- da Repubblica.it
L’estremo atto d’amore
quando Eros ti abbandona
Hegel, il nuovo realismo e il senso della fine. L’opera costruita dal pensatore tedesco cambia il linguaggio della riflessione filosofica. Senza più necessità di assoluto resta la ricerca di una forma che organizzi e interpreti il disordine
di EUGENIO SCALFARI
FRIEDRICH Hegel era assolutamente certo che la sua opera, disseminata nei molti libri da lui scritti a cominciare dal primo sulla Fenomenologia dello Spirito, avesse chiuso l’epoca dei sistemi filosofici. Ne conosceva tre che l’avevano preceduto: Platone, Aristotele, Kant. Forse anche Descartes ma non era certo che potesse esser definito un sistema vero e proprio. Poi era comparso lui nel teatro della mente ed aveva costruito un’architettura completa e definitiva, fondata sullo Spirito e sulla dialettica. Altro non si poteva dire che lui non avesse detto salvo negare tutto senza affermare nulla. Hegel non pronunciò mai la parola “nichilismo” e negò risolutamente la dignità filosofica del relativismo. Il suo principio dell’identità tra il vero e il reale era infatti il pilastro sul quale poggiava l’assolutezza del suo sistema e della dialettica che lo permeava.
Naturalmente i filosofi che vennero dopo di lui continuarono a produrre architetture mentali che descrivevano nuovi teatri e nuovi scenari, ma si trattava piuttosto di rimaneggiamenti, classificazioni, emendamenti e restauri ma la struttura rimase l’hegelismo e la triade dialettica combinata con la filosofia della storia, con lo stato etico e con lo Spirito assoluto che fu il suo modo di insediare la metafisica e la trascendenza. Naturalmente il pensiero continuò a produrre idee, concetti, metodi di ricerca, ma il linguaggio cambiò radicalmente. Cambiò con Leopardi, cambiò con Nietzsche. I prodromi di quel mutamento venivano da lontano; erano cominciati con gli “Essais” di Michel de Montaigne e poi con i “Pensieri” di Pascal; ma fu Nietzsche il punto di svolta: un salto formidabile nel linguaggio e quindi anche nel pensiero che lo crea e ne è a sua volta condizionato.
Da allora il pensiero non può che manifestarsi con narrazioni, aforismi, contraddizioni registrate e volutamente non risolte; la preminenza della ragion pratica sulla ragion pura; lo “Zibaldone”, ma anche “Zarathustra”, la “Genealogia della morale” ed “Ecce Homo” come testi fondamentali.
La gabbia dei sistemi era saltata e così pure quella dei generi. E saltò anche la gerarchia dei valori. Per lunghissimo tempo la cuspide della filosofia era stata la metafisica. Poi diventò la critica, poi le si affiancò l’estetica. Infine, dalla fine del Novecento a questa prima decade del nuovo secolo, la nuova cuspide è diventata l’etica. Ma queste gerarchie non tengono più e la ragione sta nella scomparsa dell’assoluto e nella contemporanea scomparsa dell’antropomorfismo che per millenni aveva dominato la cultura. Nietzsche aveva decapitato la metafisica e sgominato i valori opponendo a ciascuno di essi un controvalore. Da Platone fino ad Hegel tutta la storia del pensiero era stata contestata; erano stati risparmiati soltanto Eraclito, Montaigne, Spinoza.
Si discute ancora se dopo Nietzsche sia possibile filosofare. Certamente è possibile poiché la storia del pensiero è inarrestabile, ma è cominciato dopo di lui un linguaggio del tutto diverso e il filosofo si è trasformato in un artista che inventa come ogni artista le parole e le forme con le quali esprimersi.
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La scimmia pensante che noi siamo è in grado di pensare se stessa ma resta comunque radicata alla sua animalità e al coacervo dei suoi istinti. Da quando il nostro lontano antenato si eresse sulle zampe posteriori e poté sollevare la testa verso il cielo stellato, quell’evoluzione coincise con una moltiplicazione prodigiosa delle cellule cerebrali, della rete neuronale che le avvolge e le collega e con la formazione di mappe con funzioni specializzate.
Questa specializzazione ebbe un costo tutt’altro che trascurabile; la comparsa della mente riflessiva comportò infatti l’indebolimento o addirittura l’estinzione di alcune facoltà percettive e anche di alcune forme di socialità che consentirono una maggiore autonomia dell’individuo. Le mappe della memoria acquistarono una funzione primaria declinando in modo del tutto nuovo l’approccio al transito del presente, all’irruenza del futuro e al ricordo continuo ma continuamente cangiante del passato. A questo punto sul nostro schermo mentale apparve la figura della morte e la tremenda necessità che la nostra esistenza avesse un senso.
L’uomo non può vivere neppure un istante senza l’invenzione consolatoria d’un senso, senza una cometa che gli indichi un percorso, senza un tema che organizzi l’affollarsi altrimenti disordinato dei pensieri. Così nacquero i valori, così l’individuo acquistò la sua preminenza, così la cultura, cioè la chiave musicale della mente, è diventata l’elemento coesivo delle comunità. E così è nata la più stupefacente invenzione creativa della nostra specie: gli dei e il concetto stesso del divino, anzi del sacro con tutti i suoi misteri che ci spaventano e ci rassicurano. Così infine l’arte ha interpretato la natura, ne ha raccontato i mutamenti, spesso li ha preceduti guidata dalla necessità di costruire a getto continuo ipotesi consolatorie, riempiendo di senso la nostra esistenza di animali.
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Prima di procedere oltre in questa rivisitazione del nostro divenire mi preme accennare alla cosiddetta rinascita del realismo, della quale ha scritto di recente Maurizio Ferraris e molti altri autori da lui citati. Il realismo non nega (e come potrebbe?) l’importanza delle interpretazioni attraverso le quali si articolano i giudizi individuali alle prese con un fatto o un soggetto.
L’ermeneutica (ch. : qui “interpretazione”) resta – scrive Ferraris – un canone cognitivo essenziale anche se gli preferisce l’epistemologia (ch. qui: “filosofia della scienza, della conoscenza). Ma, aggiungono i realisti, la diversità delle interpretazioni si articola comunque sull’asse della ricerca della verità e questo è il canone al quale l’ermeneutica non può comunque sottrarsi e che tutti i pensatori hanno accettato, da Platone fino a Heidegger.
È un’opinione. Pienamente legittima e pienamente contestabile, che deve però superare un ostacolo non da poco: quello che Immanuel Kant chiamò il “noumeno”, la cosa in sé e la sua incomunicabilità. Con il noumeno non si comunica dall’esterno ma neppure dall’interno; il noumeno (ch. dal greco, sta per “pensabile”, solamente immaginabile senza poterne fare esperienza perché non ricade sotto i nostri sensi o percezione)cioè non è conoscibile neppure da se stesso. Leibniz l’aveva chiamato “monade”; poteva comunicare soltanto col Creatore. Ma il Creatore altro non è che un’invenzione degli uomini per dare un senso al loro transito terrestre.
Freud fu molto incerto su questo tema che pose al centro delle sue riflessioni. Oscillò a lungo sulla conoscibilità dell’Es, cioè del mondo dove si agitano gli istinti. Sono conoscibili gli istinti? Chi può entrare nella caverna del profondo da essi abitata? Solo l’Io potrebbe tentarlo, ma che cos’è l’Io se non una creazione artificiale, una sorta di sovrano simbolico che riassume una quantità infinita di organi, di cellule, di gas, di minerali, di liquidi e miliardi di miliardi di atomi e di particelle elementari?
Noi uomini ci chiamiamo Io, la nostra mente ci ha dato questo nome che nasconde sotto il suo mantello un universo in continuo movimento e in continua mutazione. “Tutto si muove, tutto cambia, si muovono perfino le Piramidi d’Egitto e anch’io mi muovo e cambio ad ogni attimo. Io non racconto di me ma racconto un passaggio”. Così scriveva il sere di Montaigne nella prima pagina dei suoi “Essais”.
Dov’è dunque l’assoluto? Dov’è l’assolutezza della verità? Forse nell’attimo fuggente. Non a caso Faust voleva fermarlo, ma non ci riuscì. L’attimo fuggente si ferma solo con la morte e la morte è la sola verità che si realizza trasformando un corpo vitale in una spoglia e restituendo alla natura quel tanto di energia che chiamiamo vita.
I fatti esistono attraverso le interpretazioni. Le interpretazioni sono formulate dalla mente. La mente è un’efflorescenza immateriale prodotta da un organo composto da miliardi di cellule ed ha con il cervello lo stesso rapporto che uno strumento musicale ha con la musica. Fate che una corda di quello strumento sia stonata e anche la musica sarà stonata o, se volete, diversamente intonata. Ogni esecuzione musicale dello stesso brano e della stessa orchestra è diversa dalle esecuzioni precedenti e da quelle successive. È un “unicum”. Perciò ogni verità è relativa.
Perciò, amici realisti, la verità assoluta non esiste. È soltanto un’ipotesi, non so neppure se consolatoria. Freud intitolò il suo libro fondamentale “Il disagio nella civiltà”. Qualcuno cambiò il titolo con “Il disagio della civiltà”. Ma l’originale è il primo. Il disagio sta nella civiltà. Noi siamo scimmie pensanti e quello è il disagio: il pensiero. L’animale che non pensa opera soltanto mosso da istinti coatti e non evolutivi. Per lui non esiste l’attimo fuggente perché vive una sequela di attimi che si ripetono. L’animale è innocente. Noi no perché noi pensiamo e sappiamo.
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Il pensiero è un’immensa architettura mentale e ogni mente ha la propria perché non c’è mente che somigli ad un’altra come non c’è foglia dello stesso albero che sia identica alle foglie che le sono spuntate a fianco. Di più: la stessa foglia cambia man mano che il tempo passa.
Confesso qui che una delle canzoni che mi piace spesso riascoltare si chiama “As Time Goes By”. Quel titolo traduce in note musicali una realtà, forse la sola sulla cui interpretazione c’è un accordo pressoché unanime. L’alternativa a quella realtà è l’eternità. Infatti l’abbiamo attribuita a Dio. Dio è eterno, gli dei sono eterni. Ma Odisseo, al quale prima Circe e poi Calipso offrirono l’eternità, la rifiutò. Voleva continuare il suo viaggio e l’eternità glielo avrebbe impedito perché l’eterno è sempre identico a se stesso.
Anche Eros è eterno, ma non è un Dio. È un’immensa forza primigenia che nasce nel momento in cui la luce si separa dalle tenebre. Infatti, stando alla mitologia, Eros è figlio della notte.
Non è un Dio, ma molto di più. Infonde il desiderio negli dei e negli uomini. La nostra infatti è una specie desiderante. Che cosa desidera? Desidera desiderare.
Perfino Hegel lo scrisse anche se non pensava a Eros.
Eros è il nome che la mitologia dette all’amore. E l’amore è il pilastro che sorregge la nostra esistenza, alimenta i nostri desideri, scatena il furore delle passioni e nutre la dolce tenerezza degli affetti. Si tinge – l’amore – di tutti i colori dell’iride.
Eros ama e infonde amore. Narciso è una sua creatura e anche Afrodite e anche Lucifero lo è perché quasi sempre l’amore desidera il potere e il potere esprime una tensione erotica. L’essere ha una curvatura erotica perché l’istinto di sopravvivere non è altro che amore per sé, amore per gli altri e amore per l’altro.
E dunque il senso. Che cosa è mai il senso? Mi pongo da molti anni questa domanda e alla fine sono arrivato ad una conclusione: il senso è anch’esso una forma di amore, uno specchio in cui guardarti, un’anima che ti conforti e che tu conforti, un corpo che vuoi possedere ed anche l’amore per il comando, il fascino della seduzione, la malinconia dell’abbandono. E l’addio alla vita.
Quello è l’estremo atto d’amore, quando Eros ti chiude gli occhi e ti abbandona insieme al tuo ultimo respiro.
(10 agosto 2012)