DELIRIO DI ISMAELE DI MEL VILLE

 

 

Mi chiamo Ismaele           di Mel Ville



Ricordo di gioventù N° 1

In uno di questi paesi dell’ emisfero sud che oggi sono chiamati emergenti e allora erano detti sottosviluppati, anni fa, quando ci abitavo, ci fu la  grave minaccia  di una epidemia di meningite. Le autorità sanitarie predisposero una vaccinazione di massa, preceduta da una grande campagna informativa , attuata con squadre volanti di vaccinatori che percorrevano le province e le periferie e con postazioni provvisorie nei punti di maggior passaggio dei grandi centri. Non c’era burocrazia o formalità, anzi questi operatori sanitari erano animati da sano spirito imprenditoriale e si dirigevano ai passanti con modi da imbonitore : “ Prego signore, si è già fatto vaccinare? Venga !”, “Forza signori, sono le ultime dosi di vaccino, approfittate !”. E così la vaccinazione di massa fu un successo, con percentuali sopra al 90% e la minaccia fu debellata.

Mente mi allontanavo dal posto di vaccinazione stringendo un batuffolo di cotone sul punto del vaccino  (era iniettato nel braccio, per ragioni pratiche e di pudore dal momento che il tutto succedeva sulla pubblica via),incontro un amico e gli chiedo se si è già fatto vaccinare “ E perché ?” mi risponde “ ormai si devono essere vaccinati tutti !”

Ricordo di gioventù N° 2

All’inizio di Moby Dick, Ismaele, il personaggio che narra e testimonia la battaglia finale fra il capitano Achab e la balena bianca, dice che quando si sente  preda dell’irresistibile desiderio di gettare per terra il cappello di tutti i passanti che incrocia per strada ritiene sia più che tempo di imbarcarsi. Qualcosa di simile, modestamente, credo che abbiamo provato tutti. Da giovane, in quei giorni lì,  invece di pensare a salpare per nave, più banalmente compravo una bottiglia di qualcosa un po’ forte e me la bevevo in

melanconica solitudine. Allora mi occorreva l’idea che se tutti si fossero un po’ ubriacati non avrei dovuto ubriacarmi io, con relative spese e fastidiosi postumi.

 

E allora?

No, siccome si parlava di delirio credo che in chi si lascia tentare dal delirio

(certo, c’è la predisposizione genetica, c’è il condizionamento dell’ambiente, ci sono le circostanze scatenanti, ma con tutto questo e ciononostante credo che ci sia spazio ancora per queste categorie un po’ romantiche e quasi demoniache: la tentazione, il fascino dell’abisso e altre cose, magari meno banalmente espresse) dicevo che penso che in chi si lascia, diciamo, tentare dal delirio ci sia un’idea del tipo di quelle del mio amico e delle mie solitarie bevute : se tutti delirassero un po’ non ci sarebbe bisogno che delirassi io.

Ieronymus Bosch

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6 risposte a DELIRIO DI ISMAELE DI MEL VILLE

  1. nemo scrive:

    Quando leggo di queste ‘solitudini’ ( magari mitigate da solitarie sbornie – desiderio di scomparire, suicidio inconscio – ) mi smarrisco, allo stesso modo di quando penso all’ immensità dell’ universo.

  2. chiara salvini scrive:

    Questo testo di Ismaele di Mel Ville, sebbene appaia chiaro e lucido, è scritto in verità in un linguaggio poetico che ti fa arrivare quello che vuol dire per suggestioni e metafore, a me non facili da decifrare per arrivare ad un linguaggio pane al pane e vino a chi vuoi tu.
    prima storiella: se tutti si occupassero di essere sani, il mio malanno potrei tenermelo e non ne avrei gran fastidio, oppure non esisterebbe se non come varietà della natura.
    Quello che capisco io (mi correggerete) è che: se sono pazzo è perché la società è fuori lei come un balcone, in fondo sono un prodotto dell’ambiente davanti al quale sono passivo perché massiccio com’è, lottare contro l’ambiente è impossibile.
    seconda storiella: ugualmente propone un cambiamento dell’ambiente in funzione dell’io.
    Conclusione del testo: nonostante tutte le variabile che la scienza ha messo in campo sul delirio, c’è ancora fascino e attrazione per quello stato di mente che chiamiamo pazzia, in cui le cose sono e non sono, sembrano nascondersi per sempre, ma poi riappaiono più vistose che mai…insomma uno stato che chiamo “intermedio” , una specie di reverie che accompagna la mia vita e rende meno dura la realtà e meno orrendo l’incubo del sogno. Ma questo stato, forse fin dai tempi dei tempi, tipico dell’artista, o di certi artisti, può avere il fascino di vivere nell’incertezza più ampia possibile, il mondo e gli altri ci sono e non ci sono, tutto diventa possibile e si lascia accettare, come quella vecchia strega che mi passa davanti nella fila del tabaccaio qui sotto casa: dovrei ucciderla, ma non lo faccio nè mi importa farlo.: “tutto scorre” ed io lo lascio scorrere, A mio modo di vedere, basato sull’esperienza,questo stato d’animo non è la pazzia, ma è “quel senso di aspettativa” che la precede e che può avere il suo fascino sono perché lì mi sono fermato e mai sono arrivato alla malattia o se l’ho sfiorata, non me lo ricordo.
    Purtroppo la pazzia esiste ed è una malattia delle più laide, dove tutto è tragico, senza possibilità di poesia e di giochi che possano non dico “curarla”, almeno alliviarla.

    L’articolo è fatto molto bene, con illustrazioni e pensieri che attirano molto… ritrae una possibilità di vita per l’essere umano che definirei boéhmien, ricordando la famosa Parigi di fine secolo, e anche dopo, con i famosi artisti che tutti noi vorremmo essere nell’oggi. Una possibilità sempre “troppo” affascinante per noi che dobbiamo stare nei nostri quattro quadrati senza uscirne. Ma non pensiamo al prezzo che questi artisti hanno pagato molto spesso con la morte, per “aver suscitato l’invidia degli dei”, per averli sfidati e spesso vinti in libertà e potere.
    Ma un matto è un matto,e non necessariamente artista: il massimo cui può arrivare di “buono” nella malattia bipolare, è una certa onnipotenza che lo rende allegro e creativo: però poi il crollo arriva subito e, per controbilanziare quella spinta verso l’alto, il sistema nervoso che deve sempre ritrovare un equilibrio, lo fa sentire meno di un verme strisciante.. Anche lo schizofrenico paranoide può vivere il suo giorno da leone come noi bipolari: può per esempio tentare di ammazzare a botte il padre, colpevole certamente ai suoi occhi di cose innominabili, e poi lasciarlo in vita (in fin di vita) perché possa pagare ancora. Ma dopo? Lo aspetta una vita di malattia.

    C’è un confine tra lo stato descritto da Ismael Mel Ville e la pazzia, ma questo confine è situato per tutti sul bordo di un abisso che, è per strano che sia, ha una forza attrattiva straordinaria. Come diceva Zampanò, quando gli è crollato il lavoro di una vita: “Ma che bella catastrofe di noi stessi!”

    Quello contro cui si lotta non è tanto la realtà ma i limiti cui ci obbliga, se vogliamo vivere.

  3. D 'IMPORZANO DONATELLA scrive:

    Sono d’accordo col commento di Chiara. Non so se può essere una forma di pazzia, ma mi è capitato a volte di essere talmente arrabbiata con qualcuno o con qualcosa che, se avessi avuto un’arma in qual momento, l’avrei usata. Ho sentito quel fascino dell’abisso , un atto da cui non avrei più potuto tornare indietro. Fortunatamente la mia è rimasta un’idea. Penso che la cosa più difficile sia quella di usare in modo continuativo la ragione, il buon senso, avendo ben chiaro in testa che nessuno può sostituirsi a te, che sei tu che devi usare il tuo cervello. E’ molto più facile affidarsi ai miti ( quello politico ad esempio) perché così la realtà futura è già bella definita, ci fa meno paura e siamo dalla parte giusta. Questo modo di vedere ( di non vedere) le cose come stanno è simile, secondo me, all’idea dell’artista ” pazzo”. L’artista invece è tale proprio perché usa la propria ragione per approfondire, coi mezzi che ha a disposizione, la realtà.Che poi la realtà, vista da lui, abbia dei caratteri originali, è naturale e bello e aiuta gli altri uomini a capire di più.

  4. mel villee scrive:

    mi sembra che il linguaggio metaforico e un po’ allegorico che ho usato sia riuscito a convogliare la mia idea , tutto sommato,abbastanza chiaramente.
    Vale a dire : la malattia può essere una reazione “sana”, a volte l’unica possibile, ciò non toglie che si deve cercare di curare, se si può.

    • Chiara Salvini scrive:

      vedi com’è difficile capirsi in genere? Questa idea a me sembra una riflessione in più, una riflessione nuova e importante, ma non presente nel testo. ” La malattia può essere, e per chi si ammala certamente lo è, l’unica risorsa che la persona possiede, lei e i dintorni, anche medici, per non morire”. E’ come se la natura dicesse: meglio pazzo che morto, anche se i suicidi poi sono moltissimi. Non mi sento di chiamare la pazzia: “una reazione sana”, se vuoi “una reazione disperata di chi non ha a chi appoggiarsi mentre vacilla”; comunque non può non essere una reazione malata che, come tale va curata, e si può, tra medicine e psicoterapia. La cosa fondamentale sarebbe “prenderla all’inizio”; quello che si dice in Brasile sul cetriolo e cioè che “il cetriolo si storta quando è piccolo”, pari pari, lo stesso detto, vale per la pazzia. Mancanza di professionalità nei pediatri che non sanno leggere i “piccoli segni” che avranno poi “uno sviluppo grande”, e a volte non leggono neanche i grandi segni quando il bambino è già malato; i genitori “non vogliono sapere”: l’umiliazione sarebbe troppo forte: “ho partorito un mostro” ha detto una mamma disperata, “allora anch’io sono un mostro”: sensi di colpa e odio per il bambino invece di investigare, capire (non è facile, lo so bene) quale sia il medico più affidabile. Non parlo di tecnica o tipo di cura, se c’è un vero medico dietro i titoli, qualunque linea potrà curare il bambino. In questo campo ci siamo lasciati alle spalle il “bigottismo” che difendeva a spada tratta solo la “sua” linea. Anche qui: “rarae aves”, però. La scuola, altra responsabile della prevenzione. Ai miei tempi, l’università non insegnava la didattica ossia come dare lezione..quali problemi possono sorgere con certi alunni…ecc.;.non insegnava la dinamica di gruppo per cui, se per esempio, prevalevano i leader negativi, a cui tutti si accodavano, non si poteva sapere come ribaltare la situazione ottenendo almeno lo spazio per insegnare. A mio modo di vedere sarebbe importantissimo un’istruzione psicologico-psichiatrica alle maestre d’asilo e alle maestre, insegnanti in genere: ma solo ed esclusivamente se si mostra loro la complessità di una diagnosi e pertanto come prima cosa si insegna “tanta umiltà scientifica”.

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