+++ Fulvio Scaglione, LA FINTA PACE DEL DONBAS VA BENE A TUTTI –LIMESONLINE.COM — 27 DICEMBRE 2017

 

 

LIMESONLINE.COM — 27 DICEMBRE 2017

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LA FINTA PACE DEL DONBAS VA BENE A TUTTI

 

 

Carta di Laura Canali, febbraio 2017

Carta di Laura Canali – febbraio 2017

 

 

 

Ucraina in "Atlante Geopolitico"

UCRAINA, ATLANTE GEOPOLITICO TRECCANI :: IN BLU SCURO LA CRIMEA

 

 27/12/2017

Il separatismo filorusso, ben foraggiato, combatte un conflitto a bassa intensità che nessuno può o vuole estinguere. Non il precario governo ucraino. Non l’America, contenta dell’instabilità alle porte di Mosca. Non la Russia, che non ha fretta.

 

di Fulvio Scaglione

 

Pubblicato in: TRIMARIUM, TRA RUSSIA E GERMANIA – n°12 – 2017

1. C’è ancora la guerra nel Donbas? Sì. No. Forse. Dipende. A scelta.

Ma a scelta di chi? Sono passati più di tre anni dall’inizio del conflitto, innescatosi in un qualche momento tra la primavera e l’estate 2014, e una sola cosa è certa: nel Donbas si continua a morire. Se per guerra si intendono movimenti di plotoni, battaglioni, eserciti, avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte, allora nel Donbas una vera guerra non c’è più. Ma una volta è un razzo ucraino che cade su un palazzo in periferia, un’altra è una pattuglia ucraina che finisce in un’imboscata. Una mina, il colpo di un cecchino, una raffica. O una serie improvvisa e furiosa di scambi d’artiglieria come quella che, nei sei giorni tra il 29 gennaio e il 3 febbraio 2017, investì aree densamente popolate a Donec’k, Adiivka e Makiivka e uccise sette civili nel territorio controllato dagli autonomisti e tre in quello presidiato dall’Esercito regolare ucraino, con decine di feriti dall’una e dall’altra parte.

 

Donetsk E Regioni Di Lugansk Ucrainamappa Vettoriale - Immagini vettoriali stock e altre immagini di Bacino del Donec - iStock

 

 

Secondo l’Ufficio dell’Onu per i diritti umani, che monitora la situazione sul terreno, dall’inizio della guerra a oggi sono caduti più di 2 mila civili e in totale, tra soldati, miliziani, volontari, poliziotti e persone qualunque, i morti sono stati oltre 10.200.

Di fronte a un’Unione Europea che ormai su questa strage non produce nemmeno più parole, figuriamoci soluzioni; e sotto gli occhi di un mondo che pare guardare alla guerra nel cuore della vecchia Europa come a un mero contrappeso alla guerra in Siria, ennesimo capitolo dell’infinito derby Usa-Russia.

 

 

Russia contro occidente

 

 

È persino difficile capire chi esattamente muoia, nel Donbas.

Dei 6 milioni circa di persone che vivevano nella regione prima della guerra, quasi due hanno trovato rifugio altrove in Ucraina e più di 900 mila sono fuggite all’estero, per lo più in Russia.

Sono rimasti i convinti, i disperati, gli anziani. Non solo. Dalle scuole superiori delle due repubbliche separatiste (quelle di Donec’k e di Luhans’k) escono ogni anno circa 50 mila diplomati: ragazzi che vanno in cerca di futuro, in un luogo dove il tempo è inchiodato a un’eterna e presente emergenza.

 

 

Il ministero ucraino della Difesa ha ammesso, nella primavera scorsa, di aver perso 2.600 soldati e ha accusato le due repubbliche di detenere illegalmente 600 ostaggi.

Nessuna statistica ufficiale arriva, invece, da parte dei separatisti, che pure vengono accreditati di una forza militare bene organizzata e bene armata di 40 mila uomini. Per loro parlano altri, avanzando cifre più o meno verosimili ma non confermate. Di nuovo il ministero della Difesa ucraino, che sostiene di avere prove certe di almeno 1.700 morti sul lato dei separatisti. Oppure Valentina Mel’nikova, presidente del Comitato delle madri dei soldati di Russia, che sulla base delle passate esperienze (le due guerre di Cecenia, soprattutto) si dice sicura che le due repubbliche abbiano perso almeno metà dei soldati persi dall’Ucraina, cioè 1.300 uomini.

 

 

I calcoli di Mel’nikova ci portano alla questione russa. Pare siano circa 3 mila (gli ucraini dicono 5 mila) i soldati russi inseriti nella struttura di controllo e comando dei due corpi d’armata repubblicani, oppure impegnati nell’addestramento truppe.

La Russia nega, ovviamente. Ma Vladimir Putin ha provveduto fin dal 2015, con un apposito ukaz che ha ripreso e precisato un’analoga legge del 1995 (varata all’epoca della prima guerra di Cecenia), a secretare tutti i dati relativi alle perdite militari. Dice Mel’nikova: «Abbiamo fondato il comitato nel 1989 e da allora abbiamo dovuto affrontare nove guerre. Questa è la prima in cui non c’è stata una sola madre che sia venuta a lamentare la perdita del figlio o del marito, o anche solo di aver perso il contatto con loro. C’è stato qualche caso nel 2014, all’inizio degli scontri, poi più nulla». Perché non ci sono soldati russi nel Donbas, direbbe il Cremlino. Oppure perché il segreto della loro presenza in prima linea è molto ben conservato.

 

 

Gli ucraini raccontano che i soldati russi, come pure i mercenari e i volontari che arrivano da est, vengono inviati nel Donbas senza documenti e piastrine; meglio, provvisti di documenti falsi e storie costruite apposta per nascondere la loro vera identità. Elena Vasilevna, animatrice di un gruppo ucraino presente anche su Facebook che si propone di identificare e contare i militari russi caduti nel Donbas, parla di oltre 3 mila morti e sostiene di avere una lista con oltre mille identità di caduti accertate e confermate. La Bbc ha fatto qualche verifica e ha trovato che circa un terzo di quelle identità appartenevano in realtà a ucraini arruolati nelle forze delle due repubbliche. Dunque si torna al punto di partenza: che si spari è sicuro, chi muoia e perché assai meno.

 

 

2. Chi tiene la mano sul rubinetto del conflitto, chi lo regola? Chi decide che oggi si deve morire e domani no? E cosa vuole? Decrittare i disegni politici non è meno complicato che fare il conto delle perdite. Perché un piano di pace, un accordo sulle cose da fare per smetterla di ammazzarsi, in teoria c’è e si chiama Minsk II, siglato in pompa magna l’11 febbraio 2015 da Russia, Ucraina, Francia e Germania con la supervisione dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, la stessa che dispiega gli osservatori lungo il fronte).

Figlio del fallito Minsk I firmato nel settembre 2014 e diventato quasi subito lettera morta, Minsk II è stato da molti considerato una vittoria diplomatica di Vladimir Putin. L’Ucraina allora non ruppe le relazioni diplomatiche con la Russia, non pretese di avere al tavolo anche America e Regno Unito (suoi principali alleati ma anche firmatari, insieme a Mosca, del Memorandum di Budapest che garantiva a Ucraina, Bielorussia e Kazakistan «protezione» dalle minacce esterne) e non riuscì a includere nella trattativa la Crimea, riannessa alla Russia con un atto di forza.

 

 

Carta di Laura Canali

 

Il presidente Petro Porošenko e i suoi erano al tempo in una fase di grande difficoltà, con il paese sull’orlo della catastrofe e le forze armate sulla difensiva. Porošenko peraltro non era un novellino ma un oligarca di successo, un ex ministro degli Esteri (2008-11), ex ministro del Commercio (2012) ed ex direttore della Banca nazionale ucraina. È assai probabile che nella sua testa frullasse già allora il pensiero che Arsen Avakov, ministro dell’Interno e membro del partito Patria guidato da Julija Tymošenko, ha di recente espresso sulla sua pagina Facebook a proposito del «famigerato» accordo di Minsk, doloroso compromesso che l’Ucraina ha accettato per fermare una guerra in corso e lo spargimento di sangue. In quel senso ha funzionato. Ma risolvere la crisi con l’accordo di Minsk? Mai!».

Cosa servirebbe, invece? Avakov detta condizioni che, lui per primo, sa essere irrealizzabili: ritiro dei russi e scioglimento delle repubbliche separatiste; ingresso nel Donbas di una forza di pace internazionale che, «su base paritaria con le Forze armate ucraine», prenda il controllo della regione e dei 420 chilometri di frontiera con la Russia; ritorno del Donbas a un’amministrazione ucraina; libere elezioni; amnistia limitata a chi «non ha le mani macchiate di sangue».

 

 

Insomma: al patto siglato nel 2015 forse non credevano davvero né Putin né Porošenko. Così questi tre anni sono stati spesi soprattutto nel tentativo di sottolineare le reciproche inadempienze. Gli osservatori dell’Osce continuano a testimoniare che il cessate-il-fuoco è violato di continuo, i «consiglieri» russi sono sempre lì e le armi pesanti lungo la «linea di contatto» pure, il che consente agli ucraini di ribadire che i russi non stanno ai patti e al presidente Porošenko, contestato in patria, di dribblare il suo corno della questione. Minsk II prevede uno statuto speciale per le province del Donbas, previa modifica della costituzione ucraina da parte del parlamento. Porošenko e l’attuale governo (dall’aprile 2016 guidato dal suo fedelissimo Volodymyr Hrojsman e sostenuto dalla stessa maggioranza del precedente: Blocco del presidente, Fronte nazionale di Arsenij Jacenjuk, Patria di Julija Tymošenko, Partito radicale di Oleh Lyaško e Samopomič – Autoaiuto – del sindaco di Leopoli Andrij Sadovyi), in crisi di consensi, non hanno né la forza né la volontà per procedere su questa strada.

 

 

Poi c’è tutto il resto. Perché se pure ci fosse la tregua, sparissero le armi pesanti e la Rada (il parlamento ucraino) approvasse tutte le riforme costituzionali di questo mondo, poi bisognerebbe organizzare elezioni nel Donbas. Minsk II le immagina condotte sulla base delle leggi ucraine e secondo gli standard Osce, con libero accesso ai media e agli osservatori internazionali, sistema proporzionale aperto alla partecipazione di tutti i partiti politici ucraini e diritto di voto ai residenti del Donbas dispersi nel resto dell’Ucraina. I leader delle due autoproclamate repubbliche, invece, vogliono un voto a maggioranza semplice, riservato a chi è rimasto nel Donbas, solo tra partiti ivi formati e con i media ucraini fuori dai piedi.

 

 

Minsk II, quindi, non è meno fallito di Minsk I. Ma a nessuno conviene dirlo. Non all’Unione Europea, che da anni gioca con le sanzioni contro la Russia ma di fatto non ha voce in capitolo e va stancamente al traino di Germania e Francia. Non agli Stati Uniti, ispiratori e protagonisti del cambio di regime del 2014 e oggi tutto sommato contenti di come vanno le cose: c’è una guerra a bassa intensità al confine con la Russia, che Washington ha contribuito ad alimentare con circa un miliardo di dollari versato dal 2015 a oggi nelle casse delle Forze armate ucraine; e c’è lo spavento russofobico, ben radicato nella storia, che rinfocola il classico atlantismo antisovietico (pardon, antirusso). Polonia, Romania e baltici; la Nato da muovere secondo necessità; lo scudo stellare in Romania e in Polonia. Cosa potrebbero desiderare di più i seguaci del senatore John McCain e i circoli neocon, che hanno ormai stretto intorno a Donald Trump il recinto delle loro priorità strategiche?

 

 

3. Porošenko resta convinto, almeno a parole, di riuscire a recuperare il Donbas attraverso la trattativa diplomatica. Lo conforta un fatto chiaro: il Cremlino non ha alcuna intenzione di annettere alla Russia il territorio controllato dalle due repubbliche autonome, che non ha nemmeno riconosciuto pur concedendo loro l’uso del rublo. E lo obbliga un altro fatto, non meno chiaro: quella è la strategia che i paesi europei e le istituzioni internazionali vogliono che lui persegua. Nessuno vuole investire in una guerra senza speranza, molti al contrario sono inclini a scommettere su un grande paese evoluto, piazzato nel cuore dell’Europa, ricco di materie prime, forte in agricoltura e posto in un punto strategico delle rotte commerciali europee. Lo ha ricordato a chi di dovere il Financial Times, che ha scritto: «Le riforme, non la potenza militare, decideranno il futuro dell’Ucraina».

 

 

Un po’ di privatizzazioni, una modesta riforma fiscale, energici tagli, una politica monetaria più accorta che ha rallentato la corsa dell’inflazione (si spera al 6% quest’anno, contro quasi il 13% dell’anno scorso), un minimo di crescita della produzione industriale e la promessa di intervenire sul sistema pensionistico che tuttora divora il 25% della spesa pubblica, sono bastati a convincere il Fondo monetario internazionale a sborsare sin qui 8,4 dei 17,5 miliardi di dollari promessi nel 2015 a sostegno del paese. È la scialuppa che il presidente Porošenko non può abbandonare, pena il naufragio collettivo e personale, visto che ha già annunciato di volersi ricandidare nel 2019, alla scadenza del primo mandato.

 

 

Gli aiuti dall’estero, tuttora indispensabili, sono anche le munizioni più potenti che l’ex industriale del cioccolato può spendere per difendersi dai nazionalisti radicali che lo incalzano. Il pericolo per lui viene non tanto dalla figura folkloristica di Mikheil Saakashvili, ex presidente della Georgia (2004-13) ed ex compagno di studi che nel 2015 è stato gratificato con la cittadinanza ucraina e la carica di governatore di Odessa, nel 2016 è diventato un oppositore così incallito da essere privato del passaporto e nel 2017 un agitatore un po’ folle arrestato su un tetto di Kiev da cui minacciava di buttarsi.

 

 

L’insidia vera viene dagli alleati di governo che flirtano con le ali estreme.

Come Andrij Sadovyj, sindaco di Leopoli e leader del partito Samopomič, che si batte per l’abbandono dei territori ora controllati da Donec’k e Luhans’k (tra il 4 e il 5% dell’intera estensione ucraina).

I sondaggi dicono che questa proposta non incontra il favore della popolazione ucraina, ma piace alle frange più scatenate del nazionalismo, ai duri e puri di Jevromajdan, ai reduci degli scontri nel Donbas e ai gruppuscoli della destra.

 

 

Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali

 

 

Sono queste le forze che la primavera scorsa hanno organizzato il blocco delle linee ferroviarie lungo le quali veniva ancora trasportato dalle miniere del Donbas il carbone con cui l’Ucraina genera il 15% dell’energia elettrica. Per qualche giorno le autorità hanno cercato di farli sgombrare; poi, a riprova della fragilità degli assetti politici, hanno adottato il blocco e l’hanno reso ufficiale. Anche se è una decisione un po’ folle e le previsioni più inclini al pessimismo parlano, per un anno di blocco, di una perdita di 2,5 miliardi di dollari e 30 mila posti di lavoro. Anche se il governo ha dovuto dichiarare l’emergenza energetica, prima di veder correre in soccorso gli Stati Uniti con il loro carbone. Anche se il Blocco del presidente sta lavorando a un progetto di legge improntato all’idea che «sarebbe assurdo rinunciare ai nostri territori occupati, isolarli o costruire chissà quale muro», come dice Mustafa Nayyem, estensore del testo. «Rispetto al Donbas», afferma il deputato, «dobbiamo agire come fece l’Occidente con l’Ucraina dopo la caduta dell’Urss: finanziando la società civile per staccarla dal suo passato sovietico e far così emergere dei leader capaci di parlare di democrazia».

 

 

Il blocco ha però dimostrato che anche sul lato dei separatisti, e della Russia che li appoggia, stasi e torpore sono più graditi di movimenti e iniziative di cui non si riesce a prevedere le conseguenze. Alla mossa decisa controvoglia dal governo di Kiev, i separatisti hanno risposto sequestrando (nazionalizzando?) oltre quaranta aziende di proprietà ucraina. E la Russia si è incaricata di rilevare un milione di tonnellate di carbone del Donbas, che poi rivende quasi interamente all’estero, con l’eccezione di una piccola quota usata per un impianto termoelettrico di Rostov sul Don.

Il carbone separatista è stato rintracciato in Turchia (così almeno dice Ihor Nasalyk, ministro ucraino dell’Energia) e finisce in almeno altri sette paesi; qualcuno dice addirittura che faccia strani giri per poi tornare in Ucraina. Certo è che, a un prezzo che oscilla tra i 100 e i 160 dollari a tonnellata, questo piccolo commercio basta da solo a coprire le spese che le due repubbliche devono sostenere per garantire pensioni (magre) e assistenza sociale (minima) agli abitanti del Donbas.

Nel frattempo è stato istituito un rozzo ma efficace sistema fiscale, i traffici legali e illegali si moltiplicano a cavallo della frontiera con la Russia e i dirigenti separatisti cominciano persino a farsi l’un l’altro dei colpi di Stato. Perché cambiare la situazione?

 

 

Non a caso nel settembre scorso, pochi mesi dopo il varo del blocco, Vladimir Putin ha avanzato una proposta a sorpresa: dispiegare nel Donbas una forza di pace dell’Onu. Un machiavellismo, con ogni probabilità, una di quelle mosse del cavallo in cui lo zar eccelle. Certo il segnale che il Cremlino non ha fretta ed è disposto a congelare sine die il problema. Però, perché non provarci? Perché non andare a vedere il bluff? Perché non costringere la Russia a mostrare le carte? Invece, Ucraina e America hanno subito cominciato a dire: solo per sei mesi non va bene, solo per proteggere gli osservatori Osce non basta, solo lungo la linea di contatto non è abbastanza. Un sacco di smorfie, insomma, per non dover ammettere che alla fin fine il male minore non è poi così male. E che questa finta pace è comunque meglio di tutte le grane politiche, economiche e militari che deriverebbero dalle due uniche soluzioni definitive possibili: la conquista militare e la trattativa di pace.

 

 

Pubblicato in: TRIMARIUM, TRA RUSSIA E GERMANIA – n°12 – 2017
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1 risposta a +++ Fulvio Scaglione, LA FINTA PACE DEL DONBAS VA BENE A TUTTI –LIMESONLINE.COM — 27 DICEMBRE 2017

  1. ueue scrive:

    E’ una guerra a bassa intensità ma che muove grandi interessi, sia economici che politici. Intanto, rispetto ai grandi costi di una guerra quasi dimenticata, migliaia di uomini continuano a morire.

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