II. POESIE SCELTE di Mark Strand (1934-2014) “L’enigma dell’assenza nel quotidiano” da Dormendo con un occhio aperto e l’altro chiuso (1964) da Motivi per muoversi (1968) Traduzioni di Damiano Abeni e Natàlia Castaldi con un Appunto di Giorgio Linguaglossa–L’OMBRA DELLE PAROLE, 2 DICEMBRE 2014

 

L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale

 

<strong>POESIE SCELTE di Mark Strand (1934-2014) “L’enigma dell’assenza nel quotidiano” da <em>Dormendo con un occhio aperto e l’altro chiuso</em> <em></em> (1964) da <em>Motivi per muoversi</em> (1968) Traduzioni di Damiano Abeni e Natàlia Castaldi con un Appunto di Giorgio Linguaglossa</strong>

 

POESIE SCELTE di Mark Strand (1934-2014) “L’enigma dell’assenza nel quotidiano” da Dormendo con un occhio aperto e l’altro chiuso (1964) da Motivi per muoversi (1968) Traduzioni di Damiano Abeni e Natàlia Castaldi con un Appunto di Giorgio Linguaglossa

 

Mark Strand aprile 1992

Mark Strand aprile 1992

 

Il 29 novembre 2014 è morto il poeta americano Mark Strand. Questo post è un atto di stima verso la sua poesia.

Mark Strand (11 aprile 1934 – 29 novembre 2014) è un canadese-americano nato poeta, saggista e traduttore. Dal 2005-06, è stato un professore di inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University. Mark Strand è nato nel Summerside Prince Edward Island, Canada.  I suoi primi anni sono stati spesi in Nord America, mentre gran parte della sua adolescenza è stata trascorsa in Sud e Centro America.  Nel 1957, ha conseguito la laurea,  ha poi studiato pittura con Josef Albers presso la Yale University , nel 1959 tramite una borsa di studio Fullbright , ha studiato la poesia italiana dell’Ottocento in Italia durante il 1960-1961. Ha frequentato i workshop Writers Iowa presso la University of Iowa e l’anno successivo  ha conseguito un Master of Arts nel 1962. Nel 1965 ha trascorso un anno in Brasile come Fulbright Lecturer.

 Appunto

 Scrive Rosanna Warren:

«il protagonista di Strand è un “io”, un personaggio che si sottrae al paesaggio. È una poesia semplice come un teorema, eppure inesauribilmente misteriosa. Come interpretare la reiterata auto asserzione […] che cancella il sé? Forse l’“io” è incorporeo come l’aria di cui prende il posto […] nel suo connubio di astrazione filosofica e linguaggio americano contemporaneo, il poema modula e incarna la riduzione che onora, spostandosi da un “campo” a “campo”, operando espansioni e contrazioni minime alla lunghezza dei versi e consegnando il proprio vuoto all’aria, perché lo riempia dopo ogni strofa».

Strand osserva il quotidiano con un occhiale mitologico, con un occhio strabico osserva il rovescio che abita l’altro luogo dello spazio; l’io che afferma è lo stesso che nega e rinuncia, che esce da sé e si arresta sui detriti di ciò che resta dell’io: «Mi svuoto dei nomi degli altri. / Mi svuoto le tasche. / Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada»; e ancora: «Adagio esco ballando dalla cassa in fiamme della mia testa. / E chi non è nato e rinato di continuo in paradiso?».

L’io che sta «diventando orizzonte» è una illusione ottica: «lei guardava fisso… / non me, ma oltre me, uno spazio / che poteva essere colmato da qualcuno / che ancora doveva arrivare». (Specchio)

In un’intervista, Strand resta sul piano di una prosaica sobrietà:

«Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte. […]».

 

Altrove, su “Il sole 24ore” del 3 luglio 2011, con un elzeviro dal titolo Ritrovarsi sull’isola dei poeti, Strand scrive: «È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. […]».

Il Mangiaparole rivista n. 1

Scrive Luigi Sampietro su “Il sole 24ore” del 17 luglio 2011, in una interessante recensione alle poesie del poeta americano apparse qualche anno fa per Mondadori: Strand «è un detective metafisico che si sofferma sulle tracce di chi — o di ciò– che ora, qui, è assente e non si vede, ma che deve pur esserci o esserci stato. V’è un lato enigmatico, per non dire enigmistico — oltre che, ben inteso, umoristico, — in taluni momenti della sua poesia».

Con le parole di Strand: «Da qui sgorga la poesia: abitiamo in un posto / che non è nostro, e, soprattutto, non è noi». Sempre con le parole di Strand, veniamo a conoscenza del perché e del quando un poeta cessa di scrivere:

«Cara Henrietta, visto che sei stata tanto gentile da chiedermi perché non scrivo più, farò del mio meglio per risponderti. Ai vecchi tempi, i miei pensieri sfavillavano come minuscole scintille nel buio quasi assoluto della consapevolezza e io li trascrivevo, e pagina dopo pagina risplendeva di una luce che dichiaravo tutta mia. Sedevo alla scrivania, sbalordito da ciò che era appena successo. E perfino mentre guardavo le luci affievolirsi e i miei pensieri divenire piccoli mausolei senza alcun senso nel lucore residuo di tanta promessa, restavo ancora sbalordito. E quando scomparivano, com’era inevitabile, io ero pronto a ricominciare, pronto a restare seduto al buio per ore ad aspettare anche un’unica scintilla, nonostante sapessi che non avrebbe quasi per nulla emesso luce. Quello di cui non mi ero reso conto allora, ma di cui mi rendo conto fin troppo bene adesso, è che le scintille portano dentro di sé il desiderio di essere sollevate dal fardello della lucentezza. Ed è per questo che non scrivo più, e che il buio è la mia libertà e la mia contentezza» (Una lettera da Tegucigalpa).

(Giorgio Linguaglossa)

mark strand quote

From Sleeping with One Eye Open (1964)

Sleeping with One Eye Open

Unmoved by what the wind does,
The windows
Are not rattled, nor do the various
Areas
Of the house make their usual racket —
Creak at
The joints, trusses and studs.
Instead,
They are still. And the maples,
Able
At times to raise havoc,
Evoke
Not a sound from their branches’
Clutches.
It’s my night to be rattled,
Saddled
With spooks. Even the half-moon
(Half man,
Half dark), on the horizon,
Lies on
Its side casting a fishy light
Which alights
On my floor, lavishly lording
Its morbid
Look over me. Oh, I feel dead,
Folded
Away in my blankets for good, and
Forgotten.
My room is clammy and cold,
Moonhandled
And weird. The shivers
Wash over
Me, shaking my bones, my loose ends
Loosen,
And I lie sleeping with one eye open,
Hoping
That nothing, nothing will happen.

When the Vacation Is Over for Good

It will be strange
Knowing at last it couldn’t go on forever,
The certain voice telling us over and over
That nothing would change,

And remembering too,
Because by then it will all be done with, the way
Things were, and how we had wasted time as though
There was nothing to do,

When, in a flash
The weather turned, and the lofty air became
Unbearably heavy, the wind strikingly dumb
And our cities like ash,

And knowing also,
What we never suspected, that it was something like summer
At its most august except that the nights were warmer
And the clouds seemed to glow,

And even then,
Because we will not have changed much, wondering what
Will become of things, and who will be left to do it
All over again,

And somehow trying,
But still unable, to know just what it was
That went so completely wrong, or why it is
We are dying.

Mark Strand

Mark Strand

Dormendo con un occhio aperto

Imperturbate dal vento con le sue orchestre,
le finestre
non sono scosse, né dell’abitazione
le zone
più diverse emettono il solito stridore
alle giunture,
capriate, travi portanti,
montanti.
Invece sono mute. E l’acero, capace
a volte di strepitare come un ossesso,
adesso non un suono dalle fronde
diffonde.
Tocca a me stanotte essere scosso,
con addosso
un carico di spettri. Persino la mezzaluna (metà
uomo, metà tenebra), sull’orizzonte,
si distende
su un fianco e getta una luce equivoca
che gioca
sul pavimento, e cala altezzosa
la sua morbosa
sembianza su di me. Oh, mi sento morto,
composto
fra le mie coperte per un tempo interminato,
e dimenticato.
La mia camera è umida e algente,
trattata rudemente
dalla luna, e strana. I brividi
mi dilavano, squassano le ossa, ciò che è incerto
in me si fa più incerto,
e io giaccio e dormo con un occhio aperto,
e spero che non accada nulla, nulla davvero.

Mark Strand

Mark Strand

da Motivi per muoversi (1968)

The Man in the Tree

I sat in the cold limbs of a tree
I wore no clothes and the wind was blowing
You stood below in a heavy coat
The coat you are wearing

And when you opened it, baring your chest
White moths flew out and whatever you said
At that moment fell quietly onto the ground
The ground at your feet

Snow floated down from the clouds into my ears
The moths from your coat flew into the snow
And the wind as it moved under my arms
Under your chin, whined like a child

I shall never know why
Our lives took a turn for the worse, nor will you
Clouds sank into my arms and my arms rose
They are rising now

I sway in the white air of winter
And the starlings cry…lies down on my skin
A field of ferns covers my glasses; i wipe
Them away in order to see you

I turn and the tree turns with me
Things are not only themselves in this light
You close your eyes and your coat
Falls from your shoulders

The tree withdraws like a hand
The wind fit into my breath yet nothing is certain
The poem that has stolen these words from my mouth
May not be this poem.

Mark Strand

Mark Strand

L’uomo sull’albero

Sedevo tra i rami freddi di un albero.
Ero senza vestiti, soffiava vento.
Tu eri lì sotto, con un cappotto pesante,
il cappotto che hai adesso.

E quando l’apristi, scoprendoti il petto,
tarme bianche presero il volo, e ciò che dicesti
in quel momento cadde a terra in silenzio,
la terra ai tuoi piedi.

La neve scendeva dalle nuvole fin nelle mie orecchie.
Le tarme del tuo cappotto volarono nella neve.
E il vento, sotto le mie braccia, sotto il mento,
piangeva come un bambino.

Non saprò mai perché
le nostre vite volsero al peggio, e neanche tu.
le nubi mi affondarono nelle braccia e le braccia
si sollevarono. si sollevano ora.

Oscillo nell’aria bianca invernale
e lo strido dello storno mi si stende sulla pelle.
Un campo di felci mi copre gli occhiali: li pulisco
per poterli vedere.

Mi giro e le foglie mutano colore con me.
Le cose non sono solo se stesse in questa luce.
Tu chiudi gli occhi e il cappotto
ti cade dalle spalle,

l’albero si ritrae come una mano,
il vento si adatta al mio respiro, ma nulla è certo.
La poesia che mi ha rubato queste parole dalla bocca
potrebbe non essere questa poesia.

Eating Poetry

Ink runs from the corners of my mouth.
There is no happiness like mine.
I have been eating poetry.
The librarian does not believe what she sees.
Her eyes are sad
and she walks with her hands in her dress.
The poems are gone.
The light is dim.
The dogs are on the basement stairs and coming up.
Their eyeballs roll,
their blond legs burn like brush.
The poor librarian begins to stamp her feet and weep.
She does not understand.
When I get on my knees and lick her hand,
she screams.
I am a new man.
I snarl at her and bark.
I romp with joy in the bookish dark.

.
Mangiare poesia

Cola inchiostro dagli angoli della mia bocca.
Non c’è felicità pari alla mia.
Ho mangiato poesia.
La bibliotecaria non crede ai suoi occhi.
Ha gli occhi tristi
e cammina con le mani chiuse nel vestito.
Le poesie sono scomparse.
La luce è fioca.
I cani sono sulle scale dello scantinato, stanno salendo.
Gli occhi ruotano le orbite,
le zampe chiare bruciano come stoppia.
La povera bibliotecaria comincia a battere i piedi e a piangere.
Non capisce.
Quando mi inginocchio e le lecco la mano,
urla.
Sono un uomo nuovo.
Le ringhio, abbaio.
Scodinzolo di gioia nel buio libresco.

(Traduzione di Natàlia Castaldi, 2009)

Moon

Open the book of evening to the page
where the moon, always the moon appears
between two clouds, moving so slowly that hours
will seem to have passed before you reach the next page
where the moon, now brighter, lowers a path
to lead you away from what you have known
into those places where what you had wished for happens,
its lone syllable like a sentence poised
at the edge of sense, waiting for you to say its name
once more as you lift your eyes from the page
close the book, still feeling what it was like
to dwell in that light, that sudden paradise of sound.

.
Luna

Apri il libro della sera alla pagina
in cui la luna, sempre la luna, ancora appare
lì tra due nuvole, muovendosi piano, così piano che sembrerà
siano trascorse ore prima che possa voltare alla pagina seguente
lì dove la luna, più luminosa ora, fa approdare un sentiero
che ti conduca via da ciò che hai appreso
dentro i luoghi in cui tutto quello che avevi sperato si avvera,
la sua sillaba solitaria come un bisbiglio penzoloni
al margine del senso, ad aspettare che sia tu a pronunziarne il nome
ancora una volta staccando lo sguardo dalla pagina
chiudendo il libro, ancora sentendolo così com’era
quel sospendersi nella sua luce, quell’inatteso paradiso del suono.

(Traduzione di Natàlia Castaldi, 2009)

Mark Strand

Mark Strand

The Man in the Mirror

I walk down the narrow,
carpeted hall.
The house is set.
The carnation in my buttonhole

precedes me like a small
continuous explosion.
The mirror
is in the living room.

You are there.
Your face is white, unsmiling, swollen.
The fallen body of your hair
is dull and out of place.

Buried in the darkness of your pockets,
your hands are motionless.
You do not seem awake.
Your skin sleeps

and your eyes lie in the deep
blue of their sockets,
impossible to reach.
How long will all this take?

I remember how we used to stand
wishing the glass
would dissolve between us,
and how we watched our words

cloud that bland,
innocent surface,
and when our faces blurred
how scared we were.

But that was another life.
One day you turned away
and left me here
to founder in the stillness of your wake.

Your suit floating, your hair
moving like eel grass
in a shallow bay, you drifted
out of the mirror’s room, through the hall

and into the open air.
You seemed to rise and fall
with the wind, the sway
taking you always farther away, farther away.

Darkness filled your sleeves.
The stars moved through you.
The vague music of your shrieking
blossomed in my ears.

I tried forgetting what I saw;
I got down on the floor,
pretending to be dead.
It did not work.

My heart bunched in my rib-cage like a bat,
blind and cowardly,
beating in and out,
a solemn, irreducible black.

The things you drove me to!
I walked in the calm of the house,
calling you back.
You did not answer.

I sat in a chair
and stared across the room.
The walls were bare.
The mirror was nothing without you.

I lay down on the couch
and closed my eyes.
My thoughts rose in the dark
like faint balloons,

and I would turn them over
one by one and watch them shiver.
I always fell into a deep and arid sleep.

Then out of nowhere late one night
you reappeared,
a huge vegetable moon,
a bruise coated with light.

You stood before me,
dreamlike and obscene,
your face lost
under layers of heavy skin,

your body sunk in a green
and wrinkled sea of clothing.
I tried to help you
but you refused.

Days passed
and I would rest
my cheek against the glass,
wanting nothing but the old you.

I sang so sadly
that the neighbors wept
and dogs whined with pity.
Some things I wish I could forget.

You didn’t care,
standing still while flies
collected in your hair
and dust fell like a screen before your eyes.

You never spoke
or tried to come up close.
Why did I want so badly
to get through to you?

It still goes on.
I go into the living room and you are there.
You drift in a pool
of silver air

where wounds and dreams of wounds
rise from the deep
humus of sleep
to bloom like flowers against the glass.

I look at you
and see myself
under the surface.
A dark and private weather

settles down on everything.
It is colder
and the dreams wither away.

You stand

like a shade
in the painless glass,
frail, distant, older
than ever.

It will always be this way.
I stand here scared
that you will disappear,
scared that you will stay.

L’uomo nello specchio

Cammino sulla passatoia dell’ingresso.
La casa è pronta.
Il garofano all’occhiello

mi precede come una minuscola
esplosione perenne.
Lo specchio
è in soggiorno.

Tu sei lì,
bianco in volto, serio, gonfio.
La voluminosità sciolta della tua chioma
è opaca e fuori luogo.

Sepolte nella tenebra delle tasche,
le mani sono immobili.
Non sembra che tu sia sveglio.
La tua pelle dorme

e gli occhi giacciono nel blu
abissale delle orbite,
impossibili da raggiungere.
Quanto tempo ci vorrà?

Ricordo come restavamo lì in piedi
a desiderare che la lastra
si dissolvesse tra di noi, e come
guardavamo le nostre parole

appannare quella superficie
melliflua e innocente,
e quanto ci spaventammo
quando i nostri volti s’offuscarono.

Ma era un’altra vita.
Un giorno mi hai voltato le spalle
e mi hai lasciato qui ad affondare
nell’immobilità della tua scia.

Con l’abito che fluttuava, la chioma
che si muoveva come le alghe
in una baia poco profonda, andasti
alla deriva dalla stanza dello specchio,

poi in ingresso, e quindi all’aria aperta.
Pareva ti sollevassi e ricadessi
con il vento, e l’ondeggiare
ti portava sempre più lontano, più lontano.

Il buio ti riempiva le maniche.
Le stelle ti solcavano
La musica vaga dei tuoi gemiti
mi fioriva nelle orecchie.

Cercai di dimenticare ciò che vedevo;
mi lasciai andare sul pavimento,
fingendomi morto.
Non servì a niente.

il mio cuore, stretto nella gabbia toracica
come un pipistrello, cieco e codardo
scandiva dentro e fuori
un solenne, irriducibile nero.

Le cose che mi hai costretto a fare!
Camminavo nella calma della casa,
richiamandoti.
Tu non mi rispondevi.

Seduto su una sedia,
fissavo a vuoto la stanza.
Le pareti erano spoglie.
Lo specchio non era niente senza di te.

Mi sono sdraiato sul divano
e ho chiuso gli occhi.
I miei pensieri decollavano al buio
come languide mongolfiere,

e a uno a uno e li guardavo rabbrividire.
Immancabilmente cadevo in un arido
sonno profondo.

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