Chiara, L’origine del delirio – a partire dall’osservazione del suo. Dal ” Libro di Chiara ” ( che non c’è come —)

 

 

 

 

 

mario bardelli, per chiara, 2002

 

 

 

 

 

E’ difficile, per me, raccontare l’origine del delirio, perché troppe variabili complesse sono in gioco per riuscire ad  abbracciarle.

 

Si tratta di un vissuto in prima persona, e non dell’osservazione della mente di un altro, i cui dati possiamo raccogliere, capire e anche riportare a coordinate teoriche  che permettono una comprensione.

 

Ancora più difficile parlarne per il fatto che noi siamo un’unità unica che si presenta con due facce ugualmente essenziali, corpo e mente, come un Giano bifronte.

 

Non si riesce a parlare di due registri diversi contemporaneamente ed essendo un’unità inscindibile, dove non c’è un “prima” e un “poi”, né qualsivoglia gerarchia: ma è così che bisognerebbe fare.

 

Da qualunque parte si cominci, si sbaglia.

 

Sono convinta che il delirio comporti delle trasformazioni biochimiche, altrimenti i farmaci non potrebbero fare effetto, e delle ristrutturazioni psichiche che, insieme, originano un fenomeno unico.

 

Non ha senso, a mio parere, chiedersi “ chi inizia?” perché si tratta di un processo graduale che si sviluppa in movimenti circolari aperti, e contemporanei, dove tutto avviene per minuscole trasformazioni reciproche.

Le trasformazioni biochimiche si avvertono come una maggiore irritabilità, un’estrema suscettibilità agli stimoli, in risposte emotive sempre sproporzionate a questi, in uno stato di serietà e concentrazione mentale che dà un dolore di testa molto caratteristico, in una vulnerabilità emotiva che porta facilmente dal pianto al riso.

Anche in una maggiore concentrazione in noi stessi come fossimo presi ossessivamente dal teatro delle nostre emozioni e del nostro io.

 

Questo stato di mente ci porta a sentirci isolati dallo scorrere degli avvenimenti quotidiani e dagli altri, come chi è assorto in un grande problema che deve condurre a profonde trasformazioni nella propria vita.

 

Nello stato preparatorio del delirio si è straordinariamente aperti al nuovo e all’ignoto, la percezione del mondo è cambiata anche se in modo sottile, destando a volte l’entusiasmo, a volte invece il senso di un pericolo indefinibile e continuo, e per ciò stesso più minaccioso.

 

Quando la depressione mina l’essenza del nostro modo di vivere, è sempre accompagnata da un’attività mentale che corrode le fonti stesse del significato delle cose, la loro rappresentatività, e mette in discussione tutte le nostre categorie, anche quelle morali.

 

La nostra mente si svuota e si riduce a un puro sentire, a delle percezioni cui tentiamo di attribuire un nuovo senso, una nuova rappresentabilità, anche senza riuscirci.

 

Tutta l’impalcatura delle nostre conoscenze già stabilite, che ci ottundano, ma anche ci difendono dal diluirci in pure impressioni, è buttata giù, e ci avviciniamo di nuovo al mondo, e agli altri, come se la nostra mente fosse una pagina bianca e noi volessimo nascere di nuovo.

 

 

A diciannove anni, nel dicembre ’63, sono andata in Brasile per tre mesi, ospiti dei miei zii, che però sono ripartiti una settimana dopo, lasciandomi sola. La famiglia di mia zia era lì a San Paulo, e poteva darmi un appoggio.

 

Dopo un mese di vita in un universo totalmente sconosciuto, e così lontano dal mio modo di vivere abituale, tutto il mondo che mi ero lasciato alle spalle aveva perso di significato.

Anche i miei genitori, e mia sorella, mi erano diventati estranei e parlavo al telefono con loro al telefono con fatica.

 

Le parole avevano perso il loro suono e non potevo usarle se non con profondo disagio. Scrivevo affannosamente sui miei quaderni, ma potevo usare ogni parola solo fra virgolette perché ognuna la sentivo impoverita di senso e quasi surreale.

Studiavo il portoghese, ma queste parole non potevano destare alcun eco significativo nella mia mente.

 

Il mondo che avevo davanti mi era sconosciuto ed estraneo, anche se attraente, e quello che mi ero lasciata alle spalle l’avevo perso.

 

 

Perché questa esperienza di totale estraniamento ha potuto significare, al mio ritorno in Italia, una profonda rimessa a fuoco del mio modo di pensare, del mio modo di essere?

 

Come mai questo stato di depressione, e dispersione dell’essere, si è risolto in cambiamento e crescita e non in delirio?

 

Quello che mi pare totalmente diverso è lo stato del mio io.

 

A diciannove anni, nonostante le depressioni vissute, la nebbia e le lacerazioni, il mio io era ancora sufficientemente compatto. Avevo un’identità cui fare riferimento, dei legami, una famiglia nella quale, a grandi linee, mi inquadravo.

 

 

 

 

A trentadue anni, dopo una grave depressione vissuta in solitudine e con attacchi di panico che mi avevano costretto a lasciare il lavoro, sempre un punto di riferimento decisivo per me, la lontananza dalla famiglia, un ambiente nel quale non mi riconoscevo e che non mi piaceva, non era più così.

 

Nella terapia, lo psicologo mi diceva : “Non ho mai conosciuto nessuno che bruciasse tante immagini di sé come te”.

 

Questo significava che il mio io era in uno stato di caos, un’instabilità radicale che avrebbe richiesto un tempo lungo di sedimentazione e degli obiettivi graduali.

 

—   Di mezzo c’era il distacco da Sanremo, dove ero nata, dalla famiglia e da tutto il resto cui ero -male o bene- “adattata”. E c’era l’affrontare da sola- a mani nude, se mi passate l’espressione, tanta era la mia “ingenuità da paese”- una “gigantesca” città, piena di stimoli i più contraddittori, un’università di filosofia (l’allora famosa “Statale di Milano” con tutti i suoi personaggi di alto livello), di cui mi era inaccessibile persino il linguaggio – sia di alunni che di professori-  tanta era la povertà culturale delle scuole da cui ero uscita.

E l’essere così sola, senza nessuno cui poter aprire il mio cuore, nemmeno la famiglia.
In preda dei miei stati d’animo e delle mie elucubrazioni.   —

 

Tutto era stato, invece, dal terapeuta messo sul tavolo con urgenza: il distacco dalla famiglia, un nuovo lavoro, l’allontanamento da un ragazzo che mi forniva una dolce stabilità.

 

Invece di vivere la depressione ed elaborarla, da lui ero stata spinta a sfuggirne superficialmente, come mi fossi ubriacata di positività, ma, nello stesso tempo, il fatto stesso di negarla, questa immensa depressione, e le lacerazioni  cui mi ero esposta, l’avevano resa più profonda.
Come avesse acquisito più violenza dall’essere stata ricacciata indietro e sotterrata.

Questa parte mia così allontanata, mi aveva reso più fragile, come fossi nata da poco, senza spessore e senza passato.

Non avevo più radici, un albero in preda ad ogni vento, ad ogni tempesta.

 

La stessa dichiarazione di amore eterno che avevo fatto al terapeuta, dimostrava che mi ero svestita di tutta la mia storia, senza parlare della proposta di fare all’amore che era la totale negazione di quel profondo pudore in cui ero stata educata.

 

Per arrivare al delirio, è necessario qualcosa che distorca vertiginosamente la nostra biografia storica, qualcosa che ci allontani da quanto è più profondamente sedimentato in noi così da perdere completamente un terreno su cui mettere i piedi e, soprattutto, una nostra identità. Naturalmente, questo qualcosa sarà diverso per ognuno di noi, ammesso che qualcuno si ritrovi in questa mia esperienza.

 

Ma anche la depressione, che almeno nel mio caso è l’inizio del periodo preparatorio del delirio, deve – per arrivare ad una crisi – ad un certo punto, potersi giuntare ad una serie di connessioni, per lo più casuali e imprevedibili, alle quali non siamo preparati e che sono, anche queste, diverse per ciascuno di noi.

 

Quello di cui parlo si potrebbe chiamare semplicemente “ la goccia che fa traboccare il vaso”, anche se si deve immaginare, questo, come un periodo molto lungo, fatto di “tanti vasi che traboccano”, tante lacerazioni che si sovrappongono una all’altra, tanti minuscoli traumi fino ad arrivare ad un episodio chiave che può essere considerato la goccia che dà inizio al delirio.

 

Tante cose devono essere successe, allora, che non sono in grado di ricordare, cose che riguardano il rapporto con il ragazzo, i familiari, o il lavoro, tutta una serie di piccoli accadimenti casuali che si sono infilati una nell’altro come le perle di una collana, originando un preciso contesto emotivo nel quale si potevano sentire già delle note molto acute.

 

Ricordo, però, molto bene che ero totalmente impreparata al tipo di risposta del terapeuta (mi riferisco al fatto di aver chiamato gli infermieri per farmi internare quando ho pronunciato la mia proposta amorosa) e che questa è stata la mia goccia finale, per rimanere nell’immagine usata.

 

Da quel momento sono entrata in una dimensione sconosciuta che, a tratti, mi faceva sentire molta paura: ero in un territorio mai visto e dall’aspetto un po’ sinistro, che però chiedeva di essere percorso, quasi fosse un dovere, un sottofondo di note stridule, che mi lasciavano con il fiato sospeso, in attesa di qualcosa, qualcosa che però non sapevo.

Lo spavento, in questa fase, derivava proprio da questa tonalità di stati d’animo fatta di “ annunci”, per così dire, un annuncio molto solenne, di qualcosa di sconosciuto che doveva anche ispirarci timore, o per lo meno, così ci era suggerito, anche se non era ancora il delirio.

Ma, in un altro caso, diverso dal mio, avrebbe potuto essere qualunque altra possibile risposta purché si fosse rivelata una casualità alla quale si fosse stati assolutamente impreparati.

 

Il delirio nasce infatti quando siamo chiamati a far fronte ad una situazione che ci spaventa fin all’inverosimile e per la quale non abbiamo più parole per descriverla, quando non abbiamo assolutamente modo di attribuirle un significato, simbolizzarla.
Come se quell’evento ci prendesse alla sprovvista, come fosse un fuoco d’artificio di stimolazioni più rapido delle nostre possibilità di significazione: è questo, credo, che origina un trauma così grave ai nostri tessuti nervosi da suscitare il delirio che è sempre una spiegazione sostitutiva, anche se surreale.

 

Le gocce di cui parlavo sopra, quelle che a poco a poco riempiono il vaso e che caratterizzano il lungo periodo di gestazione del delirio, si possono descrivere, in altre parole, come tanti piccoli traumi continui, a cui si aggiunge uno specifico evento, un trauma specifico, che genera però una sintesi qualitativa e non semplicemente quantitativa, genera cioè una vera e propria trasformazione.

 

Infatti, dopo quest’ultimo evento, nella nostra mente si apre una voragine buia, paurosa, dentro la quale la nostra mente potrebbe precipitare per spegnersi definitivamente, ma a cui il delirio si offre per imbastire un racconto, una rete di senso che ha la funzione di difenderci da pericoli interni così tremendi.

Il delirio ci salva così dalla morte mentale, ma – forse perché siamo tanto limitati – così facendo, nella maggioranza dei casi, ci lascia eccessivamente esposti ai pericoli del mondo esterno.

 

A questo punto, infatti, il nostro comportamento obbedisce prevalentemente, quando non solamente, alle leggi interiori: per questo noi matti sembriamo tanto strani alle persone normali.

 

E’ perché siamo degli esseri che – con molto pericolo per sé e per gli altri – viviamo, nella realtà pratica, i nostri sogni, le nostre fantasie, la nostra realtà interiore, ma facciamo questo per non soccombere ad una morte peggiore della morte fisica che è la morte della propria mente.

 

La ritengo peggiore soprattutto perché ci tocca osservarla lucidamente attimo per attimo, come uno fosse costretto (e ci sono persone che ci sono costrette) ad osservare minutamente –  gradualissimamente – il lento disfarsi del proprio corpo.

Solo che, adesso,  si tratta della nostra ” anima “.

 

 

 

 

 

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6 risposte a Chiara, L’origine del delirio – a partire dall’osservazione del suo. Dal ” Libro di Chiara ” ( che non c’è come —)

  1. ueue scrive:

    Illuminanti queste spiegazioni e approfondimenti di Chiara. Penso che, di fronte ad una realtà troppo dura da sopportare, le persone si creino una loro “realtà” che in qualche modo li tiene lontani da una morte vera. Trovo affascinante questo argomento, anche perché ognuno di noi si crea una realtà virtuale, soprattutto di se stessi, che aiuta a sopravvivere.

  2. MGP scrive:

    Cara Chiara
    leggo un percorso dettagliato e approfondito che spaventa e allo stesso tempo affascina. “Il libro di Chiara” mi pare un manuale preziosissimo non solo per chi ha attraversato o attraversa e anche per chi è testimone di situazioni di disagio o di malattia mentale leggera o meno leggera.
    Il testo espone, con grande lucidità e chiarezza, i passaggi della mente e in questo progredire si rivela come sostegno importante e competente per chi scende o per chi non vuole scendere per quella scala a chiocciola in discesa, ma vuole solo capire un po’.
    Il procedere è chiarissimo fino all’entrata nel delirio che risulta invece un luogo oscuro e forse troppo complesso per poterlo descrivere con lo sguardo ripiegato su se stessi.
    Mi piace fare un commento dopo una prima lettura, ed evidenziare qualche passaggio che mi ha coinvolto particolarmente.
    – “La depressione mina l’essenza del nostro modo di vivere è sempre accompagnata da un’attività mentale che corrode le fonti stesse del significato delle cose”. Trovo questi due verbi perfetti.

    – L’impalcatura: la depressione demolisce “ tutta l’impalcatura della nostra coscienza già stabilita che ci ottunde, ma anche ci difende”. Condivido molto questa immagine che io descrivo come un perdere ogni copertura, un vivere completamente nudo, senza più abiti, né capelli, né carne, né sangue, solo come scheletri ambulanti privi di ogni visione. Ecco, il crollo dell’impalcatura mi pare sia molto simile.
    – Il luogo del delirio è impressionante, assomiglia all’inferno dantesco, ma assomiglia anche più semplicemente ad un incubo come il trovarsi in una stanza buia nella quale dobbiamo cercare un uscita che non c’è, ma anche a un Demone che pretende ubbidienza, o a un Dio crudele “a cui il delirio si offre per imbastire un racconto, una prima rete di senso che ha la funzione di difenderci da pericoli interni tremendi.” Ma tu dici anche “Il delirio ci salva dalla morte mentale” se ubbidiamo alle sue leggi, diversamente andiamo incontro al disfacimento della mente. Una situazione che riporta a un senso di colpa, a una punizione estrema, quanto alla necessità di un sacrificio salvifico. Difficile, molto difficile capire qualcosa del delirio.
    Avrei ancora molte osservazioni, ma ne parleremo un po’ alla volta con te cara Chiara.
    Per ora un caro abbraccio MGP

    • Chiara Salvini scrive:

      Cara MGP, è interessante per chi avuto un’esperienza come quella che tento di descrivere, trovare qualcuno che appartiene al mondo della normalità ( magari tra quelli di cui il mio professore diceva: ” per loro, 2+2 fa 4, ma con molto fastidio “) che si sforza di capire e anche riesce a tradure quel vissuto in ” altre ” parole. La cosa più terribile per un malato mentale, almeno così mi pare in questo momento, è la segregazione in uno spazio angusto solo privato, senza una possibile comunione con un mondo pubblico che appartiene alla maggioranza dei viventi. Ti inviterei, pertanto, a scrivere altre cose, sempre che tu voglia farlo.
      Anche quello che ha scritto Donatella ( Ueue, fa il suo computer …) risponde allo stessa necessità di ” regalare ” al malato un mondo comune dove aver il diritto di esistere ” anche se diverso “.
      Sì, lo sappiamo tutti, e ce lo diciamo continuamente, che siamo uno diverso dall’altro, e, anzi, la buona pedagogia ci invita a ” impratichirci ” con il diverso per arricchirci, ma forse la diversità della pazzia è intollerabile perché significa l’uso di una logica che non è quella del giorno, ma piuttosto quella della notte, delle emozione sotterranee che nella vita quotidiana cerchiamo di mettere da parte fino a – possibilmente – eliminarle. Ci accontentiamo di lasciarle emergere quando siamo seduti tranquilli con un libro di poesie in mano, oppure quando siamo immobilizzati nel sonno. Solo allora, incapacitati ad agire, o meglio, ad agirle, le lasciamo emergere in tutto il loro potere, senza riconoscerle, però, come caratteristiche imprescindibili dell’umano. Ciao, ma belle, grazie. chiara
      p.s. Che il delirio ti appaia una cosa molto oscura…be’ non è strano, ma forse potessi leggere altri passi del libro– con calma, con molta calma -non ti parrebbe tanto strano, almeno, lo spero.


      Donatella
      ( in un altro commento che riporto qui ): Quello che scrive MGP mi sembra chiaro e approfondito. Come viene detto, sia da te che da lei, penso che tutto nasca dalla depressione, dal non potere essere riconosciuti da nessuno e quindi anche da noi stessi.

  3. MGP scrive:

    Cara Chiara,
    la tua consapevolezza è molto rara. Mi pare che la maggior parte delle persone che soffrono di disturbi mentale non siano consapevoli della loro diversità, forse sanno di avere qualcosa di strano, ma non sanno che cosa.
    I farmaci, quasi sempre attutiscono o meglio mettono a tacere le spinte interiori. Ma per fortuna ci sono i farmaci . . . perché le sofferenze psichiche sono dilanianti e non posso immaginare quante tu ne abbia subite nel corso della tua vita.
    Vorrei ora chiederti della TUTELA. Tu dici che la depressione è come una lunga gestazione che può condurre al delirio. Una sorta di strada disseminata da “tante lacerazioni che si sovrappongono”. Sì, sono d’accordo, ma io credo che il corpo e la mente uniti come sono, si mettano all’erta di fronte alla sofferenza, si alleino così che la persona depressa non riesce più a camminare, a respirare, a pensare . . . ed evita ogni afflusso esterno. La chiusura di cui tu stessa parli potrebbe essere una difesa, da benedire. Perché fermi, zitti e isolati, si può aspettare e aspettare ancora che un barlume di equilibrio corpo/mente ritorni piano piano con l’aiuto dei farmaci.
    Capisco che non per tutti possa esserci questa possibilità, ma rileggendo il tuo scritto mi pare di considerare che la depressione possa essere vista come un campanello d’allarme dell’anima, da ascoltare per mettere in moto ogni difesa possibile purché non si apra quella “voragine buia e paurosa dentro la quale la nostra mente potrebbe precipitare”.
    Non so se condividi questa visione che apre una possibilità di tutela da seguire. Dunque ti chiedo:
    – credi alla possibilità di una tutela corpo/mente che possa arginare la malattia o almeno contenerla?
    – credi che ci siano altre componenti essenziali della persona che contribuiscono alla pericolosa discesa nel delirio?
    Un caro, carissimo abbraccio a te cara Chiara

  4. Chiara Salvini scrive:

    carissima MG, sono assolutamente convinta che esistano nella mente e nel cuore degli esseri umani dei segnali di avvertimento, a volte anche ” troppo ” forti, che bisogna imparare ad ascoltare. Si può imparare da soli o attraverso una terapia: l’esperienza di essere arrivati prossimi all’abisso ed essersi fermati in qualche modo ( anche stando immobile, senza contatti con l’esterno, o in qualunque altro modo ) è un’esperienza che fortifica e rassicura. Ognuno ha una sua strada per resistere alla malia dell’abisso. In noi c’è una grande forza, che Freud chiama ” eros “, che ci spinge a salvarci, ma una altrettanto grande, a seconda delle persone e delle loro esperienze di vita, di perderci. Freud la chiama ” istinto di morte “. La differenza tra le due è che mentre Eros ci spinge ad unificare piccole unità in unità sempre maggiori, ossia ci spinge alla costruzione e all’unione — dento di noi, con gli altri, col mondo – Zànatos, o istinto di morte, o anche Nirvana — è la forza opposta che mira a lacerare quello che è unito, attacca quello che funziona e tende, come accadrà in ultimo al nostro organismo, mente compresa, alla disgregazione delle cellule e alla polverizzazione di ogni forma vivente. Non a caso una delle sorelle più amata da questa forza è proprio l’invidia sia di se stessi che degli altri, che prende di mira ” solo le cose buone “. L’invidia è una tipa particolare che si differenzia in meno offensiva e più offensiva: nel primo caso siamo presi da ammirazione per una data persona e vogliamo essere come lei, imitarla per esempio–la spia dell’invidia è l’eccesso che a volte questa ammirazione comporta; l’altra forza, quella più dannosa, verso sé e verso gli altri, è quando si vuole uccidere noi stessi, ammalarci, buttarci nell’immondizia, lasciarci ” rotolare su un marciapiede sperduto come una pietra che cade e corre via “—, oppure l’invidia verso gli altri, quando più o meno consciamente, cerchiamo fare di tutto per spegnere il loro sorriso e la loro voglia di vivere.
    Credo che dopo aver letto questa sfatafiata, te ne guarderai di farmi altre domande perché capirai che, purtroppo per il ricevente, queste mi stimolano a scrivere.
    Sulle componenti ” altre ” che portano al delirio, passo. Magari cercherò nel ” libro che non c’è ” se qualcosa risponde a questo tuo quesito così vasto. Ciao cara, ti mando un bell’abbraccio e la ” poesia all’amica risanata ”

    Fiorir sul caro viso
    Veggo la rosa; tornano
    I grandi occhi al sorriso
    Insidïando; e vegliano
    Per te in novelli pianti
    Trepide madri, e sospettose amanti.

    https://it.wikisource.org/wiki/Odi_(Foscolo)/All%27amica_risanata

  5. MGP scrive:

    Cara Chiara,
    grazie della poesia, è molto bella, ma ancora non mi sento proprio risanata, il tuo sarà un augurio per il prossimo futuro. Grazie.
    Non recedo, e non mi infastidiscono le tue “deviazioni” diciamo così.
    Dunque puoi affermare che esistono dei segnali di allarme e dei rimedi che si possono mettere in atto, penso ai più vari e impensati, l’importante è che un po’ funzionino. Possiamo dunque pensare che noi stessi, messi in allarme di fronte a “prossima fermata l’Inferno” siamo capaci di inventare un riparo possibili, credo che occorra essere molto flessibili e per niente schematici.
    Ma tu dici c’è “eros” che salva, unisce e soccorre, ma c’è anche Zànatos che ha voglia di lacerare e attaccare ciò che funzione e vuole rovinare e forse anche è attratto dalla distruzione. In modo specifico parli dell’invidia che capisco bene verso gli altri, ma mi è difficile chiamare invidia il sentimento distruttivo verso se stessi. Tu dici “quando si vuole uccidere noi stessi, ammararci, lasciarci rotolare giù . . .” Perché chiamarla invidia?
    In ogni caso queste due posizioni opposte forse rispondono anche all’ultima domanda. Ecco, una componente essenziale della persona potrebbe essere questo appartenere alla schiera “eros” o alla schiera “Zànatos”; mi pare anche che questa divisione non dipenda tanto dalla volontà (forse in minima parte) ma a un carattere di nascita, diciamo così.
    E’ una questione molto interessante cercare di capire la ragione di queste appartenenze. In sostanza:
    – perché vince “eros” e perché vince “Zànatos”?
    – la ragione appartiene chiaramente alla persona, in quale misura?
    Un caro abbraccio e a presto MG

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