Donatella D’Imporzano Piccoli racconti d’estate –luglio 2021, Riviera di Ponente

 

 

 

 

 

 

bardelli,  riviera di ponente, acquarello

 

 

 

 

 

 

Si era era messa in testa di educare i piccioni, che venivano numerosi sul suo balcone per le generose elargizioni di riso e di granaglie che faceva loro. Erano però animali estremamente individualisti, rissosi davanti ad un chicco di riso, pronti a litigare tra loro e a beccare i più giovani e i più deboli senza il minimo senso di appartenenza comune. L’aveva indignata l’accanimento che i più forti dimostravano verso uno di loro, che aveva perso una zampa in chissà quali trappole. Lei era rimasta un’insegnante, convinta che la realtà si potesse migliorare con un po’ di fantasia e di buona volontà. Stava attenta, dopo avere messo il cibo sul balcone, che ogni animale potesse mangiare, separava quelli più rissosi da quelli inermi, con voce pacata incoraggiava i più miti a non farsi impaurire da quelli più aggressivi. Aumentarono le quantità di granaglie messe a disposizione, in modo che tutti quanti potessero soddisfarsi. Fu raggiunta da una lettera di contravvenzione del Comune, suggerita dai condomini stufi del guano che pioveva loro addosso. Pagò la multa e, non arrendendosi, continuò a nutrire le irriducibili bestie in modo più nascosto.

 

 

 

 

 

 

La sorte gli aveva dato un fratello, più grande di lei di quattro anni. Più che un fratello lo aveva sempre considerato un avversario, un concorrente. Il fratello non andava bene a scuola e lei si ripromise di diventare la prima della classe. Il fratello era sempre rimandato in latino e lei si impresse le cinque declinazioni, le coniugazioni,i complementi, l’ablativo assoluto, il participio congiunto, il periodo ipotetico in modo tale che non se li sarebbe più dimenticati fino alla morte. Il suo spirito guerriero e antifraterno sarebbe però caduto rovinosamente nell’adolescenza, quando la sua vita si avvicinò per sentimenti e desideri a quella del fratello. Il tramite che fece cadere le ultime barriere fu il teatro, cioè la passione per recitare e cantare. Queste due attività penso che siano un mezzo straordinario per fare vivere bene insieme le persone. Recitare e cantare fanno “ uscire da se’, ci portano in un mondo più grande del nostro e noi giochiamo ad essere altri, liberandoci finalmente, anche se solo temporaneamente, di noi stessi. Insomma, diventiamo davvero fratelli.

 

 

 

 

 

 

 

Ho visto per la prima volta l’interno di una “casa funeraria”. Pare che ormai il morto, nell’intervallo tra la morte e il funerale, non rimanga più nella sua casa ma, dalle ditte di pompe funebri, venga portato in un luogo apposito, giustappunto la casa funeraria. Ce n’è una proprio vicino a dove abito, confusa con altri grandi capannoni industriali, alla periferia della città. L’esterno è quasi bucolico, con ulivi e cipressi ben curati, aiuole ben tenute e panchine per parenti affranti. Una fila di alti cespugli la separa da una strada ad alto scorrimento, quasi una sottolineatura della vita e della morte. Insomma è naturale morire, ma è anche naturale che la vita continui. Quando si entra si ha l’impressione di essere in un motel ben curato. Si chiede al portiere dove stia il morto, dando nome e cognome e compilando un modulo. Tutto è lucido e risplendente. Con l’ascensore si va al piano di sopra, dove ci sono le camere. I pavimenti risplendono, ci sono tappeti e mobili di tipo “classico”, quelli che ognuno che aspiri ad una posizione di persona di medio gusto borghese metterebbe a casa sua. Si insiste su un colore che tende al marrone. Le lampade illuminano il percorso ma in modo discreto. Ci sono le stanze, come in un albergo. Invece di essere numerate hanno il nome di un poeta famoso. Io ero capitata nella suite”Petrarca”. Sulla porta a vetri stavano incisi alcuni versi che mestamente ricordavano la pace eterna da parte del grande Poeta.
Una volta entrati, c’era un piccolo salotto con divanetti e, attraverso una porta a vetri, si arrivava alla sala dove era esposta la salma. Anche qui divani a disposizione, un cahier de doleance per esprimere i propri sentimenti ( non c’era la penna perché le persone, immerse nel dolore, tendono a fregarla), il tavolinetto su cui c’era l’album delle dediche con vicino un piccolo alberello di plastica, non si sa perché, forse simbolo di vita perenne. Furoreggiava l’aria condizionata, c’era un gelo diffuso e nella bara decorosamente acconciata il morto diafano e quasi irreale poteva usufruire a sua insaputa di un grosso tubo di plastica che penso servisse ad aspirare cattivi odori. Mi sono venuti in mente i film horror, dove si vedono posti apparentemente innocui che si trasformano velocemente in incubi. Non sono riuscita a dire nemmeno una preghierina né a ripensare la persona da viva, che pure avevo conosciuta e che mi era risultata simpatica. Sono uscita velocemente da quella rappresentazione mortuaria, che non aveva niente di umano. Mi sono rammentata che quella stessa ditta un tempo aveva un’insegna più sbarazzina: invece che un ‘anonima scritta “ Casa funeraria” si chiamava “ Al di là del luogo comune”. Almeno si poteva sorridere un po’, facendo scongiuri banali ma, chi lo sa, magari efficaci.

 

 

 

 

 

 

Ognuno di noi penso che abbia sperimentato momenti di libertà e di gioia assoluta, almeno me lo auguro. Il mio momento di pura gioia l’ho avuto da piccola, penso all’età di cinque, sei anni. I miei avevano un negozio di drogheria che dava su una grande piazza, le auto erano molto poche e le strade non presentavano pericoli, soprattutto quelle attorno alla piazza e alla chiesa che vi sorgeva accanto. Mentre mio fratello andava già a scuola alle elementari, io trascorrevo gran parte della giornata in negozio, o meglio, nelle vie attorno, molte delle quali erano quasi dei vicoli. Con altri bambini della mia età avevamo fatto una specie di banda, che andava in giro a giocare ma anche a dare fastidio agli adulti con qualche piccolo dispetto. Io ero innamorata di un ragazzino della mia età circa, la cui famiglia era conosciuta dalla mia. Insieme facevamo i capibanda, una specia di Bonny e Clyde. Dirigevamo le piccole spedizioni nei vicoli attorno, nascondevamo degli oggetti che trovavamo incustoditi, insomma eravamo i piccoli contro i grandi in un minuscolo progetto di divertimento e di spontanea criminalità. Arrivammo a nascondere il bastone di una persona anziana che l’aveva lasciato incautamente fuori da un negozio. Credo che non l’abbia mai più ritrovato. Eravano noi piccoli contro un mondo grande e terribile, che però non ci faceva paura, anzi ci sentivamo onnipotenti. I nostri genitori erano occupati a lavorare, si preoccupavano se non ci vedevano per qualche tempo, soprattutto ci raccomandavano di non sudare. Per il resto eravamo liberi. Tutta questa meraviglia però finì per una delazione. Ci eravamo arrampicati sulla cancellata della chiesa e qualcuno lo andò a riferire ai miei genitori. Spaventati, vennero a prenderci e da quel momento finì quel luminoso periodo di libertà. Ci fu proibito di giocare in piazza, non potemmo rimettere insieme quel nucleo di piccoli incoscienti pronti a tutto, ci fu proibito di giocare insieme. Fu un vuoto terribile e non riuscii mai a divertirmi con le bambole. Fu come essere scacciati dal paradiso terrestre.

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2 risposte a Donatella D’Imporzano Piccoli racconti d’estate –luglio 2021, Riviera di Ponente

  1. giorgio loreti scrive:

    Piace leggere i bei racconti ‘autobiografici’ di Donatella, cui rivolgo sentiti complimenti e un caro saluto. Nemo

  2. roberto rododendro scrive:

    Racconti, pensieri, piccole indiscrezioni su te stessa. Come al solito c’è sempre un pizzico di discreta autoironia. Se fossero molti di più ne uscirebbe una bella raccolta.
    Riguardo ai piccioni che cagarellano sui sottostanti condomini ….. se i piccioni, essendo per l’appunto piccioni, non possono aver torto, tu reiteratamente SI! 🙂

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