Come ho imparato a lavorare e come lavoro

1.1
Vorrei tornare a quest’idea di una lingua comune dei malati mentali e raccontare l’esperienza che mi ha permesso di farmela. Mi è caro farlo non solo perché è stata un’esperienza bellissima, ma anche perché vorrei mostrare che quello che racconto nel libro non è solo frutto di egocentrismo.
Per sette anni ho partecipato ad un’attività di volontariato sotto la supervisione del Prof. Zapparoli: il mio compito era di accompagnare, nella veste di qualcuno che si era recuperato, altri pazienti che ancora lottavano per farlo.

La mia persona “mezza carne e mezza pesce”, un po’ sana e un po’ malata, un territorio intermedio, diciamo, forniva all’altro quella regione di appartenenza (una zona di confine tra malattia e sanità), che è così necessaria ad un malato mentale, escluso com’è dal mondo degli altri, e da quella società in cui lui non può più riconoscersi, mentre il mondo della psicosi gli diventa sempre più stretto man mano che vi si inoltra.

Lo psicotico non sente di appartenere all’universo degli altri malati mentali perché egli è l’unico abitante di uno specifico mondo privato (è proprio la malattia che lo rende tale perché lo chiude in una gabbia di specchi), ma anche perché non perde l’anelito per quel mondo da cui la malattia l’ha escluso: per questo è un essere che vive nella terra di nessuno.

Il sentimento di appartenenza è, tuttavia, costitutivo del nostro sentire di base, anche se è così scontato che non ce ne accorgiamo: una terra-madre originaria, una familiarità convissuta con altri che sostiene l’idea che abbiamo di noi stessi, senza la quale non possiamo vivere e neanche uscir di casa al mattino.

Perdere questo sentimento che ci fa “essere al mondo”, vivi, insieme ad altri che ci rispecchiano nonostante le diversità, significa attraversare un terreno che si frantuma sotto i nostri passi, guardarci in uno specchio che si spezza continuamente, inoltrarsi in mondi fatti di nebbie senza più punti di riferimento, stabili o instabili, recidere infine quei vincoli di “vicinanza” che ci permettono un contatto vitale.

Ma è proprio questo sentimento che si perde inoltrandosi nel terreno della psicosi.

1.2
Il mio lavoro consisteva nel vedere dei pazienti come me, ascoltarli soprattutto, ma anche parlare con loro della mia esperienza nel caso lo ritenessero utile.

Il mio atteggiamento, in questi incontri, era “timoroso”: di domanda e di attesa. Mi sentivo uno spazio “aperto”, in silenzio, in ascolto.

Tutto quello che avevo vissuto negli anni con la malattia, serviva solo a questo: a spalancare la mia mente in profondità e a rendermi “ attenta”, ma con calma, teneramente. Ero soprattutto un vissuto che si poteva toccare con mano, lì a disposizione, che si lasciava indagare con tranquillità e allegria. Avendo già percorso un cammino, inoltre, con tutti i suoi viottoli ritorti, potevo suggerire percorsi sottili, forse sconosciuti al terapeuta il cui compito è soprattutto aprire orizzonti. Conoscevo, in particolare, le emozioni che accompagnano gli stalli, i passi indietro, e sapevo leggere i minuscoli progressi quando ancora non apparivano: per lungo tempo avevo scrutato i miei deserti e le mie incerte primavere.

Sapevo, per esperienza, che l’angoscia nascosta di un malato mentale è non potersi più sentire una persona, ma diventare una cosa, un oggetto d’uso: mettermi in relazione a loro come “tu”, costituendoli come “io” in relazione a me, accettare che il mio essere si modificasse a contatto con il loro essere, senza esigere da subito che il rapporto fosse reciproco, o piuttosto accettare “altre” manifestazioni di reciprocità, per evitare che il mio diventasse assistenzialismo, era tutta la terapia che potevo offrire.

Ma c’erano con alcune persone dei rari momenti, specie quando si poteva ridere, in cui ci si sentiva “insieme”: allora eravamo un “noi”, in un’allegra “relazione”.

Non è semplice raccontare cosa succedeva.

Eravamo dei “com-pagni”: come quelli che tanto tempo fa dividevano insieme il pane, noi dividevamo la malattia, la sanità precedente e quella futura, l’infanzia e la famiglia, ma lo facevamo così, semplicemente, su una tovaglia a quadri bianchi e rossi, davanti ad un bicchiere di vino in un’osteria di paese, concretamente, da gente di paese. Perché noi eravamo dei compaesani della malattia, dei viandanti della stessa strada. Era come se, nel porre il mio “essere” in rapporto al loro, nell’”essere insieme”, qualcosa che non so, desse forma ad un circolo affettivo, un territorio concreto nostro, nel quale potevamo esistere solo noi pazienti, senza interferenze degli psichiatri e degli psicoanalisti.

La solidarietà alla malattia che sentivo era “reale”, vissuta fino in fondo perché derivava da tutta la mia storia, da un’affinità lunga di anni: il mio equilibrio era recente, non avevo dimenticato nulla del mio io malato e della sua identità, ma, nello stesso tempo, avevo la speranza di suggerire un paesaggio in cui la malattia non fosse più il tema unico, dominante e soffocante.

Volevo “testimoniare” la fiducia che anche in questo campo, dove le cose sembrano di pietra, inamovibili come macigni, esisteva la possibilità dei piccoli movimenti, quei piccoli passi che, poi, alla fine, inspiegabilmente, più che sommarsi, si moltiplicano e tracciano un sentiero di montagna che si perde tra ruscelli freschi.

Oggi sto cercando di raggiungere il medesimo scopo con questo lavoro, sentirmi utile, parte di una collettività da cui si riceve, ma a cui si può anche dare.

O, almeno, tentare di dare.

Un malato mentale è qualcuno che non ha nulla da dare alla società dei suoi simili. Ma questo avviene perché entrambi non sono pronti a scambiarsi dei doni. Uno dei molteplici sensi di questo libro è, infatti, provare a stabilire una relazione reciproca con gli altri, quelli lontani da me, che mi restituisca il senso di essere una parte attiva nella società in cui vivo.

E con diritto di esserci, di far parte della straordinaria varietà del reale, nonostante la mia diversità e la mia storia.

Mi esprimo così, anche se nessuno, in prima persona, mi ha mai negato questo diritto. Il mio sentire, di chi si ferma – timido – davanti ad una porta anche aperta, viene da lontano: da innumerevoli percezioni, dall’aver sentito sulla mia pelle che nessuno, mai, in questo mondo si può permettere di essere diverso. Quello che non è familiare genera una profonda ostilità, un odio istintivo che si sente, e fa male, anche quando ci appare come fredda educazione, o con gesti di ordinaria amministrazione per tacere di altro.

Ma oggi il mio tempo è cambiato, è arrivato il tempo della serenità e dei racconti.

Per poter iniziare, ho però bisogno di ricordare, e sentire accanto a me, le persone che ho conosciuto in questo lavoro, iscritte in me indelebilmente. E’ lui, Martino, che, inspiegabilmente, scelgo tra gli altri per darmi un terreno di appartenenza, prima di iniziare il mio canto. Questa persona così “lontana” e, nello stesso tempo, così vicina, mi tiene oggi per mano in questo mio bisogno di parlare alle persone normali cui chiedo di ascoltarmi. E’ lui a chiedermi di uscire dal mio egocentrismo e di imparare l’umiltà di espormi. (Naturalmente, quelli che uso non sono i loro veri nomi).

1.3
16 – 10 – 2004

Caro Martino, la prima volta in cui ci siamo incontrati, ti sei seduto di fronte a me e hai parlato ininterrottamente per un’ora.

Vivevi da vent’anni in delirio, ma sembravi non saperlo e nessuno riusciva a dirtelo. “Sei malato”, era una frase così scioccante che sembrava di dover sparare un colpo di pistola nel silenzio dello studio del tuo terapeuta. Un colpo mortale per te e per me.

Era come se la tua mente si fosse abituata a vivere fuori dalla realtà e non ne sentisse alcun disagio, ma, allora, non lo credevo possibile: ero sicura che dentro di te ci fosse un omino, magari mal ridotto, che “sapeva”, ed era a lui che volevo parlare, dargli un po’ di ossigeno. Ancora oggi, nonostante quello che è accaduto dopo, non riesco ad immaginare una persona malata senza una parte sana, fosse pure ridotta ad uno spettro.

Anche tu l’avevi: da malata che sono stata, ne sono sicura, solo che ad un certo punto la tua si è addormentata, sfinita di lottare. Così ha ingannato medici e terapeuti, facendo credere di essere sparita ma solo perché lei aveva bisogno di una pausa. Forse da tanti interventi maldestri degli specialisti che pure avevano il merito di tentare a contattarti, tu che eri più lontano da noi della luna. Più precisamente, di essere lasciata in pace. Una pace lunga, dalla quale, nonostante i pareri specialistici, io so che potrebbe risvegliarsi.

Ma in quei primi momenti dovresti avere qualcuno accanto a te, attento, sapiente ed amoroso per “accoglierla” e darle fiato come si fa con un neonato asfittico.

Ci sarà vicino a te, caso decidessi di tornare alla vita (che a te era più mortale della morte), qualcuno così? In quel posto tanto lontano dal tuo mondo reale in cui la famiglia ha stabilito di metterti?

Mi trasmettevi un’angoscia terribile cui non riuscivo a reagire, anche se questo sentimento è diventato cosciente molto tempo dopo, quando ormai non ci vedevamo più: non riuscivo a pensare a te negli Stati Uniti, dove eri stato un anno, solo, e così totalmente delirante. L’angoscia che mi prendeva era intollerabile.

Eri da vent’anni in delirio, non avevi molto più di trent’anni.

Ti ascoltavo parlare, interloquivo appena, avevi lunghi discorsi che sembravano scorrere già pronti e che avrebbero potuto durare all’infinito, propri di chi ha una mente che non riposa mai. Mi sentivo tranquilla, il tuo mondo non mi disorientava, ero abituata ai miei deliri e questi mondi irreali non mi facevano impressione come a una persona normale non fa impressione la realtà.

Ma oggi che è passato tanto tempo dai nostri incontri, capisco che la mia tranquillità era apparente. Quello che mi turbava, e forse mi faceva paura, era che non riuscivo ad immedesimarmi in te: quando ascolto un altro che mi racconta cose fuori dalla realtà, ci sono sempre dei momenti in cui un dettaglio (può essere uno sguardo, un gesto, una parola) mi ricorda che apparteniamo ad un mondo comune. E anch’io, quando sono in delirio, ritrovo questo sentimento di familiarità con qualcuno che mi è vicino e che può essere anche un passante. Parziale certamente, ma lo ritrovo.

Con te era impossibile sentire questa comune appartenenza al genere umano, fosse pure per un attimo.

Nell’incapacità che avevo io di decifrare questa mia totale estraneità, e, soprattutto, cosa molto più grave di conseguenze, di viverla, ti giudicavo molto grave, quando non stava a me dare giudizi. Invece di “lasciar scorrere il fiume senza affrettarlo perché tanto lui scorre da solo”, mi sentivo spinta ad intervenire.

Quello che volevo dirti era molto semplice: “ Tu sei malato, devi curarti, devi prendere le medicine”, ma non ci riuscivo. Non ci riusciva neanche il tuo psicoanalista.

E’ difficile raccontare l’impotenza assoluta che mi comunicavi, era come se dirti che eri malato fosse un crimine, la parola “malato”, accanto a te, la sentivo impronunciabile, l’aria stessa non avrebbe potuto contenerla senza un grave sussulto.

Ma l’urgenza che era in me mi ha impedito di ascoltarti con quella dedizione che mi avrebbe lasciato più serena oggi.

Mi parlavi sempre della presentatrice della televisione di cui eri innamorato: eri convinto che ti perseguitasse senza darti un minuto di tregua perché “non riusciva mai a stare abbastanza con te”. In verità vi vedevate solo attraverso lo schermo ed era a te che, le poche ore in cui lei appariva, non bastavano mai. La tempestavi di telefonate, senza avere il numero giusto, sicuramente ogni volta cambiando numero, perché nel delirio la tastiera lievita da sola, e così le tue dita, proprio come succedeva a me. In quei momenti la nostra mente è un flusso di stimoli caotici, come la polvere che vediamo vorticare in un raggio di sole che batte sul tavolo in penombra: impercettibili immagini che hanno perso (in tutto o in parte) le maglie che le tengono assieme quando siamo nella realtà. Per cercare di spiegarmi, è come se la nostra mente avesse perso la capacità di organizzare il reale, un’operazione necessaria per poter attribuire un significato a quello che si vive. Quelle che sembrano addormentarsi sono le facoltà superiori della nostra mente, quelle che ci permettono di esistere in quanto capaci di strutturare il reale.

Anche per te, Martino, come per me, ogni persona che casualmente ti rispondeva al telefono era sbagliata perché non era mai lei, la presentatrice della televisione che amavi: attraverso i diversi commenti che le persone facevano rispondendo, il tono di voce, persino le pause, costruivi però delle piste, fatte di segnali “sfavorevoli” o “favorevoli”, che  a volte ti portavano quasi vicino alla meta, così credevi, ma che poi, improvvisamente, potevano interrompersi perché chi rispondeva, per una ragione fortuita, era sentito  negativo, in opposizione. Allora bisognava ricominciare la sequenza tutta da capo, proprio come un rituale che per poter riuscire deve partire, e proseguire, sempre positivo.

Questo lavoro, per te come per me, durava ore: io lo interrompevo solo quando non tollerando più che qualcuno (il telefono) si opponesse così ostinatamente alla mia volontà, lo mandavo al diavolo, lui e l’innamorato che si negava, per uscirmene in strada a cercare altre distrazioni.

Tu non mi hai mai riferito tutto questo, me lo hai detto solo per accenni, ma io lo sapevo per esperienza. Come non bastasse, ho osservato, nei miei ricoveri, i malati appendersi al telefono finché qualcuno non li portava via: ognuno di loro telefonava ad un pezzo di sogno, qualcuno che avrebbe risolto istantaneamente i problemi che li affliggevano tanto, qualcuno che avrebbe potuto amarli.

Nel mio delirio ero io la parte attiva, infatti ero io che cercavo, lo sapevo, ero io ad agire e ad avere l’iniziativa in mano, nel tuo, invece, era lei a chiamarti a casa – così mi raccontavi –  e tu ascoltavi incantato la sua voce, ma il suo amore si trasformava subito in assedio e congiura. Subito il bisogno di persecuzione diventava più forte. Noi, pur capendoci, avevamo malattie diverse, la mia che mi rendeva più attiva, la tua che ti obbligava ad essere ricettivo, passivo di invasione. E per questo la tua angoscia, il panico era più forte. Tu eri una marionetta totalmente in mano alla sorte, io una marionetta che si inventava di poter muovere i fili, ma l’illusione di “poter far qualcosa”, che qualcosa dipendesse dalla mia energia, strutturava il panico dandogli una dimensione mentre per te era sciolto nell’intero universo e tu “eri sciolto” con lui.

Mi comunicavi una pena infinita che non potevo esprimere in parole.

All’epoca mi alzavo di notte, come sonnambula, e finivo per sbattere la testa nelle librerie della casa quasi facendomi male. I miei veri sentimenti apparivano soltanto di notte: durante il giorno erano soffocati, nascosti, controllati. Ancora oggi non so decifrare cosa tu abbia destato in me, capisco solo che l’impatto della tua mente sulla mia è stato violento. Temevo certamente che la mia parte malata si risvegliasse, di colpo, ad un tratto, e temevo di non sapervi far fronte. Non era passato abbastanza tempo dalla mia ultima crisi per non avere paura.

Ma, soprattutto, quando eri con me, era difficile vivere un’ora intera di angoscia nascosta, soppressa, al trovarsi al cospetto di una realtà totalmente estraniante: era terribile accompagnare qualcuno in cui non riuscivo a scorgere qualcosa somigliante all’essere di tutti gli altri uomini che avevo conosciuto: di colpo, senza preavvisi, apparivi tu vicino a me, quasi mi toccavi, un essere vivo certamente, ma che non assomigliava ad un uomo, ad un animale, ad una pietra. Non sapevo “assomigliarti” a nulla, neanche al cielo che sta così lontano.

Oggi tendo a credere che sbattessi la testa nelle librerie per assoluta disperazione, impossibilita com’ero, inoltre, a fare alcunché, mentre con chiarezza ti vedevo correre verso un precipizio. La sbattevo, questa mia testa, giustamente per fare uscire un criterio di normalità che persino credevo ampio, ma che invece mi faceva vedere la realtà a quadretti, dietro le sbarre della prigione in cui la mia mente era rinchiusa, fuori da ogni contatto con la vastità del reale umano. Ero nata in provincia, da una famiglia semplice, ricchissima di “cultura per la vita”, ma con orizzonti limitati alla lotta quotidiana, nella quale eccellevano quasi eroicamente, senza sentire il bisogno di altra cultura oltre a quella che già possedevano e che avevano ricevuto dai loro padri. Se riuscissi a incontrarti oggi ti accoglierei nel mio abbraccio come un  figlio.

Oggi la tua mente si è spenta.

Parlo con te, ma parlo ad un vuoto, non a una presenza.

Ho paura ad inoltrarmi in una mente che non c’è più.

Non riesco nemmeno ad immaginare cosa voglia dire davvero.

Appena l’ho saputo, la mia reazione è stata di profonda ribellione, una reazione da ignorante, certamente, lo so: se i terapeuti ti fossero stati più vicino, se i parenti avessero fatto di più..

Non volevi assolutamente prendere medicine, è questo che ti ha sconfitto per sempre.

Ma, prima di arrivare lì, intorno a te chi c’era?

Chi c’era accanto a te quando eri bambino, adolescente?

Forse troppo vuoto a cui non hai saputo rassegnarti.

E’ da questo che si origina una malattia mentale: dalla voglia di reagire anche ad un’impossibile sofferenza, dal non potersi rassegnare.

Una persona che si rassegna agli eventi, non si ammala.

Davanti a te, a te oggi, alla tua situazione di oggi, mi sento stonata a parlare perché non so più niente.

Hai lottato in assoluta solitudine con l’unico strumento che avevi per sopravvivere, il tuo delirio, ma alla fine, dopo vent’anni, hai dovuto arrenderti ad una sofferenza che ti devastava più della morte. Una lunga morte in vita, è stata la tua.

Il delirio era la tua ultima barriera, la difendevi strenuamente perché tu sapevi che, dopo, non ci sarebbe stato più niente.

Per questo non volevi medicine, difendevi l’ultima sopravvivenza che  credevi ti fosse stata data.

E soprattutto difendevi l’unica identità che ti era rimasta e che conoscevi: quella di malato.

A cui eri abituato da troppi anni, come fosse la tua vera vita.

Non volevi essere “altro”.

Solo la possibilità di una modificazione, ti terrorizzava. Capivi che sarebbe stata “morte istantanea”.

Quello che non capiscono i tecnici è che un’immagine delirante di se stessi è sempre meglio di nessuna immagine: nel mio primo delirio, lo psichiatra mi subissava di medicine senza alcun effetto perché io non potevo cedere ai farmaci pena la morte mentale. Non avevo un’altra immagine pronta da sostituire a quella delirante. Stavo lavorando con il delirio per formarmela. All’epoca, mia madre, disperata, ha chiamato a consulto un neurologo (ero appena diventata legge la scelta tra essere neurologi o psichiatri) e questi mi ha parlato a lungo o, meglio, mi ha ascoltato, poi ha detto ai miei : “Ne uscirà, ma dal momento che è intelligente, ci metterà di più.” Aveva capito che dovevo trovare “un significato” a quello che mi stava succedendo.

E così è stato per te.
Un bisogno di sopravvivenza del tuo sé ha ucciso la tua mente.
Ma qualcuno può capire quello che ci diciamo?

O, forse, era al di là delle tue forze affrontare lo sfacelo estremo che sarebbe sopravvenuto alla perdita del delirio.

Dopo vent’anni, quasi una vita, per te che eri così giovane.

Quali vantaggi avrebbero dovuto mostrarti per farti prendere la decisione di rinunciare al quel mondo che era diventato per te una seconda pelle?

La mia molla era togliermi il marchio di malata mentale.

Tu, forse…

Ma sono tutte congetture inutili.

Ora non soffri più, così mi ha detto il tuo ultimo analista.

Così pensiamo di una persona “ridotta ad una vita vegetativa”, ma io non lo credo.

Intanto, qualcuno sa cosa vuol dire “vita vegetativa”? Come vive la mente di questa persona? Qualcuno sa metterlo in parole umane?

Tecnicamente, bastano due parole, “vita vegetativa”, ma di fatto non mi dicono come sta la tua anima. Ci sono alcuni pochi casi di persone che, risvegliate dal coma, hanno detto di aver partecipato a tutto quanto era intorno a loro e che la loro grande pena era non poter rispondere.

Tanti dubbi e nessuna risposta.

Il mio cuore è straziato a pensare la tua vita così giovane.

Qualcuno che per vivere ha dovuto morire per sempre.

Piango per te, ma quante persone ci sono, nelle varie comunità, e negli ospedali, e nelle case, che vivono come te?

 

 

E che nessuno conosce, nessuno ricorda, anche perché i dolori, le sconfitte troppo grandi (mi riferisco ai professionisti), ci studiamo di dimenticarle.
E soprattutto perché la gente che sta bene “non vuole sapere”.
I sani tagliano via dalla loro vita la malattia e i suoi problemi, così come tagliano la morte, tutta la morte, non solo la loro. Questo lato della vita lo vedono nei film dove appare attutito perché “io so”, anche quando sono completamente preso dalle immagini, che è uno spettacolo. Ci sono, però, tante persone che hanno voluto vedersi più volte il crollo delle Due Torri, oppure lo spettacolo della guerra che, ogni giorno di più, ci viene mostrato nella sua crudeltà anche attraverso dettagli raccapriccianti che niente aggiungono ai fatti. .

E quando “i nuovi sani” operano questi tagli, lo fanno con una “drasticità” che desta stupore in noi del vecchio secolo, abituati a prendersi cura personalmente dei nostri cari.

Invece “i nuovi sani”, se hanno la responsabilità di qualche parente, lo chiudono in ospedale fino al funerale. Per carità, mille volte assistito, ma da estranei. “Professionisti”, dicono. Le eccezioni confermano quella che da trent’anni, o più, è diventata la nuova regola di sopravvivenza: nessun malato, nessun morente a casa mia.”Non è che non voglia bene, voglio bene, ma semplicemente difendo la mia sanità e gli interessi necessari alla mia vita: prima di tutto il mio tempo che vola via così in fretta.” Così dicono i più consapevoli. Se no la litania è: “Lo facciamo per il suo bene nonostante i soldi che ci costa”. E magari i soldi sono di quel poveretto!

Ma non voglio giudicare. Vorrei capire. Ma forse non ci riuscirò mai: è proprio la mia mente che è diversa, che non è cresciuta alla TV, ai vari giochi e al computer.

Non giudico, ma, per noi vecchi, è duro abituarsi a queste nuove morali, a questo essere umano cresciuto così tanto lontano da noi.

Martino, Il tuo ricordo, in me, dura.
Ma non è questo che importa.
Importano quei volti come il tuo, che si ergono dal silenzio, per ammonirci a non desistere, a continuare senza requie la ricerca di un possibile contatto.
Il vostro ricordo brucia, “ditelo ai gelsomini con il loro piccolo bianco” (Lorca).

Non è a me che parlate perché io non posso fare niente, ma io vi ascolto e posso tradurre le vostre parole, anche se, in casi come il tuo, sembra impossibile trovare un modo per comunicare con te e, insieme, per far capire ai normali, le famiglie, gli insegnanti, gli amici, e i medici.

Io posso parlare per voi, anche gridare se necessario, perché ho sulla pelle la vostra disperazione, ma devo gridare parole di buon senso che parlino a chi ascolta. O meglio: “a chi può ascoltare”.

E’ solo per voi che scrivo questo libro.

Dopo trent’anni di psicoanalisi e di medicine, una formazione in psicologia, credo di avere le parole per comunicare il vostro silenzio. Ho fiducia che, queste parole, il cielo me le dia, perché una giustizia esiste. Solo per questo la mia vita, una “vita di scarto” come tante altre, può acquistare una redenzione.

E la nostra storia parla per tutti i diversi.

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4 risposte a Come ho imparato a lavorare e come lavoro

  1. susanna fresko scrive:

    grazie Chiara di queste parole e di queste testimonianze, sono davvero preziose – e mi riferisco all’insieme del blog, che ho potuto appena un poco “sfogliare”, così come al progetto nel suo insieme.
    Io da un paio di anni lavoro come “analista biografica a orientamento filosofico” (…non ti sarà facile decifrare la qualifica, mi piace dire che è tanto “criptica” quanto lo è necessariamente qualsiasi storia di vita, oggetto e soggetto principale del mio/nostro ascolto), spesso nei miei sogni mi è capitato di avere un telefono in mano e di non riuscire – con tutta la conseguente ansia – a comporre il numero che avrei voluto/dovuto comporre. Cercherò di rimanere in ascolto di questo blog.
    un saluto, Susanna

    • Chiara Salvini scrive:

      carissima Susanna, puoi immaginarti (o non puoi?) la mia felicità a leggere il tuo commento: sei la prima sorella o fratello (come preferisci), nel senso di un “parente, un simile”, che mi scrive, felicità perché abbiamo un interesse vitale in comune di cui, quando si può, uno ne fa una professione. Non sono stata bene, non ti ho risposto come avrei voluto (sono mezza zoppa, ma avrei voluto risponderti correndoti incontro su un prato di montagna d’estate tutto fiorito, lo senti il profumo?), pero’ qualcosa ho fatto: “solo” in tuo onore, ho iniziato – e poi adesso nelle feste ahimé smesso- a classificare sotto “psicoterapia” (titolo che cambierò ampliandolo) – è quel “cassetto” sotto il titolo della prima pagina, un cassetto tra gli altri- alcuni articoli che forse ti possono interessare senza dover sfogliare – come elegantemente dici tu- tutto il blog. E’ un lavoro al quale sono “bloccata”, forse troppa inerzia, ma necessario per rendere leggibili i testi secondo gli interessi di ciascuno. Ti chiederei il grande favore di scrivermi cosa fai più o meno concretamente, che formazione è necessaria a questo tipo di impegno, o anche, più bello, sarebbe il racconto di un caso, una persona, da te seguita. O anche, se tu vuoi, qualcosa della tua storia. Sarebbe bellissimo. Ho un email per il blog: chiarasalvini 2012@gmail.com, ma avvisami con un commento per favore perché non scrivendomi in genere nessuno, è un indirizzo che non apro mai. Ho l’impressione di essere confusa, spero nella tua intelligenza…Ti auguro un anno…con almeno una cosa grande che desideri e che aspetti da tempo, così la gioia sarà più grande! Auguri anche ai tuoi amici e famiglia: forse ti stupirai, ma oltre a quello che hai fatto solo tu, vedo che l’ambiente ha contribuito a farti “bella”. Grazie di tutto cuore, chiara

  2. susanna fresko scrive:

    cara chiara, con gran ritardo (leggo solo ora questo tuo post…!) ti ho mandato allora una mail, sentiamoci!
    con affetto, susanna

    • Chiara Salvini scrive:

      Cara Susanna, ti scrivo presto! Per ora ti auguro di cuore una giornata serena il piu’ possibile, un goccino in piu’ del solito-–Si può? Anch’io mi impegnerò insieme a te (siamo in due, “io e te e tu e me”, come diceva mia mamma negli ultimi tempi) a “metterci lo sforzo” di un goccino in piu’ di tranquillita’– Poi ce lo raccontiamo, sei d’accordo? chiara

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