L’eredità economica di Margaret Thatcher
Si è scritto molto su Margaret Thatcher, forse il premier britannico che ha più diviso ed eccitato le menti, ispirato libri e film. Vogliamo qui parlarne attraverso i dati, rimarcando gli effetti concreti delle sue politiche sull’economia britannica (ed eventualmente europea) durante e dopo gli 11 anni di permanenza a Downing Street.
Il punto fondamentale da cui si dovrebbe partire è: alla fine del suo mandato i britannici erano più o meno prosperi, soprattutto i meno abbienti, anche rispetto ai vicini europei?
Osserviamo questo primo grafico proveniente da un paper della Federal Reserve Bank di Saint Louis sugli anni di Margaret Thatcher:
Osserviamo un netto “catching up”, un raggiungimento e poi un superamento del reddito francese.
Ma l’obiezione è dietro l’angolo: quanto di questo aumento di reddito ha riguardato la popolazione, soprattutto la classe medio-bassa, anche in termini di diminuzione di disoccupazione?
Se parliamo di quest’ultimo parametro, è necessario osservare il tasso di occupazione, poiché il tasso di disoccupazione risente del maggiore o minore numero di inattivi e risulta più alto anche con maggiore occupazione se gli inattivi calano. È quanto accaduto nel periodo di recessione del 1992-1993, ovvero immediatamente dopo la fine dell’era Thatcher. Ma anche fronte di un deciso aumento della disoccupazione vediamo che il numero di occupati in quel periodo rimane, anche nel momento peggiore, superiore a quello del 1979. Il motivo è la diminuzione della popolazione inattiva. Come dimostra il seguente grafico (fonte: calculateriskblog.com)
Questo risultato fu ottenuto sostanzialmente, oltre che con le i privatizzazioni (I)(e grazie alla presenza di una disoccupazione “di riserva” dovuta alla recessione dell’80-83) anche(II) tramite una diminuzione delle rigidità legislative e (III)con lo smantellamento del potere sindacale: prima dell’era Thatcher i sindacati avevano in mano tutta la contrattazione, che era collettiva, ed esistevano addirittura i “closed shops”, ovvero accordi secondo i quali l’imprenditore assumeva solo membri del sindacato e per rimanere assunti si doveva rimanere iscritti al sindacato stesso.
Con gli Employment Act del 1980 e del 1982 questo potere fu fortemente minato, stabilendo una maggioranza dell’80% dei lavoratori per approvare l’esistenza di “closed shops” e prevedendo compensazioni per i licenziamenti causati dalla non appartenenza al sindacato; inoltre si introduceva la necessità che vi fosse l’assenso di una forte maggioranza dei lavoratori per ottenere l’autorizzazione di picchetti, aumentando le multe per i sindacati per azioni illegali, limitando i casi in cui i sindacati sono chiamati a contrattare con gli imprenditori, (IV)autorizzando i datori di lavoro a licenziare chi sciopera oltre i tempi stabiliti in precedenza.
Nonostante l’aumento dell’occupazione non vi fu una compressione dei salari reali (con produttività costante), se non per i primi 3 anni di recessione. Le riforme strutturali (mercato del lavoro, privatizzazioni) posero le basi per l’aumento della produttività che permise addirittura degli aumenti di salario, come vediamo dal seguente grafico (fonte: blog Stumbling and Mumbling)
Un po’ dimenticato di quegli anni è stato il crollo dell’inflazione, che però fu indispensabile per evitare la depressione dei salari reali, di cui abbiamo parlato. Con una politica restrittiva che non mancò di avere inizialmente effetti depressivi, si diede però un colpo fatale all’inflazione che prima superava la doppia cifra (anche per la seconda crisi petrolifera del 1980, va detto); anche con la nuova fiammata del 1990-1991, non si ritornò mai ai livelli precedenti. Lo riassume bene questo grafico (fonte: BBC)
Un punto importante da evidenziare è che per la classe media, oltre ai già visti salari medi, una fonte di reddito divenne anche l’investimento in Borsa: (V)con una sorta di società di proprietari, e un capitalismo popolare, molto caro alla Thatcher, che veniva proprio da una classe sociale medio-bassa.
Grazie alle grandi privatizzazioni di aziende pubbliche (aziende televisive, radiofoniche, aerospaziali, del gas e dell’elettricità, dell’acciaio) il numero degli azionisti triplicò e il numero di coloro che approfittarono, insieme alle imprese, dell’aumento del tasso di profitto registratosi in quegli anni, come vediamo dal grafico di seguito (fonte: thenextrecession.wordpress.com)
Il governo vendette circa (VI)un milione di case popolari agli affittuari. Vediamo di seguito in un grafico del Dipartimento per il governo locale del governo inglese l’andamento del tasso di proprietà della casa in inghilterra dal 1981
Una parentesi da aprire è sulla recessione del 1991-92, con conseguente diminuzione degli occupati (che comunque non scesero ai livelli di 10 anni prima), anche se va sottolineato che in questo frangente vi fu l’influenza di un fatto esterno, paragonabile a un picco dei prezzi petroliferi, ovvero l’unificazione tedesca: l’aumento dei tassi tedeschi che si attuò per frenare ogni vampata inflazionista dovuta alla spesa pubblica per la riunificazione, e la conseguente rivalutazione del marco, portarono alla svalutazione della sterlina: ma essendo entrata da poco la Gran Bretagna nello SME (e proprio per frenare l’inflazione) la sua Banca Centrale dovette a sua volta aumentare i tassi d’interesse più di quanto sarebbe stato necessario per il solo scopo di combattere l’inflazione, con effetti recessivi. La ripresa dell’economia inglese, tuttavia, ormai resa molto più flessibile e competitiva, fu molto più veloce e potente di quella degli altri Paesi negli anni ‘90, come tutti i grafici già visti dimostrano. Anche questa è un’eredità del governo Thatcher.
Margaret Thatcher come disse Montanelli, non sarebbe mai potuta essere italiana. Era lontanissima dalla nostra mentalità, e un po’ anche da quella inglese: era un pezzo di America caduto in Europa, nata in un paese del Lincolnshire (un po’ come il Midwest americano) da un padre pastore metodista, ovvero tra i pochi in Inghilterra appartenenti a quella corrente religiosa dell’anglicanesimo che invece ha spopolato nel Nuovo Mondo e che predica la responsabilità individuale nell’azione sociale.
Lontana quindi dal mondo aristocratico e ricco dei conservatori inglesi quanto dalla mentalità collettivista del sindacalismo laburista, credeva nella forza dell’iniziativa individuale, tramite il sacrificio e la responsabilità personale, per realizzare quello che oltreoceano sarebbe stato definito “il sogno americano”. Iniziativa individuale che può anche commettere gravi errori, come nei casi delle bolle finanziarie: ma qui la colpa sarà appunto individuale, non del governo che lascia agli individui la piena libertà e responsabilità delle proprie azioni.
Probabilmente la sua frase più eloquente è stata quella nel 1984 :
“Sono stata eletta con un intento evidente: cambiare il Regno Unito da una società dipendente in una società autosufficiente, da una nazione “dammi-qualcosa” a una nazione “fallo-da-te”. In una Gran Bretagna “alzati-e-fallo” anziché in una “siediti-e-aspetta” “
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