+++ LORENZO TROMBETTA : Gli “accordi di Abramo” e la caduta del tabù palestinese – LIMES ONLINE — 17 SETTEMBRE 2020

 

 

 

LIMES ONLINE — 17 SETTEMBRE 2020

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Gli “accordi di Abramo” e la caduta del tabù palestinese

 

Carta di Laura Canali - 2018

Carta di Laura Canali – 2018.

 

 17/09/2020

La normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein apre opportunità per tutti gli attori coinvolti. Anche in modo indiretto, come l’Arabia Saudita. Sullo sfondo, la minaccia di Turchia e Iran e i potenziali affari.

 

di Lorenzo Trombetta

MOHAMMED BIN SALMAN, ARTICOLI, LO STRILLONE DI BEIRUT – RASSEGNA SUL E DAL MEDIO ORIENTE E DAL NORD AFRICA, ISRAELE, EMIRATI ARABI UNITI, BAHREIN, USA, TURCHIA, IRAN, ARABIA SAUDITA, GOLFO PERSICO / ARABICO, QATAR, PALESTINA, MEDIO ORIENTE

 

 

Dopo Egitto e Giordania, altri due paesi arabi – gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein – hanno normalizzato i rapporti con Israele, sullo sfondo di una cornice (gli “accordi di Abramo”) costruita dall’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump.

Non si tratta di “fare la pace” tra “arabi” e israeliani, anche perché questi paesi non sono mai stati in guerra tra loro. Né si è aperta nessuna nuova pagina in Medio Oriente – come ha annunciato Trump – perché nei fatti questa normalizzazione è realtà da quasi un decennio. Eppure si tratta di uno sviluppo strategico importante, che avviene un anno dopo l’attacco alle strutture petrolifere dell’Aramco (14 settembre 2019), attribuito all’Iran ma rivendicato dagli insorti huthi yemeniti.

Gli “accordi di Abramo” non nascono dal nulla, alla base c’è una convergenza tattica tra gli interessi degli attori coinvolti – direttamente e indirettamente – nei negoziati che hanno portato alla sigla dell’intesa nei giorni scorsi. I paesi arabi del Golfo, Qatar e Oman inclusi, coltivano da anni, dietro le quinte o in maniera semi-formale, relazioni economico-finanziarie, d’intelligence e di sicurezza con Israele.

 

Nel 2015 gli Emirati hanno concesso allo Stato ebraico di stabilire una rappresentanza diplomatica presso l’Agenzia internazionale per l’energia rinnovabile con sede ad Abu Dhabi. Assieme all’Egitto, il Qatar è da anni il principale mediatore tra Hamas e Israele.

Nel 2018 l’Oman ha ricevuto formalmente il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Nello stesso anno, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman aveva affermato in una intervista che gli israeliani “hanno diritto ad avere una loro terra” e che l’Arabia Saudita “non ha problemi con gli ebrei”. Dichiarazioni non banali nel contesto arabo-islamico contemporaneo, soprattutto se rilasciate da colui che si appresta a guidare il regno del Golfo.

Sempre nel 2018, il ministro degli esteri del Bahrein Khaled ben Ahmad Al Khalifa si era spinto addirittura a prendere le parti di Israele contro l’Iran. Commentando l’ennesimo raid aereo in Siria attribuito all’Aeronautica dello Stato ebraico contro presunte basi militari iraniane, affermò che “Israele ha diritto di difendersi e di eliminare le fonti di pericolo”.

 

 

 

Carta di Laura Canali - 2020

Carta di Laura Canali – 2020

 

 

 

 

La lista di aperture retoriche e di fatto compiute negli anni scorsi da parte dei paesi arabi del Golfo nei confronti di Israele è lunga. E non è sufficiente menzionare la comune percezione della minaccia iraniana per spiegare il graduale avvicinamento tra lo Stato ebraico e questi emirati, sultanati e monarchie. In effetti, più che il presunto pericolo iraniano quello che sembra aver spinto le parti a normalizzare le relazioni sono questioni di natura economico-finanziaria e di accesso alle risorse. Agli Emirati Arabi Uniti e a Israele – così come al Bahrein e al suo padrino regionale, l’Arabia Saudita – servono finanziamenti e spazi nuovi per mantenersi a galla in un contesto di crisi. L’avvicinamento è poi stato accelerato dall’emergenza Covid.

 

Un esempio su tutti è l’annuncio del gigante Dubai Port (Dp) World di volersi insediare nel porto israeliano di Haifa. Già in passato Limesonline ha raccontato la strategia di espansione marittima degli Emirati Arabi Uniti: gli “Accordi di Abramo” vanno anche in questo direzione. Non va inoltre dimenticata la funzione antiturca dell’operazione: Abu Dhabi ha già dimostrato il suo sostegno alla Grecia schierando gli F-16 nella crisi tra Ankara e Atene nel Mediterraneo orientale.

 

 

 

 

Carta di Laura Canali - 2020

Carta di Laura Canali – 2020

 

 

 

Se gli Emirati vogliono il Mediterraneo, Israele si proietta verso il Golfo. Anche perché i paesi arabi della regione da tempo non si sentono più protetti dagli Stati Uniti. Gli attacchi all’Aramco del settembre 2019 sono stati in questo senso uno spartiacque nella percezione strategica di Riyadh e dei suoi alleati. Se alla minaccia iraniana si aggiunge quella turca, lo Stato ebraico potrebbe essere – assieme alla Russia – un nuovo fattore di protezione.

 

Trump crede di aver guadagnato punti nella corsa elettorale di novembre, mostrandosi come colui che ha “cambiato” le carte in tavola in Medio Oriente, e di aver fatto ottenere all’industria militare americana la vendita dei sofisticati F-35 agli Emirati Arabi Uniti. Questo deve far passare in secondo piano il fatto che lui e suo genero Jared Kushner non siano riusciti a portare a casa il tanto declamato “piano di pace” per il Medio Oriente.

 

Dietro al sipario degli accordi si cela anche l’Arabia Saudita. Se il Bahrein ha firmato l’intesa con Israele è perché Riyad ha dato il via libera. Anzi, perché gli accordi fossero più credibili – di “sistema” e non solo tra Eau e Israele – c’era bisogno che almeno un’altra capitale del Golfo mettesse la sua firma in calce. E i sauditi hanno mandato avanti Manama, da tempo vassallo di Riyad. L’Arabia Saudita ha poi concesso l’apertura del suo spazio aereo ai collegamenti aerei tra Abu Dhabi e Tel Aviv. Per fare di più Mohammed bin Salman deve attendere di prendere formalmente il potere, dunque che suo padre – l’ultraottantenne e malato re Salman – passi a miglior vita.

 

Ma c’è dell’altro: Gerusalemme è il terzo luogo santo dell’islam. La monarchia wahhabita è già protettrice, formalmente, dei primi due luoghi santi, Mecca e Medina. Nei mesi scorsi si era parlato dei negoziati, dietro le quinte, tra israeliani e sauditi per far sì che questi ultimi avessero un ruolo nella gestione della Moschea di al-Aqsa, sulla spianata delle moschee di Gerusalemme. Un’aspirazione che mette in conflitto Riyad con la Giordania, monarchia alleata ma non amica. E con la Turchia, paese che lotta per ottenere un primato nella direzione degli affari religiosi di Gerusalemme. L’ambizione di Mohammed bin Salman è ergersi a protettore di tutti i luoghi santi dell’islam. Fantascienza, almeno per ora.

 

 

Il Qatar è fuori dall'Opec - Europa Cristiana

 

 

 

E il Qatar? Formalmente Doha considera la causa palestinese una linea rossa. La sua tv, Aljazeera, martella ogni giorno con notizie provenienti dalla Cisgiordania e da Gaza, sottolineando le violazioni israeliane dei diritti palestinesi. Come per la Turchia – con cui condivide l’adesione ai principi della Fratellanza musulmana, di cui fa parte Hamas – il Qatar insiste nel non voler cedere a Israele. Almeno nella retorica.

 

“La normalizzazione non è la risposta al conflitto israelo-palestinese”, aveva detto nei giorni scorsi il viceministro degli Esteri del Qatar, Lulwah al-Khater, aggiungendo che “i palestinesi sono un popolo senza Stato e che vive sotto occupazione”.

 

Ma il Qatar ospita la base militare Usa di Udayd e ha legami con Israele, anche istituzionali, sin dagli anni Novanta. Doha sostiene Hamas anche tramite Israele e di recente ha mediato una tregua tra il movimento palestinese e lo Stato ebraico. Nel corso dei mondiali di atletica, ha ospitato atleti israeliani. Il Qatar dunque non si espone, ma intende continuare ad avere rapporti normali con Gerusalemme. Senza dirlo.

 

Per Israele, gli accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrein aprono opportunità di espansione  economica, politica e militare senza precedenti.

La crisi aggravata dal coronavirus ha spalancato portoni che si stavano aprendo con più timidezza. Lo Stato ebraico, nato e cresciuto con la percezione di essere assediato e isolato, vede delinearsi all’orizzonte una nuova sponda: il Golfo. Israele può ora vendere meglio e alla luce del sole la sua tecnologia e le sue innovazioni in ambito militare e di intelligence (da anni fornisce ai sauditi materiale di cybersicurezza e cyberspionaggio).

 

 

Le prospettive sono rosee anche in ambito di espansione nell’ambito dei trasporti e delle infrastrutture, del turismo e degli scambi culturali.

 

 

Mappa Emirati Arabi Uniti | Emirati arabi uniti, Abu dhabi, Mappa

Per questo, nei giorni scorsi l’Abu Dhabi Investment Office ha annunciato che aprirà a breve i suoi uffici a Tel Aviv, per fornire assistenza alle compagnie israeliane interessate a investire sulle sponde del Golfo.

 

Questo assicurerà a Israele maggiori elementi di pressione sui palestinesi e i loro reali o presunti alleati. Soprattutto sull’Iran, ma anche sugli hezbollah.

 

 

La presenza israeliana in un porto di fronte alle coste iraniane non è più un miraggio, così come il potenziale transito nel Golfo di navi dello Stato ebraico. La stessa iniziativa araba del 2002, avanzata proprio dall’Arabia Saudita, non è più un tabù nemmeno formalmente.

 

 

Questa iniziativa, presentata a Beirut nel corso dell’allora vertice dei paesi della Lega Araba, si basava sul principio che la normalizzazione con Israele sarebbe avvenuta solo a patto che lo Stato ebraico consentisse la creazione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme capitale e che accettasse il ritorno di milioni di rifugiati palestinesi.

 

 

Carta di Laura Canali - 2018

Carta di Laura Canali – 2018

 

 

Ai regimi autoritari arabi e non arabi della regione, questa formula è servita per rimandare ogni riforma dei rispettivi sistemi repressivi, portando avanti il tema della “lotta per la liberazione della Palestina”. Un tema usato anche dalle petromonarchie del Golfo, fino a quando il petrolio assicurava le rendite finanziarie e politiche. In un contesto in cui gli Stati Uniti garantivano protezione.

 

 

Ma il contesto è mutato. La crisi e il cambio degli equilibri hanno spinto i paesi arabi del Golfo a rivedere le priorità e quindi, gradualmente, ad alterare il discorso pubblico sulla questione palestinese. Il tabù è caduto. E si può ora ammettere che alle cancellerie mediorientali della Palestina e dei palestinesi non importi molto.

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