ESPRESSO.REPUBBLICA– 10 SETTEMBRE 2020
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ANALISI
Non sprechiamo i soldi europei in inutili sussidi: adottiamo una vera strategia
Pompare denaro in imprese fuori mercato prima del Covid non farà che posticipare il loro fallimento, e altrettanto inutile è riciclare vecchi progetti presi dai cassetti dei ministeri. Vanno definite nuove priorità
DI FABRIZIO BARCA
10 settembre 2020
Fabrizio Barca
Milioni di persone, da noi come in tutto il mondo, stanno modificando i propri piani di vita. Anche nel migliore scenario sanitario per i prossimi mesi, la caduta dell’attività produttiva, la modifica delle preferenze di consumo, l’alterazione delle filiere produttive internazionali tagliano via imprese e lavori.
Ma fanno anche intravedere una nuova domanda.
Di abitazioni dignitose che favoriscano relazioni comunitarie; di cura e assistenza della persona luogo per luogo; di servizi a chi è in difficoltà in cui la tutela dei diritti si lega a percorsi di emancipazione al lavoro; di istruzione di qualità sin dall’infanzia e poi lungo l’intera vita (per attrezzarsi al cambiamento); di lavoro a distanza che riduca il pendolarismo e non divenga isolamento subalterno o invasivo dei propri spazi di vita a discapito primario delle donne; di mobilità flessibile e verde governata da piattaforme digitali collettive; di alimentazione a chilometro zero, sicura e frutto di lavoro agricolo senza abusi umani; di turismo di prossimità e “rarefatto”; di vita in luoghi che sostengano il cambiamento climatico; di energia elettrica auto-prodotta; di riutilizzo di materiali.
Questa nuova domanda potenziale sta attivando ovunque nel paese, sul lato dell’offerta, gli “spiriti animali” di un paese creativo e imprenditoriale, quell’«ottimismo spontaneo», quello «stimolo spontaneo all’azione […] che non è il risultato di una media ponderata di vantaggi quantitativi, moltiplicati per probabilità quantitative», come scriveva John Maynard Keynes. Questa domanda che sale dal paese, e la pulsione a soddisfarla da parte di lavoratori e imprenditori, privati, sociali e pubblici, devono diventare la stella polare della politica pubblica.
Se i fondi europei Sure e React sono destinati a mitigare i rischi di disoccupazione – e il governo dia massima attenzione a precari e irregolari! – e quelli del Supporto Mes alla crisi pandemica sono destinati a correggere distorsioni e buchi maturati nel sistema sanitario, i fondi nazionali liberi e quelli comunitari da programmare del budget Ue ordinario e di quello straordinario approvato dal Consiglio (la Recovery and Resilience Facility) devono servire a promuovere il cambiamento che è nelle corde del paese.
Devono cogliere, valorizzare e consolidare la domanda nuova che si manifesta. E, assieme, devono rimuovere gli ostacoli che frenano i nuovi piani di vita, specie dei giovani e delle donne, e l’offerta di beni e servizi che essi esprimono. È questo il modo concreto con cui giustizia sociale e ambientale diventano gli obiettivi guida di un nuovo sviluppo, che superi le gravissime disuguaglianze che Covid-19 ha trovato nelle nostre terre e in cui si è incuneato, aggravandole. È – sia ben chiaro – nulla di più di quanto l’Ue chiede a tutti i paesi nell’uso di quei fondi, prevedendo che il Piano alla cui valutazione i fondi sono subordinati spieghi come intende «contribuire alla transizione verde e digitale» e a «promuovere la coesione e la convergenza economica, sociale e territoriale». È allora prima di tutto chiarissimo cosa non serve.
Non serve un “keynesismo bastardo” in cui l’azione pubblica viene vista come il pompaggio di domanda nell’economia quando c’è disoccupazione: non importa per cosa e come, poi ci penserà il mercato. Non servono ovviamente sussidi che, senza indirizzo e senza condizionalità, tengano in vita imprese già fuori mercato prima della crisi, posponendo il momento della verità, che poi saranno i lavoratori a pagare. Ma soprattutto non servono liste di “progetti cantierabili”, tirati fuori dai cassetti dei ministeri o delle regioni e affastellati gli uni sugli altri, con un solo obiettivo: spendere rapidamente.
Certo, alla fine, ogni piano, pubblico o privato che sia, deve tradursi in progetti. Ma prima ci vuole una strategia con poche chiare missioni e obiettivi, e ci vuole un metodo per assicurare che le scelte fatte raccolgano tutti i saperi disponibili e rispondano ai bisogni e alle aspirazioni delle persone, territorio per territorio. Se non sarà così, avremo gettato un’occasione irripetibile. Al meglio, se ci sarà spesa, avremo sostenuto salari e profitti dei settori delle costruzioni e della formazione. Ma, assieme, avremo accresciuto in modo spropositato le rendite di chi ha il potere di spingere i “propri progetti” – quanti ne ho visti nella mia vita, la parte peggiore del paese, i frenatori di ogni cambiamento – creando anche le premesse di una nuova stagione giudiziaria.
E avremo dato un calcio in faccia a quei milioni di persone che nei territori esprimono una nuova domanda o offrono nuove ipotesi di lavoro e d’impresa. È un rischio concreto. Accresciuto da un’urgenza che tutto giustifica. E che il nostro governo ha poche settimane per scongiurare. Per questo dobbiamo parlarne. E dobbiamo mobilitarci. Possiamo e dobbiamo farlo perché esiste un’alternativa.
Il Forum Disuguaglianze Diversità l’ha messa nero su bianco da quaranta giorni (si veda il sito Forumdisuguaglianzediversita.org ) assieme al Politecnico di Milano e con il contributo e la condivisione di quattro grandi città italiane (Bologna, Milano, Napoli e Palermo) e di un’alleanza di piccoli comuni delle aree interne (l’area progetto Basso Sangro Trigno della Strategia Aree Interne).
Contiene un metodo, che viene da innumerevoli esperienze europee e con solide basi concettuali, e l’indicazione di priorità, esplorate a fondo.
Il metodo è semplice. È la combinazione di due mosse, che si tengono l’una con l’altra: da una parte, una scelta nazionale delle missioni strategiche attorno a cui costruire l’intero Piano e di forti indirizzi nazionali concordati con le regioni per ognuno dei settori toccati; dall’altra, strategie integrate che, territorio per territorio, adattino missioni e indirizzi ai diversi contesti, governate da Comuni o da loro alleanze e partecipate con cittadini, lavoro e imprese, private e sociali. Per corrispondere alle pulsioni del paese, le missioni devono mirare sia a migliorare la qualità dei servizi pubblici e delle infrastrutture fondamentali – indichiamo come priorità casa, scuola, salute, mobilità sostenibile e spazi collettivi, aperti e chiusi – sia a rimuovere gli ostacoli all’espressione delle capacità imprenditoriali.
Cosa intendiamo?
Promuovere un possente trasferimento tecnologico alle Pmi dalle università e dalle imprese pubbliche. Consentire l’uso di terre incolte, private e pubbliche, da parte di giovani innovatori che salgono dalle città nelle aree interne. Accelerare le autorizzazioni per riqualificare e rendere fruibili i luoghi dell’accoglienza e della ristorazione per il turismo. Gli indirizzi nazionali devono stabilire i principi. Ma non devono essere invasivi, moltiplicando standard e criteri, in genere immaginati per “contesti medi” nella realtà inesistenti, e quindi inadatti per tutti. Quei principi saranno interpretati dalle strategie territoriali, che in modo trasparente individueranno i progetti attraverso un pubblico confronto che vedrà presenti tutte le voci e i saperi e metterà in difficoltà i rentier di sempre. E allora il progetto della nuova scuola si legherà a quello delle nuove imprese e assieme essi indurranno il progetto della mobilità e quello sulla casa: perché nel mondo reale è così che le cose possono cambiare, non realizzando interventi isolati che lasciano solo infrastrutture inutilizzate e “incompiute”.
Questo metodo sarà particolarmente importante nelle aree marginalizzate del paese dove i meccanismi endogeni del mercato e della democrazia hanno bisogno di una scossa: nelle aree interne, dove la Strategia esistente, da rilanciare, già offre la “piattaforma” per questa nuova politica; nelle periferie; nelle campagne deindustrializzate. Il paese ha le idee e le forze per seguire questa strada. Dobbiamo pretendere che il governo e il parlamento lo facciano. La società civile, i sindacati, la migliore cultura d’impresa non si accontentino di ricevere ciascuno la propria parte, la propria “fetta di progetti”. Pensino ai milioni di italiani che stanno ridisegnando i piani di vita. Misurino su di loro il proprio agire.
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