territori e alla ripopolazione di borghi e piccoli centri, dai beni culturali al turismo, dai festival tematici alle produzioni artistiche – cinema, teatri, musica e danza, spettacolo dal vivo – nessun’altra realtà può contare su una potenzialità simile.

Tutto ciò è da subito un asset fondamentale per la rinascita del sistema-paese.

 

 

RISCOPRIRE BENI COMUNI E SPIRITO DI COMUNITA’

Tra le sue conseguenze la pandemia un risultato lo ha ottenuto: dopo anni di denigrazione e depauperamento ha rilegittimato la sfera del “pubblico”.

Medici, infermieri, operatori sanitari, volontari, ricercatori sono stati un ancoraggio concreto e morale per milioni di persone e famiglie.

Al netto di vicende sulle quali andrà fatta chiarezza, prima tra tutte il dramma delle Rsa, il prestigio della sanità pubblica impone un volume di risorse tale da attrezzare il Servizio Sanitario Nazionale a reggere l’impatto di nuovi eventuali shock.

Anche in questo caso la strada non è un ritorno al centralismo. Il tema è prendere atto del fallimento di una aziendalizzazione del SSN calibrata sul nuovo potere delle Regioni, ciò ha determinato una lievitazione dei costi e una moltiplicazione delle burocrazie con interessi corposi a rinnovare una “emigrazione sanitaria” dalle regioni del Sud a quelle del Nord.

Serve un coordinamento di indirizzo e un federalismo solidale tra i territori: l’opposto della disarticolazione prodotta dal finto federalismo origine di disuguaglianze geografiche e discriminazioni sociali.

Se guardiamo alla tenuta del sistema sanitario e al dramma vissuto in questi mesi capiamo che oltre al capitolo delle risorse esiste un problema di managerialità e di pianificazione di investimenti e servizi di prossimità.

La prova è in una ricostruzione della medicina territoriale, in un monitoraggio sulle singole Asl per quanto attiene ai risultati Lea, alla qualità di presidi sanitari, ambulatori, assistenza domiciliare, farmacie,

Il riordino che risale oramai a un decennio fa con la chiusura di molti piccoli ospedali locali era una strategia necessaria, ma nell’immediato serve affrontare i bisogni rimasti inevasi in aree dove sono mancati i servizi sostitutivi: case di cura, servizi di telemedicina, cura a distanza, centri diagnostici.

Questo lavoro di implementazione del diritto alla salute deve avvalersi di un patto con le associazioni e organizzazioni impegnate in un’opera di assistenza spesso vitale nel sopperire alle carenze di servizi essenziali.

Quelle mancanze vanno colmate responsabilizzando Stato, Regioni, Comuni e non scaricando su altri le funzioni che la sfera del pubblico non è in grado di assolvere. Allo stesso tempo dobbiamo sapere che dietro il “ritorno” dello Stato vi sono atteggiamenti e approcci diversi.Da una parte vi è chi ritiene conveniente sfruttarne le reti e competenze in una condizione di necessità salvo tornare quanto prima alla massima privatizzazione dei servizi.

Noi siamo convinti che il dramma vissuto debba spingere, invece, a una rifondazione del pubblico in ogni ambito dove sia oggi operativo.

Per farlo le condizioni sono una semplificazione di atti e procedure, assieme alla condivisione della strategia col mondo del lavoro, la società civile strutturata, la realtà sana dell’impresa.

Crediamo in un metodo – potremmo definirlo un modo di “far vivere” il pubblico – che conduca a un miglioramento delle sue prestazioni in termini di efficienza, ma anche a un nuovo “patto fiduciario tra cittadini e pubblico” come espresso dalla sintesi avanzata dal Forum Disuguaglianze Diversità.

 

UN PATTO FISCALE PER RIPARTIRE

I sistemi fiscali sono sempre frutto del tempo che li ha concepiti. Sta in questa premessa uno dei limiti della fiscalità attuale: l’essere stata costruita a lungo attorno al prelievo sui beni, sui redditi e sui consumi, a cui si è aggiunto quello sulle rendite finanziarie, ma in misura minore perché serviva incoraggiare l’acquisto dei titoli dei nascenti debiti pubblici.

La crisi del patto fiscale deriva in seria misura dal fatto che quel sistema non riesce più a esercitare la propria azione su una componente importante della fonte di produzione della ricchezza. Accade perché sino agli anni ’80 del vecchio secolo le economie del capitalismo maturo erano fondate su una dimensione fisica, nel senso di materiale, agganciata ai confini nazionali. Da qui la sostanza del nostro sistema fiscale ancorato a Irpef e Iva, a imposte dirette e indirette, mentre l’imposizione locale si basava sui patrimoni immobiliari, dall’Ici all’Imu.

Anche le procedure di tassazione internazionale furono concepite a partire dagli anni trenta del Novecento con l’obiettivo di ripartire il potere impositivo sulle catene del valore della produzione tra i singoli Stati, avendo cura di evitare le doppie imposizioni.

In altre parole si tentava di far pagare le tasse ai pochi grandi gruppi mondiali in base ai principi della “stabile organizzazione” che avevano nei vari Paesi e sui cosiddetti “prezzi di trasferimento” delle loro merci, in una dinamica dove, ancora una volta, risultava dominante la dimensione materiale. Dunque, i sistemi fiscali erano pensati per un mondo di merci e beni reali.

Questa impostazione, già superata prima della pandemia, tanto più adesso richiede una dimensione europea. Questo perché non da qualche semestre, ma da qualche decennio, la generazione di reddito e ricchezza si è spostata dall’economia materiale a quella finanziaria.

Si è modificata la nozione di rischio perché proprio le inondazioni di risorse liquide messe a disposizione dei mercati da parte delle banche centrali (Bce in primis) hanno reso gli impieghi finanziari meno pericolosi e dunque hanno tolto ogni giustificazione al mantenimento di bassi livelli di pressione fiscale sulle rendite finanziarie.

Se la finanza è il settore che produce senza grandi rischi grossi volumi di ricchezza, peraltro con una pessima distribuzione, diventa indispensabile aumentare lì il carico fiscale per evitare che i sistemi di prelievo continuino a gravare su redditi da lavoro dipendente, sul lavoro e sui consumi in quanto tali.

C’è un’altra trasformazione nell’economia planetaria che rende necessaria una revisione dei sistemi fiscali pensati per le economie materiali e nazionali.

È sempre più ampia la porzione di reddito e ricchezza prodotta dai grandi gruppi digitali, dall’e-commerce e da altre forme di economia che non hanno bisogno di beni materiali per produrre beni o servizi oggetto di consumi; gruppi che operano su scenari più estesi dei campi nazionali.

Queste realtà non sono sottoponibili ai sistemi fiscali tradizionali ma, al contempo, sono dotate di una redditività altissima, con profitti stellari destinati a rimanere fuori da qualsiasi capacità di prelievo che sia stata concepita per colpire immobili, scorte o altri aspetti delle produzioni tradizionali, e sia stata pensata su base nazionale.

Le risorse dei nuovi colossi sono costituite da flussi di informazioni, da immagini, suoni, parole, sussidi di varia natura che attraversano e demoliscono confini in un processo rispetto al quale qualsiasi rivendicazione di sovranità appare quasi inerme. La produzione della ricchezza sta spostandosi sui mercati finanziari e sulle reti e i sistemi fiscali continuano a colpire beni e consumi fisici, con l’effetto di determinare una pressione gigantesca, e spesso insostenibile, sulla parte delle società contemporanee, a iniziare dai lavoratori dipendenti, che stanno invece impoverendosi.

Serve dunque una revisione dell’idea stessa di fiscalità pensando a una tassazione che sia capace di esercitare la propria azione sull’immaterialità, su contribuenti che ora stanno facendo enormi profitti e pagano imposte per molto meno del 3% dei loro fatturati.

Questa vera e propria rivoluzione metterebbe in gioco le risorse necessarie per combattere l’impoverimento di fasce crescenti di popolazione.

Due proposte paiono più efficaci, entrambe hanno a che fare con l’Europa.

La prima è legare il potere impositivo di uno Stato al numero dei clienti e utenti che le grandi società digitali hanno nel suo territorio, andando oltre i limiti spesso stretti della Web tax. La seconda mira a realizzare una minimun tax, una imposta minima, che blocchi la concorrenza al ribasso finora perseguita dai vari Paesi nell’intento di ottenere dalle grandi società quello che, nella sostanza, sono disposte a versare, in un gioco al massacro per le entrate pubbliche.

Si tratta di due strade difficili, ma obbligate per le quali occorre abbandonare le logiche degli egoismi sovrani e sostenere la volontà di trovare accordi multilaterali in grado di mettere gli Stati nelle condizioni di imporre regole vere di giustizia fiscale, e quindi di democrazia.

A queste due soluzioni dovrebbe aggiungersi una tassazione ambientale, ancora di matrice europea, in grado di contribuire a rendere l’indebitamento pubblico più sostenibile. Siamo molto vicini a una crisi fiscale degli Stati nazionali dopo l’esplosione della spesa pubblica corrente che non può essere coperta con il debito.

Il sistema fiscale italiano, in particolare, è davvero troppo debole, soprattutto nel momento in cui registra una perdita secca di Pil del 10-11%, per far fronte a un vero piano di spesa pubblica e per “garantire” la tenuta del proprio indebitamento.

In un quadro simile è difficile che le entrate fiscali dei singoli paesi siano in grado di mantenere, nel tempo, avanzi primari e tanto meno evitare altri deficit. Serve dunque, oltre al debito comune, il fisco europeo proprio per superare le insufficienze del fisco nazionale e per non continuare a seguire i parametri di un rigorismo non realistico con le attuali strutture della finanza pubblica.

Nello specifico dell’Italia il patto fiduciario tra cittadini e Stato passa da una riforma fiscale nel segno della progressività, valore scolpito all’articolo 53 della Costituzione e da integrare accompagnando al principio di equità verticale (progressività) quello di equità orizzontale nel senso di “criteri di uniformità e omogeneità del prelievo per contribuenti che si trovino nelle stesse condizioni economiche e personali”. Ciò anche al fine di contrastare abusi, discrezionalità e l’attuale giungla di spese fiscali.

La pandemia ha aperto gli occhi a tutti: il costo del nostro Servizio Sanitario Nazionale (121 miliardi di euro) garantisce la gratuità di gran parte delle prestazioni a partire da emergenze e operazioni complesse. Significa che disponiamo di un sistema universalistico con pochi eguali al mondo. Il particolare è che viene sostenuto fiscalmente dal 40% dei contribuenti italiani.

Tradotto: oltre 100 miliardi all’anno di evasione sono incompatibili con qualunque ipotesi di ripresa della nostra economia e dell’apparato di welfare. Lo stesso vale per i 190 miliardi che 2 milioni di cittadini italiani detengono su conti esteri e per i 20 miliardi di profitti realizzati in Italia da imprese multinazionali e trasferiti verso paradisi fiscali.

L’antica formula “pagare tutti per pagare meno” va precipitata nel cuore della crisi del Paese e non consente scappatoie: questo è il tempo di una riforma complessiva del sistema fiscale a fronte di un deterioramento del vecchio patto e delle sue ricadute sul funzionamento dell’economia.

Senza una lotta vincente alla grande evasione il prezzo di un fisco iniquo lo pagheranno i cittadini e le imprese oneste, ma una lotta seria e radicale alla grande evasione esige una volontà e durezza troppo spesso carenti in passato.

La base del compromesso deve fornire garanzie assolute che le risorse raccolte siano funzionali a erogare una qualità elevata dei servizi a persone e comunità.

Lo Stato deve chiedere e in cambio offrire, in una relazione senza ombre e illiceità, da una parte e dall’altra. Assieme a ciò in una democrazia matura ogni discorso sull’equità fiscale deve misurare squilibri e disuguaglianze di partenza.

Storicamente abbiamo finanziato il welfare attingendo in prevalenza ai contributi sociali del lavoro dipendente.

La fotografia attuale, però, è impietosa nel dirci come l’ultimo trentennio ha conosciuto una riduzione del peso dei redditi da lavoro rispetto al Pil nell’ordine di 10-15 punti. Ciò ha avuto ripercussioni profonde sulle risorse a disposizione dello Stato e del sistema delle autonomie.

Per superare questo limite va ripensato l’attuale finanziamento tramite i contributi sociali a vantaggio di un prelievo proporzionale sul valore aggiunto complessivo ottenendo per quella via una riduzione significativa del costo del lavoro e del cuneo fiscale.

Rimodulare le aliquote, ipotizzare una diversa progressività nei prelievi anche con soluzioni di scopo, introdurre un’imposta progressiva sui redditi derivanti dal possesso di capitali e cespiti patrimoniali: si tratta di impostare una forma partecipata di assunzione della responsabilità nei confronti dell’oggi e del domani.

Sul fronte dell’Irpef la strada è quella di un’imposta personale limitata ai redditi da lavoro da affiancare a una imposta progressiva sul patrimonio destinata a sostituire tutti i prelievi oggi esistenti sui redditi da capitale.

Bisogna ridurre la pressione eccessiva sui redditi “medi” che deriva dall’appiattimento delle aliquote verificatosi, anche in questo caso, nell’arco degli ultimi trent’anni. Come conseguenza avremmo una riduzione del gettito (nell’ordine di un punto o un punto e mezzo di Pil) da compensare col recupero di quote di evasione.

Quella piaga (l’evasione) si estirpa con misure immediatamente operative.

Va ridotta la circolazione di moneta cartacea (evitando di mascherare interessi innominabili dietro lo scudo dell’anziano incapace di maneggiare un bancomat).

Al di là dell’effetto sul contrasto all’evasione, in sé limitato dal momento che gran parte dell’evasione non si consuma nella transazione finale bensì nell’alterazione di contabilità e bilanci, la norma sul contante ha effetti sulla lotta al riciclaggio.

Va incentivato il ricorso alle tecnologie disponibili per l’intreccio dei dati nel rispetto della privacy, ma senza concessioni alla illegalità, va introdotto un meccanismo di ritenute generalizzato per tutti i redditi e non solo per il lavoro dipendente.

Altre chiavi d’intervento sono la revisione della tassa di successione, l’imposta di registro, una nuova imposizione sulle risorse energetiche.

Per quanto attiene all’Iva, oltre alla conferma dello split payment, si tratta di lasciarsi alle spalle la tripla aliquota (del 4, 10 e 22). La media effettiva risulta nell’immediato di poco inferiore al 15%. Utilizzandola come aliquota unica otterremmo un gettito superiore all’attuale di circa 8-10 miliardi. In alternativa si dovrebbero mantenere due sole aliquote, la minima al 4% e una mediana.

Lo stesso risultato si otterrebbe anche limitandosi a utilizzare un’aliquota unica per le sole transazioni intermedie.

La ratio della modifica sarebbe disincentivare l’evasione che si concretizza lungo la filiera produttiva con la differenza delle aliquote tra gli acquisti (con aliquota ordinaria) a monte e quelli con aliquota ridotta a valle. L’aliquota unica eliminerebbe questa differenza facendo coincidere le percentuali.

Infine, è giusto distinguere tra quanti la pandemia ha colpito privandoli di entrate e redditi e quanti hanno mantenuto o incrementato profitti considerevoli.

Da questo punto di vista la scelta di azzerare il conguaglio Irap 2019 e l’acconto 2020 indistintamente a tutte le imprese sino a 250 milioni di fatturato va rivista nel segno di una redistribuzione del peso fiscale tra chi ha sopportato un drastico calo del fatturato e quanti hanno mantenuto o aumentato i propri profitti.

 

LA NUOVA ALLEANZA TRA LAVORO, IMPRESA, TERZO SETTORE

Se il traguardo è un mutamento dell’assetto economico e sociale, la sola via è riformulare nell’immediato e in prospettiva il patto tra lavoro, impresa e società.

L’impresa va sostenuto nella sua ripartenza dopo il lockdown.

Diverse misure si sono mosse in quella direzione a partire dalle garanzie statali sui crediti. Ora l’azione va incentivata sotto il profilo dell’innovazione di processo e prodotto.

Il lavoro deve uscire da una stagione trentennale di normative, talora confuse e spesso sbagliate, che ha precipitato milioni di persone in una condizione di fragilità. Significa disboscare centinaia di formule contrattuali seminate nel corso del tempo, scudo per la precarizzazione di vite e destini personali.

Dentro questa logica assume valore una regolamentazione sul salario minimo e il rafforzamento delle ispezioni contro ogni forma di sfruttamento e abuso.

Bisogna giungere a un nuovo Statuto di tutti i lavori, con una base comune di diritti e obblighi accompagnati da istituti di garanzia che accompagnino il cittadino nella fase di transizione da un’occupazione all’altra prevedendo l’accesso a una formazione permanente per l’intero corso della vita.

Nella stessa logica va affrontato il capitolo della rappresentanza anche attraverso una legge specifica frutto della concertazione tra le parti sociali: i contratti e ogni forma di trattativa vanno ricondotti a criteri di rappresentatività delle organizzazioni sindacali e di categoria.

A fronte dell’impatto pesantissimo della pandemia sulla produzione e l’occupazione, in una logica contrattata, si deve sperimentare una riduzione dell’orario di lavoro col ricorso a “contratti di solidarietà” anche al fine di tutelare i livelli occupazionali e, quando ne ricorrano le condizioni, al modello sperimentale dei Workers Buyout, consentendo ai lavoratori dell’azienda in difficoltà di acquisire quote della proprietà attraverso la formula cooperativa o con l’impiego dei trasferimenti pubblici previsti in caso di fallimento e di uno stato di disoccupazione.

In una logica parallela è matura la sperimentazione in imprese medie e grandi di forme innovative di governance. La soluzione non passa dal resuscitare l’Iri. Altro è sperimentare e favorire una partecipazione pubblica temporanea di minoranza dello Stato nelle imprese in seria difficoltà anche allo scopo di scongiurare scalate straniere in aziende essenziali per le prospettive del nostro apparato produttivo. Nulla a che vedere col vecchio statalismo, casomai si tratta del ricorso temporaneo a Cassa depositi e prestiti nel solco di quanto avviene in Francia e in altri paesi.

Una diversa proposta riguarda i Consigli del Lavoro e della Cittadinanza: una forma di confronto e coinvolgimento sugli interessi del lavoro in chiave di sostenibilità e interazione col territorio di insediamento della produzione.

Altra ipotesi è il coinvolgimento dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle aziende in una logica di corresponsabilità sulle scelte di strategia e investimento. Come in altri momenti determinanti della storia italiana una partecipazione di imprenditori e lavoratori all’opera di “ricostruzione” del paese rappresenta una potenzialità fondamentale.

C’è un’Italia dei Beni Comuni da scoprire e valorizzare in una strategia condivisa con le energie e associazioni del Terzo Settore: la strada è porre al centro il benessere delle persone abbandonando un indicatore della crescita (il Pil tradizionale) incapace di cogliere il valore di beni non riducibili alla pura logica del mercato.

CITTADINANZA, MIGRAZIONI, DIRITTI UMANI

Un mondo attraversato da potenzialità e altrettante contraddizioni ripropone il tema di enormi flussi di donne e uomini in fuga da guerre e fame e alla ricerca di una speranza di vita per sé e la propria famiglia.

Letta così la questione dell’immigrazione rientra pienamente in una diversa idea di sviluppo.

L’azione da perseguire è una: ripristinare quote di ingressi. Significa che la sola via per impedire i naufragi è aprire gli aeroporti.

Esistono proposte specifiche di governo dei flussi in entrata.

Un documento pluriennale con quote suddivise per finalità (dal lavoro autonomo a quello dipendente, studio, formazione, ricerca) con profili di ammissione e criteri di scelta accompagnati, laddove possibile, da accordi di cooperazione coi paesi di origine e transito.

A tale scopo va istituita una Agenzia italiana delle migrazioni, in parallelo alla analoga struttura europea.

In questo schema deve riprendere l’operazione Sophia per il pattugliamento, il soccorso in mare e per rinnovare l’azione di contrasto al traffico di esseri umani.

La legge sullo ius culturae e la pressione sull’Europa per un ampliamento immediato dei corridoi umanitari sono passaggi obbligati di una strategia fondata sul principio “più integrazione equivale a più sicurezza”. Nella stessa logica vanno accelerati il superamento della legge Bossi-Fini e dei decreti in materia adottati dal precedente governo.

Il nodo della immigrazione di necessità, come testimoniato dalle richieste d’asilo, riconduce al primato dei diritti umani quale pilastro di civiltà e contenuto stesso della democrazia.

La indivisibilità dei diritti umani – politici, sociali, civili – deve prevalere sopra ogni gerarchia contingente e regolare l’azione normativa in una chiave di massima inclusione e consenso.

Ciò vale sul terreno del contrasto alla illegalità in tutte le sue espressioni – dalla criminalità organizzata o diffusa al pericolo in una stagione di recessione di patologie estese dell’usura – alla lotta contro ogni forma di violenza nei confronti delle donne, dall’eliminazione e repressione dei fenomeni di omo-transfobia alla tutela dei diritti dei detenuti con l’incentivo a pene alternative e l’investimento in strutture compatibili e rispettose del principio costituzionale sulla funzione rieducativa della pena.

La condizione nelle carceri dove tutti gli studi dimostrano che i tassi di recidiva variano in maniera significativa a seconda del tipo di pena che i condannati subiscono: laddove la pena non è ciecamente segretativa, ma si sono predisposte le condizioni per una più effettiva fruibilità delle misure alternative e di percorsi capaci di favorire il reinserimento del detenuto, i tassi di recidiva diminuiscono.

 

PER UNA ECONOMIA GIUSTA

Da sempre la rete di piccole e medie imprese racconta l’ossatura del nostro tessuto produttivo. Lo stesso avviene in altri paesi, Germania in testa, ma solo da noi quella dimensione ha conosciuto nel tempo una ricostituzione costante.

L’ultimo ventennio ha pagato il conto di limiti strutturali per quel modello di manifattura. L’economia ha scontato una fragile strategia di investimenti e coordinamento nel settore della ricerca e del ricambio tecnologico.

Prima conseguenza è stato un deficit di produttività con l’accentuarsi della forbice tra un apparato rallentato, poco flessibile, e i nostri partner sul mercato europeo e globale.

Ci siamo adeguati a produzioni con scarsa intensità di innovazione e all’impiego sempre più ampio di manodopera a bassa qualifica. Tra gli effetti più gravi vi è stato un arresto del Pil pro capite fermo da 25 anni a fronte di un incremento del 28% in Germania e del 17% in Francia.

In un quadro dove sono avanzate punte di eccellenza, come in diversi segmenti del Made in Italy, inchiodata al passato è rimasta la trasformazione tecnologica per interi comparti e filiere. Il risultato è che per un panorama amplissimo di imprese la strada della sopravvivenza si è concretizzata in salari spesso inferiori ai minimi contrattuali con la condanna a gareggiare al ribasso su prezzi e tariffe anziché sfidare i mercati sul terreno della qualità del prodotto.

Il Pil italiano è cresciuto del 45,2% negli anni Settanta, del 26,9% negli anni Ottanta, del 17% negli anni Novanta, del 2,5% negli anni Duemila: dinamica che non trova paragoni nei principali paesi sviluppati.

Le burocrazie troppo vecchie del pubblico, un diritto dell’economia e tempi della giustizia incompatibili con logiche di efficienza e tempismo nell’allocare le risorse e favorire investimenti, il nanismo del profilo industriale e un capitalismo “familiare” caratterizzato dal ricorso limitato alla Borsa e una dipendenza di credito e capitalizzazioni dal sistema bancario hanno chiuso il cerchio di una modernizzazione mancata.

A completezza va registrata la campagna di acquisizione di alcuni tra i “campioni nazionali” sopravvissuti e il venire meno anche in settori strategici – dall’energia alle TLC – di giganti attrezzati a restituire all’Italia un ruolo di player su alcuni segmenti dei mercati dell’innovazione.

Il paese ha affrontato così la crisi del 2008 e sopportato con la zavorra di queste disfunzioni le due recessioni peggiori prima del Covid-19: nel 2009 e 2012.

A quel punto, anche in ragione di fondamentali e infrastrutture più solide (pensiamo all’ennesima frattura tra Nord e Sud determinata dall’Alta Velocità ferroviaria), le regioni settentrionali hanno retto meglio l’urto mostrando margini di adattamento con l’affermarsi di nuovi presidi industriali, in particolare tra Veneto ed Emilia-Romagna, una competizione affidata all’export di qualità e la conversione di Milano in capitale attrattiva di risorse e talenti. Merito quest’ultimo in gran parte delle giunte di centrosinistra, consolazione parziale se rapportata al numero di cervelli in fuga verso approdi meno insicuri.

La sintesi: abbiamo approcciato il cambiamento d’epoca più significativo dell’ultimo mezzo secolo incollando tessere diverse senza coltivare una strategia di medio – lungo periodo.

Dell’Italia una e indivisibile è rimasto l’afflato retorico mentre i fattori di divaricazione si sono accentuati aprendo più di uno spazio alle incursioni delle destre.

In questa saldatura tra fragilità del tessuto sociale con sacche di impoverimento e un deficit del modello produttivo si è consumato il vuoto di “visione” per l’Italia degli anni Venti del nuovo secolo. Ora però la pandemia impone di scuotere energie e forze disponibili a colmare un ritardo divenuto insopportabile.

Per farlo bisogna pigiare più tasti.

Premessa è che il prossimo tempo sarà scandito da una organizzazione diversa dei “luoghi” del lavoro e assieme dei “flussi” che avevano incentivato la mobilità nella lunga stagione alle spalle.

A mutare sarà la catena di produzione del valore: ne risentiranno abitudini, costumi, fatturati, profitti.

Lo si è già visto dall’impatto di una sospensione momentanea dell’afflusso turistico. O dalle conseguenze di una mobilità temporaneamente impedita di persone, professionisti, pendolari, studenti. E naturalmente delle merci.

Tutta la letteratura sulla frattura tra città e campagna – tra urbe e contado – dovrà riprogettare tempi e spazi della vivibilità, della socialità, dello sviluppo residenziale con la relativa offerta di servizi.

In questo il distanziamento fisico dovrà istruire un ripensamento dell’universo urbano nella logica di ampliare gli accessi alla cittadinanza senza comprimere libertà e autonomia di movimento e fruizione dei beni comuni.

Città dove di nuovo la domanda sarà legata a reti di prossimità, dai servizi agli esercizi commerciali sino alle attività di produzione e fruizione di socialità e cultura.

Tutto ciò richiede un ripensamento dell’edilizia residenziale, nel pubblico e nel privato, con abitazioni adeguate ai bisogni e potenzialità dello smart working e della formazione a distanza.

L’insieme da vincolo deve trasformarsi in opportunità per il capitolo delle Aree interne (dove vivono milioni di italiani) e delle “Periferie” in senso ampio.

Dalla legge contro il consumo di suolo alla riqualificazione urbanistica e sociale dei medi e piccoli centri, al recupero delle campagne de-industrializzate dove obiettivo è la “liberazione” di forze economiche negli ambiti dei servizi o delle attività agro-pastorali-alimentari: si avvia una stagione di riassetto e nuova distribuzione di risorse umane, tecnologiche, finanziarie.

Si tratta di impostare politiche innovative anche nella forma di incentivi pubblici a giovani disponibili a promuovere start-up o a gestire in comodato aree agricole trascurate.

Il traguardo in queste realtà è rendere ottimali i servizi fondamentali: salute e welfare, formazione, mobilità, e favorire, anche per questa via, l’espressione di nuovi profili imprenditoriali. La sfida è evitare che un simile intreccio di eventi finisca con l’approfondire tutti o quasi i fattori strutturali di divisione del paese: territoriali, sociali, generazionali e di genere.

In particolare diviene fondamentale proseguire e implementare l’investimento strategico del Piano per il Sud con l’obiettivo di ancorare al Mezzogiorno una riserva garantita di fondi comunitari in un disegno di programmazione e certificazione dei risultati e della modalità di impiego delle risorse.

In altre parole per instradare l’Italia sul sentiero della modernizzazione è necessario fissare missioni e traguardi a breve e medio termine a partire dal passaggio all’epoca digitale, dalla strategia di recupero della produttività, dalla riconversione in chiave di sostenibilità, dal nuovo ruolo dello Stato.

RIVOLUZIONE DIGITALE, TRANSIZIONE ENERGETICA, UNO STATO AMICO

Salire sul convoglio della rivoluzione digitale è premessa per una cittadinanza piena. La Rete, l’accesso alla Rete, non è un tema confinabile a piattaforme e algoritmi, investe la sfera dei diritti e il loro esercizio nella vita quotidiana.

Fino da 2016 il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu ha adottato la Risoluzione sulla Promozione, protezione ed esercizio dei diritti umani su Internet. Prima di allora era stata l’amministrazione Obama nel 2014 a proclamare Internet un “servizio pubblico”.

Il Covid-19 ha reso ancora più evidente questa nuova condizione.

In un pugno di settimane la pandemia ha spiegato a milioni di italiani perché sia questa una risorsa insostituibile del futuro: nel lavoro (anche da remoto), nella formazione (anche a distanza); nelle comunicazioni e interazioni sociali, nella gestione dei servizi, nella sburocratizzazione dello Stato.

La realtà però è tuttora diversa: solamente una famiglia su quattro dispone della rete fissa contro sei famiglie su dieci della media europea.

Per questo la Banda larga diffusa ovunque è un obiettivo da conseguire colmando vuoti e discriminazioni intollerabili.

Parliamo di un bene pubblico da rendere accessibile per ogni persona, al pari dell’acqua o dell’elettricità, soprattutto ora che lo smart working è divenuto per milioni di persone la modalità di organizzazione del lavoro e del tempo.

Si tratta di una infrastruttura immateriale decisiva anche nella semplificazione del rapporto tra cittadini, lavoratori, imprese e la pubblica amministrazione in tutte le sue procedure, particolarmente a fronte delle potenzialità create nel pubblico dal turn over.

In questo senso l’assunzione di 500.000 giovani nell’amministrazione rappresenta un’opportunità di immissione di saperi oggi carenti o assenti.

Questa nuova “generazione dello Stato” va selezionata utilizzando competenze e criteri diversi dal passato, va accompagnata nel processo di inserimento e verificata nei tempi e nell’efficacia della trasformazione da imprimere.

Una nuova amministrazione pubblica ha bisogno anche di nuove professionalità: ingegneri, informatici, statistici e una leva di manager attrezzati a competere nella qualità e nell’efficienza, ma sempre nella consapevolezza della “missione” del pubblico.

La realtà è che uno Stato modernizzato passa anche da una leva di dipendenti, funzionari, dirigenti preparati e motivati a una azione di rinnovamento e ricostruzione del tessuto economico e della coesione sociale.

Tutto ciò diventa fondamentale se pensiamo che anche nel cuore della pandemia lo Stato – una burocrazia incrostata – ha determinato ostacoli e impedimenti anziché favorire la semplificazione di tempistiche e procedure: questo non dovrà più accadere.

Non serve evocare la fine della “burocrazia”: serve predisporre un nuovo diritto amministrativo capace di superare ogni logica paralizzante o “difensiva”, una nuova regolazione dei rapporti nel pubblico impiego e una riforma della giustizia amministrativa e contabile.

La riforma dello Stato non presuppone un mero ritorno al centralismo, ma lo sviluppo di una linearità nelle competenze centrali e una piena sussidiarietà a colmare gap territoriali tuttora profondi.

Ci sono beni, dai diritti fondamentali all’uguaglianza di opportunità e accesso alla cittadinanza, che sono garantiti solo dallo stato centrale. La critica mai risolta contro lo Stato va respinta proprio a partire dalla garanzia nel tempi dei principi democratici.

In questo senso, superata la fase dell’emergenza e sulla base degli eventi di questi mesi, vanno rielaborate le funzioni delle Regioni superando lo squilibrio evidente di dimensioni, risorse, apparati.

Occorre che lo Stato garantisca a ogni cittadino, qualunque sia la Regione e Città di nascita e residenza, le condizioni materiali e culturali per il pieno esercizio dei diritti fondamentali di libertà e partecipazione. Serve che ogni articolazione di competenze tra diversi livelli istituzionali sia definita e attuata nella prospettiva di una migliore e più efficiente allocazione delle risorse e organizzazione dei servizi.

Avere moltiplicato le burocrazie non ha reso più trasparente il rapporto tra cittadini e istituzioni. Solo una larga convergenza tra maggioranza e opposizioni può condurre a un assetto delle istituzioni effettivamente condiviso e affrancato da forzature apparse spesso il riflesso di calcoli politico-elettorali di nessuna presa e respiro.

Non possiamo sfuggire a una verità: le trasformazioni degli assetti economici e produttivi impongono una riforma del diritto economico in diverse branche.

Parliamo del diritto societario, fallimentare, del risparmio. E naturalmente di tempi e procedure della giustizia: civile, penale, amministrativa.

Il pacchetto di misure e riforme per accelerare e semplificare procedure, garanzie e sentenze manifesta da troppi decenni un ritardo di traduzione che grava come un macigno sul grado di competitività del sistema-paese con una ricaduta clamorosa nell’attrazione di capitali e investimenti stranieri.

Nella logica di uno “Stato innovatore” rientra un sistema-paese attrezzato all’urto del nuovo mondo con una Piattaforma di conoscenze in grado di attivare e far convergere le grandi imprese pubbliche con l’obbligo a ridefinire la propria missione (anche attraverso forme di cooperazione e fusione).

Parliamo di piani strategici nel campo delle energie rinnovabili, di piattaforme digitali integrate, di un nuovo patto per lo sviluppo che associ le rappresentanze datoriali e dei sindacati.

Nello stesso ragionamento rientrano settori decisivi della ricerca: dall’innovazione dell’industria meccanica all’Intelligenza artificiale sino al capitolo della sicurezza informatica e digitale dove non possiamo divenire “terra di conquista” per multinazionali di varia estrazione.

Eni, Enel, Leonardo, Poste, Trenitalia, Terna, Rai: il patrimonio pubblico tuttora esistente ha una potenza inespressa che deriva anche dai limiti e dalla frammentazione dei suoi indirizzi strategici. La via è una diversa responsabilità del management in raccordo a uno Stato che non si riveste da “gestore”, ma contribuisce a fondare la missione per un enorme volume di risorse e competenze, dando corso e vita, dove possibile, a nuovi attori internazionali nei settori a più alta intensità di innovazione.

Il tutto in una logica che assicuri coerenza strategica tra l’azione delle imprese partecipate e l’amministrazione pubblica.

In particolare per quanto attiene alla Rai – la prima industria culturale del paese – la via è una riforma all’inglese della Governance che stronchi alla radice il rituale della lottizzazione.

Sempre nel solco di una sostenibilità ambientale e sociale non vi sono altri alibi alla riconversione dei 19 miliardi di sussidi dannosi che lo Stato continua a erogare per iniziative che peggiorano il clima e la salute.

La strada è aiutare le imprese in una riconversione green e al contempo mobilizzare quel volume consistente di risorse verso la riduzione del cuneo fiscale e l’investimento su giovani e donne con una strategia radicale e pluriennale di riduzione fiscale a incentivare l’occupazione femminile. In questo stesso ambito si colloca una valutazione sull’impatto di genere per ogni iniziativa legislativa, regolamentare e politica.

Infine, dopo la valanga di annunci senza seguito e le troppe risorse sprecate, va conclusa la vertenza Alitalia con una struttura manageriale attrezzata, un piano industriale sostenibile e tempi accelerati di verifica.

Quanto alle concessioni pubbliche, a partire da quella autostradale dopo la tragedia del Ponte Morandi, la via è una ridefinizione di tutti i contratti in essere con la massima attenzione a restituire ai beni comuni la loro piena fruibilità eliminando ogni forma di speculazione o dumping tariffario.

La pandemia restituisce a quei beni il valore che stagioni trascorse avevano progressivamente allentato. A questa responsabilità non è possibile venire meno.

Viviamo con orgoglio la responsabilità che giorno per giorno si assumono amministratori chiamati a misurarsi con i conflitti e le contraddizioni di territori segnati e offesi. Moltissimi sindaci nelle settimane più drammatiche sono stati la fonte prima di una tenuta dello Stato, hanno garantito un coordinamento delle iniziative di sostegno e solidarietà, si sono fatti carico di contenere il disagio e la sofferenza della parte più fragile, hanno rassicurato le rispettive comunità.

Questo merito non va riconosciuto soltanto a parole, deve tradursi in risorse aggiuntive e trasferimenti in misura tale da mettere l’avamposto dei Comuni nella condizione di affrontare le nuove responsabilità del post Covid-19. Se vogliamo dare alla rete degli amministratori la giusta forza indietro non si può tornare.

 

 

LAVORARE PER VIVERE IN DIGNITA’

In Italia negli ultimi vent’anni sette milioni di lavoratrici e lavoratori hanno conosciuto una riduzione delle garanzie e tutele di reddito e protezione per sé e la propria famiglia.

Sono l’esercito di riserva della precarietà. Occupati a tempo, con orari discontinui, a cottimo, finti – autonomi e irregolari: donne e uomini ricattati con salari da miseria.

Da qui muove per noi il rovesciamento della logica che ha dominato finora.

La risposta ha due condizioni, e soltanto due. La prima: che ognuna di queste persone abbia un’occupazione, un contratto riconosciuto e scortato da tutele nella difesa del posto di lavoro, nella sicurezza sociale, nell’assistenza in caso di malattia, in ogni altro diritto connesso allo status di lavoratore dipendente o autonomo.

La seconda condizione deve tenere conto dell’ipotesi che l’obiettivo della piena occupazione non sia raggiunto nel breve e che, anche in ragione di questa crisi, continui a esistere un’area di cittadini privi di una qualunque fonte di sostentamento.

Parliamo di una fascia di popolazione a rischio immediato di povertà perché priva di risparmi o patrimoni e dunque inabile a sopportare un’assenza totale di entrate fosse pure limitata ad alcuni mesi.

Rischiano di trovarsi in questa condizione diversi milioni di italiani, con ulteriori gap territoriali ad accentuare distanze già profonde.

Queste persone – donne, uomini, spesso giovani e minori – non dovranno mai più risultare “invisibili” e l’azione pubblica di supporto serve anche a favorire un contatto e un censimento di queste situazioni.

Una prima risposta è venuta dal governo col “reddito di emergenza”: sollievo temporaneo agganciato al precedente “reddito di cittadinanza”. Un primo segnale, appunto, che con tutta evidenza non basta.

La soluzione è una rete di protezione per ogni cittadino che venga a trovarsi per un tempo più o meno lungo in uno stato di privazione del reddito sotto qualunque forma.

La dignità di ciascuno va preservata a partire da questa condizione: nessuna e nessuno deve essere privato delle risorse fondamentali per garantire a sé e al proprio nucleo familiare una esistenza dignitosa e libera dal ricatto della povertà.

Una misura universalistica di sostegno accompagnata da forme adeguate di approccio e formazione al lavoro devono uscire dal perimetro dell’emergenza e entrare a pieno titolo nella filosofia dell’accesso alla cittadinanza.

Da qui – da una diversa filosofia di stato sociale – anche la chiave per governare il problema del calo demografico.

La politica dei bonus occasionali non è sufficiente né adeguata: servono strategie di investimento proiettate sul lungo periodo.

A dover essere ripensata è la ripartizione della spesa: attualmente quella rivolta a cura, assistenza e previdenza (il 28,4%) è quasi in linea con la media europea (27,1), ma è diversa la sua allocazione. Nel caso nostro il 16,4% va alle pensioni (contro il 12,3 della media europea); l’8,2 alla sanità (contro il 10); il 3,8% alla protezione sociale e al supporto al reddito (contro il 4,7%).

Siamo tra i pochi paesi sviluppati dove una donna su quattro, quando diventa madre, è costretta a lasciare il lavoro.

Spesso quel figlio desiderato porta con sé anche un aumento del rischio di povertà, il che spiega perché oggi in Italia tra i minorenni e chi ha meno di 35 anni il tasso di povertà è più alto che nel resto della popolazione.

La crisi demografica e della natalità affonda qui, nella difficoltà a superare un sistema iniquo e inefficiente di trasferimenti diversi per approdare a un assegno unico universale per i figli.

Nei servizi per la prima infanzia (la fascia 0-3 anni) garantiamo servizi educativi a meno del 25% dei bambini mentre per istruzione e formazione stanziamo il 3,9% del Pil (a fronte del 4,7 della media europea e del 5,1% della media Ocse).

Significa che spendiamo troppo poco per chi ha più bisogno, è tempo di cambiare.

 

 

CONOSCERE PER CONTARE

Non è vero che nessuno lo aveva previsto: la pandemia che ha sconvolto il mondo era un incubo sospeso sulla testa di governi ed élite dell’economia, della finanza, della cultura.

Solo chi non ha voluto vedere alla fine non ha visto. E solo chi, persino adesso, si rifiuta di guardare prosegue la sua corsa irrazionale.

Risale al settembre dell’anno passato (2019) il rapporto “Un mondo a rischio” redatto dal Global Preparedness Monitoring Board.

Vi si descriveva la “minaccia assolutamente reale di una pandemia altamente letale e in rapida diffusione prodotta da un agente patogeno delle vie respiratorie”.

Nello stesso rapporto si denunciava l’impreparazione globale a fronteggiare l’emergenza anche a causa degli scarsi investimenti e della debole pianificazione nella ricerca sui vaccini.

Per decenni l’azione straordinaria di infrastrutture pubbliche di ricerca non ha trovato una ricaduta nella cooperazione tra Stati e governi, questo è accaduto anche nel cuore dell’Europa politica. Ne hanno beneficiato grandi agglomerati e multinazionali che sul capitolo del diritto alla salute hanno cumulato profitti e speculazioni.

Quel tempo va archiviato e sarà questa una delle fratture imposte alla politica del dopo. Sarà anche uno degli ambiti dove la nuova Europa dovrà indicare ai popoli del continente, e non solo a loro, la sua compattezza e necessità.

Lo stesso capitolo della ricerca sul vaccino assume un significato manifesto e tale da convincere i paesi “frugali”, inflessibili con le “cicale” mediterranee, come proprio nei passaggi drammatici l’Europa riscopre le sue migliori capacità e virtù.

La realtà dice che il vaccino, quando arriverà, non sarà il traguardo di un unico gigantesco laboratorio, ma rifletterà il lavoro condiviso di più centri di ricerca e società farmaceutiche.

Accadrà perché l’epoca digitale e la Rete impongono anche su questo piano una discontinuità.

La libera conoscenza tra i computer connessi in una corteccia globale (Open Science) assieme alla opportunità per le imprese di avere uno scambio cooperativo con i saperi evoluti altrove (Open Innovation) mette l’Europa nella condizione di agire con risorse e aspirazioni in un settore che ha bisogno di tempi rapidi per conseguire una strategia di contrasto al virus di oggi o ad altre future patologie.

Individuare il vaccino non sarà semplice e neppure scontato – esistono diverse malattie infettive verso le quali i vaccini risultano solo in parte efficaci o non lo sono affatto – ma proprio questa consapevolezza consegna all’Europa una nuova responsabilità. Lo stesso approccio dovrà investire la ricerca sugli scenari dell’invecchiamento demografico, della transizione energetica in funzione di una diversa sostenibilità, di quella rivoluzione digitale più volte citata e destinata a condizionare ogni aspetto della sfera pubblica e della socialità.

 

 

IL FUTURO DELLA CITTADINANZA: DONNE E GIOVANI IN PRIMA FILA

La chiave per preservare la democrazia e prevenire possibili involuzioni autoritarie è investire in spazi di partecipazione, di dibattito e confronto pubblico sulle scelte destinate a ricreare un senso condiviso di comunità. Oltre naturalmente a formare e selezionare una classe politica nei partiti affidabile, competente, responsabile. Il che passa anche dalla scelta di non schiacciare la funzione dei partiti nel solo contesto istituzionale perché anche da qui, da questa identificazione tra soggetti politici e istituzioni, deriva l’attuale crisi della rappresentanza.

La definizione di un “popolo sociale” di fianco al “popolo numerico” che si reca periodicamente alle urne, esprime il valore di questo investimento.

Parliamo di una cittadinanza attiva e consapevole da sostenere, culturalmente e sul piano finanziario. Ciò passa anche da una piena applicazione dell’articolo 49 della Costituzione sulla regolamentazione e trasparenza delle associazioni politiche e dei partiti.

Anche per tale ragione questo contributo per l’Italia del “dopo e subito” non è un impianto programmatico articolato nel dettaglio, non voleva né poteva esserlo.

Piuttosto è una griglia del metodo che dovrebbe contrassegnare una “visione” della ripresa. Un’idea delle priorità e necessità in capo al paese che si deve riprendere dalla prova più pesante e dolorosa della sua storia, non solo recente.

La politica – i partiti – in questa vicenda occupano un posto di responsabilità. Ma bisogna essere coscienti che in questo passaggio servirà la mobilitazione di un civismo diffuso e di quella rete di associazioni e strutture che nelle settimane della grande paura hanno contribuito con uno sforzo unico a reggere la prova.

Al fondo le suggestioni e proposte contenute in queste note riflettono il sentire e l’agire di tanti soggetti e forze organizzate, che nei decenni hanno proseguito un lavoro di scavo, studio, elaborazione di scenari, assumendo le iniziative conseguenti.

Da quel patrimonio non ci separa un muro, e se alcune volte si è creduto di vederlo questo è tempo di abbatterlo.

La stessa distinzione tra politica e società civile va messa in archivio perché la sfida che la pandemia restituisce a tutti noi è comprendere come esista la politica dei partiti – legittima, necessaria – e la politica di movimenti, percorsi di cittadinanza partecipata, non meno autonomi e preziosi.

Oggi questi diversi sentieri debbono potersi incrociare e intrecciare, in uno scambio di idee e visioni, ma questo implica un salto di qualità nella responsabilità delle istituzioni e nell’esercizio del potere.

Bisogna dirlo con onestà: quel balzo ancora non vi è stato. Lo scarto tra enunciazioni di principio, impegni dichiarati e misure e politiche adottate è ancora profondo.

I riferimenti sono concreti e riguardano esempi diversi. La proposta di rendere gratuito il parcheggio nelle strisce blu per le automobili con bollino per disabili impossibilitate a parcheggiare nei posti previsti perché occupati o non disponibili; o ancora rimodulare la tassazione sul tabacco riscaldato (portata dal governo precedente al livello più basso tra le grandi economie occidentali) in modo da ricavare risorse per investimenti sull’assistenza domiciliare per i malati cronici.

Sono esempi della miopia con cui la “politica dentro le istituzioni” coltiva un misto di inconsapevolezza o subalternità a lobby più o meno potenti, ma mancando così l’appuntamento con la credibilità verso mondi e interlocutori esterni.

Ecco perché questo è il momento per cambiare il paese come da troppo tempo nessun’altra generazione ha avuto modo e forza per fare.

Mettersi al servizio di questa impresa, chiedere a tante e tanti di rendersi disponibili a parteciparvi, è la premessa per riuscirci.

Con idee, critiche, proposte, in un percorso a disposizione dell’Italia e di una vera rinascita.

Rinascita è un termine evocativo, implica un ripensamento delle società, della loro creatività e dei loro ordinamenti.

Per molti in questo tempo segnato da una crisi senza paragoni implica il presidio di quei valori di portata universale – libertà, uguaglianza, solidarietà – che hanno reso possibile la democrazia dei moderni.

Soprattutto bisogna credere nel legame che la storia ha sempre coltivato tra la spinta al cambiamento e i sentimenti delle persone.

Non c’è vero ricambio, non c’è una partecipazione sincera, fuori da questo “credo”.

Togliamo questa sfera all’agire comune e rimane solo il traguardo del governo come fine e non strumento di emancipazione, libertà dal bisogno, redistribuzione di opportunità, beni e risorse.

Per tutto questo il tempo di una nuova Alleanza per un’altra Italia è adesso.

 

 

 

 

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1 risposta a HUFFINGTON.IT — 24 LUGLIO 2020 PUBBLICA IL DOCUMENTO DI GIANNI CUPERLO CHE E’ STATO PRESENTATO AL NAZARENO IL 25 LUGLIO — PRESENTAZIONE DI ALESSANDRO DE ANGELIS, VICE DIRETTORE

  1. Donatella scrive:

    Sono convinta che, per un momento eccezionale come questo, occorra una mobilitazione eccezionale dei cittadini, come quando ci si appresta ad una grande impresa, una specie di nuova Resistenza. Senza un’organizzazione, senza un partito di riferimento, capace di elaborare analisi della realtà ed eventuali soluzioni non credo che ci possa essere uno sviluppo concreto, che faccia fare un salto di qualità al Paese. Soprattutto un eventuale partito o associazione non dovrebbe avere paura delle persone e del loro pensiero ma, senza inutili estremismi, dire con coraggio la sua, avendo una effettiva fotografia della realtà per superarla. So che può sembrare aria fritta, ma pensiamo un attimo a quello che han fatto di buono le “Sardine”, non avendo paura di convocare le persone, anzi interpretandone il desiderio e la necessità di contarsi contro un vero e proprio assalto alla democrazia. Non sprechiamo anche quest’ultima, forse, occasione e usciamo dall’aria asfittica che distrugge i partiti di sinistra. Vi ricordate la canzone di Gaber: ” E’ la strada l’unica salvezza…”. Forse è solo retorica, ma le persone sono fatte di ragione e di sentimenti, che si bilanciano e si arricchiscono reciprocamente se coltivati ed aiutati a crescere.

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