CARLO BONINI, OTTAVIO RAGONE, DARIO DEL PORTO, CONCHITA SANNINO :: Inchiesta su cosa resta dell’eredità di un giornalista trucidato dalla Camorra e di una stagione di lotta alle mafie — REPUBBLICA 17 SETTEMBRE 2020

 

 

REPUBBLICA 17 SETTEMBRE 2020

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Longread–( = articolo lungo )

Camorra

17 SETTEMBRE 2020

Inchiesta su cosa resta dell’eredità di un giornalista trucidato dalla Camorra e di una stagione di lotta alle mafie

 

DI CARLO BONINI (COORDINAMENTO EDITORIALE E TESTO),
OTTAVIO RAGONE (NAPOLI),
DARIO DEL PORTO (NAPOLI),
CONCHITA SANNINO (NAPOLI).

CON UN TESTO DI ARMANDO D’ALTERIO.

COORDINAMENTO MULTIMEDIALE LAURA PERTICI.

GRAFICHE E VIDEO A CURA DI GEDI VISUAL

 

 

 

Il 23 settembre 1985, a Napoli, la Camorra uccide Giancarlo Siani, cronista del quotidiano “il Mattino”, con dieci colpi alla testa di calibro 7.65, mentre, al volante della sua Citroën Mehari di colore verde, rientra nella sua casa nel quartiere dell’Arenella. Siani ha compiuto da pochi giorni 26 anni e si è guadagnato la condanna a morte per aver illuminato i rapporti tra cosche e politica nella Campania della ricostruzione post-terremoto dell’Irpinia, e per aver dato conto dei retroscena dell’arresto del boss Valentino Gionta, “venduto” ai carabinieri dai Nuvoletta quale prezzo di un patto di non belligeranza con il clan di Antonio Bardellino.

Da quel settembre dell’85, sono passati trentacinque anni. Un tempo sufficiente non solo per tornare a raccontare quella storia (Repubblica lunedì 21 settembre distribuirà gratuitamente ai suoi lettori dell’edizione di Napoli, in abbinamento con il quotidiano,”La stampa addosso – Giancarlo Siani – La vera storia dell’inchiesta“, libro inedito firmato dal magistrato Armando D’Alterio che, nella veste di pm, rese possibile con la sua indagine la condanna all’ergastolo di assassini e mandanti) ma anche e soprattutto per chiedere conto di cosa ne è stato e ne è della sua eredità materiale e simbolica in un Paese dove le mafie si preparano ad aggredire il fiume di risorse e denaro pubblico che deve portarci fuori dalla devastazione di pandemia senza precedenti.

 

1985-2020

 

Trentacinque anni dopo, le grandi organizzazioni criminali hanno un unico volto. Camorra, Cosa nostra, ‘ndrangheta si somigliano sempre di più.Uniformate le priorità, evitano gli omicidi eccellenti, lavorano nell’ombra, investono insieme per miliardi di euro. Infiltrano e intossicano l’economia e la politica anche oltreconfine.

Trentacinque anni dopo, Federico Cafiero de Raho, Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, ricorda così Giancarlo Siani, il cronista coraggioso assassinato dalle cosche campane legate ai corleonesi: “Forse tanti giovani non sanno che Siani, a dispetto della sua giovanissima età, è stato un maestro. Sapeva andare oltre la superficie”, riflette, pensando al presente. Cafiero de Raho non nasconde le preoccupazioni per l’ennesima occasione che l’emergenza Covid rischia di offrire alle strategie criminali.

“Ma sento un silenzio assordante della politica, su questo pericolo. Ai tavoli delle grandi imprese, già prima della pandemia, le mafie spesso sedevano insieme, i profili sempre più sovrapponibili a quelli di manager e industriali. E fondano società in comune. Ma guai se adesso non si impedisse il loro accesso agli enormi flussi di denaro disponibili per risollevare l’economia post-virus”.

È un filo rosso tra epoche che appaiono lontanissime. E invece, dice de Raho, “vedo una possibile analogia tra quanto accadeva negli anni Ottanta e oggi. Tra quello che comportò la ricostruzione post-sisma, con le collusioni che il bravo Siani ebbe il merito di vedere prima di altri, e ciò che rischia di accadere oggi in piena emergenza Covid”.

L’emergenza figlia della pandemia muove una massa imponente di miliardi. Eppure, invece di accendere alla massima potenza l’azione di contrasto, la politica sembra accantonare il problema. Fingere di non vederlo. Il Procuratore nazionale scuote la testa. “Il silenzio è assordante. Come se l’azione di contrasto, proprio oggi, fosse solo questione di arresti, processi e Tribunali. E non obbligasse, al contrario, a mettere in cima all’agenda la necessità primaria di proteggere le aziende sane e, contemporaneamente, di impedire con ferrei controlli la possibilità di arricchimento da parte delle organizzazioni criminali”.

 

video di 3.04 minuti del PROCURATORE CAFIERO DE RAHO

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Una storia che ritorna

 

Se il parallelo tra le due stagioni coglie nel segno, conviene allora ritornare a quel tempo. Ai primi anni Novanta. Quelli del grande salto.

Cafiero de Raho ha vissuto quell’epoca. Da giovane pubblico ministero divideva nell’antico Castel Capuano, nel centro storico di Napoli, una stanzetta minuscola e ingombra di fascicoli con il pm Armando D’Alterio. Federico sarebbe diventato il pioniere delle inchieste contro il gotha dei casalesi: la mafia campana che, con Bardellino, teorizzò e attuò l’approdo dei suoi ambasciatori, compresi avvocati e professionisti, nei luoghi apicali della politica. Armando si apprestava invece a sciogliere l’intricatissima matassa dell’omicidio Siani, arrivando a scoprire e far condannare killer e mandanti. Già, trentacinque anni e un mondo che è cambiato.

ll corpo senza vita di Giancarlo Siani riverso nella sua auto, in piazza Leonardo a Napoli

Niente più commando di killer che sparano all’impazzata. Lo Stato più forte. Almeno in strada. Ma nelle stanze che contano? Dice Cafiero de Raho: “Le mafie, oggi, offrono soprattutto servizi. Le imprese di ‘ndrangheta, di mafia, di camorra, elargiscono strumenti di formidabile potere: come quello delle false fatturazioni, ad esempio. È un “prodotto” che aggrega le imprese e consente alle mafie di tenere in pugno anche quella parte dell’economia che non ha un’origine criminale. È evidente che da quel momento in poi, il soggetto o l’impresa che ha ricevuto quel servizio resteranno impigliati e coinvolti, quasi costretti, a proseguire nel percorso dell’illegalità. Non solo su scala domestica”.

Le mafie cambiano, mentre gli anticorpi di politica e istituzioni si affievoliscono. “In un momento di grande sofferenza economica come questo, è indiscutibile la necessità di intervenire con verifiche e controlli per impedire che le imprese criminali continuino ad arricchirsi. E, anzi, a godere di un’eccezionale iniezione di capitali pubblici. Occorrono, ora, meccanismi di controllo che rendano più selettivi gli accessi”.

Il rischio esiste, è stato quasi in tempo reale sondato dagli analisti. Le segnalazioni di tentativi di inquinamento sono sul tavolo della Direzione nazionale antimafia. A cominciare dalla relazione semestrale della Dia.Che già a luglio sanciva la rischiosa “situazione di riduzione di liquidità finanziaria” che può “finire per compromettere l’azione di contenimento sociale che lo Stato, attraverso i propri presidi di assistenza, prevenzione e repressione ha finora, anche se a fatica, garantito”, generando problemi di ordine pubblico.

“Guai se adesso – ripete il procuratore nazionale antimafia – questi fondi si trasformassero in un’ulteriore occasione per gonfiare le casse di ‘ndrangheta, camorra e mafia. Lo Stato deve impedire che queste accedano non solo al credito, ma agli stessi finanziamenti. Certo, senza ritardare o vanificare il reale obiettivo di aiutare le imprese sane. Il grande lavoro che viene sviluppato dalla stessa Dna, con il nucleo speciale di polizia valutaria della Direzione investigativa antimafia, in materia di segnalazioni di operazioni sospette, consente un grandissimo controllo delle transazioni. Ma occorrerebbero anche ulteriori sistemi. Per una mafia che non è più quella che combatte sul territorio, ma che da ciascun territorio trae profitti e filiere economiche”.

Mafie che, dopo la pelle, cambiano teste. In una dinamica esattamente identica a quella intuita e raccontata da Giancarlo Siani nel momento stesso in cui il cambio di passo si stava producendo.

 

 

I protagonisti

 

Senza paura

 

“Giancarlo va ricordato senza retorica come un precursore, un eroe. Non solo per il nostro territorio o per la comunità dei giornalisti, ma io credo per il Paese”, osserva il procuratore nazionale.“È stato un ragazzo di straordinaria etica e passione civile. Che ha saputo cogliere le evoluzioni in corso nei territori che osservava e che ha raccontato all’opinione pubblica, dandole consapevolezza. Guardava alla de-industrializzazione del proprio territorio come ad una delle cause fondamentali per l’accrescimento e la forza delle mafie.

Indicava le collusioni di politica e imprese con la camorra, ad esempio nella gestione di tutti gli affari legati all’edilizia scolastica. Ecco perché, malgrado la sua giovanissima età, ho sempre pensato sia stato un maestro. Portava le notizie senza preoccuparsi dell’effetto che la loro pubblicazione avrebbe provocato nel modo di pensare e di agire delle organizzazioni criminali di allora”.

“I clan di allora – sottolinea Cafiero – non erano quelli di oggi. Oggi un clan è forte perché reinveste nell’economia. Una volta, era forte perché controllava il territorio con la forza delle armi, con gli omicidi. Le esecuzioni, i regolamenti di conti erano la normalità. Ma nonostante fosse consapevole di tutto questo, Giancarlo raccontava ciò che la società non voleva vedere”.

Viviamo un tempo purtroppo affine. “La ricostruzione post-sisma per la camorra è stata la vera e propria scuola dell’impresa edilizia.Non dimentichiamo che i clan sono stati i primi a creare il consorzio di calcestruzzo, delle cave, degli inerti. Il denaro degli appalti consentì alla Camorra di condizionare le attività economiche e politiche nei territori. È stato un momento di grande evoluzione: il primo vero salto di qualità. Così i vari Alfieri, Galasso, Bardellino, Nuvoletta, hanno guidato la trasformazione: sono stati loro i protagonisti del cambiamento”.

 

E la città del malessere, afflitta da tanti problemi, continua a portarsi dietro il «marchio» di città-violenta mortificando la parte sana e produttiva che si ribella invano”

Giancarlo Siani

 

 

 

Padrini anni ’80

 

Carmine Alfieri, classe 1943, padrino di Nola, redditi per 1500 miliardi di vecchie lire negli anni Ottanta, ha ammesso di essere il mandante materiale e morale di centinaia di azioni di sangue. Ha guidato la confederazione di clan Nuova Famiglia (Nf) capace, in pieni anni Ottanta, di muovere un esercito di quasi 8mila uomini contro la Nco (la Nuova camorra organizzata) di Raffaele Cutolo, l’acerrimo nemico del quale possedeva le stessi doti di ferocia e lungimiranza. Più una: cogliere l’opportunità della collaborazione con lo Stato, raccontando decenni di collusioni con la politica.

Pasquale Galasso, classe 1955, lo studente di Medicina che si fece mafioso, killer e capoclan di Scafati, di Alfieri è stato per quasi venti anni il braccio destro: vice per gli affari di morte, e soprattutto per le “relazioni istituzionali” con esponenti di spicco dei partiti, Democrazia cristiana in testa.

Antonio Bardellino (socio di Tommaso Buscetta), Carmine Alfieri (padrino di Nola) e Pasquale Galasso (killer e capoclan di Scafati)

Antonio Bardellino, classe ’45, socio in affari di Tommasino Buscetta, il fantasma della prima camorra imprenditrice. Della sua uccisione, raccontata da ciascun pentito in modo diverso, esiste solo una data presunta: 1988, a Rio de Janiero, vittima del figlio di un ex socio ammazzato. Ma nessuna certezza, né un corpo. Eppure è stato Bardellino a fondare l’impero dei casalesi e a immaginare che bisognava entrare nei palazzi di Roma.

Angelo Nuvoletta, il padrino ergastolano morto in carcere nel 2013, a 71 anni, è stato condannato in via definitiva come mandante dell’assassinio di Giancarlo. Era il referente di Totò Riina.

E’ nella loro tenuta di Poggio Vallesana, a Marano, “un pezzo della Corleone vincente in Campania” che fu organizzata la trappola per gli alleati che lo Zio siciliano, Totò Riina, voleva morti. I cinque furono accolti, cenarono, poi furono strangolati e sciolti nell’acido.

La strage di Torre Annunziata

 

Nuvoletta, Bardellino, Galasso, Alfieri. Sono i nomi dei padrini che tra gli anni Ottanta e Novanta hanno sconvolto la vita sociale ed economica con lutti, affari sporchi, violenze, cemento. E morti da esibire. Ad Alfieri e Bardellino è attribuita anche quella strage di cui Giancarlo scrisse a lungo.

Consumata in un mezzogiorno di una domenica estiva: il 26 agosto 1984.Un bus con la scritta “Gita turistica” – rubato solo qualche settimana prima in Calabria – si ferma accanto al Circolo dei pescatori di Torre Annunziata, dove ciondolano uomini del clan Gionta, ma anche ignari passanti. Salta giù un commando di 14 sicari, armati di fucili a pompa e mitragliatori AK-47 ed Uzi.

Sparano alla cieca, devono punire l’alleanza tra i Gionta e i Nuvoletta che sta estromettendo la stella Bardellino dai comuni del vesuviano per le attività economiche in espansione. Il capoclan Gionta si salva, scappa. A terra restano 8 morti e 7 feriti, tra cui alcuni innocenti.

È la rappresaglia più grave che si sia vista, dal dopoguerra. La Camorra è già cambiata. E quella strage è uno spartiacque. Anche per la vita di Giancarlo Siani. Che ne scriverà, con concretezza e onestà: “Due minuti di fuoco e terrore. Una strage. L’ultimo atto di una guerra scatenata dal clan della Camorra per distruggere l’impero di Valentino Gionta, boss incontrastato di Torre Annunziata e dell’area vesuviana“.Il coraggioso cronista non può sapere, né nessun altro sospetta, che chi sfidava a viso aperto istituzioni e pubblica incolumità, mettendo a rischio anche donne e bambini all’ora della messa, non avrebbe avuto remore a far fuori un giornalista. Quella spedizione di morte resterà impressa come la strage di Sant’Alessandro. Avviene solo tredici mesi prima dell’omicidio di Giancarlo.

E lui, esattamente un anno dopo quell’esplosione di fuoco criminale, torna a scriverne “Con la strage, l’attacco era decisivo e mirato a distruggere l’intero clan. Torre Annunziata diventa una zona che scotta. E Valentino Gionta un personaggio scomodo anche per gli stessi alleati. Un’ipotesi sulla quale stanno indagando gli inquirenti e che potrebbe segnare una svolta anche nelle alleanze della Nuova famiglia. Un accordo tra Bardellino e Nuvoletta avrebbe avuto come prezzo proprio l’eliminazione del boss di Torre Annunziata e una nuova distribuzione dei grossi interessi economici dell’area vesuviana“.

Angelo Nuvoletta (a sinistra) mandante dell’assassinio di Giancarlo Siani e referente di Totò Riina (a destra)

È il reportage che lo condannerà a morte. E proprio Nuvoletta sarà condannato all’ergastolo perché ritenuto mandante dell’omicidio del cronista. Quella pioggia di miliardi di lire che arrivò negli anni Ottanta dopo il terremoto dell’Irpinia consentì tutto questo.

E ora? Con il nuovo scenario e l’Europa – non aliena da infiltrazioni mafiose – che ci osserva?

“Credo che oggi sulla base delle esperienze del passato, bisognerebbe che la politica facesse molto di più – esorta Cafiero de Raho – Non mi riferisco tanto alla normativa: l’Italia ha le migliori leggi antimafia, e, anzi, sono gli altri Paesi a doversi adeguare alla nostra legislazione antimafia. Mi riferisco invece al discorso pubblico. Sarebbe importante, ad esempio, in un momento come questo, sostenere che il problema numero uno è quello dell’azione antimafia.

L’impresa sana si aspetta questa condivisione, perché ha esigenza di protezione. E la politica deve perseguire gli interessi superiori della comunità: tra i primi, c’è l’eliminazione delle mafie. Anche una dichiarazione ribadita in premessa ad un provvedimento economico darebbe il senso di una consapevolezza. Ma questo non lo vedo”.

La criminalità, la corruzione non si combattono soltanto con i carabinieri. Le persone per scegliere devono sapere, devono conoscere i fatti. E allora quello che un giornalista “giornalista” dovrebbe fare è questo: informare”

Giancarlo Siani  

“Mio fratello”

Il fiume di studenti attraversava il centro della città sotto gli occhi di automobilisti intrappolati nel traffico, passanti distratti, negozianti assorti. Scandivano slogan contro la Camorra e, battendo le mani, si rivolgevano a chi li guardava dai balconi sotto il sole di un appiccicoso autunno napoletano: “Gente, gente, gente, non state lì a guardare. Scendete nelle piazze, venite a protestare”.

Qualche giorno prima, il 23 settembre del 1985, avevano ammazzato Giancarlo Siani. “Quella manifestazione rappresentò un momento molto commovente, che diede una spinta molto forte alle indagini”, ricorda Paolo Siani, il fratello del cronista abusivo (“oggi si direbbe precario”, sottolinea) che da allora non ha smesso di andare in giro a parlare di legalità nel nome di Giancarlo.

“All’inizio fu molto difficile. Quando provavo a organizzare eventi nelle scuole, trovavo presidi che mi rispondevano stupiti, scettici. ‘D’accordo, ma questo che c’entra con noi?’, mi chiedeva qualcuno.

Ora invece questo non succede più. E devo dire grazie ad altri presidi e altri insegnanti che invece ci hanno aperto le porte dei loro istituti, ci hanno dato la possibilità di parlare ai loro studenti di Giancarlo, della camorra, delle vittime.

Quella sensibilità che 35 anni fa non c’era, l’abbiamo costruita.Adesso ricevo così tanti inviti che non so come fare per onorarli tutti. I ragazzi non solo leggono gli articoli di Giancarlo, ma li studiano, ne parlano”.

Eppure, 35 anni dopo, qualcosa sembra esserci inceppato. La lotta alle mafie non è più percepita come una priorità.

 

VIDEO, 3.06 — PARLA CARLO SIANI, IL FRATELLO

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L’identità smarrita

 

“È venuto meno il tratto identitario antimafia di alcune forze politiche”, ragiona Isaia Sales, saggista e studioso dei fenomeni criminali. E spiega: “Oggi l’opinione pubblica è di sicuro più attenta rispetto a quando fu ucciso Giancarlo Siani. Inoltre, sono stati compiuti passi in avanti straordinari dal punto di vista della repressione con arresti e processi. Non a caso, il movimento antimafia si è sviluppato quando si aveva la sensazione che le istituzioni non facessero fino in fondo la loro parte nel contrasto alle cosche malavitose. Un calo di tensione nei momenti in cui la repressione è più forte ci può anche stare”.

“Quello che invece appare oggi meno attento al confine tra illegale criminale è proprio il mondo politico.

Lo stesso Pd ha una posizione opaca. Un tempo, la sinistra aveva nella sua carta di identità, nella sua agenda, la lotta alla mafia. Se eri comunista, eri contro la criminalità organizzata in tutte le sue forme. Ecco, adesso sono venute meno proprio alcune forze progressiste, a cominciare dal Pd. Oggi non fa troppa differenza se uno appartiene a un ambiente oppure a un altro. Assistiamo, anzi, al reclutamento di personaggi di confine oppure a condannati per corruzione che collaborano alla compilazione delle liste”.

Anche per don Luigi Ciotti, che con l’associazione

Libera rappresenta un pezzo di storia del movimento antimafia in Italia, la sensibilità dell’opinione pubblica sul tema della criminalità organizzata “è cresciuta quantitativamente ma non sempre qualitativamente. Oggi le mafie sono una realtà innegabile, diffusa dovunque in Italia e nel mondo, mentre negli anni Ottanta c’era ancora chi ne sottovalutava o negava l’esistenza. Quest’importante presa di coscienza manca però spesso della qualità e profondità necessarie”. 
“Permane ancora, riguardo alle mafie, un paradigma sorpassato, non più in grado di coglierne i mutamenti, di capire quanto il fenomeno mafioso sia penetrato, fino a diventarne parte organica, in un più generale sistema ‘ingiusto alla radice’, per usare le parole con cui Papa Francesco ha definito il modello economico neoliberista, un modello che con le sue zone d’ombra e il suo disprezzo delle regole ha favorito enormemente la diffusione delle mafie nel mondo e nel nostro Paese”.
Don Luigi Ciotti guida l’associazione antimafia Libera
Secondo don Ciotti “il calo d’attenzione è direttamente proporzionale all’ignoranza o alla semplificazione del fenomeno.Occorre un nuovo sguardo, un nuovo paradigma, al di là dell’ammirevole azione repressiva dei magistrati e delle forze di polizia. Da anni vado ripetendo che le mafie non sono più un ‘mondo a parte’ ma parte di questo mondo“.
Per il fondatore di Libera “non si tratta di fare graduatorie, tantomeno liste dei buoni e dei cattivi. La società e la politica siamo noi: la politica è nostra espressione e la qualità della classe politica dipende anche dalle scelte dei cittadini e dalla loro capacità di esigere dalla politica politiche al servizio del bene comune”.
“Chi non ha questa consapevolezza non avverte la responsabilità dell’essere cittadini che ci assegna la Costituzione, e diventa facile preda dei demagoghi e dei manipolatori che seducono le piazze con gli slogan facili dell’antipolitica. La deriva personalistica della politica – nel nostro Paese e non solo – è il segno di una democrazia malata, dove la delega ha preso il posto della responsabilità”.

 

 

La “mafia di massa”

 

Medico pediatra, dal 2018 Paolo Siani è in Parlamento, eletto deputato come indipendente nelle liste del Pd. “Ero molto scettico sull’opportunità di accettare la candidatura. Avevo rifiutato un sacco di volte. Poi è scattata la molla. Mi sono detto che era arrivato il momento giusto per entrare in quel palazzo”.Anche Siani avverte un calo di tensione, dentro e fuori i palazzi della politica.

“Le spiegazioni sono diverse. È sicuramente un momento di stanchezza. Inoltre, le organizzazioni criminali sparano meno e questo fa ritenere che non ci siano più. Invece sono più vive che mai. Per questo bisogna parlarne. Io stesso mi sono arrabbiato quando si tardava ad istituire la commissione Antimafia. Ma qualcosa si muove. Il 21 marzo scorso ero in aula, alla Camera. Era la giornata nazionale della memoria delle vittime innocenti delle mafie.  D’accordo con il presidente Fico, pensai che anche il Parlamento dovesse fare qualcosa per ricordarle. Così presi la parola e iniziai a pronunciare i nomi: Piersanti Mattarella, Giancarlo Siani, Giovanni Falcone. All’inizio non tutti capirono. Poi partì un primo applauso e tutti si alzarono in piedi. L’aula di Montecitorio stava tributando un omaggio alle vittime delle mafie. Pensai a Giancarlo, al tempo che era passato, a come sarebbe oggi. Ero emozionato. Lo sono ancora adesso”.

 

 

Il murale dedicato a Siani è stato realizzato dagli Orticanoodles, street artisti di fama internazionale. Inaugurato il 23 settembre 2016 di fronte allo stabile in cui Giancarlo è nato e cresciuto in via Vincenzo Romaniello a Napoli

 

 

Intanto le mafie hanno cambiato più volte pelle, in questi anni. “Assistiamo a un cambio di gerarchia – argomenta Sales – Prima, se dicevi mafia, pensavi a Cosa nostra e alla Sicilia. Oggi, invece, bisogna guardare soprattutto alla camorra e alla ‘ndrangheta. Due forme criminali storicamente sottovalutate, ritenute la prima una malavita urbana, la seconda banditesca, che invece oggi si sono dimostrate una specie più adatta alla sopravvivenza. E mi spiego: il modello piramidale di Cosa nostra si è rivelato un limite, perché quando il capo viene abbattuto, arrestato, la successione poi è più complicata”.

“Non avere una cupola, per la camorra, è diventato un vantaggio: la sua struttura a rete ha mostrato, con i fatti, di essere più capace di rispondere alla repressione pur straordinaria di questi anni. E se andiamo ancora più a fondo, ci accorgiamo di come la camorra sia a tutti gli effetti, e non da oggi, una mafia di massa, non di élite. Ha il più alto numero di vittime, di arresti, di collaboratori di giustizia. Nella sua evoluzione, si sono unite due caratteristiche: alla matrice gangsteristica si affianca la capacità di sfondare il muro del rapporto con la borghesia e con le professioni”.

Nella interpretazione di don Ciotti, “una delle chiavi per analizzare oggi il fenomeno mafioso è il concetto di ‘area grigia’, cioè di commistione di legale e illegale, frutto avvelenato di una progressiva ‘mafiosizzazione’ della società. Perché il punto è proprio questo: al di là della diversità dei metodi – cioè dell’uso più o meno diretto della violenza – si sono creati molteplici punti di contatto e convergenza tra le logiche del profitto finanziario e il metodo mafioso”.

 “Gli obbiettivi, del resto, sono gli stessi: accumulazione di denaro e potere senza alcuna attenzione per il bene comune e dunque lo sviluppo sociale. Da qui, inevitabile, il dilagare della corruzione e il minore ricorso alle armi: con i soldi si ottengono profitti anche maggiori e al tempo stesso si desta minore allarme sociale. In questo scenario l’equazione secondo cui c’è mafia dove c’è un fatto di sangue è da superare. Da molto tempo non è più così. Le nuove mafie sono ‘imprenditoriali’, flessibili, capaci di costituirsi in network per diffondere il più possibile il loro raggio di azione. Sono mafie che sparano meno non per sopraggiunti scrupoli morali, ma perché, semplicemente, non gli conviene: col denaro e con la corruzione ottengono quello che prima ottenevano con la violenza diretta e con le armi”.

 

Un inizio e una fine

 

Giovanni Falcone diceva che le mafie sono un fenomeno umano e dunque hanno un inizio e una fine e quello del magistrato ucciso a Capaci, assicura don Ciotti, “non era solo un sogno, il suo. Del resto Falcone era un utopista vero, di quelli che l’utopia non si limitano a sognarla ma la costruiscono giorno dopo giorno, tenacemente. Anch’io, nel mio piccolo, continuo a pensare che le mafie avranno una fine, come ogni fenomeno umano. Ma vedendo quello che è accaduto da Capaci in poi, aggiungerei oggi alle parole di Falcone una piccola chiosa: è vero che le mafie non sono invincibili perché sono un fenomeno umano. Ma per sconfiggerle dobbiamo imparare tutti a essere più giusti e più responsabili. Dunque, più umani”.

Proprio le indagini sull’omicidio di Giancarlo Siani, commenta il fratello Paolo, dimostrano che “quando magistratura e società civile stanno insieme, sono una forza imbattibile”.

Giovanni Falcone, magistrato ucciso da Cosa Nostra

Per Sales, “rispetto a 30-40 anni fa possiamo tranquillamente rispondere che Falcone aveva ragione. Le mafie possono essere sconfitte. Lo Stato ha dimostrato di essere in grado di opporsi alla forma armata della criminalità organizzata. Non è stato invece in grado di bloccarne adeguatamente la penetrazione nell’economia, che resta una delle attività più opache, dove questi mondi si incontrano. Il problema è solo di volontà. Se tutti i soggetti interessati si impegnassero in una battaglia di annientamento e in una battaglia di riduzione, si raggiungerebbe l’obiettivo. Mi riferisco a magistrati, pubblica opinione, naturalmente la politica. Che purtroppo sembra ancora quella più sorda”.

È essenziale però coinvolgere i giovani,come quelli che marciarono dopo l’omicidio Siani. “I giovani sono naturalmente aperti alla vita e dunque affamati di futuro – annuisce don Ciotti – Non si dica però, come vuole la retorica ufficiale, che sono il nostro futuro: sono il nostro presente. Un giovane chiede qui e ora di mettersi in gioco, di poter offrire alla sua fame di vita orizzonti più vasti di quelli dell’io, con tutti i corrispettivi idoli della società del consumo: il “successo”, la “fama”, la “ricchezza”.

Un giovane va accompagnato ma non “condotto”: ecco la differenza tra l’essere educatori e l’essere seduttori. E va ascoltato nei suoi dubbi, nelle sue domande: a un giovane non basta sapere che le cose esistono, vuole sapere perché esistono. Se ci si avvicina ai giovani e ai giovanissimi con questo atteggiamento e questa umiltà, la risposta, lo dico per esperienza, è sempre straordinaria. Poi ovviamente bisogna non fermarsi alle parole, occorre dare ai giovani gli strumenti e le opportunità per realizzare i loro talenti e le loro passioni”.

Giancarlo Siani con la fidanzata Daniela Rossignaud

Quel talento e quella passione che Giancarlo Siani, a bordo della sua Mehari verde, aveva messo al servizio della notizia e che la camorra gli ha impedito sviluppare fino in fondo. “Chi sarebbe oggi Giancarlo? Che cosa sarebbe diventato, se non lo avessero ucciso? Di tanto in tanto mi pongo anche io questa domanda – ammette Paolo – E ogni volta mi viene da piangere. Secondo me era un grande giornalista. Con il suo omicidio, la società ha perso un’intelligenza, un capitale umano di grande valore e dunque un’opportunità. A me, invece, hanno tolto un fratello. E mi manca ogni giorno”.

 

 

“La stampa addosso. Giancarlo Siani, la vera storia dell’inchiesta”di Armando D’Alterio

L’omicidio di Giancarlo Siani fu dirompente, il primo salto di qualità della camorra campana. All’epoca faceva ancora scalpore, come esempio di inaudita ferocia, la circostanza che un capoclan di Forcella avesse mandato suoi accoliti a tagliare un dito ad un biscazziere. Era responsabile di avere, con quel dito, indicato la porta di uscita ad un protetto del clan che aveva voluto cacciare dal proprio locale. La mano gli era stata bloccata su di un tavolo mentre il calcio di una Beretta calibro 9 piombava a mannaia sul coltello che incrociava il dito indice dello sventurato.Non c’era poi soltanto lo shock per gli omicidi Turatello e Vangone. Impressionavano ancora la testa mozzata, le mani mutilate ed il cuore estirpato di Giacomo Frattini, alias “Bambulella”, cutoliano, il cui massacro era stato rivendicato dagli uomini della “Nuova famiglia” con un volantino in stile “Brigate rosse”. Sconvolgeva l’analogo trattamento inflitto ad Aldo Semerari, colpevole di aver aiutato Cutolo con una perizia che ne attestava falsamente l’insanità mentale.Eppure, tutto era nulla a confronto dell’immagine di Giancarlo Siani con il capo riverso nel fuoristrada, il 23 settembre del 1985. Devo spiegare perché? Otto anni dopo, nel ’93, avevo la foto di Giancarlo nel portafogli. Quando la Cassazione confermò le condanne, la rimettemmo nel vecchio fascicolo da cui l’avevamo presa. Vita da pubblico ministero e da investigatori significa anche caricarsi con gesti simbolici. Facile definirli ingenui, a posteriori. Ma forse adeguati rispetto alla rilevanza del delitto. L’omicidio di Siani si inserisce infatti nella storia di questo Paese. È un fatto storico per la sua genesi, che si ricollega a dinamiche e strategie criminali emblematiche dell’epoca.Per le conseguenze rilevanti che produsse. Per i profili sociologici che chiama in causa. Siani fu ucciso anche perché all’epoca appariva come l’esponente di una minoranza non silenziosa, che incideva nella pubblica informazione, con la sua professionalità, il suo disinteresse, il rigore che lo rendeva non ricattabile, la capacità di fare giornalismo d’inchiesta, cioè d’iniziativa, dando impulso all’azione giudiziaria. E tuttavia, tornando al giorno d’oggi, non va condivisa la critica al giornalismo giudiziario, che gli imputa ora di non essere più “giornalismo d’inchiesta” ma giornalismo “sulle inchieste” nel senso che non anticiperebbe, né si spingerebbe oltre le indagini della magistratura, ma ne darebbe mero resoconto. Il giornalismo d’inchiesta può esplicarsi in modo del tutto autonomo essenzialmente quando magistratura e forze dell’ordine attraversano momenti d’inerzia.Quando si muovono, come accade da oltre trent’anni, è giocoforza che si restringano, senza annullarsi è ovvio, gli spazi per il giornalismo d’inchiesta, i cui strumenti di accertamento dei fatti non possono essere altrettanto penetranti. (…). Tornando a Siani: la spinta che realizzava poteva produrre conseguenze pericolosissime per la criminalità. Aveva capito, vista l’evidenza e gravità del fenomeno, la pericolosità della commistione tra politica e mafia, all’epoca in larga parte misconosciuta. Poi scoperta dalle indagini. Ma Giancarlo seguiva tutto in diretta.Poteva farlo grazie alla sua attività pervasiva, che non si rivolgeva soltanto verso i nomi noti del clan, ma anche verso gli imprenditori riciclatori. Quelli che, secondo Gabriele Donnarumma, ne istigavano l’omicidio perché temevano di “perdere tutto”. Come riferito concordemente da collaboratori da opposte sponde, privi di qualsiasi collegamento (Donnarumma appunto, dal clan Gionta, Antonio Tarallo dal clan Limelli) lui indagava sui lavori relativi al depuratore Consarno, per i quali noi scopriamo – nove anni dopo – che venivano pagati 15 milioni al mese, versati a Pasquale Gallo, all’epoca esponente di spicco del clan Gionta.Analizzava il progetto di recupero del cosiddetto Quadrilatero delle carceri a Torre Annunziata, l’agglomerato urbano in cui si erge palazzo Fienga sul quale, anche per questo, si appuntavano le avidità tangentizie di politici, funzionari e camorristi. Recupero per il quale, ai fini dell’approvazione dell’appalto, si spendeva un avvocato venuto da Roma. Sempre da Roma, un sottosegretario alle Finanze, Antonio Carpino, raggiungeva Torre Annunziata per incontrare gli elettori preferiti, cioè Valentino Gionta e la sua corte, per rassicurare che lui sapeva bene quanto vitale fosse per quelle famiglie il contrabbando di sigarette.Lui, il sottosegretario alle Finanze che avrebbe dovuto sollecitarne la più severa repressione! Non a caso, dopo l’omicidio, i rapporti del clan Gionta con i politici si interrompevano, per l’impatto del delitto sulla pubblica opinione e sulla repressione criminale. Ma non s’interrompeva la corruzione, semplicemente Luigi Limelli si sostituiva a Valentino Gionta, e Antonio Tarallo a Eduardo Di Ronza, per fungere da intermediario con politici ed amministratori corrotti. Sempre gli stessi, con al centro le figure dei tre sindaci che arrestammo nell’inchiesta, e la loro corte di consiglieri comunali, assessori, imprenditori e professionisti collusi.Poi il clan Gionta, qualche anno dopo, terminata la prima onda di rivalsa dopo l’omicidio, tornava in sella, con Salvatore Migliorino al posto dello screditato e bruciato Eduardo Di Ronza, cui veniva rimproverata non solo la rottura dell’omertà mafiosa, ma anche la pubblicizzazione dei rapporti con i politici, che rischiava di far saltare il sistema criminale. Ricominciava il flusso di tangenti, a politici e camorristi, di importi stratosferici, in cui miliardi di lire, illecitamente erogati in anticipo per lavori che si sapeva che non sarebbero mai stati fatti, venivano direttamente smistati ai politici ed alla camorra.Nemmeno la ristrutturazione della chiesa dell’Annunziata sfuggiva alle tangenti pagate per ottenere, da parte dell’impresa appaltatrice, la semplice liquidazione degli stati di avanzamento dei lavori effettivamente realizzati. (…). Assessori alle finanze, assessori all’edilizia scolastica ed alla pubblica istruzione, ai lavori pubblici, allo sport, consiglieri comunali, componenti di commissioni di gara d’appalto, capigruppo di partiti presenti nel consiglio comunale di Torre Annunziata, componenti dell’Avvocatura generale, della Segreteria e della Ragioneria generale del Comune di Torre Annunziata, imprenditori di rango collusi, imprenditori prima estorti e poi collusi, costituivano un team operativo su base pluriennale al quale Giancarlo non dava tregua, anticipando le acquisizioni giudiziarie raccolte nelle nostre successive indagini. Il sistema rendeva inadeguato persino il termine classico di “infiltrazione camorristica”.Il crimine non doveva infiltrarsi in nulla perché si identificava con il tutto, governava in assoluto l’amministrazione, gli appalti, il controllo del voto espressamente pattuito per una quaterna di candidati al consiglio comunale di fiducia del sindaco dell’epoca, poi consigliere comunale durante la nostra indagine, ma ancora saldamente al comando della squadra come ai tempi in cui a lui si interessava Giancarlo. Dunque Siani era riuscito a penetrare da estraneo e da estraneo integerrimo, gli “arcana imperii” di un sistema in cui era totale il governo della camorra e di una politica che la gestiva su base paritaria. Quel “corpo criminale” era in equilibrio perfetto, l’anomalia da rigettare era Giancarlo.E Giancarlo fu rigettato e con lui, momentaneamente, la speranza degli uomini onesti. Finiti i soldi della ricostruzione post-sisma, con la disoccupazione alle stelle, i bilanci comunali disastrati per le spese destinate agli appalti distribuite a vuoto a politici e camorristi, restava solo una città allo stremo, con le imprese prima sane ora in bancarotta, i capitali fuggiti all’estero, persino i soldi dei camorristi e dei politici, rubati alla collettività, messi al sicuro in investimenti oltralpe. L’amministrazione comunale veniva infine sciolta e commissariata dallo Stato. Anche il commissariamento dava ragione a Giancarlo che a quell’amministrazione si era opposto da sempre. Poteva farlo perché era animato da un impegno etico e civile straordinari.La mafia – perché le organizzazioni camorristiche coinvolte non solo erano affiliate a Cosa nostra siciliana, ma pensavano ed agivano secondo i codici di comportamento mafiosi – vedeva lontano quando lo individuava come bersaglio. E dunque Siani è stato uno dei precursori del nuovo giornalismo, che ha prodotto epigoni, anche sull’onda dell’elevazione della qualità delle indagini nel tempo. Già questo consente di affermare il valore storico della sua azione e del delitto che lo ha fermato. E poi, ancora sul piano causale: il delitto Siani ha prodotto numerosi depistaggi, ha influenzato le carriere di magistrati, ha prodotto un intenso impegno giornalistico sulla vicenda, non acritico rispetto all’azione di inquirenti, ha contribuito a sviluppare una più intensa azione della stampa sul panorama del contrasto della criminalità.Ha scosso cittadini ed inquirenti, che capirono come le collusioni fra politica e camorra riguardassero tutti e ponessero in gioco la stessa sopravvivenza della società. Ha condotto il sistema giudiziario ad un accertamento definitivo dei fatti. Perciò è evidente che l’omicidio sia un fatto provvisto di dignità storica. Lo è infine sotto il profilo dell’orientamento delle strategie criminali. Come ho anticipato, dal punto di vista della mafia siciliana, penso che si inserisca nella prima strategia stragista di Cosa nostra.Secondo recenti notizie di stampa due dei condannati definitivi come esecutori dell’omicidio di Giancarlo avrebbero ricevuto in questi anni cospicue “mesate”, un flusso di sovvenzioni costante per trentacinque anni, tanti quanti trascorsi dall’omicidio ad oggi, da parte dei clan di Marano di Napoli. Che proverrebbero dagli stessi ambiti geo-criminali dell’omicidio di Giancarlo, raggiungendo ormai importi eccezionali. Niente di nuovo, apparentemente, ma l’importante conferma della pervicacia e solidità del “welfare criminale” su cui si appuntava l’analisi di Giancarlo. Era la capacità di sostegno interno che aveva già caratterizzato, con le rimesse ai detenuti, i primi clan camorristici.* il testo è tratto dal libro in edicola con l’edizione napoletana di Repubblica il 21 settembre

 

 

L’altro “contagio”

Dice il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris: “Sta arrivando il contagio criminale perché sta arrivando un fiume di denaro pubblico come l’Italia non aveva mai visto dal dopoguerra a oggi. Ma non vedo consapevolezza del pericolo nel governo, nei ministri. Sembra quasi un argomento da addetti ai lavori. Serve una grande azione preventiva e di intelligence”.

Anche de Magistris, dunque, denuncia l’insidia nascosta dell’emergenza Covid. Il numero degli omicidi in città durante il lockdown è drasticamente calato, così come le “stese”, le sparatorie in strada di ragazzi a bordo di scooter, per affermare la supremazia sul territorio. Ma il fatto che la violenza sia meno evidente non significa nulla. Al contrario. Le mafie sono già al lavoro. Vogliono approfittare della spaventosa crisi dell’economia per entrare con forza ancora maggiore nella struttura economica del Paese, grazie al silenzio o, peggio, alla complicità delle istituzioni.

Luigi De Magistris, sindaco di Napoli

Questo pensa de Magistris. Ed è convinto che ci sia un calo di tensione nella lotta alla criminalità e una disattenzione della politica, anche a Napoli. “Sono stato – dice – uno di quelli che, in questi mesi, ha maggiormente rilanciato il tema. Accanto ai devastanti effetti della pandemia, è concreto, diffuso e pervasivo il rischio di un contagio criminale. Si avverte un calo della tensione morale sul tema del crimine, e del crimine organizzato in particolare. E contribuisce a questa situazione il crollo di credibilità della magistratura, che vive forse il suo momento più opaco. Ciò mette obbiettivamente in difficoltà la controffensiva dello Stato. Sono molto preoccupato di quello che ci aspetta nei prossimi mesi. La desertificazione delle città, non parlo solo di Napoli, produce da un lato un avanzamento del crimine nella sua forma tradizionale, cioè l’occupazione di spazi attraverso le estorsioni, le sparatorie, lo spaccio; dall’altro alimenta l’usura: la criminalità si mostra con il volto di chi ti aiuta, ma in realtà ti sta rendendo schiavo. La capacità delle organizzazioni mafiose di immettere liquidità in tutto il comparto delle attività produttive, può addirittura modificare il tessuto economico del nostro Paese”.

Sull’incombente pericolo, il sindaco di Napoli vede “una sottovalutazione enorme”. Anche nel versante della politica e delle possibili infiltrazioni malavitose. “Soprattutto in tempi di voto – riflette, anche nella veste di ex magistrato – le mafie vanno alla ricerca del consenso sociale. In questo momento lo stanno acquisendo, perché si mostrano come quelli che certe volte sostituiscono lo Stato nei momenti di estrema difficoltà come la pandemia”.

De Magistris polemizza con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, facendo espresso riferimento alle scarcerazioni dei boss in seguito all’emergenza Covid. “Credo ci sia anche una inadeguatezza a livelli governativi ad affrontare in modo forte, autorevole e carismatico un tema così delicato. Lo stesso ministro Bonafede l’ha dimostrato”.

Il riferimento è “ad alcune situazioni che hanno caratterizzato negli ultimi tempi la magistratura, ma anche forze di polizia: penso alla scandalo della caserma di Piacenza, una cosa devastante, ma anche al caso Palamara, vicende che mostrano una rete di opacità diffusa sul piano nazionale”.

Quale collegamento c’è con il rischio criminale dovuto all’emergenza Covid?

“Il cittadino – risponde il sindaco di Napoli – si smarrisce, perde fiducia nei confronti di chi invece dovrebbe infonderti coraggio. Se vuoi denunciare un crimine, un’estorsione, il reato di un colletto bianco, una rete di collusioni criminali che operano sul territorio nazionale, con quale animo puoi farlo?”. La conclusione è che “c’è un arretramento complessivo del Paese nel contrasto alle forme più insidiose di criminalità organizzata”.

Napoli, 21 settembre 2015: la Mehari di Giancarlo Siani viene fatta sfilare per le strade di Torre Annunziata in ricordo del giovane cronista de il Mattino, ucciso trent’anni prima

Quanto a Napoli, aggiunge, “ho apprezzato la reazione della città questa estate. È più viva. C’è stata una bella risposta. Ho visto funzionare le attività economiche. Però sono molto allarmato per gli spazi, che possono conquistare la camorra e il crimine. La paura, il rinchiudersi in casa, rischiano di favorire l’occupazione del territorio. A Napoli mi preoccupano molto l’usura e l’infiltrazione nelle attività commerciali e produttive. Qui, in tutto il Sud, occorre un livello di allerta molto alto da parte di tutti, comprese le categorie che rappresentano il mondo economico, il Comune, la prefettura, le forze di polizia, la magistratura.

Serve una grande operazione preventiva di intelligence, oltre che repressiva. Bisogna saper leggere per tempo quello che velocemente può accadere nei nostri territori. La camorra come tutte le mafie ha ingente liquidità: non devono presentare domande in carta da bollo, agiscono in maniera rapida ed efficace”.

Naturalmente non c’è solo Napoli. “Sono molto preoccupato soprattutto sul piano nazionale. Forse, in una crisi così devastante il rischio perfino maggiore è da Roma in su, perché sanno soffrire di meno e non sono abituati a non aver turisti, al crollo delle attività commerciali. Qui c’è più resilienza. Al Sud abbiamo costruito una classe dirigente sensibile ai temi delle mafie. Forse al Nord non sempre è così, c’è un po’ meno conoscenza, un po’ meno preparazione”.

“Detto questo, andrebbe aperta una grande campagna di sensibilizzazione. Bisogna preservare il Paese dal contagio criminale. Arriverà un fiume di denaro pubblico che l’Italia non ha mai visto. Vogliamo aprire un dibattito su come verrà gestito? O ci ritroveremo un domani a discutere di come sono state gestite le stagioni commissariali che ben conosciamo nel nostro Paese nel corso degli ultimi trent’anni? Ci vuole più competenza, professionalità e una spinta etica. Non mi sembra che si stia mettendo in campo una macchina da guerra”.

Puoi cadere migliaia di volte nella vita, ma se sei realmente libero nei pensieri, nel cuore e se possiedi l’animo del saggio potrai cadere anche infinite volte nel percorso della tua vita, ma non lo farai mai in ginocchio, sempre in piedi”

Giancarlo Siani

 

La stampa addosso - Giancarlo Siani - La vera storia dell’inchiesta

La stampa addosso – Giancarlo Siani – La vera storia dell’inchiesta” e il titolo del libro del magistrato Armando D’Alterio, che ‘Repubblica’ darà gratuitamente ai suoi lettori dell’edizione di Napoli lunedì 21 settembre, in abbinamento con il giornale, nel 35esimo anniversario dell’omicidio. Un volume di 286 pagine, un romanzo-verità firmato da D’Alterio, che nella veste di pm con la sua indagine rese possibile la condanna all’ergastolo di assassini e mandanti. Il libro di D’Alterio, edito da Repubblica nella speciale collana Novanta-Venti nata in occasione del trentennale della nostra redazione napoletana, è realizzato in collaborazione con l’editore Guida e ha la prefazione del direttore Maurizio Molinari. Il volume è a cura di Ottavio Ragone e Conchita Sannino.

Il libro è nato grazie alla Fondazione antimafia “Polis” di don Tonino Palmese; al centro Ascender di Geppino Fiorenza; alla cooperativa sociale Less; al sostegno dell’università Federico II di Napoli con il rettore Arturo De Vivo; del teatro San Carlo con il soprintendente Stéphane Lissner; dello Stabile Mercadante con il direttore artistico Roberto Andò; degli imprenditori Antimo Caputo (Molini Caputo), Luciano Cimmino (Yamamay) e Francesco Tavassi (Gls Napoli).

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1 risposta a CARLO BONINI, OTTAVIO RAGONE, DARIO DEL PORTO, CONCHITA SANNINO :: Inchiesta su cosa resta dell’eredità di un giornalista trucidato dalla Camorra e di una stagione di lotta alle mafie — REPUBBLICA 17 SETTEMBRE 2020

  1. Donatella scrive:

    La lotta alle imprese criminali è come la lotta alla pandemia. Penso che chi agisce nel campo economico, dalla piccola alla grande impresa, sia esposto al ricatto del malaffare, che ha sempre grande liquidità a disposizione. Occorrerebbe, in vista dei miliardi europei, una grande campagna contro la criminalità organizzata. I momenti difficili si superano anche grazie ad una grande mobilitazione morale, cercando di affidare alle nuove generazioni un Paese più onesto e più giusto.-

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