foresta chiara e tucano di mario bardelli
cap. XI.
Nella mia storia, il delirio non è mai sorto tutto di un tratto: è stato preceduto da un lungo periodo di gestazione che non è facile descrivere. In quella fase, la mia mente era ancora ben radicata nella realtà, ma drammaticamente presa da un conflitto che la coinvolgeva in maniera radicale e totalizzante. Questo dramma era un pensiero che si presentava ossessivamente e che sottoponeva il mio io a continue lacerazioni che lo sfinivano. La manifestazione più evidente di questo insieme emotivo era una forte depressione che, nel mio caso, significava l’emergere da zone lontane di sentimenti di abbandono sconfinato, di desolazione infinita che non mi permettevano di mantenere un’immagine sufficientemente nitida di me stessa. Si trattava di sensazioni molto primitive con le quali non avevo mai avuto contatto, ma che stavano sovrapponendosi ai miei rapporti attuali portandomi ad un baratro di solitudine dal quale non vedevo uscita. Anche se non come in questo periodo, credo comunque che queste sensazioni primitive di abbandono mi abbiano sempre accompagnato nei miei rapporti perché lucidamente sono sempre stata convinta che le persone potevano arrivare anche ad “adorarmi”, ma che non potevano “volermi bene” dal momento che non si davano la pena di conoscermi per quello che ero davvero.
Solo l’ultima terapia mi ha liberato da questo incubo perché mi ha fatto sentire “conosciuta” e quindi amata.
Ma l’aspetto più importante di questo periodo non era neanche la depressione, che c’era ed era determinante, ma era l’afflosciamento del mio io sottoposto ad un’infinita angoscia mista a panico, ed il suo dilacerarsi, come appeso a mille spigoli, perché non più in grado di sopportare ulteriormente una situazione di intenso conflitto. I miei bisogni esistenziali, o quelli che credevo essere i miei bisogni (impulsi affetti sentimenti), mi tiravano violentemente da una parte, e la mia coscienza morale mi tirava altrettanto violentemente dall’altra.
Ed io stavo in mezzo, proprio come fossi dentro ad un crocicchio continuamente accidentata dalle macchine che mi passavano addosso nelle opposte direzioni.
Alle prime smagliature dell’io, perché non han più l’energia, né il convincimento intimo per tenersi compattato, appaiono – quasi un suo riflesso – smagliature nel pensiero, o minuscole frange di delirio che, inizialmente, sembrano degli ospiti innocui, dei compagni di viaggio, che possono rimanere come andarsene, quasi a nostro piacimento.
Ma non è così.
Ormai, come dirò meglio in seguito, è stata inserita nella nostra testa, la cassetta di un film, che prenderà corpo a poco a poco, e noi dobbiamo rassegnarci a “vederla”, o meglio a viverla, attori e spettatori insieme, fino alla fine. Come, date certe condizioni (che possono anche essere chimiche, io non lo posso sapere, ma la sensazione è di una specie di automatismo), non dipendesse più da noi.
(continua di seguito)
3. Quando mi ammalo il mondo diventa una straordinaria famiglia che vive in affettuosa armonia: la natura e gli esseri umani vibrano di intime corrispondenze, echi, intrecci, gioiosi rimandi. Tutto diventa trepido dialogo e scambio di tenerezze. Vivere così è una sensazione straordinaria: l’universo ha una brillantezza inaudita come fosse nato in quell’attimo, rorido di rugiada, solo per noi. Il nostro corpo e la nostra mente fluiscono nell’ambiente, nella natura nelle case nel corpo degli altri come fossero luce che si espande e tutto abbraccia. Il cuore ha delle vibrazioni leggere, delle emozioni che fioriscono dal profondo, e mettono la nostra pelle in contatto con l’intima danza che percorre il tutto. L’universo grande rinasce e si espande continuamente insieme a noi, perché niente ci separa. Questo modo di vivere è proprio quel paradiso che ogni anima, nei secoli, ha immaginato. Ma più c’è paradiso, più ci devono essere streghe cattive, come succede in ogni bilancia di questo nostro mondo. Basta, infatti, una minuscola sensazione improvvisa a farci precipitare nello stridore di tutti gli inferni. Questa splendida frittata d’amore universale si gira allora nella più sconsolata disperazione. Un panico che ci soffoca vivi. Una persecuzione infinita. Gli altri, e l’universo tutto, cui siamo incollati, sono degli assassini che perseguono nostra morte. In quel preciso momento. Solo ed esclusivamente. Apertamente, nascostamente, intrigantemente. Devo confessare che la mia adorazione e venerazione, straordinario bisogno di accudimento (tale era il mio amore per il Tutto), diventava più frequentemente la desolazione di un’anima perduta senza collare, come nel film “Colazione da Tiffany”. Era la sensazione di un vuoto insopportabile, come mancasse una parte fisica di me. Che sempre mi era appartenuta. Della quale mi assaliva una tremenda nostalgia. Una metà di me. Certezza di un abbandono vissuto una volta nella mia carne. Uno strappo indelebile. Ingiusto sotto tutti i Cieli, antico come il cielo. Ma ho dovuto vivere anch’io il terrore di essere uccisa ad ogni passo, un’ombra incombente dietro le spalle, che spariva appena mi giravo, per subito riformarsi. Indefinitamente. Nel delirio, il direttore dell’équipe, che rappresentava il mio terapeuta, unica figura costante, si serviva di collaboratori, non era dio, non poteva essere onnipresente; ma questi collaboratori non avevano un volto preciso, potevano essere le persone a me vicine o chiunque mi capitasse di incontrare. Nella realtà, se a tutti, e a tutto, prestiamo qualcosa di nostro (desideri, passioni, pensieri, immaginazioni), non a tutti siamo disposti a lasciarlo in custodia, depositarlo, disfarsene come facciamo un amico caro o un terapeuta. Una storiella ebraica (bellissime, si sa) racconta bene questo movimento inconscio. Un commerciante si gira e rigira nel letto la notte intera perché domani gli scade il debito con il vicino e sa che assolutamente non lo può pagare. La moglie non ce la fa a dormire con tutta quella frenesia di lenzuola e coperte. Ad un certo punto si alza, apre le finestre e grida: “Joaquìm, domani Juin non ti paga”. Poi chiude le finestre e rivolta al marito: “Adesso dormi perché a non dormire ci pensa già lui”. Anche a noi, in alcuni momenti della nostra vita, è stato permesso rannicchiarsi in un altro e dimenticare ogni cruccio. Ma per abbandonare così una parte della nostra anima, dovevamo sentire per questi una fiducia assoluta come in Dio. Nel delirio, invece, chiunque si può incaricare di questo compito. Tutto quello che nella vita ci fa sentire soggetti, dotati di tensione e impegno ad attribuire significato agli avvenimenti; quella ricerca inconscia, che non è di tutti, una rete che prenda insieme tanti punti separati della nostra storia (e noi stessi in questa) è enormemente dilatato nel delirio. Anche se si tratta di un modo di sentire reale e fittizio, teso a coprire il fatto che non siamo mai stati oggetti, in preda a forze che ci manipolano, come in quel momento. Chiunque per me diventava un familiare cui potevo attribuire una comunità di sentimenti e di intenti, perché immediatamente intuivo che eravamo parte di uno stesso “piano” che ci faceva complici di una stessa carboneria. Per questo si dà del “tu” a tutti, così come alcuni di noi facevamo nel ’68 quando una lotta comune ci rendeva confratelli. Anche allora, per noi, adolescenti, era caduta la barriera che separa il pubblico dal privato, ma anche perché siamo immersi in una stessa placenta che ci tiene in unico abbraccio. Il mondo diventa così un’immensa culla in cui muoversi sicuri, anche se è la sicurezza di chi cammina bendato sull’orlo di un abisso. Nel delirio, il nostro mondo interno è in una tale accelerazione ed effervescenza, un correre di immagini come una cinepresa senza operatore in una rapidità e angolazioni vertiginose che solo la macchina da presa di un bravo regista potrebbe rendere… Luci, colori, significati, relazioni (tutto è “relazione”) improvvisi ed imprevisti che, se non potessimo liberarcene spandendoli sugli altri e sugli avvenimenti, imploderemmo all’istante. Siamo entrati in un universo oscuro e terribile, così “incredibilmente sconosciuto” che la prima attività della nostra mente, per non farci morire di panico, meglio, per non farci morire letteralmente di infarto è costruirci una familiarità, e lo fa depositando stati d’animo, emozioni ed immagini nostre, come un getto di champagne continuo, su tutto quanto ci circonda, cose e persone. Non lo fa in una maniera dissimile a quanto accade a ciascuno di noi, nella vita di ogni giorno, per liberarci dell’infinita estraneità che altrimenti sentiremmo verso questo nostro mondo: ciascuno di noi, infatti, viene al mondo con una carica umana che lo porta ad abitare con la sua anima il grande mare fino agli alti dei del cielo trasformando così lo spazio e il tempo circostante. Nel delirio tutto ciò avviene in una maniera molto più “ricca” perché l’universo dove siamo stati gettati ci è estraneo totalmente e non abbiamo una mamma abbastanza grande che ci canti canzoni adatte a mandar via il lupo che ci mangia vivi. Inoltre “tutto è successo all’improvviso” o, comunque, per quanto lenta la preparazione, si tratta di una preparazione che fa esplodere il nuovo sempre a piccole vertigini che, a mio parere, non preparano mai alla “vertigine”. E’, allora, la nostra mente che ci soccorre con lunghe continue canzoni attraverso l’acquisizione di una familiarità. Siamo immersi così in una mirabile sinfonia che ci trattiene e ci incanta perché tutto intorno a noi ci somiglia. Diventiamo per forza dei Narcisi che s’incantano a guardarsi allo specchio. Né potremmo diversamente perché se entrasse nel nostro universo un “tu” moriremmo dal terrore (1). A fatica ci manteniamo vivi, la nostra mente viva nei confini di un unico cerchio. Ma non è neanche questo. L’incanto più grande deriva dall’allentarsi dei vincoli che separano l’io dal resto del mondo; niente ci si contrappone più perché siamo parte del cielo e delle stelle, siamo l’aria che respiriamo come siamo lo sguardo che ci osserva con simpatia dietro un bicchiere alzato a fare con noi un brindisi accennato al bancone di un bar. In questi momenti rinasciamo forse a quel mondo che abbiamo vissuto nella primissima infanzia quando, appena nati, usiamo questi stessi strumenti per liberarci dalla paura che questo mondo totalmente sconosciuto ci incute (2). Ho detto che nel delirio spandiamo immagini di noi stessi sugli altri e sugli oggetti. Ma non sempre queste immagini e queste emozioni che affidiamo “all’esterno” ci ritornano in uno specchio buono. A volte lo specchio si trasforma, anche in relazione alla nostra distruttività nascosta, non solo per reazioni altrui. L’immagine che gli occhi degli altri ci rimandano diventa violenta e noi sentiamo una persecuzione che tende ad ucciderci. Non siamo più perseguitati per sentirci vivi, ma per essere eliminati. E’ allora che ci sentiamo veramente male. nota 1, cap. 4 METTERE NEL LINGUAGGIO COMUNE: “COME AVVIENE UN’AUTOCURA” (Per seguire il racconto si può saltare al cap.5) Questo testo era inserito nel capitolo precedente, ma ho preferito estrarlo per chiarezza. Ripropongo, però, il contesto che mi ha suggerito scriverlo. Metto le virgolette al testo ripetuto. “L’incanto più grande deriva dall’allentarsi dei vincoli che separano l’io dal resto del mondo; niente ci si contrappone più perché siamo parte del cielo e delle stelle, siamo l’aria che respiriamo come siamo lo sguardo che ci osserva con simpatia dietro un bicchiere alzato a fare un brindisi con noi al bancone di un bar”. Un tu sarebbe meravigliosamente accolto se fosse capace di farsi così piccino. Cosa voglio dire? Nel testo segue una frase: proviamo a leggere: “In questi momenti rinasciamo, forse, a quel mondo che abbiamo visto nella primissima infanzia, quando, appena nati, usavamo gli stessi strumenti per liberarci dalla paura che questo mondo totalmente sconosciuto ci incuteva”. E’ vero, a mio parere, che nei momenti più cupi del delirio ritorniamo alla primissima infanzia, ad una passività inerme, una bocca aperta per cantare (nel mio caso) e un corpo capace solo di fare canti e balli perché la pioggia arrivi generosamente o, al contrario, il fuoco ci colga perversamente per distruggerci e punirci, a seconda dei momenti. Il tu di cui abbiamo bisogno allora può essere un tu addirittura inesistente quando è la pioggia di fuoco a ricoprirci, ma lì “presente”, “testimone” della distruzione avvenuta, certificata. Un tu diverso nella pioggia rinfrescante, ma che ci permetta di illuderci di essere i padroni delle nuvole e del cielo. Anche se io non l’ho avuto. Questo, forse, mi ha reso più severa con me stessa. Forse gli analisti che non mi hanno permesso di averlo erano troppo severi con loro stessi. In generale, però, l’età mentale in cui ho vissuto il delirio è l’età della simbiosi, l’età in cui si sta in braccio alla mamma e non si vorrebbe mai scendere o mai salirci: età in cui io ero una metà e gli altri l’altra metà, per semplificare all’estremo. Per questo dico: se gli altri accettassero di farsi “così piccini”. Ma oggi non capisco più cosa la mia lingua vuole dire. Si ha bisogno di qualcuno che rinunci ad essere un soggetto, ma che non per questo diventi un oggetto, altrimenti tratterebbe noi stessi come un oggetto. Cerco di spiegarmi. Una delle implicazioni della frase di Martin Buber (mi scuso di filosofare, ma sono parti della mia vita) : “il tu ti rende un io, l’io rende un tu, senza la relazione non c’è né un io né un tu”, citato a memoria, è che se tu tratti un altro come un oggetto, tu sei un oggetto e viceversa, se ti rendi un oggetto, tratterrai l’altro come un oggetto (interpretazione mia). Preferirei tentare così. Uno psicotico “lo si guarisce già” (frase “metafisicamente” vera, esperialmente vera nell’essere) trattandolo “come una persona”. Una persona nell’accezione kantiana, un fine e non un mezzo, un soggetto e non una cosa, qualcosa che si può manovrare secondo i propri scopi e interessi. Si tratta di porsi davanti a lui e “regolare” i propri sentimenti, come molto bene sanno fare gli psicoanalisti, “donandogli” un’immagine di persona a tutti gli effetti, con tutti i diritti di persona, l’autonomia di giudizio innanzi tutto, il rispetto delle opinioni e delle decisioni, anche se questa immagine che gli mettiamo in mano contrasta con quella che abbiamo davanti nella percezione. (Parlo degli psicoanalisti perché è un tipo di persone che ho avuto modo di conoscere un po’, ma una persona “buona” lo fa naturalmente). Ho pochi strumenti per farmi capire, sono impotente, ricorro alla filosofia, mi arrampico sui vetri perché so di parlare a persone potenti, ma in verità voglio tradurre un’esperienza puramente sensibile, emotiva che ho avuto con un amico, una persona buona che vive in delirio. Esperienza che, del resto, non prova niente, ma che vorrei raccontare alla mia maniera, non certo come un caso clinico! E’ il figlio di un’amicizia di famiglia, ha avuto una crisi con voci sui vent’anni, è stato molto ben curato e si è stabilizzato con un leggero delirio che gli prende vicino alla gente, specialmente se è tanta gente. Tuttora in cura sia con medicine che con terapia analitica, molto ben seguito da persone di alta specialità, ha preso l’abitudine di farmi visita abbastanza regolarmente, sentendosi bene, evidentemente, in mia compagnia: una piccola patria, “un’appartenenza” tra noi psicotici, più o meno fuoriusciti. Qualcosa che faceva bene a lui e a me. Naturalmente, da parte mia quello che mi sono limitata a fare è trattarlo come una persona e, agli inizi, non è stato facile perché si comportava con me proprio come colui che aveva perso le prerogative di “essere persona”: eccessivamente cerimonioso, educato all’inverosimile, mi trasmetteva la sensazione di un automa. Lo trattavo come persona perché ero psicotica, avevo vissuto tantissimi anni come “un pacchetto”, la malattia mi aveva allora ridotto un pacchetto e gli altri (io mi sentivo un pacchetto, mi vedevo un pacchetto, non potevo togliermi l’immagine di pacchetto, ne avevo orrore, ero infelicissima, ero una persona, quell’immagine reale in me non si era perduta affatto, una persona che si vedeva “pacchetto” e non sapeva affatto che pesci pigliare, nessun appiglio né aiuti “al livello in cui ero”: tutte grandi parole, ma una mano, una vera mano fatta di carne non c’era) e gli altri, gli altri mi congelavano continuamente nell’immagine di pacchetto. Per quanti anni ho teorizzato, da sola e, a volte, con una cara persona, un’amica che sa ascoltare gli psicotici, è curiosa e attenta, ama qualcuno che le faccia da radio e le racconti delle favole, che le fanno passare il tempo, dicevo, per quanti anni ho teorizzato (adesso non lo faccio più e non so perché) che gli handicappati dovrebbero venderli al supermercato. Quale potere uno psicotico regala ad un normale è intraducibile! E lui vede, registra e subisce perché è “buono”. Reso “buono” dalle violenze che gli hanno fatto subire parenti, medici, infermieri, accompagnanti ecc. Senza assolutamente rendersene conto, tutto per il suo bene. Per ignoranza, dico io. Per cui non può neanche odiare nessuno né avere rabbia. Quante infermiere e accompagnanti mi hanno pettinato contro pelo 24 ore al giorno per mesi e mesi mentre avevo la pelle già aperta dal delirio, dai farmaci, dalle batoste che mi avevano condotto lì, ma che dire? Io so, con assoluta certezza, che con tutto il loro mondo, i loro strumenti, il loro linguaggio, le loro pene non potevano fare diverso. Quando sono stata internata in Brasile dai miei zii e il mio compagno (poi, mio marito) mi sono trovata al fianco una ragazza di giorno e una di notte con l’intento di aiutarmi sicuramente. La ragazza del mattino era di estrazione proletaria, il marito lavorava, ma non sempre, aveva due bambini, aveva molti problemi di soldi e di rapporto con il marito e con i figli, la casa da aggiustare, molto spesso c’era solo il suo stipendio, si sfogava con me, io sapevo poco il portoghese, stavo male con lei per tutti questi problemi che si riversavano su di me, disturbava il mio cammino che era il silenzio e seguire il lavoro che ogni mattina e ogni notte la mia mente mi poneva sul tavolino: “Ecco, oggi, farai associazioni libere sul rapporto simbiotico con tuo madre!” Niente così organizzato come in un ufficio, certamente, ma c’è una certa organizzazione nel delirio altrimenti il termine “lavoro” sarebbe sprecato. Ci sono dei temi attorno a cui la mente si sofferma e che ritornano come in una sinfonia, ecco l’immagine è ben trovata: appaiono, si frammischiano, scompaiono, ritornano sotto altri ritmi, in altre tonalità, in altri contesti, irriconoscibili ai profani perché tradotti in simboli, in facce sconosciute, poi di nuovo riappaiono facendoti di nuovo sentire in un ambito conosciuto ed è proprio quando magari ti tirano il tappeto da sotto i piedi…non è così cattivo il mondo di laggiù nella mia esperienza, è come ballare su un ponte rotto, questo sì, l’incertezza diventa sistema di vita e poi non puoi più abbandonarla. Ho perso la ragazza: avrei voluto dire: “Voglio stare da sola”, forse all’inizio non avrei avuto tanto coraggio, tra noi si era creato un rapporto di dipendenza per cui avevo bisogno di lei, avevo paura che mi abbandonasse anche se mi faceva male, ma era gentile e si occupava di me, era così incasinata perché era una persona molto emotiva e infantile ed io beneficiavo della sua emotività e del suo infantilismo, anche se era negata per “accompagnare” uno psicotico, per cui, inevitabilmente, visto anche che ero più vecchia, ero io che accompagnavo lei. Così non ho mai detto quella frase finché l’ha detta lo psichiatra, ma ero con il piede sull’uscita: erano passati tre mesi. Un giorno è stata assente e mi hanno dato un’altra persona che era infermiera, altro livello lavorativo, altro livello culturale, altra età: è stata un giorno in silenzio ed io in paradiso! Ho avuto la prova che era lei ad angosciarmi: un malato, vicino ad una persona non adatta si fa venire tanti dubbi sulla propria inadeguatezza prima di decidere che è l’altro, almeno un malato come ero io. Alla notte la ragazza era una studentessa che faceva le notti per poter studiare. Si supponeva che una persona stesse con me alla notte sveglia perché nel caso mi svegliassi, nonostante i micidiali sonniferi, avessi qualcuno che mi soccorresse: e infatti mi capitava di svegliarmi di colpo e di cominciare a parlare in delirio e non in delirio per delle ore. Questo ho potuto farlo solo le prime notti, finché non abbiamo cominciato a parlare (era molto riservata, esattamente all’opposto della ragazza del mattino) e non ho saputo un po’ della sua storia: dopo non ho potuto svegliarla più! Come si vede la vita dei malati mentali anche nelle cliniche dei ricchi non è sempre agevole! In questa prima internazione dove sapevo poche frasi di portoghese, ero stata internata nella parte a pagamento, una parte piccola con una decina di persona, molto depressiva, ma c’era una parte pubblica molto grande, abbastanza in mania, allegra, con scoppi d’ira qua e là, dove riuscivo puntualmente ad intrufolarmi, ma puntualmente un infermiere mi raccattava ridendo e mi riportava giù. Ma una decina di giorni l’hanno convinto. Così mi sono stabilita lassù ed è stata la mia salvezza perché sono anche riuscita in parte a sfuggire all’accompagnante piangente. Lei era contenta di non dover star dietro a niente e mi lasciava andare. Alla sera tornavo, ormai pranzavo là e facevo merenda là con delle gallette croccanti di duro disdegnando torte alla crema e cioccolato. Giù c’era un’infermiera capo temibile, una certa Donna Anna, tutta coscienza del proprio compito e della propria gerarchia: si ostinava a dosarmi allo stretto i lassativi facendomi molto soffrire: entrando in ospedale, la prima cosa che mi succede è un blocco ostinato all’intestino che sembra irrimediabile, dovuto al trauma e alle medicine; ho la gastrite, la colite cronica e l’ernia iattale, ma quando entri in ospedale o clinica che sia ti spogliano di tutto: collanine con la Madonna se le hai, medicine che usi e qualunque cosa tu possa avere di uso personale. Ormai avevo passato i trent’anni, per internarmi non mi avevano chiesto nessun certificato sulle mie interiora né io lo avevo fornito, conoscevo questa reazione del mio intestino, che da sempre del resto soffriva di stipsi, dalla precedente internamento, ma Donna Anna non mi credeva: ero matta e insolvibile anche sull’intestino. Dopo lunghissime trattative durate due settimane, sono riuscita a prendere contatto con il mio psichiatra che era in ferie (il sostituto non serviva), o almeno suppongo perché era introvabile (tu non hai nessun numero di telefono del tuo psichiatra, se hai bisogno perché stai male ti rivolgi all’infermiera capo, appunto a questa Donna Anna così sollecita dei bisogni dei pazienti, e lei provvede) e con il suo visto ho avuto i lassativi. Dopo due settimane mi si permetterà di dire in buon italiano che ho fatto una buona cagata: si è otturato il gabinetto! Altro dramma: si è dovuti andare correndo da Donna Anna a riferire. Arriva l’unica accompagnante scorbutica (piena di problemi certamente: la fame e la lotta per il pane in Brasile, quella sì è intraducibile) zoppa come mia madre, vestita con una cappa verde, camminava senza bastone per appoggiarsi, era giovane, circa 27 anni, ma con un aggeggio in mano che ricordo come un grosso bastone, forse sogno. Entra nel bagno, accende tutte le luci; io fuori nella camera la guardo incantata perché mi vergogno di mostrare quel gabinetto intasato di merda, la mia, senza veli e, poi, non immagino minimamente cosa possa voler fare. Nella camera c’è una luce leggera, mentre il bagno è molto illuminato, piastrellato di bianco e verde come il suo vestito, così nel ricordo (sono passati trent’anni), guarda bene il gabinetto, poi infila il bastone nel centro della… e tira l’acqua! Non crederete al mio orrore: tutto il pavimento del bagno si riempie di acqua e merda per dieci centimetri: io guardo basita, allucinata. La guardo, non mi guarda, non muove un muscolo: penso: certamente mi odia. Ero io arrabbiata con lei, con il Brasile, era anche mulatta!: ma perché fare una porcheria del genere per sturare un gabinetto, infliggermi un’umiliazione del genere, una tale sofferenza che è difficile immaginare davvero? Penso anche: “tutti quei resti di me stessa, tutti così all’aria, schifosi, nell’acqua e merda del pavimento, la mia pazzia stravasata, io pazza ributtante?” (i pensieri che riporto sono una trascrizione razionalizzata, ma esatta, di un pensiero sognante che guardava fisso il pavimento facendo associazioni libere di tipo depressivo, come qualcuno che ha subito un affronto narcisico terribile). Farà molto ridere quello che dico, ma era come se avessi composto una poesia dopo tanto tempo e tanta fatica (così per far capire e far ridere) e l’infermiera capo l’avesse presa e buttata sull’asfalto in una via di Sao Paulo piena di traffico facendola straccionare! Così mi ero sentita io: buttata in una via di gran traffico e staccionata. A chi può capire cosa ho provato dico: non sapevano (ero chiusa là dentro in delirio, oltre tutto, parlare di me non parlavo con nessuno, la mia amica Donatella, quella che ama ascoltare la radio psicotica non c’era!). La cosa più terribile però è stata che ha dovuto tirar su tutto con uno straccio: inimmaginabile la fatica, zoppa com’era, la colpa, mia madre zoppa, mia madre vecchia, io la colpa di tutto, io ricca, lei poverissima, un tempo che non finiva mai, ho assistito fino all’ultimo, se n’è andata senza guardarmi, la capisco, ma io, in bagno, dovevo andarci. Il mio analista, che ho visto pochi giorni fa e che ho trovato troppo magro, dovra prendere almeno un chilo o due, adesso ha 82 anni, sempre bello come il sole, alto, si dice credo “corpulento”, per dire un uomo gigantesco, un armadio, ma non grasso. Lo so che lo vedo più alto di quello che è, ma mi piace pensare che a lui non spiaccia la mia adorazione, che poi è aria fritta perché gli voglio bene davvero, ho iniziato a fare terapia con lui nel ‘75, anche se poi mi ha spedito in Brasile, olé olà, ma racconterò tutto a tempo debito. Gli ho spedito i primi due capitoli del libro per leggerli e lui mi ha chiesto: “Cosa vuol dimostrare?” Risposta pronta: “Voglio mostrare che un paziente può vivere ed elaborare”. “Dimostrato” Io continuo balbettando: ”Se altri pazienti scrivessero, allora forse…” Non ho potuto continuare: di fronte ai poteri forti, io balbetto: sono un paziente, sono stato abituato a subire e ad obbedire, ho paura. Questo mio caro analista mi ha trattato due volte, come si può dire: “decisive” è molto debole, voglio dire, se riesco ad esprimermi, quando nel percorso, nel tragitto di una vita angosciante, fatta di immagini di sé sempre depressive, non dico neanche di sconfitte perché la parola “sconfitta”, di per sé, ha già un tono allegro!, ecco diciamo così perché mi viene più facile: quando il principe nelle fiabe parte alla ricerca di sé e dell’uccello di fuoco da consegnare al re suo padre come testimonianza della sua fedeltà, negando nei fatti quanto hanno spergiurato i fratelli suoi nemici, arriva ad un certo momento, andando nella foresta fitta, ad un bivio mortale: da una parte sta la strada giusta, dall’altra la perdizione per sempre di tutta la sua ricerca. Si sente giustamente perduto. Presso la fontana, posta lì al bivio, gli appare una bella fanciulla che gli canta una canzone e gli porge un biglietto mi pare di averne parlato nell’introduzione, ma sempre in quel modo sommesso, accennante, di chi ha paura di distrurbare, come tutti gli psicotici: gli psicotici hanno sempre paura di disturbare il mondo della normalità perché – di fatto – anche “da risanati” sono un gran disturbo per la normalità. Io me ne accorgo ogni giorno: è un po’ come quando escono dal carcere i carcerati per buona condotta e cercano di riinserirsi in un lavoro. Dopo tanti anni passati nelle patrie galere hanno un’idea del giusto e dell’ingiusto estremamente diversa dai normali, quindi tutto il loro universo è diverso: dovrebbero essere “ascoltati” dai legislatori e in particolare da chi somministra le pene e organizza il significato della vita in carcere, da chi costruisce le carceri, proprio nell’architettura, nell’arredo interno ecc. Ricordo che nella mia prima internazione in Brasile, allora ero giovane, bella e spensierata, insieme al mio compagno, che è architetto, avevo progettato un ospedale psichiatrico con degli spazi pensati in funzione del malato e della malattia mentale: allora ero in delirio e, nello stesso tempo, lucida, oggi non ne sarei più capace. Forse potrei pensarci, ma questi spazi non sono più necessari perché pensiamo che situare un malato mentale (o così ho inteso, ma confesso che non me ne sono mai occupata seriamente) direttamente in uno spazio sano, sia già una cura. Su questo i dati che posseggo non mi permettono di fornire opinioni. In qualunque internazione (in clinica) sono stata malissimo in modo non raccontabile se non quando la polizia mi ha internato a Parabiago in un vero manicomio perché nel ’75 non erano ancora stati aboliti. Ho vissuto bene la pazzia solo in compagnia di mia mamma che mi ha fatto da mamma più che da infermiera. Mia mamma aveva già passato gli ottanta e ha avuto il coraggio di tenermi con sé sapendo che per me ogni internazione era una violenza terribile, al di là del sopportabile, anche se poi sopportare si sopporta sempre diventando ogni volta più pacchetto e meno persona. E’ questo che gli psichiatri e gli psicoanalisti che ci prendono in cura dovrebbero sapere: è la malattia “ e il contorno”, diciamo così, l’ambiente, tutto l’ambiente che ci rende non-persone: Trattarci da persone è già andare contro la malattia e contro l’ambiente che senza volere, “non sapendo” si è alleato con la malattia contro di noi. Tutto è scusato, tutto è perdonato, tutto è stato fatto per “non sapere”: ma lasciatemi dire che dentro il pacchetto noi c’eravamo noi vedevamo registravamo soffrivamo come bestie sentivamo la comprensione un diritto! A trent’anni sono partita da lì! Ho capito poi di non avere diritti neanche alla vita. Che anche questo dovevo guadagnarmelo sul campo centimetro dopo centimetro: a me la vita non avrebbe regalato nulla, neanche un sorriso. Questo mi è stato chiaro dalla prima crisi: avevo perso tutto, ma proprio tutto. Si trattava di lottare per il diritto di vivere, per sconfiggere la morte con gli occhi sempre balenanti. L’ultimo ad essere raggiunto, dopo trenta-quarant’anni di medicine, di analisi sarebbe stato il diritto di essere persona. Riconosciuta tale dagli altri. Dai cosiddetti normali. Che non ti accetteranno mai “se non produci”: io vorrei “produrre” questo libro per lottare contro il loro “non sapere”. Ma chi leggerà? Chi già sa. A volte questo diritto di essere “persona”, lo chiamo diritto ad esistere: non è la stessa cosa. E’ la stessa cosa se scrivo: diritto ad esistere come persona psicotica. Questo è molto raro, rarissimo che mi sia consentito con dignità: devo parlare con la mia amica Donatella, quella che ama la radio e mi vuole bene (che, poi, nel profondo, non so quanto mi accetti) o andare dal mio psicoanalista (idem). Sono molto accettata superficialmente da tante persone perché sono una persona che irradia amore. Sono amata da mia zia Ri-Ri che ha 84 anni. Devo difendermi dall’invidia. La mia analista in Brasile diceva che prima suscito l’invidia negli altri, poi ne ho paura. Sono passati vent’anni da quando ho concluso la mia analisi in Brasile, ma queste sue parole mi sono tornate in mente: ho bisogno di raccontare i miei successi perché ne sono sempre entusiasta; mi aspetto sempre talmente poco che quello che riesco a fare mi sembra sempre meraviglioso; l’entusiasmo dell’altro mi nutre. Col tempo la mia autostima è migliorata e sta migliorando: ho meno bisogno di raccontare i miei successi. Mi perdo di più a raccontare tutte le mie disavventure che sono grandi. Come dire: “non mangiatemi che sono cibo cattivo”. Da poco tempo ho scoperto, infatti, che tante difficoltà, tantissime, che ho avuto nella mia vita, proprio con persone a me vicine, non le ho avute per le mie mancanze, debolezze e neanche per la mia malattia, ma per i miei meriti: per essere una persona capace, che nelle difficoltà è lì, sempre, dà una mano, risolve i problemi, non abbandona. Forse questa mia vita che è stata un “seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” (Montale) mi ha reso inumana. Io non ho potuto essere una persona “dolce e tenera”, capace di tutte quelle debolezze che rendono un essere umano così familiare, devo accettare questo limite e capire che posso essere per questo antipatica alla gente. o trattavo semplicemente come una persona e l’ho visto migliorare giorno per giorno al lungo degli anni. Quello che voglio dire non è una grande esperienza, ma il concetto è grande: uno psicotico va accolto fin dalla prima volta come una persona. Tutti gli psicoanalisti diranno che trattano tutti gli psicotici come persone, ma non è vero: li trattano come persone quanto più si avvicinano all’immagine di loro stessi cioè alla “normalità” ed è naturale. Gli psicoanalisti, come i sacerdoti, come i professori, come i genitori sono esseri umani. E tutti, anche i migliori hanno paura e sentono fascino della pazzia. Questo sentimento contraddittorio nella vita quotidiana si traduce in una forma di “maneggio” che nasconde, a volte, un profondo disprezzo proprio per chi – apparentemente – è più deteriorato nel concetto di persona. Questa attitudine che chiamo impropriamente “maneggio” è possibile, a mio parere, perché gli psicotici che ho conosciuto sono persone che vivono in un mondo di doni (e non di scambio) e hanno una straordinaria devozione per chi gli dà una minima attenzione, visto che sono abituati ad essere scartati. La gente allontana gli psicotici, anche quando non sono pericolosi, perché la malattia mina in loro proprio le prerogative che noi consideriamo tipiche della “persona”, specialmente nella cultura occidentale e cioè l’autonomia. Nel concetto di persona c’è anche la capacità di avere rispetto, la sensibilità di provare emozioni, di godere della natura, di amare gli animali, di avere sì il concetto di spazio e tempo, anche se un po’ si è perso il contatto con il mondo esterno, ma avere dentro di sé tutta la ricchezza del mondo interno, la fantasia, l’immaginazione che, i normali in genere, hanno dimenticato insieme alla loro infanzia. Sono persone che sono cresciute senza dimenticare la loro infanzia. Mi si obbietterà che non sono cresciute secondo gli standard e questo è vero? Ma – dirò io- è vera crescita quella che si vede in giro? Persone in generale che gridano, rabberciano, appiccicano mentre tagliano (esagerando) le emozioni, la fantasia, il mondo interno, l’infanzia? E’ giusto prendere il loro metro e misurare gli psicotici e dire che non sono adulti? O è meglio chiedere agli psicotici come si sentono? Questa persona che ho avuto la fortuna di seguire in amicizia per così lungo tempo vive in misurato delirio un poco lontano dalla realtà, anche se sempre ci si sta avvicinando progressivamente. Appartengo alla schiera degli psicotici ritornati. Quindi (anche se non conosco i miei compaesani e vorrei tanto conoscerli per confrontarci – fornirò alla fine tutti i dati possibili) faccio parte della schiera degli innamorati della realtà: lì mi sono installata e solo la realtà mi dà sicurezza. Capisco, nello stesso tempo, una persona con una storia diversa di malattia che ha bisogno, invece, di stare trincerato in se stesso e mantenere solo degli addentellati che sporgono, e si addentrano e si ritirano, nella realtà. A volte io stessa lo allerto di essersi inserito eccessivamente nella realtà, nella normalità, lo richiamo alla “sua realtà”: di non perdere la sua qualità di psicotico, una qualità che lo dota di una concezione del mondo diversa, di chi non ha paura di nulla perché ha già affrontato la morte ed è ritornato. Chi ha potuto fare questo vede la propria vita e la vita degli altri, la vita stessa nella sua essenza, in un modo differente perché ha già visto la morte e l’ha guardata nei suoi stessi occhi. Questo i normali che trattano lo psicotico come una non-persona non se lo ricordano. E’ vero nella vita non hanno combinato niente: io stessa non ho potuto farmi una professione e ho tentato di farlo molte molte volte: ogni volta, dopo un periodo di circa due o tre anni mi ammalavo di stress ed ero internata da qualcuno che mi era vicino. Vicino e non prossimo. A partire dal metro della società sono delle persone inutili che hanno passato la vita a soffrire e a curarsi. (1) Può abitare con noi solo un “Tu”: ho ritrovato la fede cristiana, essendo io lucida e sola, alla fine della terza internazione in Brasile. dire meglio di questa solitudine e di questa crisi psicotica che come tutte le tue crisi si trattava di poca cosa, di stress. Parlare della solitudine dello psicotico e dire che con questo libro ti sei decisa a vincerla, a parlare ai normali, ai nevrotici e ai tuoi compagni psicotici. 4. Nel pensiero delirante il mio sguardo si perdeva nelle profondità del mondo alla ricerca di un’essenza che mi desse un aggancio più fermo e più costante. Tutto mi appariva allora svuotato di immagini, astratto, una pura trascrizione simbolica, un linguaggio nuovo i cui segni arcaici e ripetitivi avevano un primordiale significato sessuale. Erano delle proto-immagini, semplici tratti di matita quali lo ying e lo yang che stavano per “il” maschile e “il” femminile, molto elusive e infinitamente cangianti, ma sempre riconoscibili nella loro eternità alla fine di un lungo esercizio percettivo e mentale. Un’immagine sempre in cerca del proprio opposto in un’infinita nostalgia perché quello che contava era l’equilibrio raggiunto, la “saturazione” delle valenze mi verrebbe da dire, anche se questa era momentanea e sempre rinnovantesi. Questo codice che possedevo solo io, ma che credevo di leggere obbiettivamente al di sotto della realtà fatta di immagini quale sua struttura, era applicabile a tutti gli oggetti e al comportamento delle persone. La mia esultanza era di essere arrivata ad una nuova metafisica dell’essere che comportava una nuova morale. Il compito dell’uomo, e prima di tutto il mio, era partecipare e contribuire a questo movimento eterno dell’universo. Avere un comportamento morale non era facile: si trattava di decifrare innanzi tutto quali erano le due parti sessuali che dovevano unificarsi e poi bisognava trovare il modo di unificarle. Ogni oggetto , “ogni briciola” che cadeva sotto i miei occhi, ogni percezione parlava e rivelava la sua intima sessualità; ogni oggetto stonava o armonizzava con il suo vicino a seconda di come era situato nel mondo: a me toccava contemplarli con profondo appagamento quando in giusta relazione o “risistemarli”. Questo accadeva sempre con ogni elemento che cadeva sotto il mio sguardo, ossessivamente attento, e ogni cosa mi chiamava ad un impegno etico: questo lo eseguivo piena di riserbo, quasi nascostamente, sia che mi trovassi in casa mia o altrui, per strada o in un bar, perché tutto doveva cantare la pura armonia dei cieli. Era un suono simile a quello, incantato, che si sentiva entro le sfere celesti, nella loro immensa luminosità, quando vivevamo nel mondo tolemaico. Questa musica era così appagante, come certi momenti speciali della terapia, da funzionare quale segnale per spingermi sempre in avanti. Questo io sapevo con la certezza che sola dà la morte. Che non potevo fermarmi, che dovevo guardare sempre in avanti costi quel che costi, come fa un cane da tartufi che, sulla scia dell’odore, continua a correre puntando l’obbiettivo anche quando incespica nei cespugli facendosi male. Io ero quel cane, prigioniero di un