+++ DARIO GUARASCIO, Economia dell’Innovazione, Univ. La Sapienza, Roma ::: La favola delle “politiche attive”. Il ventennio perduto del lavoro– IL FATTO QUOTIDIANO DEL 22 FEBBRAIO 2021 

 

 

IL FATTO QUOTIDIANO DEL 22 FEBBRAIO 2021 

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La favola delle “politiche attive”. Il ventennio perduto del lavoro

La favola delle “politiche attive”. Il ventennio perduto del lavoro

Miti – Un’economia con domanda strozzata dall’austerità, salari fermi e zero politiche industriali non può assorbire occupazione. Il connubio meno diritti in cambio di più formazione ha fallito

 

Dario Guarascio - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

DARIO GUARASCIO

Università degli Studi di Roma La Sapienza

Economia Dell’innovazione

 

di Dario Guarascio | 22 FEBBRAIO 2021

 

 

 

Combattere la disoccupazione è il più importante degli obiettivi di politica economica. Nel tempo, tuttavia, gli strumenti utilizzati per perseguire tale obiettivo sono mutati in modo sostanziale. Con essi, sono cambiate anche le teorie prevalenti e le spiegazioni fornite dagli economisti per giustificare la stessa esistenza di un fenomeno socialmente odioso come la mancanza di lavoro per chi al lavoro ci vorrebbe andare. Agli albori del New Deal, Roosvelt istituì i ‘Civilian Conservation Corps’ ( CCC ) nel 1933.

Finalizzati all’abbattimento della disoccupazione esplosa dopo la crisi del ’29, i Corps impiegarono centinaia di migliaia di giovani americani in attività di pubblico interesse, tra cui la conservazione e lo sviluppo delle risorse naturali. L’impatto sociale della misura fu talmente elevato da tenerla in vita fino al 1942, recuperandone le forme in interventi successivi tesi a contrastare la disoccupazione di specifiche categorie come nel caso dei Nativi Americani. Invero, il contrasto alla disoccupazione attraverso l’intervento diretto dello Stato, si pensi all’istituzione delle grandi imprese pubbliche nei settori tecnologicamente strategici, ai piani di investimento pluriennali capaci di mobilitare grandi masse di occupati o alla edificazione dei sistemi di welfare, è stata la cifra della ‘Golden Age’, gli anni di vigorosa crescita (e di bassa disoccupazione: in Italia, nel 1963, il tasso di disoccupazione raggiunse il suo minimo storico attestandosi sul 4%) che contrassegnarono il dopoguerra occidentale fino ai ’70. Sono gli anni in cui il pensiero economico prevalente, e le politiche da esso informate, riconoscono pari dignità all’offerta e alla domanda. A quest’ultima, e in particolare agli investimenti pubblici, viene attribuito il compito chiave di correggere quel che il mercato è intrinsecamente incapace di fare: garantire la completa e adeguata utilizzazione delle risorse disponibili, a partire dal lavoro.

Con gli anni ’90, però, il contesto muta radicalmente, i fattori di offerta divengono preponderanti e lo Stato non è più il soggetto chiamato a guidare i mercati e a ridurre la disoccupazione. Il New Labour di Tony Blair ridimensiona l’azione pubblica tesa al contrasto della disoccupazione restringendo il campo a sussidi per i disoccupati e al potenziamento dei sistemi di istruzione e formazione.

L’idea è semplice. Dotare i lavoratori, quelli futuri che sono ancora nelle scuole e nelle università e quelli già presenti nel mercato e potenzialmente soggetti a processi di ricollocazione, delle competenze utili alle imprese lasciando queste ultime libere di operare nel mercato riducendo i vincoli e la presenza dello Stato. In questo modo, il mercato avrebbe autonomamente assorbito tutte le risorse produttive disponibili mettendole in opera nel modo più produttivo possibile. Niente più disoccupazione dunque o, se non altro, molta meno. L’Italia non fa eccezione e il cambio di paradigma assume forme del tutto simili.

Siamo alla fine degli anni ’90 e il mercato del lavoro comincia a trasformarsi all’insegna della flessibilità. Minori tutele per il lavoro, contratti temporanei, maggiore flessibilità per le imprese e una protezione del lavoratore che si sposta: dal luogo di lavoro al mercato. In questo modo, suggerisce il nuovo paradigma economico, le forze di mercato vengono liberate, le imprese dispiegano il loro potenziale tecnologico e produttivo, le competenze dei lavoratori vanno a essere inserite proprio là dove serve. Nessuna necessità di agire sui vincoli di domanda o di creare occupazione attraverso l’intervento pubblico. Flessibilità, data dalla maggiore libertà di licenziare e dal proliferare di contratti temporanei, e competenze coerenti con le necessità delle imprese sono gli ingredienti adeguati a garantire un pieno, o quasi, uso delle risorse produttive. A cominciare dal lavoro.

In questo contesto, assumono un ruolo di primo piano le politiche attive del lavoro, poste al centro dell’agenda da tutti i ministri del Lavoro che si sono succeduti a partire dal 2000.

Le politiche attive sono finalizzate al reinserimento di coloro che perdono il lavoro prevedendo l’erogazione di piani formativi dedicati capaci di ‘aggiornare’ le competenze dei disoccupati ponendole in linea con le esigenze delle imprese. Mentre le tutele venivano gradualmente ridotte e il ricorso al lavoro temporaneo e somministrato facilitato, dunque, le risorse pubbliche destinate alle politiche attive del lavoro cominciavano a crescere.

Risorse destinate a vecchie istituzioni come i Centri per l’impiego, riformate per essere adeguate al nuovo contesto, o a nuove istituzioni all’uopo costituite come Italia Lavoro, oggi confluita nell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) creata ai tempi del Jobs Act. Le politiche attive possono assumere varie forme. Tendono a operare parallelamente a quelle passive (i sussidi di disoccupazione) e possono essere ritagliate su specifici target (giovani, donne, disoccupati di lunga durata, categorie fragili).

Oggi, venti anni dopo l’avvio di una fase di continue ‘riforme’ che hanno visto il mercato del lavoro italiano mutare all’insegna della maggiore flessibilità e del potenziamento delle politiche attive, può essere utile domandarsi se gli ingredienti inseriti nella ricetta hanno sortito gli effetti sperati. Val la pena chiederselo anche perché di fronte all’attesa abolizione del blocco dei licenziamenti, la strategia di politica economica da adottare per contenere la disoccupazione diventa una questione della massima importanza. Se si guarda ai dati del mercato del lavoro e soprattutto se ci si concentra sulle criticità storiche che affliggono quello italiano – elevata disoccupazione giovanile e femminile, divari territoriali, disoccupati di lunga durata, permanenza in situazione di precarietà occupazionale e reddituale – il connubio flessibilità-politiche attive va decisamente bocciato. Prima di venire alle ragioni macroeconomiche e strutturali che spiegano l’incapacità di tale connubio di ottenere i risultati sperati, è utile mettere in luce le criticità peculiari che riguardano il sistema italiano delle politiche attive del lavoro.

Come ben documentato da Antonio di Stasi sul Menabò di Etica ed Economiale politiche attive soffrono, tra le altre cose, dell’eccesso di livelli istituzionali e attuativi entro cui si articolano. Attribuite in larga parte alla competenza regionale dalla riforma del Titolo V, le politiche attive sono prive delle coerenza sistemica che sarebbe necessaria per fornire ai disoccupati un supporto qualitativamente omogeneo riflettendo, al contrario, l’eterogenea dotazioni di risorse e di capacità istituzionale che caratterizza le regioni. In un simile quadro, l’Anpal non ha alcuna capacità di svolgere il ruolo di coordinamento e di supporto all’implementazione che le competerebbe. A ciò si aggiunga la frammentarietà dei sistemi limitrofi a quello delle politiche attive, come nel caso della formazione continua gestita da una miriade di Fondi paritetici interprofessionali il cui grado di efficacia e di coordinamento è spesso oggetto di discussione. A inficiare ulteriormente l’efficacia delle politiche attive vi è poi l’operare ondivago del legislatore nazionale e regionale, basti pensare all’annosa vicenda dei ‘Navigator’ che prima ancora di divenire completamente operativi si trovano, causa pandemia, a dover combattere per il rinnovo del loro stesso contratto o all’Assegno di ricollocazione che è andato a sostituire il ‘Contratto di ricollocazione’ introdotto solo qualche mese prima.

Nel 2019, l’Ocse ha dedicato all’Italia un rapporto dal titolo inequivocabileStrenghtening Active Labor Market Policies in Italy’ (Rafforzare le politiche attive del mercato del lavoro in Italia” ) . La farraginosità del sistema, la conflittualità tra Stato e regioni, l’inadeguatezza del sistema dei Centri per l’impego, l’assenza di un sistema informativo centralizzato che renda possibile associare le competenze di cerca lavoro e le necessità delle imprese sono tutti elementi messi nero su bianco in modo impietoso.

Le politiche attive del lavoro hanno dunque tradito le speranze di chi le immaginava strumento salvifico capace di ridurre al minimo la disoccupazione in un mercato del lavoro sempre più flessibile. La frammentarietà del sistema e i problemi di governance costituiscono tuttavia una parte marginale della spiegazione di questo fallimento. Le cause vanno cercate nello stesso paradigma di politica economica che le ha rese lo strumento principe per il contrasto della disoccupazione.

Potrà sembrare strano ma l’idea di fondo risale alla fine del ’700 e va attribuita a un economista francese, Jean Baptiste Say. ‘L’offerta crea da sé la propria domanda’, recita la legge che porta il suo nome. Applicata al mercato del lavoro, questa legge fornisce una spiegazione della disoccupazione tanto semplice quanto brutale: si è disoccupati perché le competenze che si hanno non sono appetibili per le imprese o perché il salario che si pretende è troppo elevato. Le politiche attive dovrebbero curare il primo, la flessibilità contrattuale il secondo dei due mali.

La distanza tra la realtà e una simile rappresentazione dell’economia è immediatamente evidente sia per l’uomo della strada sia per gli economisti che non credono alla legge di Say, non moltissimi a dir la verità.

In un’economia come quella italiana – dove la domanda è strangolata dall’austerità fiscale, i salari non crescono e la struttura produttiva è indebolita dall’abbandono di politiche industriali che non siano gli incentivi a favore di chi è già competitivo e poco bisogno ne avrebbe – si è disoccupati perché il lavoro non viene sufficientemente domandato. Si possono approntare le più raffinate politiche attive e dotare le persone in cerca di lavoro delle più aggiornate competenze digitali. Se ciò non si accompagna a robuste politiche fiscali espansive, a una spinta al rialzo dei salari e a un piano di investimenti pubblici vasto e di lungo periodo capace di rafforzare quantitativamente e qualitativamente la capacità produttiva del paese, l’offerta di lavoro non potrà che rimanere frustrata. Perché dunque, al netto degli attuali proclami sulla fine dell’austerità e della retorica che ammanta l’incipiente Recovery Plan di capacità taumaturgiche di cui purtroppo non dispone, nessuno sembra mettere realmente in discussione la ricetta flessibilità-politiche attive quale unica strada possibile per risolvere i problemi del mercato del lavoro?

La ragione sta probabilmente nell’intreccio di interessi e persistenza delle ideologie. Gli interessi sono quelli di un sistema di dimensioni non irrilevanti popolato di soggetti, privati ma con forti interconnessioni con l’Amministrazione pubblica e le parti sociali, attivi sia nell’erogazione di servizi formativi a favore dei disoccupati sia nella comprensibile tutela delle propria esistenza economica. L’ideologia è quella, già menzionata, del vecchio Say e di coloro che negli ultimi trenta si son fatti portatori di ossimori quali l’austerità espansiva o l’abolizione delle tutele contro i licenziamenti quale viatico per l’occupazione. La pandemia sembra aver prodotto qualche conversione sulla Via di Damasco. I prossimi anni ci diranno, soprattutto per quanto riguarda le decisioni in materia di politiche del lavoro e di protezione sociale, se di vera conversione si è trattato.

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1 risposta a +++ DARIO GUARASCIO, Economia dell’Innovazione, Univ. La Sapienza, Roma ::: La favola delle “politiche attive”. Il ventennio perduto del lavoro– IL FATTO QUOTIDIANO DEL 22 FEBBRAIO 2021 

  1. Donatella scrive:

    Molto interessante questo articolo. La cosa che non riesco a capire, guardando da ignorante la realtà, è la carenza di personale in tanti posti pubblici ( medici, insegnanti, infermieri, amministrazioni pubbliche, ecc.) e la fame di lavoro. Perché non è possibile, come Governo, dare una risposta a questo disquilibrio?

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