LORENZO TROMBETTA ( notizie al fondo ), BEIRUT :: ” Beirut ha perso la sua ragion d’essere ” –LIMES ONLINE — 7 AGOSTO 2020

 

 

FOTO DI LORENZO TROMBETTA / TWITTER- ORE 12 DI OGGI, 9 AGOSTO

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” IL CIELO SCARICHERA’ MOLTA PIOGGIA SU BEIRUT ” —

 

 

LIMES ONLINE — 7 AGOSTO 2020

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Beirut ha perso la sua ragion d’essere

 

Il porto di Beirut devastato dall'esplosione del 4 agosto 2020 (foto di Lorenzo Trombetta)

Foto di Lorenzo Trombetta.

 

 7/08/2020

Il disastro del 4 agosto ha colpito forse mortalmente la capitale del Libano. Senza il porto, la città faticherà a rialzarsi. Un viaggio, anche personale, tra le griglie geografiche sovrapposte di una città troppe volte ferita.

 

 

di Lorenzo Trombetta

 

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Beirut è stata colpita di nuovo, in maniera assai più devastante di altre volte.

I primi dati balistici e l’osservazione in prima persona, sul terreno, del tipo di danni – umani e materiali – e della vastità dell’area interessata non lasciano dubbi sull’inedita forza esplosiva della deflagrazione di martedì 4 agosto 2020.

A esser stata colpita direttamente è la parte nord-orientale della capitale libanese. Il porto è stato l’epicentro. Da lì l’esplosione, quella più potente, ha seminato distruzione nei quartieri del versante settentrionale della collina di Achrafiye: Gemmayze e Mar Mikhail più in basso, Rmeil e Geitawi più in alto (i danni si sono avuti anche lungo la costa a nord di Beirut, ad Antelias, Zalqa, Jal ad-Dib).

 

L’impatto dell’esplosione, come si vede da questa ricostruzione digitale

 

 ha raggiunto molte altre aree nel centro e nel sud della città risparmiando fortunatamente i quartieri occidentali e sud-occidentali. La presenza dell’alta e imponente struttura dei silos di grani, rimasti in piedi a metà, sembra aver protetto la parte nord-occidentale della città.

 

È interessante sovrapporre la griglia dei danni dell’esplosione con quella della divisione politica, socio-economica, comunitaria della città. E sovrapporla anche con l’impatto di altri attentati dinamitardi registratisi a Beirut negli ultimi quindici anni. Non per avventurarsi in congetture su possibili responsabilità di quello o quell’altro attore locale o straniero, ma per analizzare quali conseguenze potrà avere quello che appare, visto da Beirut, un colpo mortale alla città.

 

Lasciamo da parte la retorica doppia e sempre più artefatta della “Parigi del Medio Oriente” e della “Fenice che rinasce dalle ceneri”: Beirut non è più un luogo ospitale e ameno da diversi anni. Non me ne vogliano le centinaia di italiani e stranieri che passano solo alcuni anni, o addirittura solo qualche mese in questa città, e continuano a decantarne i pregi e le qualità.

 

Chi ha conosciuto Beirut prima della guerra del 2006 tra Hezbollah e Israele sa che la città odierna è assai più invivibile, violenta, crudele. Lo è diventata, certamente, a causa delle ferite che le sono state inflitte. Non ultima, il 4 agosto. Una data che rimarrà indelebile nella martoriata, ma anche breve, storia della città.

 

Mappa Libano - cartina geografica e risorse utili - Viaggiatori.net

 

Prima di tutto è stato colpito il porto. Beirut diventa Beirut in epoca moderna grazie al suo porto. Nel secolo lungo dell’Ottocento, in piena epoca di crisi dell’impero ottomano e di grandi stravolgimenti dell’economia mediterranea, la città diventa uno dei cardini di un nuovo sistema economico, politico, che prepara il terreno al Novecento. Beirut era ed è l’accesso per la Siria interna; da qui parte la strada che porta a Damasco e partiva la ferrovia che collegava la costa al resto della regione.

 

Colpito anche l’immenso silos di grano. Il grano: quello che le ricche famiglie di Beirut avevano stoccato in porto durante la carestia del 1915 e che avevano cominciato a distribuire col contagocce, suscitando l’ira della popolazione. Il grano: merce di scambio e di potere, tra Beirut e Tripoli, tra Beirut e la Montagna libanese, tra Beirut e Damasco, tra Beirut e la valle della Biqaa.

 

M. Farouk Abillama — INTERVISTA : http://rdl.com.lb/1998/1999/entre5.htm

 

“Se togli a Beirut il porto e la sua autonomia imprenditoriale, la uccidi”, mi disse nel 2005 Faruq Abillama, figura di spicco istituzionale del Libano che non c’è più. Colui che aveva diretto la Surete Generale nei turbolenti anni della guerra civile, che era stato ambasciatore del Libano a Parigi e che aveva diretto il ministero degli esteri, parlava dalla sua casa di Akkawi, su una delle ripide strade che da Gemmayze porta a Sassine. Sarebbe morto due anni dopo. Alzando lo sguardo al cielo, ieri, passando per la disastrata Ashrafiye, e vedendo le finestre del soggiorno dove mi accordò quella intervista, mi sono tornate a mente le sue parole. Sull’importanza di mantenere Beirut al centro degli affari. Beirut non lo è più.

 

Le autorità portuali di Tripoli si sono offerte di sostituire temporaneamente le attività. Il governo sta pensando di dividere il traffico mercantile tra Sidone e Tripoli, due città che persero il loro ruolo anche  a causa dell’affermazione economica e politica di Beirut nella seconda metà del XIX secolo.

 

A esser stata colpita è tutta l’area di Beirut est.

“Ashrafiye è zona disastrata” (mankuba, la stessa radice araba della parola nakba, usata per indicare “la catastrofe” dei palestinesi quando fu fondato Israele nel 1948) ripeteva incessantemente un soccorritore di circa 60 anni di età di fronte all’ospedale San Giorgio sulla collina di Rmeil. Le tegole in cotto – cotte a Marsiglia? – del tetto della vecchia storica ala dell’ospedale ortodosso sono cadute a terra. La luce entra nelle sale costruite lì dove era tutta campagna nei primi decenni dell’Ottocento. Ashrafiye è di nuovo devastata, mankuba. Questa volta una esplosione pari a un decimo di quella di Hiroshima per compiere danni maggiori di quelli causati dalla somma delle decine di esplosioni di mortaio della guerra tra Geagea e Aoun nel 1989, dai numerosi attentati dinamitardi tra il 2005 e il 2008, dalle diverse fuga di gas causate da negligenza istituzionale e individuale. Beirut est è di nuovo stata colpita pesantemente. Le zone popolari, impoverite, di una comunità cristiana sempre più spinta ad affidarsi a fallimentari leader confessionalie incapace di guardare oltre il confessionalismo, sperando nella cittadinanza.

 

Le migliaia di giovani volontari che da mercoledì 5 agosto hanno invaso la zona di Beirut devastata simboleggiano una divisione politica netta.

 

Mancano per esempio i volontari, solitamente ben organizzati di Jihad al-Bina’, la “organizzazione non governativa” degli Hezbollah, sempre così solerti nel ripulire le macerie nei ‘loro’ quartieri. Quando la periferia sud di Beirut è stata colpita nel 2006, pochi attivisti di Beirut est sono andati dall’altra parte della “linea di contatto” (khatt at-tamas), ancora presente nelle menti delle persone. Il leader degli Hezbollah, il sayyid Hasan Nasrallah il 7 agostoè intervenuto affermando che la struttura del Partito si è subito mobilitata, anche con volontari sul posto. Personalmente, non ne ho vista traccia.

 

Colpito anche il centro ricostruito di Beirut. La fiera, sorta proprio sulle macerie della guerra civile (1975-90), e l’intera zona di Solidere, voluta dall’ex premier Rafiq Hariri ucciso nell’attentato di San Valentino di 15 anni fa. Quel giorno di febbraio del 2005 si disse che una “potentissima esplosione” aveva scosso Beirut. Che “la terra aveva tremato”.

 

Quando ho visto in diretta l’esplosione del 4 agosto e ho sentito la terra tremare, ho pensato a un attentato politico. All’attentato Hariri. Ma mentre a carponi mi mettevo al riparo lontano dalle finestre, ignaro di cosa veramente stesse succedendo, ho pensato senza indugi al fatto che questa esplosione era assai più forte. I dati emersi nelle ore successive hanno confermato la sensazione. La conta dei morti parla per ora di oltre 150 vittime. La devastazione non è solo un cratere al porto, assai più grande di quello di fronte al Saint George, dove morì Hariri con altre 21 persone.

 

Per fortuna non sono stati colpiti pesantemente i quartieri occidentali. I danni ci sono stati – in particolare nei piani alti, fino a Clemenceau, Hamra, Qoraytem – ma in maniera assai più lieve. Tanto che nella chat di Whatsapp della scuola calcio di mio figlio, gestita da chi abita nella parte più riparata di Beirut sud-ovest, gli amministratori si sono limitati a comunicare la cancellazione dell’allenamento il giorno dopo l’esplosione. Quando due giorni più tardi hanno saputo che un paio di allievi erano rimasti feriti, perché residenti a est, si sono sorpresi. Un aneddoto che racconta quanto la città sia rimasta spaccata in due dall’esplosione. Non da un punto di vista retorico, perché tutti hanno espresso la loro vicinanza alle vittime e ai quartieri colpiti.

 

Ma nella gestione quotidiana delle passioni e delle emozioni, chi si è trovato colpito a est si è sentito da solo. Chi è rimasto a ovest si è sentito risparmiato da una tragedia che non lo riguarda direttamente. Il centro di Beirut ha invece avuto meno vittime. Tanti danni ma i quartieri popolari di Basta, Zoqaq Blat e Khandaq al Ghamiq, sulla collinetta che sovrasta il centro ricostruito, hanno subito un numero relativamente minore di uccisi e feriti. Gli altri quartieri colpiti del centro, come Solidere, sono commerciali e poco residenziali. La zona orientale di Beirut e tutta la sua coda periferica verso la baia di Juniye erano stata presa di mira tra il 2005 e il 2008 da una serie di attentati: contro personaggi politici e della cultura contrari all’egemonia siriana in Libano; e contro gli interessi e le infrastrutture economici della città. Incidente per negligenza o attentato che sia stato, il disastro del 4 agosto ha insistito su questa geografia già martoriata.

 

A Beirut rimane ora l’aeroporto. Questo è immerso in un contesto territoriale e politico dominato da Hezbollah. La forza lavoro dello scalo aereo è collegata, direttamente e indirettamente, a uno dei padri-padroni del Libano, Nabih Berri e il suo movimento ‘Amal’. Nessuno può predire il futuro, né si può immaginare cosa succederà alla luce della crisi del coronavirus in autunno e nei mesi che seguiranno. Ma in molti sono sicuri che l’aeroporto di Beirut non sarà investito da nessuna esplosione, accidentale o voluta che sia.

In ogni caso, Beirut non è più un centro. È una periferia. E ha perso la sua ragion d’essere.

 

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QUALCOSA SULL’AUTORE DELL’ARTICOLO ::

 

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LORENZO TROMBETTA

Studioso di Siria contemporanea e autore di Siria. Dagli ottomani agli Asad. E oltre, Mondadori Università. Da Beirut è corrispondente per l’Ansa e collabora con numerose testate nazionali e straniere.

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