L’ Espresso, domenica 11 aprile con la copertina di @Maurobiani #destinoLibia + FRANCESCA MANNOCCHIO : ” Grandi affari in Libia: una torta da 450 miliardi di dollari. E l’Italia prova a giocarsi la partita “- FOTO DI ALESSIO SOMENZI-L’ESPRESSO, 9 APRILE 2021

 

 

 

 

 

ESPRESSO.REPUBBLICA.IT DEL 9 APRILE 2021

https://espresso.repubblica.it/mondo/2021/04/09/news/grandi_affari_in_libia-295706198/

Grandi affari in Libia: una torta da 450 miliardi di dollari. E l’Italia prova a giocarsi la partita

Turchi e russi in prima fila. Ma nel business della ricostruzione a 10 anni dalla caduta di Gheddafi il nostro Paese è in corsa: rinsalda i rapporti e tace sui diritti umani (Foto di Alessio Romenzi per l’Espresso)

 

di Francesca Mannocchi0

9 APRILE 2021

 

La strada che conduce dall’aeroporto di Mitiga al centro città è un sentiero di luci intermittenti. Sono le luci al neon di una città, Tripoli, che prova a rinascere credendo, per l’ennesima volta, che la diplomazia riesca a vincere sugli egoismi tribali e la bramosia del potere armato, dopo la formazione del primo governo di unità nazionale dal 2012.

Un’autorità ad interim guidata dall’imprenditore di Misurata Abdul Hamid Dbeibah ha assunto il potere lo scorso 5 febbraio, durante il Forum Libico di Ginevra che ha riunito 73 personalità provenienti da varie regioni sotto la guida delle Nazioni Unite.

I governi antagonisti di ieri – quello di Fayez al Sarraj in Tripolitania e di Abdullah al Thinni in Cirenaica – hanno consegnato il mandato al nuovo gabinetto che oggi è insieme, per i libici, euforia e timore di un ennesimo inciampo.

Il quartiere di Dara’a affaccia sul porto, dal cavalcavia che lo sovrasta la vista per la prima volta dopo tanto tempo è nitida. I giovani sono fermi lungo la strada a osservare il mare, il traffico è quello rumoroso di una comunità che aspetta l’inizio del Ramadan, il mese del digiuno. La frenesia dei negozi ancora aperti a tarda sera è insieme fiduciosa aspettativa e ubriacatura di libertà, gli hotel sono di nuovo aperti e di nuovo pieni. Tante le famiglie che si riuniscono dopo la riapertura dei voli da Bengasi, nell’est del paese. Tanti gli imprenditori, tanti anche i diplomatici.

Quella italiana era l’unica ambasciata europea dal 2017, durante la guerra civile del 2014 tutti gli altri erano scappati via.

Oggi Tripoli assiste invece alla corsa diplomatica delle riaperture. Torna la delegazione francese, torna quella maltese, e anche l’Europa tutta, per voce del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel che, in una recente visita ha annunciato che la delegazione dell’Unione Europea sarà stabilmente in Libia dalla fine di aprile. Talmente tanti gli incontri diplomatici che l’agenda del nuovo primo ministro Abdul Hamid Dbeibah è una staffetta. Lo è stata anche il 6 aprile, il giorno della visita del Presidente del Consiglio Mario Draghi.

 

 

Libia, nell’ex centro di detenzione dei migranti

VIDEO, 0.33

blob:https://video.espresso.repubblica.it/bdf34847-2dc8-4e8d-8e26-4e3b81643416

Sono le undici e trenta del mattino, la bandiera italiana e quella libica montate alle spalle dei due premier. Una dichiarazione congiunta breve a rivendicare un antico sodalizio. Per Draghi è la prima visita fuori dall’Europa «a dimostrazione dell’importanza del legame storico tra i due Paesi», dice, ricordando il momento «unico per la Libia, per ricostruire l’antica amicizia che non ha conosciuto pause». Parla di tutto Draghi, antichi accordi, gli investimenti imprenditoriali e le risorse energetiche. E poi certo, il tema dei temi, il flusso migratorio: «Esprimiamo soddisfazione per quello che fa la Libia nei salvataggi e, nello stesso tempo, aiutiamo e assistiamo la Libia», ha detto di fronte a un soddisfatto Dbeibah. Certo c’è un problema umanitario, ha detto Draghi. Eppure nessuno dei due ha fatto menzione al rispetto dei diritti umani nei centri di detenzione per migranti, luogo di abusi e torture.

Dalla firma del memorandum di intesa del 2017, quando presidente del Consiglio era Paolo Gentiloni e ministro dell’Interno Marco Minniti, l’Italia ha finanziato la guardia costiera libica con oltre 20 milioni di euro, di cui 10 approvati nel 2020. Un flusso di soldi, quello destinato alla guardia costiera e al presunto miglioramento delle condizioni nei centri di detenzione, impossibile da monitorare. Soldi partiti dalla sponda nord del Mediterraneo, finiti a sud e spesso spariti dai radar.

Un pezzo dell’affare libico legato, l’esternalizzazione dei confini, sulla pelle dei migranti.
Un pezzo del legame storico che lega la Libia all’Italia.

 

Alì cammina nel suo quartiere distrutto dalla guerra con Haftar a sud di Tripoli

 

 È un legame storico anche quello che si rinnova oggi, e parla di ricostruzione e di affari. Lo sanno le imprese, lo sa bene Dbeibah. Per lui invece è l’ennesimo incontro diplomatico e economico insieme: «Auspichiamo la partenza al più presto dei lavori della Commissione economica comune», dice introducendo Draghi. Il terreno è fertile, avanti tutta. Ha fretta Dbeibah, ha fretta la Libia, così tanto che quando Draghi esce di scena si sostituiscono le bandiere. Esce quella italiana, entra quella greca. Alle 17 dello stesso giorno, dalla stessa sala parlerà di nuovo il Primo ministro libico con l’omologo greco Kyriacos Mitsotakis.
Arriva da Atene a ribadire il ritorno del consolato e a chiedere garanzie sulle trivellazioni del Mediterraneo centrale, minacciate dalla Turchia.

 

PRIMA PAGINA

 

 

Sarà staffetta anche nel pomeriggio. Esce la bandiera greca, entra quella maltese. La corsa al ritorno è la mappa del dopoguerra, leggerne le dinamiche e i chiaroscuri significa capire quali influenze agiranno nel Paese e come ne determineranno gli sviluppi. Perché il dopo di una guerra che conta trecentomila sfollati e vaste aree in macerie significa anche questo: il grande affare della ricostruzione.

È l’altra faccia della rinascita, e chi prima arriva prima guadagna. Questo suggerisce il viavai di imprenditori, questo suggerisce la fretta della diplomazia. All’esterno del palazzo presidenziale i problemi della Libia restano sospesi. La coda ai distributori di benzina racconta una Libia che fatica a garantire elettricità costante, sono danneggiate le strade e danneggiate le infrastrutture, all’esterno dei palazzi del governo c’è un paese in cui secondo le stime delle Nazioni Unite, mezzo milione di persone tra cui 60 mila sfollati, 135 mila migranti e 40 mila rifugiati sono a rischio di contaminazione per gli ordigni inesplosi lasciati dall’ultima guerra.

Due settimane fa un ragazzino di quattordici anni è stato ucciso da una mina nel quartiere di Ain Zara, periferia sud della capitale e i suoi fratelli minori sono rimasti feriti. Camminavano nelle macerie tra resti di ordigni inesplosi.

 

 

La strada 83 è una via polverosa che collega il centro di Tripoli alle periferie, più cresce la distanza dal centro più i sobborghi ricordano le atrocità dell’ultima guerra. Edifici distrutti dai colpi di artiglieria, case violate che un tempo ospitavano famiglie e oggi sono la scenografia malinconica di una tragedia appena finita che gli spettatori hanno fretta di dimenticare. Yousef Abdullah è sul ciglio della strada, aspetta un operaio per consegnarli cento dinari per un lavoro di edilizia da poco concluso. Sventola i cento dinari e dice: «Mi sono rimasti solo questi».

La periferia meridionale di Tripoli sfocia nei campi, Yousef aveva una coltivazione di datteri di cui resta poco e niente. È tornato a casa da due mesi perché non sosteneva la vita da sfollato, e quando cala la sera e si affaccia dal muro appena riverniciato della sua fattoria vede silenzio e macerie di chi non è sopravvissuto o non riesce a tornare .Anche il suo vicino è tornato a casa, ha cinque figli ma non permette loro di uscire per paura delle mine. E ha un fratello sulla sedia a rotelle, colpito da un’embolia per paura dei colpi delle truppe che si avvicinavano a casa sua, oggi riesce solo a dire: «Haftar cane, Haftar cane».

Ain Zara, Wadi Rabia, Abu Salim sono i quartieri più colpiti dall’ultimo conflitto, l’offensiva lanciata nella primavera di due anni fa da Khalifa Haftar per conquistare la capitale. Allora, l’uomo forte della Cirenaica controllava la maggior parte dei giacimenti del paese e boicottava ogni passo della diplomazia, sostenuto da Egitto, Russia e Emirati Arabi.

«Libereremo Tripoli dai terroristi e dalle milizie», era stato il mandato di una guerra annunciata come un’operazione lampo. Le cose sono andate diversamente. La guerra è durata più di un anno, il coinvolgimento degli attori esteri si è moltiplicato e la Libia è diventata terreno di un conflitto regionale per procura, mentre l’Europa era troppo divisa da aspirazioni in competizione per attuare una vera agenda unitaria.

Negli ultimi due anni la Libia ha visto un aumento del livello di coinvolgimento esterno nel conflitto, 330 aerei russi sono entrati nel paese negli ultimi 18 mesi, la Turchia, dal canto suo, ha effettuato 145 voli cargo nel solo 2020.

Le posizioni antagoniste di Italia e Francia a sostegno dei due opposti governi hanno a lungo indebolito gli sforzi delle Nazioni Unite e lasciato un vuoto che è stato riempito da paesi meno timidi, e politiche più aggressive. Come quella di Erdogan, a cui Tripoli deve la sua liberazione. L’azione turca che ha segnato la vittoria della guerra di Tripoli rischia di determinarne il futuro. Senza il supporto militare turco, l’allora premier al-Sarraj non avrebbe vinto. Questa è la chiave per capire la sciarada del dopoguerra e del nuovo governo, che prima di essere una conquista delle negoziazioni diplomatiche ne segna la sostanziale fragilità.

Non ci sarebbe stato nessun successo del Forum a Ginevra se Haftar non fosse uscito militarmente sconfitto da un’offensiva troppo audace che aveva lanciato su Tripoli, e Haftar ha perso la guerra solo perché la Turchia è intervenuta con uomini, addestramento, droni e mercenari siriani in supporto di Tripoli. Ecco perché, oggi, la Turchia è la più titolata a chiedere il posto in prima fila nella spartizione del grande affare del dopoguerra.

Ankara vuole capitalizzare la vittoria di Dbeibah e ha tutte le ragioni per pensare di farcela, i legami del nuovo Primo Ministro libico con la Turchia sono noti, non a caso il suo primo viaggio, nemmeno una settimana dopo la sua elezione, è stata una visita ad Ankara. E una visita in forma privata.

Nel 2020 la Turchia ha esportato in Libia beni per 1,6 miliardi di dollari e aspira a raggiungere presto il traguardo dei dieci miliardi. Non solo progetti ma anche compensazioni. Le aziende turche erano in Turchia prima della caduta di Gheddafi, dieci anni fa. Oggi chiedono conto, vogliono essere ripagate dei 29 miliardi di dollari di progetti incompiuti.

Abdelmajid Khosher, presidente dell’Unione degli appaltatori libici e vicepresidente dell’Unione degli appaltatori arabi ha dichiarato che la ricostruzione vale 450 miliardi di dollari e che è necessario dialogare con tutti.

È intorno al tavolo dei miliardi della ricostruzione che gli ex antagonisti tornano se non amici almeno non nemici armati .Alla Turchia i porti, all’Italia l’aeroporto internazionale distrutto dalla guerra e il ripristino del vecchio progetto dell’autostrada costiera, all’Egitto la forza lavoro.

 

 

Il ministero del lavoro egiziano ha annunciato a marzo di aver tenuto colloqui con l’omologo libico per discutere la partecipazione dei lavoratori egiziani alla ricostruzione «servono più di due milioni di lavoratori egiziani per ricostruire le città colpite», ha detto.

Dbeibah finora è stato scaltro, ha cercato di trovare accordi tra le fazioni, e di non sbilanciare gli equilibri delle forze regionali protagoniste del conflitto, sebbene non sia noto – almeno non ancora – quale sia il prezzo di questa calma apparente e se e quando alcuni gruppi armati decideranno di alzare la posta.

In mezzo c’è sempre il petrolio. La Libia è una delle principali riserve petrolifere del continente africano, il settore petrolifero costituisce il 97 per cento delle entrate pubbliche delle valute estere nel paese. Più petrolio si estrae e più petrolio si vende, più petrolio si vende più circola denaro contante e più si possono riparare le infrastrutture energetiche distrutte dalle guerre. Controllare il petrolio significa controllare il consenso, e significa controllare la Libia che resta, se non nella forma, in sostanza ancora divisa a metà.

Bengasi, la capitale della Cirenaica, regno di Haftar, è afflitta da un’ondata di violenze da un mese. Il 18 marzo in città sono stati trovati 12 corpi crivellati di proiettili. Una settimana dopo è stato assassinato Mahmoud al-Werfalli, un fedelissimo delle forze di Khalifa Haftar, il 25 marzo, Hanine al-Abdali – figlia di Hanane al-Barassi, l’avvocato e attivista per i diritti delle donne assassinato in una strada a Bengasi a novembre – è stata rapita. Haftar ha sempre meno fondi e sempre più nemici interni.

Però alcune cruciali infrastrutture restano nelle sue mani. I pozzi intorno a Sirte sono ancora controllati delle milizie legate ad Haftar, che già durante la conferenza di pace di Berlino le aveva usate per fare pressione sull’Europa, chiudendo giacimenti per mesi e determinando una perdita per le casse dello stato di dieci miliardi di dollari. Il governo Dbeibah non ha ancora un ministro della Difesa, sintomo che non ci sia una reale unificazione delle forze armate.

Le milizie sono state e purtroppo ancora sono la leva di pressione politica. Arginare il potere delle milizie, il loro controllo su traffici illeciti e infrastrutture, deve essere la prima vera sfida di Dbeibah. Vincerla significa essere il Presidente della Libia unita o solo il nuovo sindaco pro tempore di Tripoli.

Condividi
Questa voce è stata pubblicata in GENERALE. Contrassegna il permalink.

1 risposta a L’ Espresso, domenica 11 aprile con la copertina di @Maurobiani #destinoLibia + FRANCESCA MANNOCCHIO : ” Grandi affari in Libia: una torta da 450 miliardi di dollari. E l’Italia prova a giocarsi la partita “- FOTO DI ALESSIO SOMENZI-L’ESPRESSO, 9 APRILE 2021

  1. i. scrive:

    Terribile questa “ricostruzione” della Libia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *