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- Corriere della Sera >
- 21 FEBBRAIO 2014
L’AGENDA ECONOMICA DEL GOVERNO
Purché si dica tutta la verità
Il nuovo governo dovrà dimostrare (e in tempi brevissimi) di aver chiare
quali sono le priorità e di essere determinato nell’affrontarle. Se saprà
farlo tranquillizzerà i mercati e potrà rinegoziare i vincoli europei.
Perché una rinegoziazione è inevitabile se si vuol far ripartire
la crescita.
Quali siano i problemi dell’Italia lo sappiamo da tempo: un debito
pubblico enorme, una recessione che sembra non finire mai, banche
che prestano col contagocce, una disoccupazione soprattutto giovanile
elevatissima, una tassazione asfissiante, una burocrazia che impone
oneri immensi alle imprese, e infine i costi della politica. La difficoltà
non è dunque individuare le cose da fare, ma metterle in fila e poi
affrontarle con determinazione.
La prima è annunciare stime di crescita credibili. Le previsioni del
governo uscente sono più ottimiste di quelle delle organizzazioni
internazionali, inclusa la Commissione europea. Il governo prevede
un aumento del prodotto interno lordo (Pil) dell’1% nel 2014 e
dell’1,7% nel 2015. Il consenso internazionale è 0,5% nel 2014 e
poco sopra l’1% nel 2015.
Da che numeri parte il nuovo governo? Le previsioni di crescita
sono cruciali perché costituiscono il punto di partenza per un piano
credibile di riduzione del rapporto debito-Pil. Per avviare tale
riduzione è necessario compiere tre passi: ridurre la spesa
pubblica e le imposte, far ripartire la crescita e vendere aziende
e immobili oggi posseduti da Stato, Comuni e Regioni.
Per rilanciare la crescita, servono due interventi immediati.
Primo: provvedimenti per allentare la stretta creditizia. È difficile
tornare a crescere se non riparte l’offerta di credito all’economia.
Lo si può fare anche con l’aiuto della Bce, come spiegavamo
il 9 febbraio (nell’editoriale E ora le banche non hanno scuse ).
A ciò deve aggiungersi un’accelerazione del pagamento dei debiti
della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. Il governo
uscente ne ha saldati 22 miliardi su circa 100: troppo pochi.
Seconda cosa da fare: provvedimenti per ridare competitività
alle imprese. La leva principale è una riduzione immediata e
consistente del cuneo fiscale, finanziata con una combinazione di
tagli di spese (immediate e future) e, se necessario, con imposte
meno dannose delle tasse sul lavoro.
Per portare gli oneri sociali a carico delle imprese al livello tedesco
bisogna ridurli di 23 miliardi. 9-10 miliardi si possono reperire
tagliando i sussidi alle imprese: 4 miliardi il primo anno, altri 5-6
nei due successivi. Un altro miliardo, o due, tagliando i costi della politica,
come suggerito in uno studio di Roberto Perotti pubblicato
su www.lavoce.info. I rimanenti 8 miliardi vanno reperiti dalla
spending review : il commissario Cottarelli ritiene che sia un obiettivo
raggiungibile già quest’anno. Altre risorse possono arrivare dalla
revisione del costo di alcuni servizi (come l’università) che lo Stato
offre quasi gratuitamente a tutti, indipendentemente dal reddito.
Ridurre le imposte sul lavoro non basta. Bisogna anche riformare
i contratti abolendo il muro invalicabile che separa chi ha un lavoro
a tempo determinato da chi ne ha uno a tempo indeterminato. Qui
il diavolo sta nei dettagli. La proposta giusta è quella di Pietro Ichino,
che riprende un’idea degli economisti Olivier Blanchard
(capo-economista del Fondo monetario internazionale)
e Jean Tirole. Un contratto uguale per tutti, senza muri
e con protezioni che crescono in funzione dell’anzianità
sul posto di lavoro. Ad esempio: entro tre anni dall’assunzione
un’impresa può licenziare liberamente, dal quarto anno in poi
il licenziamento costa all’impresa una indennità
(crescente con l’anzianità del contratto) e che finanzia
(in parte) i contributi di disoccupazione.
Va abolito il principio del reintegro obbligatorio, tranne
nei casi di discriminazione. In questo modo verrebbe
di fatto cancellato, per i neoassunti, l’articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori. Occorre anche ridurre il peso dei
contratti collettivi, e legare maggiormente il salario alla
contrattazione a livello aziendale. Il segreto del successo
della Germania sta principalmente nell’avere fatto questo.
La riforma del mercato del lavoro è impossibile
senza una revisione degli ammortizzatori sociali.
Una maggiore libertà alle imprese nella gestione della forza
lavoro si deve accompagnare a tutele per chi rimane
temporaneamente disoccupato.
La Cassa integrazione (Cig) va abolita. Per tutti coloro
che perdono il posto – e con le risorse ora destinate alla
Cig e ai corsi di formazione gestiti dal sindacato – va
introdotto un sussidio di disoccupazione decrescente nel tempo
che li costringa a cercare lavoro (con la possibilità,
al massimo, di due rifiuti). Il sussidio deve essere esteso
anche alle categorie oggi non coperte dalla Cassa.
Infine bisogna cedere aziende pubbliche e semipubbliche.
Qui le priorità sono: riscrivere da zero il progetto di apertura
del capitale delle Poste e impedire che la Cassa depositi
e prestiti continui ad essere usata come un salvadanaio
dello Stato per false privatizzazioni (vedi Ansaldo Energia)
e sprechi risorse pubbliche facendo, senza saperlo fare,
il mestiere del finanziatore di startup , e cioè di nuove aziende.
Ma il nuovo governo non farà nessuna di queste cose
se non sostituirà radicalmente i burocrati che gestiscono
i ministeri (riformando i contratti della dirigenza pubblica
e allineandoli a quelli del settore privato) cominciando dalla
casta dei capi di gabinetto. Per farlo ci vuole coraggio perché
questi signori sono depositari di «dossier» che tengono segreti
per proteggere il loro potere. Bisogna aver il coraggio di mandarli
tutti in pensione. All’inizio i nuovi ministri faranno molta fatica,
ma l’alternativa è non riuscire a fare nulla.
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