“The Nation Estate” (La Nazione Bene Immobile, ma anche La Nazione Condominio rende l’idea) è un esteso progetto artistico fantascientifico che include un filmato di 9 minuti – http://vimeo.com/57460693 – e una serie di fotografie. La soluzione al “problema” palestinese è stata trovata: un singolo grattacielo, circondato da una muraglia di cemento, contiene l’intera popolazione. Gerusalemme è al 3° piano, Ramallah al 4° e Betlemme al 5°. Da un posto all’altro ci si va comodamente in ascensore (fatti salvi i controlli di sicurezza, si capisce). Questo l’accordo concluso al termine di un processo di pace da un futuro governo palestinese ambiguo e non troppo simpatico. Larissa Sansour, autrice del progetto, è anche l’attrice protagonista del breve film. Nata a Gerusalemme, Larissa ha studiato arte a Copenhagen, Londra e New York. Il suo lavoro è interdisciplinare ed utilizza video, fotografia, scrittura e internet. Quella che segue è una sua recentissima intervista.
(tratto da “Women In Arts: Activism And Censorship”, intervista a Larissa Sansour di Gabriela De Cicco per Awid, 16.8.2013. Trad. Maria G. Di Rienzo)
C’è un collegamento fra l’arte e l’attivismo?
Larissa Sansour: Io credo l’arte giochi un ruolo importante nell’influenzare la politica. Se si trattasse di una pratica autoreferenziale non ci sarebbero così tanti esempi di omicidi, carcerazioni e censure ai danni di artisti e lavoratori nell’ambito culturale attraverso la storia. Perciò l’arte è un potente attrezzo politico e come tale può sostenere un ruolo simile a quello dell’attivismo. In effetti, vi è una pratica artistica particolare chiamata “Art-ivismo”. Ma personalmente penso che l’arte sia maggiormente efficace nell’influenzare il cambiamento politico o sociale se gioca stando alle proprie regole, avendo significato all’interno della pratica artistica.
Come si affrontano le questioni relative ai diritti umani delle donne tramite l’arte? Perché tu pensi che questo sia importante?
Larissa Sansour: Il mio lavoro riguarda molte delle istanze collegate all’occupazione israeliana della Palestina e in effetti il ruolo delle donne nella società ne fa parte. Non vi è solo necessità di affrontare le questioni relative ai diritti umani delle donne per se stesse, ma anche perché sollevano un numero enorme di domande su come percepiamo la realtà e sul perché è importante discutere lo stesso sistema tramite cui la nostra umanità è costruita.
Cosa stai tentando di esprimere attraverso la tua arte? E’ un riflesso politico della realtà palestinese?
Larissa Sansour: Nel mio lavoro tento di costruire universi paralleli e surreali basati sulla presente situazione politica in Palestina, per trovare modi nuovi di oltrepassare l’attuale impasse politica. Ci sono numerosi documentari sulla Palestina, fatti nel corso di molti anni ormai, e molti resoconti giornalistici, perciò penso che il mondo abbia raggiunto un punto di saturazione quando si tratta di simpatizzare con il popolo palestinese. Penso che il mondo sia diventato immune alle notizie provenienti dalla Palestina per oltre sessant’anni e che ci sia un pessimismo generale sulla possibilità di trovare una soluzione. Perciò ho pensato che era necessario un nuovo approccio e tento di realizzarlo con l’arte.
Hai fatto esperienza di censura sul tuo lavoro?
Larissa Sansour: Ho fatto esperienza di incidenti censori gravi, sfortunatamente è una cosa comune per gli artisti palestinesi che esibiscono le loro opere in Occidente. Spesso ciò è dovuto alla pressione di gruppi pro-Israele. Il più recente degli atti di censura accaduti a me risale al 2011. Ricevetti una chiamata telefonica da un Museo che mi informava di essere stata nominata per concorrere al Premio Lacoste Elysée (25.000 euro), il quale viene conferito dal Musée de l’Elysée svizzero e dal marchio per indumenti Lacoste. Essendo una degli 8 finalisti, mi fu dato un finanziamento di 4.000 euro e carta bianca per produrre un portfolio di immagini che sarebbe servito al giudizio finale. Nel novembre 2011, tre fotografie del progetto Nation Estate furono accettate. Il mio nome fu incluso in tutti i comunicati relativi al Premio e sul sito web officiale dello stesso. Nel dicembre 2011, Lacoste chiese che la mia nomina fosse revocata. Qualcuno ai piani alti della ditta disse al Museo che volevano il mio nome tolto dalla lista perché il mio lavoro era “troppo pro-palestinese”. In un tentativo di mascherare le ragioni del mio rigetto, mi fu chiesto tramite lettera di approvare una dichiarazione in cui si diceva che ero io stessa a ritirare la mia partecipazione, “per seguire altre opportunità”. Naturalmente, ho rifiutato.
Dopo aver ricevuto questa lettera ho pensato che non potevo restarmene zitta e che dovevo informare l’opinione pubblica. Feci sapere questo al Museo e loro ne erano pienamente consapevoli. Ma credo nessuno si aspettasse che la storia avrebbe attratto così tanta attenzione. Mandai un comunicato stampa ad un paio di giornalisti che conoscevo nel mio giro di artisti. Il mondo dell’arte fu oltraggiato dalla censura nei miei confronti e immediatamente media importanti di tutto il pianeta cominciarono a contattarmi. La BBC, l’Indipendent, il Guardian, il Washington Post, Le Monde, fra gli altri, hanno riportato la storia.
Penso il Museo abbia ceduto alla pressione e per questo abbia deciso di schierarsi dalla parte dell’artista contro la grossa corporazione che è il suo sponsor. Capisco che si trovavano in una posizione difficile, spalleggiare Lacoste o perdere il finanziamento del Premio, ma alla fine hanno preso la decisione giusta e hanno detto no alla censura della libertà artistica. E’ vero che la decisione di Lacoste ha generato più pubblicità di quanto il Premio avrebbe mai potuto fare. Questo, ovviamente, è un risultato fortunato: l’atto arrogante della corporazione esposto in una maniera che manda un forte segnale sul fatto che tale comportamento è intollerabile. Il sostegno pubblico nei miei confronti è stato enorme e sono profondamente grata a tutti.