(Testimonianza tratta da: “Women for Refugee Women – DETAINED: women asylum seekers locked up in the UK”, gennaio 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. “Alice”, nome di fantasia che protegge l’identità della donna, ha raccontato la sua storia a Sophie Radice.)
Essere lesbica è solo quel che sono, ma quel che sono è considerato illegale in Camerun. Sono stata arrestata dalla polizia e ho sofferto di orripilante violenza sessuale in carcere. Quest’ultima era vista come la giusta punizione per me, essendo lesbica. Per la mia famiglia la mia sessualità è una vergogna, ma mia madre – più incline ad accettarmi di mio padre – non voleva che continuassi a subire violenza. E’ stato assai duro per lei, ma è riuscita a pagare per farmi uscire dal paese.
Sono arrivata a Birmingham con un uomo che mi ha fatto passare la dogana. Era il febbraio 2011 e i tre colloqui che ebbi quando chiesi asilo a Croydon non andarono bene. Non credevano che fossi lesbica, ne’ che fossi stata perseguitata nel mio paese. Pensavano stessi mentendo ed era difficile dar loro prove.
Ho incontrato la mia attuale compagna a Stoke-on-Trent, in un gruppo di sostegno per la comunità del Camerun. Ci siamo innamorate e quando poco dopo ho conosciuto i suoi tre figli, mi sono innamorata anche di loro. Sono diventati una parte così importante della mia vita che non so dove sarei ora senza di loro. La mia ragazza era con me quando il mio caso arrivò in tribunale nel marzo 2013, ma ancora non hanno creduto che io fossi lesbica. Il giudice disse che non pensava io avessi una relazione fissa, e nemmeno che avessi una relazione con i bambini. E’ stato molto doloroso per me. Nel giugno 2013, mi sono presentata come al solito all’ufficio di Stoke-on-Trent: chi chiede asilo deve andare regolarmente a firmare ed è sempre una faccenda stressante. Avevo in programma di partecipare ad una festa estiva al centro camerunese di Nottingham, quel pomeriggio, ma non ci sono mai andata. Non appena mi presentai per la firma, mi mostrarono la lettera in cui mi si rifiutava l’appello per la sentenza di marzo. La lettera era vecchia di un mese, ma ne’ io ne’ il mio avvocato l’avevamo mai vista.
Lo staff disse che a causa del respingimento dovevano arrestarmi e mi mostrarono il biglietto con cui sarei dovuta partire entro 6 giorni. Dissi loro che dovevo chiamare la mia compagna e che avevo bisogno delle mie medicine, perché ho problemi di salute mentale. Mi lasciarono fare una chiamata molto breve, e mi sequestrarono il telefono. Quella notte non ebbi le medicine, e più tardi ho saputo che erano andati a casa mia e l’avevano messa a soqquadro, ma non avevano voluto prendere i medicinali dall’amica che abitava con me. Perché? Cosa pensavano di trovare?
Tre uomini grandi e grossi e una donna mi portarono via. Mi dissero che se resistevo all’arresto mi avrebbero ammanettata e mi portarono in una prigione di Stoke-on-Trent. Non so perché avessero bisogno di tre uomini enormi per portar via una donna, ma per una donna che è già stata stuprata, come me, è spaventoso. Mi dissero di entrare in una cella e io non volevo, continuavo a dire: “Cosa pensate che abbia fatto? Non ho ucciso nessuno. Non sono una criminale che ha bisogno di essere rinchiusa in questo modo.” Quando la porta si chiuse, mi riportò in mente tutto quello che mi era successo nel mio paese, quando ero in prigione. Pensavo che sarei stata violentata presto. Pensavo che potevano fare di me tutto quel che volevano. La paura prese il sopravvento su di me, e cominciai a sbattere la testa sul muro e ad implorarli di lasciarmi andare. Sentivo di non essere abbastanza forte per sopportare tutto un’altra volta. Ero fuori di me.
Sentii le guardie carcerarie dire che non avrei dovuto essere là, perché ero troppo spaventata e secondo loro non era giusto tenermi in una cella. Allora mi portarono in un’altra stanza a passare la notte. Il giorno dopo andammo in furgone sino a Coventry per prendere altre due ragazze detenute per le stesse mie ragioni. Fu un viaggio lungo, io ero terrorizzata e continuavo a piangere. Quando arrivammo a Yarl’s Wood pensai che per il mondo ero scomparsa.
(Ndt: Il nome completo del luogo, che si trova a Bedford, è “Yarl’s Wood Immigration Removal Centre”, ed è simile ai nostrani Centri di identificazione ed espulsione. E’ stato aperto nel 2001 e dal 2006 è diretto da privati, e cioè dalla Srl. Serco. Ha una capacità di 900 posti ed è il principale centro britannico di questo tipo in cui sono mandate le donne. Numerosi “incidenti” sono accaduti nella struttura nel corso degli anni (violenze e abusi) seguiti da scioperi della fame e rivolte delle detenute, da proteste esterne e da procedimenti giudiziari.)
Non riuscivo a capire perché ero là e dato che c’erano un bel po’ di uomini intorno pensai che chiunque poteva far di me quel che voleva, perché nessuno lo avrebbe saputo e a nessuno sarebbe importato. Mi giudicarono come una potenziale suicida e le guardie (uomini inclusi) se ne stavano sedute a guardarmi giorni e notte. A volte mi raggomitolavo sul pavimento, diventavo una “palla” e mi buttavo addosso le lenzuola, perché non volevo i loro occhi su di me. La mia compagna di stanza era una donna gentilissima. Ha tentato di farmi star meglio, ma per me era durissimo stare là dentro e non riuscivo ne’ a mangiare ne’ a dormire. Ho cominciato a farmi del male per rilasciare il dolore che sentivo dentro. Mi sono ustionata seriamente il braccio con l’acqua bollente e ho visto altre donne fare cose simili – infilzarsi con forchette, o bere intere bottiglie di shampoo, nel tentativo di uccidersi.
Non c’è legge quando sei in detenzione. Capisci che i guardiani applicano la legge secondo i loro umori e i loro pregiudizi. Impongono i loro sentimenti sulle donne che stanno là dentro e non c’è niente che possa fermarli. Yarl’s Wood è un posto senza legge. Un buon esempio di questo si è visto quando i bambini della mia compagna sono venuti a farmi visita. Yarl’s Wood è molto lontano da Nottingham, dove lei vive, ed è stato molto costoso viaggiare con tre bambini. Ero così felice della loro visita, non ero stata così felice da lungo tempo. Mi sono preparata per un po’, risparmiando i 71 penny della diaria (Ndt: i circa 85 centesimi di euro che le persone nella condizione di Alice ricevono giornalmente) e ho comprato per loro caramelle e succhi di frutta dai distributori automatici. Compravo sempre dolcetti per loro, quando li accompagnavo a nuotare, e non vedevo l’ora di mangiarli di nuovo insieme. Quando entrai nella stanza delle visite li avevo con me in un sacchetto di plastica, ma la guardia disse che non potevo darli ai bambini. Io sapevo che era permesso, altre donne lo facevano, e lo implorai e gli dissi cosa significava per me. Ma lui continuò a rifiutare senza darmi nessuna spiegazione. Sembrava godesse veramente nel vedermi soffrire. Non era qualcuno che stava semplicemente facendo il suo lavoro, ma un uomo a cui piaceva essere meschino. Chiesi ad una guardia donna che conoscevo abbastanza bene di aiutarmi e le spiegai quanto importante fosse la cosa per me. Lei andò a discutere a mio beneficio e alla fine mi fu permesso dare i dolci ai bambini.
Un altro esempio è la donna anziana che tornò dall’aeroporto con lividi e tagli sul viso e ci disse che le guardie l’avevano picchiata. Che tipo di paese è quello in cui si pensa vada bene picchiare un’anziana sulla faccia? Una camerunese che ho incontrato a Yarl’s Wood è stata espulsa ed io sono rimasta in contatto con lei. Mi ha raccontato tutto il processo – il modo in cui fu caricata sull’aereo e ammanettata da cinque energumeni e come non le fu permesso di portare con sé nessuna delle sue cose, abiti compresi. La scaricarono in Camerun negli stessi vestiti con cui l’avevano arrestata, e senza un soldo. Tutta la sua roba è in Gran Bretagna, ma le non ha il danaro per farsela spedire.
Onestamente, preferisco morire piuttosto che tornare a Yarl’s Wood. So che questa gente sta lavorando, però a volte sembrano proprio malvagi, gente che ha smesso di vederci come esseri umani. Ho raccontato la mia storia perché voglio che questo trattamento delle donne finisca. Non voglio che altre donne passino quello che ho passato io. Sto ancora tentando di guarire da quel mi è accaduto, non solo in Camerun, ma a Yarl’s Wood.
La ragazza che vedete nell’immagine è Meltem Avcil, studente di ingegneria meccanica all’Università di Kingston. A 13 anni, nel 2007, passò 91 giorni con la madre a Yarl’s Wood, dove la foto la ritrae. La sua famiglia era fuggita dalla Turchia a causa delle persecuzioni che subiva in quanto curda. Meltem diventò famosa, all’epoca, per la sua protesta tesa a liberare i bambini dai centri di detenzione. Grazie innanzitutto a lei, oggi non ci sono bambini detenuti a Yarl’s Wood. La sua storia è diventata una rinomata piece teatrale grazie all’autrice Natasha Walter: si chiama Motherland, Terra Madre.
http://refugeewomen.co.uk/
ma in occidente rispettiamo i diritti civili anche dei gay
http://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/nozze_gay_la_gran_bretagna_dice_s_e39_arrivato_anche_il_sigillo_della_regina_a_primavera_i_primi_matrimoni/notizie/305552.shtml
ma solo se si tratta di nostri concittadini. I diritti degli altri noi non li difendiamo. Dimentichiamo che sono diritti universali.