ROSSANA ROSSANDA : 1. QUESTO CORPO CHE MI ABITA ( 2018 ) ; 2. LA PERDITA ( 2008 ) :: DUE OPERE PUBBLICATE DA BORINGHIERI ++ RECENSIONE -link sotto

 

 

 

Beethoven 7a Sinfonia, 2° tempo

 

 

 

 

Questo corpo che mi abita

 Rossana Rossanda

1 recensione

Articolo acquistabile con 18App e Carta del Docente

Curatore: Lea Melandri
Editore: Bollati Boringhieri
Collana: Temi
Anno edizione: 2018
In commercio dal: 11 gennaio 2018
Pagine: 122 p., Brossura
12 EURO PREZZO PIENO

 

 

” Parlare del corpo è smuovere un’«inquietudine».

«Pagine sorprendenti per la coraggiosa esposizione di sé – il rapporto col suo corpo, l’invecchiamento, la morte.» – Lea Melandri

Ancor più per una donna che ha anteposto le ragioni del suo «io politico» al principio del «tutto è sessuato», in amichevole dissonanza nei confronti del pensiero femminista con cui non ha mai smesso di dialogare. Ma è quel sottile disagio – lo scarto che avverte tra sé e l’immediatezza biologica – a spingere felicemente Rossana Rossanda su un terreno inabituale. Lei che ha attraversato di furia, e contromano, il corso del mondo, non cede all’opacità indecifrabile del corpo, e mentre incombe l’età più fragile della vita lo interpella, lo scruta, gli dà del tu senza troppa confidenza e ne annota i cedimenti con moderata costernazione. «Da tutte le parti questo corpo che mi abita e che abito sfugge e mi torna, come se fosse l’anguilla della mia coscienza, un’anguilla attaccata a “me”». E sebbene l’oggetto del suo ragionare affilato le sembri provvisto di «tanta emotività quanto una grammatica», Rossanda riesce a infondervi, in modo quasi preterintenzionale, il battito di un incantamento, sia quando indugia sulle proprie splendide mani tradite dal declino, sia quando tocca questioni meno intime, gli inarrivabili canoni di bellezza delle dive o il travestitismo che permise ad alcune donne del passato di rimediare a uno stato di minorità. Nella sua messa a nudo, Rossanda rifugge però dall’idea che il sapere del corpo sia prerogativa femminile in virtù dei carichi simbolici assegnati ad esso da maternità e seduzione: è uno dei punti di maggiore sintonia con Lea Melandri, che anni fa ha ospitato sulla rivista «Lapis» gli articoli qui raccolti, e che oggi condivide con Rossanda la «malinconìa dei tempi lunghi della storia».

 

Indice

I. Autodifesa di un io politico

II. Un ussaro di nome Speranza

III. Théroigne de Méricourt: né popolana né signora

IV. Il profondo e la storia

V. Una soglia sul mistero

VI. Lanterne rosse

VII. Questo corpo che mi abita

Postfazione  – L’amicizia, un tranquillo deposito di sé, Lea Melandri

Indice dei nomi

 

 

 

 

LA RIVISTA ” LAPIS “

 

 

Rivista

Lapis. Percorsi della riflessione femminile

1987 – 1996

 

 

MILANO

 

Rivista trimestrale nata a Milano nel 1987, nata con l’intento di raccogliere riflessioni trasversali dal mondo delle donne e non come progetto editoriale realizzato da un gruppo fisso di giornaliste o studiose.

«A far fronte alle semplificazioni che opera l’ideologia e alle restrizioni che impone il dibattito politico, finora c’è stato solo il contributo ricco ma specialistico, e spesso legato a preoccupazioni accademiche, delle studiose di questioni femminili. La rivista si propone perciò di aprire uno spazio di scrittura da cui tornare a interrogare l’esperienza delle donne e, dove è possibile, delineare i percorsi attraverso i qualiesse hanno cominciato a porsi in modo più autonomo rispetto a modelli interiorizzati, relazioni sociali, schemi interpretativi storicamente dati. Ciò significa far luce su un arco di problemi che, avendo ben presente la vita affettiva e sessuale, oltre che l’unicità di ogni individuo, si estende a tutti gli aspetti dell’agire personale e sociale: rapporto col lavoro, con un oggetto di studio, con la creatività e l’imprenditorialità, con le istituzioni della cultura, dello Stato, ecc…»(Editoriale, n. 1, novembre 1987)

Ne è stata direttrice Lea Melandri.

 

 

 

DOPPIOZERO DEL 3 FEBBRAIO 2018

https://www.doppiozero.com/materiali/rossana-rossanda-questo-corpo-che-mi-abita

 

Rossana Rossanda. Questo corpo che mi abita

Maria Nadotti

Mentre nel nostro belpaese infuria con tiepida e non solo maschile ipocrisia il cosiddetto dibattito sul caso Weinstein – artatamente sovrapposto al (confuso con il?) movimento femminile globale autobattezzatosi “#MeToo” – esce per i tipi della Bollati Boringhieri una piccola raccolta di scritti di Rossana Rossanda, intellettuale, politica e donna. Si intitola Questo corpo che mi abita ed è stato fortemente voluto e appassionatamente curato da Lea Melandri, che lo accompagna con una illuminante postfazione da leggere forse prima delle pagine di RR.

Di che cosa si tratta? Dal 1988 al 1997 – dieci anni esatti – uscì in Italia una rivista trimestrale dal titolo Lapis. Percorsi della riflessione femminile (oggi disponibile in formato digitale sul sito).

Era diretta da Lea Melandri e aveva una redazione formata da donne di diversa formazione culturale e politica e variegata esperienza di vita. Tra loro Giovanna Grignaffini, Laura Kreyder, Paola Melchiori, Rosella Prezzo, Paola Redaelli, io stessa. Il suo intento non era di entrare nell’agone ‘femminista’, propugnando una propria linea sulla falsariga di altre riviste o aggregazioni di donne che si erano date strutture imparentate con gerarchie chiesastiche o partitiche evidentemente intrinseche al nostro italico dna.

 

Lapis sezione aurea di una rivista | 987

Per citare dalla bella prefazione di Paola Redaelli all’antologia Lapis. Incubi di pace (manifesto libri, 2000), intendevamo «lasciarci alle spalle le semplificazioni ideologiche, le restrizioni imposte dal dibattito politico, il contributo ricco ma specialistico delle studiose di questioni femminili in ogni campo; con l’obiettivo di verificare se mai rimanesse vero che donne apparentemente diversissime ancora avevano, o potevano avere, in comune, ‘fili di una parentela invisibile’.[…] Una parentela invisibile ravvisabile certamente non nell’appartenenza a una nobilitante genealogia femminile radicata nel mito o nel riconoscimento di una differenza che spaccia per dato un soggetto femminile in tenzone con quello maschile sul suo stesso terreno, quanto piuttosto nell’essere ciascuna donna, col suo corpo concreto, segnata, marchiata, stretta in una visione dualistica pervasiva ma ineluttabilmente condivisa, che la delega a simboleggiare con le altre – e a pensare – la natura, la vita affettiva e la sessualità separate e lontane dalla cultura, dalla civiltà e dalla storia».

Ho citato a lungo da quel testo perché è proprio lì che si incerniera l’amicizia politica che dà vita nel corso degli anni al dialogo a distanza tra Rossanda e Lapis, alla sua collaborazione alle pagine della nostra rivista, spesso in forma di vere e proprie lunghe missive, raccolte oggi nel libro appena dato alle stampe. Sua interlocutrice privilegiata è Melandri, instancabile tessitrice di confronti e scambi basati sull’interesse e la curiosità reciproci, su quell’attrazione che può nascere solo tra due soggetti, diversi e perfettamente individuati, mai sottomessi l’uno all’altro, mai deleganti, affidati, gregari.

L’oggetto degli scritti di Rossanda e del suo audacissimo dirsi fuori dalle ‘maschere’ inscritte nella sua storia personale e nelle sue convinzioni politiche è il tentativo, anzi la volontà, di rispondere agli interrogativi posti da Melandri e dalla natura stessa della rivista. Ben decisa a difendere scelte d’azione e pensiero che le impongono di provare a contrapporsi al mondo così come è (all’idea che il mondo sia, per definizione, cosa da uomini) e tuttavia lucidamente consapevole del «diaframma culturale» che attraversa la vita dei due sessi condannandoli a un’asimmetria brutale e disumanante, Rossanda accetta la sfida di parlare di sé proprio a partire dal «corpo» che – con inversione geniale – la «abita».

Basta ripercorrere i titoli e i temi degli articoli che Rossanda dona alla rivista per capire di che tipo di sfida si tratti: “Autodifesa di un io politico”, “Un ussaro di nome Speranza”, “Théroigne de Méricourt: né popolana né signora”, “Il profondo e la storia”, “Una soglia sul mistero”, “Lanterne rosse” e, appunto, “Questo corpo che mi abita”. Ragionamenti su dì sé e sul femminile spesso incardinati su figure di donna che, nel corso della storia, hanno scelto di vivere da uomini: Nadežda Durova, l’ussaro autrice delle Memorie del cavalier-pulzella, o Théroigne de Méricourt, un ‘soldato’ della Rivoluzione francese che finirà ‘pazza’ «per odio di altre donne che la riducono pubblicamente a femmina denudata e frustata».

Concentrandosi su queste figure cangianti che scelgono di negare il corpo sessuato per praticare la propria libertà di esseri umani, ma anche sulle concubine del film di Zhang Yimou, asservite al desiderio maschile e straziate dalla gelosia, Rossanda sembra interrogarsi su di sé e porre a noi tutti una domanda che oggi sembra avere finalmente trafitto le società non solo occidentali. Che possibilità c’è, per chi abita un corpo femminile, di non farsene abitare? Come non essere ridotte a corpo già e sempre determinato (in falso bilico, come scrive RR, «tra maternità e seduzione») senza tuttavia negarlo o subordinarlo? Una faccenda enorme, tutta ancora da investigare, che spiega le goffaggini, i silenzi, le mosse maldestre di tante e tanti che non riescono a pensarsi fuori dai dualismi che hanno infestato secoli di storia sociale e politica.

Curioso che sia proprio Rossanda, una «ragazza del secolo scorso» che aveva scelto di vivere a modo suo en travesti nel mondo degli uomini, a lasciarsi stimolare dalla provocazione politica e intellettuale delle donne e, nel nostro caso, da una specifica donna. Non sono molti i suoi pari di sesso maschile che lo hanno fatto o lo stanno facendo. Ed è un peccato. Ecco perché c’è da augurarsi che questo libro, oltre a d essere letto, sia contagioso.

 

 

 

 

ROSSANA ROSSANDA, MANUELA FRAIRE

LA PERDITA

 

 

 

La «perdita» è un tema da un lato troppo presente, dall’altro ancora lontano: idea assillante ma sospesa sul vuoto dell’esperienza che avrebbe potuto sostanziarlo di pensieri e sentimenti reali. Forse la condizione «giusta», né troppo dolorosa né troppo distaccata, per pensare la morte propria e delle persone che abbiamo amato, non si dà mai. La morte, come coscienza che siamo destinati a scomparire «a uno a uno», come dicono Rossanda e Fraire, è il «grado zero» della rappresentazione, l’«impensabile». Tra tutte le opposizioni «incomponibili» che danno un’impronta «tragica» alla vita, la più resistente ai nostri sforzi di pacificazione è sicuramente quella di un Io costretto a riconoscersi straniero nel proprio corpo, parte del ciclo biologico e, al medesimo tempo, di una «natura» speciale, irriducibile alla materia di cui sono fatti gli altri viventi. «C’è un momento in cui “pensare e scrivere la morte” non è più quell’impresa ardua che viene lasciata ai poeti, ai mistici, ai visionari. È quando si apre, dentro il ritmo vertiginoso degli impegni e delle relazioni quotidiane, una smagliatura, il passaggio rapido, inafferrabile di un tempo “altro”, la percezione che i morti, gli amici, i famigliari che abbiamo perduto strada facendo, non ci hanno mai lasciato del tutto». (Lea Melandri)

 

 

 

RECENSIONE AL LIBRO DI KATIA  PICCININI

DA:

http://www.progettobabele.it/rec_libri/MOSTRARECENSIONE.php?id=3623

 

L’esistenza? Suggere una goccia di miele da un ramo di rovi

 

Nel maggio scorso l’editore torinese pubblica “La perdita” con la curatela di Lea Melandri che offre a un più vasto pubblico – il testo uscì sulle pagine specialistiche della “Rivista di Psicologia Analitica” nel 2004 – un bello scambio di idee tra Manuela Fraire, psicoanalista e saggista, e Rossana Rossanda.

Il tema che ha dato occasione di confronto alle due donne è quello del “perdere e perdersi”, e il costruirsi delle domande e delle risposte le une sulle altre e il procedere, assai ricco, per spunti e riflessioni di eterogenea natura ha, intenzionalmente, la forma del dialogo. E se nasce come dialogo a due per “pensare insieme” il “grado zero della perdita”, la morte, già con la post-fazione della Melandri il dialogo si fa a tre voci che si ascoltano e si presuppongono senza ridursi a unico tono: tre differenti adagi su lutto e luttuosità. Va detto, però, che la Fraire e la Melandri restano, ancorché preziose, giusto “discrete accompagnatrici” delle parole della Rossanda perché la coralità, quella verità da sempre attribuita al coro, appare non nella composizione delle tre prospettive bensì nella sola voce della “ragazza del secolo scorso”. C’è uno scarto che direi profondamente umano, politico, simbolico, rispetto alle due compresenti, che fa della voce della Rossanda quella protagonista e, in qualche modo, portatrice della verità, cioè della giusta misura sulla cosa. E proprio come il coro offre la visione più ampia e chiara perché umana, così gli interventi della pensatrice sono chiari, sodi e nobilmente umani: pensieri incarnati. Ciò a fronte di due discorsività di genere e, forse, un poco astratte e quindi unilaterali: da un lato, il discorso psicanalitico della Fraire che è colto e attento ma che paga alla scientificità una certa asetticità e la schematicità dell'”Io” e della “identità” come luogo unitario del senso, dall’altro l’intimismo del vissuto raccontato dalla Melandri che si dà come saggia, stoica quasi, comprensione serena dell’esistere e dell'”armonia di sensi e pensiero”. Diverso il tenore della Rossanda che riconosce, e accetta, il “suo limite” che è quello di non essere persuasa dall’idea di assenza di conflitto (e dolore) nell’esistere né da quella di armonia tra uomini, dei e natura, e confessa la sua propensione a vedere nella perdita (di persone care, di occasioni, di passioni) un irrimediabile e non rimaneggiabile abbandono. Ciò perché la perdita mutila e non si rielabora mai del tutto; bisogna portarsi dietro le assenze, le morti, le parole spezzate facendo i conti con l’assottigliarsi del senso di resistenza vitale che rende, ogni mattina di più, difficile svegliarsi: «si può imparare a vivere senza l’altro, ma non è vero che si rielabori, nel senso che si superi, la perdita, il lutto… più vado avanti e meno so rielaborala». Certo, quando cerchiamo di portare “di pianto in ragione” la «sensazione che quasi tutto mi sfugge, del prima e del dopo», sentiamo che ogni cosa è al lavoro per la vita e che «qualcosa ti dice oscuramente “Adesso lo puoi fare”» ma non è la soluzione del sentimento luttuoso perché non si addomestica il pensiero della fine e non reggono strategie antimelanconiche (nemmeno la politica). Del resto, la vita è tragica, «di rara soluzione e attraverso molta perdita, e gli eventi non si compongono; la vita stessa è per essenza l’incomponibile di vita e di morte: «o vivi evitando di pensare alla morte o vivi una finitezza che ti nega». Ed è come la tragedia greca che si chiude con la morte del protagonista, cioè non con la soluzione del dramma ma con la sua, spietata, eliminazione: «nella tragedia non c’è un dopo», non c’è alcuna resurrezione. Non c’è perdita se non c’è stato desiderio e sperare nella resurrezione dopo lo strappo significa sperare in una vita senza desiderio, cioè in una vita messa al riparo dalla perdita e dal trovarsi a stringere a vuoto a il vuoto. Ma «se rinasci farfalla desideri il nettare del fiore, se rinasci gatto desideri cibo e coccole» e va accettato il fatto che la morte esercita una incessante molatura della vita e la matura, «ahimè la concima».

Una recensione di Katia Piccinini

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1 risposta a ROSSANA ROSSANDA : 1. QUESTO CORPO CHE MI ABITA ( 2018 ) ; 2. LA PERDITA ( 2008 ) :: DUE OPERE PUBBLICATE DA BORINGHIERI ++ RECENSIONE -link sotto

  1. Donatella scrive:

    Molto belle e profonde tutte le considerazioni sui nostri destini umani. Anch’io sprofondo in questi “buchi neri”:
    Non mi arrenderò
    mai al pensiero della fine.
    alla tragedia
    che vive
    in ognuno di noi.
    Non mi attrae
    l’abisso dell’infinito.
    Tutti finiremo
    ma protestando.

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