Introduzione storica
Le origini dei popoli rom e sinti sono antichissime. Sembra ormai dimostrato che essi provengano originariamente dall’India. A tale proposito François de Vaux de Foletier afferma: «La maggior parte degli indianisti fissano la patria dei Rom-Sinti nel Nord-Ovest dell’India e, insieme, li collegano alla casta dei paria. Questo in parte a causa del loro aspetto miserabile (…); in parte a causa dei mestieri subalterni e spesso disprezzati, esercitati nell’India contemporanea da Indiani che sembrano essere loro strettamente apparentati»[1].
Anche il Colocci, nel suo libro del 1889 intitolato Gli zingari – Storia di un popolo errante, attesta come certa la conclusione che i Rom-Sinti provengono dal sub-continente indiano. Il termine “Sinto” deriva proprio da Sindh, nome del fiume Indo.
In realtà essi sono un “popolo senza patria”[2]. Per i Rom-Sinti piuttosto che di patria si deve parlare di luogo di provenienza o di diramazione poiché essi non hanno avuto una nazione d’origine, ma luoghi in cui hanno soggiornato per qualche secolo e da cui, in un certo periodo storico, si sono spostati per emigrare verso altre destinazioni. La loro storia è quella di grandi spostamenti e dei loro centri di diffusione. Il primo di questi centri è la valle dell’Indo.
Infatti vi sono analogie tra la lingua romanes e i dialetti dell’India nord-occidentale come l’hindi, il sindi, il gujarathi, il marathi, il panjabi, il kafir e forti elementi comuni tra le usanze dei Rom-Sinti e quelle di alcuni gruppi tribali indiani quali i Banjara dell’Hindustan, i Leusi del Punjab, i Gaduliya Lohar del Rajastan: tribù di nomadi che si spostavano tra le foci dell’Indo e le pendici dell’Himalaya e che, molti secoli fa, incominciarono a migrare verso Occidente. Cronache persiane, arabe, greche e bizantine fanno riferimento a questa grande migrazione.
Come afferma Adriano Colocci, un grande apporto allo studio delle origini rom-sinte fu indubbiamente dato dallo sviluppo della filologia comparata.
L’analisi della lingua romanes è un mezzo fondamentale di conoscenza, in quanto le componenti linguistiche presenti nei vari dialetti rom-sinti ci danno notizia dei popoli con cui sono venuti in contatto nelle loro continue migrazioni, permettendo così di disegnare i loro itinerari. Itinerari che hanno seguito, nel corso dei secoli, il percorso dei grandi fiumi quali l’Indo, il Tigri e l’Eufrate, il Danubio, l’Elba, il Reno, il Rodano.
Le cause di queste ondate migratorie ci sono per ora sconosciute ma è probabile fossero guerre o motivi di ordine economico che costrinsero questi popoli a spostarsi nel V secolo. Le culture Rom e Sinti, essendo incardinate sull’oralità, non hanno mai avuto una classe dominante o una casta sacerdotale incaricata di fissare in documenti scritti le proprie origini, le tradizioni, i miti. La loro è una storia vista attraverso gli occhi degli altri, colta nelle annotazioni dei cronisti, nelle disposizioni e nei provvedimenti legislativi che li riguardano.
Tra le più antiche testimonianze vi sono quelle di due scrittori arabi del X secolo: il cronista Ilamzah d’Isfahan, autore di una Storia dei re di Persia e il poeta persiano Firdusi, autore de Il libro dei re. Quest’ultimo ci narra la leggenda secondo cui il re persiano Bahram Gûr, vissuto nella prima metà del V secolo, avrebbe chiesto a Shankal, sovrano dell’India, l’invio di diecimila musicisti per rallegrare il suo popolo durante le feste. Come ricompensa lo scià concesse loro di stabilirsi nei suoi territori e donò viveri, animali e terre da coltivare; ma questi, da buoni artisti, lasciarono incolti i campi e nel giro di breve tempo dissiparono beni e averi, per cui furono costretti dal re ad abbandonare il paese.
Questa leggenda, dunque, ci narra come i Rom-Sinti non fossero adatti alla vita rurale ma, piuttosto, dediti alle arti e alla musica.
I nomadi provenienti dall’India risalirono il corso del fiume Indo e penetrarono in Afghanistan, poi in Iran e in Persia. La conquista araba ampliò il raggio di nomadizzazione dei Rom-Sinti che iniziarono a circolare liberamente all’interno “dei territori posti sotto il vessillo dell’Islam, dalla Persia alla Siria all’Egitto”[3].
Le popolazioni nomadi che sarebbero giunte nei secoli successivi in Europa (i Phen) proseguirono il loro cammino verso Nord-Ovest, attraversando il Kurdistan e giungendo in Armenia e nel Caucaso meridionale (che era una zona di influenza bizantina). Alcuni di essi, i Bocha, si insediarono in Armenia, altri lasciarono il paese, nel XI secolo, e proseguirono il loro viaggio verso Ovest, penetrando in Turchia.
Nel 1054, in Grecia, venne annotato da un monaco del monastero Iviron, sul monte Athos, il passaggio di “nomadi, maghi, indovini e incantatori di serpenti”, denominati Atsinganoi[4], che erano soliti insediarsi tra le rovine di castelli abbandonati, oppure in capanne creando piccole comunità, dette Gyphtokastra.
Nella seconda metà del XIV secolo con l’espansione dei Turchi ottomani, i Rom-Sinti si allontanarono dalla Grecia, in cui vissero per circa tre secoli, e si dispersero nei Balcani.
L’area balcanico-danubiana costituì un luogo di fortissimo insediamento rom-sinto e fu il più importante centro di irradiamento dell’espansione successiva. In questa zona essi vivevano in villaggi nei pressi di feudi o di monasteri, prestando loro servigi in qualità di maniscalchi, fabbri ferrai, esperti nella lavorazione dei metalli. Furono cercatori d’oro in Transilvania e venivano apprezzati in Ungheria per le loro doti musicali e per la loro abilità di artigiani nel forgiare armi.
«Fu tale l’importanza della loro arte, da venir chiamati per lo più in base ai lavori esercitati: Rom Kalderasa (calderai), esperti nella lavorazione dei metalli; Rom Lovara (dall’ungherese lob: cavallo) o Grestari (da grest: cavallo), dediti all’allevamento e al commercio equino; Rom Curasa (da curi: coltello o da cura: setaccio), fabbricanti di scope, pettini e spazzole; (…) Ursari (ammaestratori di orsi), Gurvara (mandriani), Masara (pescatori) e così via»[5].
L’arrivo in Italia dei primi nuclei è riconducibile alla battaglia del Kosovo (1392) fra le armate ottomane e quelle serbo-cristiane che, con la vittoria delle prime, affermò l’influenza islamica nei Balcani [6].
Ciò causò una complessa migrazione di popolazioni diverse in direzione dell’Occidente europeo che, eccettuata la penisola iberica (dove è forse l’Africa il canale di penetrazione dei Rom dall’anomalo dialetto kalò), non conosceva la loro presenza[7].
Fu quindi nell’ultimo decennio del Trecento che i primi Rom-Sinti giunsero sulle coste centro-meridionali dell’Italia al seguito dei profughi croati e dei rifugiati kossovari, albanesi e greci. Non è un caso, infatti che, a distanza di sei secoli, nelle zone a più alta densità di Arberes[8], come il Molise e il Cosentino, fortissimo sia l’insediamento di comunità rom. Il loro arrivo avvenne via mare e ciò è stato dimostrato dalla caratteristica del loro romanès che non presenta prestiti slavi, al contrario di tutti gli altri gruppi che penetrarono via terra nella penisola italiana.
Il primo documento che attesta la presenza in Italia delle popolazioni rom-sinte è il Corpus Chronicorum Bononiensum di un anonimo cronista bolognese:
“Anno Christi Mcccc22. Adì 18 de luglio venne in Bologna uno ducha d’Ezitto, lo quale havea el nome el ducha Andrea, et venne cum donne, putti et homini de suo paese; et si possevano essere ben da cento persone…”[9]
Tanto tranquillo il rapporto tra i Rom-Sinti e le popolazioni locali non deve essere stato «in quanto, il grande “roboare” (rubare) dei primi spinse le autorità a permettere ai derubati di riconquistare con le loro forze i propri beni e a dichiarare il divieto di frequentare Rom-Sinti, pena una multa di parecchi ducati e la scomunica»[10].
La pena di morte era di solito riservata agli uomini, ma ad esempio in Germania, i Rom-Sinti di ambo i sessi, sopresi sul territorio, erano praticamente consegnati al carnefice. Non era necessario alcun processo, né alcuna condanna penale. Nel 1500 la Dieta dell’Impero decretò che “chi uccide uno zingaro non commette reato”.
I Rom-Sinti giunsero a Roma attraversando le Marche e l’Umbria. «Secondo alcuni storici il gruppo guidato dal duca Andrea lungo le antiche vie Emilia e Flaminia, giunse a Roma e lì venne ricevuto in udienza dal Papa Martino V, il quale dopo averli ascoltati, sembra grazie ai buoni auspici di un cardinale, Baldassarre Cossa, concesse loro una lettera di accompagnamento per proseguire nel loro pellegrinaggio verso l’Europa»[11].
Essi viaggiavano in gruppi di centinaia di persone guidati da capi che si facevano passare per re, duchi, conti, capitani o voivoda del Piccolo Egitto. Per tale ragione vennero spesso scambiati per “egiziani”. Da questa convinzione derivano i termini con cui ancora oggi sono chiamate le popolazioni rom-sinte: in Spagna Gitanos, in Inghilterra Gypsies, in Grecia Gyphtoi.
«Dicevano di essere pellegrini costretti a viaggiare per il mondo per espiare antiche colpe dei loro progenitori adducendo motivi ispirati alla Sacra Scrittura: per aver rinnegato la religione cristiana, per aver negato l’ospitalità della Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto o persino per aver forgiato i chiodi con cui fu crocifisso Gesù. Molti di loro erano muniti di salvacondotti, passaporti o lettere di protezione rilasciati da principi, governanti, sovrani e persino da papi e imperatori che consentivano loro di circolare liberamente o di sostare senza essere molestati»[12].
Questi gruppi si spostavano attraverso l’Europa nel periodo a cavallo tra XV e XVI secolo[13].
Mentre nella maggior parte degli stati europei i Rom-Sinti venivano perseguitati e cacciati dai loro territori, nelle terre della Moldavia e della Valacchia, si decise, attraverso la schiavitù, di legare strettamente queste popolazioni ai possedimenti signorili e nobiliari.
Ciò avvenne per circostanze economiche poiché, in tal modo, c’era ampia disponibilità di preziosa manodopera.
«Il primo caso di Rom-Sinti schiavi (robii) a noi pervenuto, risale agli atti notarili del 1385, ma nel 1482 vi sono già diversi nuclei di Rom-Sinti che lavorano come servi della gleba in Moldavia. Alcuni studiosi ritengono che il motivo della loro schiavitù in Valacchia e in Moldavia si debba ricercare, tra le altre cose, nella decisione degli stessi Rom-Sinti di vendersi come servi in un momento di tragica carenza di mezzi di sostentamento. Sommersi dai debiti, solo in questa maniera potevano sfuggire alla galera. Divenuti ormai schiavi, potevano essere venduti come oggetti o bestie dai loro padroni che quasi sempre erano dei nobili o dei grandi funzionari della chiesa»[14].
Ogni cittadino libero che si univa con un Rom-Sinto diventava immediatamente schiavo.
Una situazione anomala rispetto al resto d’Europa, dove, dalla fine del XV secolo, cominciò a mutare il rapporto tra i Rom-Sinti e la società ospitante.
«Se nei primi tempi i Rom-Sinti, circondati da un’aura di mistero e di esotismo, furono accettati o tutt’al più tollerati dalle popolazioni sedentarie, che giunsero persino a dispensare loro viveri, vesti, denaro e foraggio per i loro cavalli, alla fine del secolo XV, venendo meno gli ideali ascetico-caritativi e trasformandosi l’atteggiamento verso i poveri, i vagabondi e i nomadi cominciarono ad essere oggetto di repressione»[15].
Da questo periodo vi fu, quindi, un acuirsi dell’azione persecutoria nei confronti dei Rom-Sinti ed un consolidarsi degli stereotipi negativi e dei pregiudizi nei loro confronti.
«Storicamente in Europa soprattutto Ebrei e Rom-Sinti sono stati giudicati come “corpo estraneo”, nemico della collettività, la loro presenza in Occidente è stata ciclicamente additata come caratterizzata da un doppio fine: far finta di integrarsi per continuare a coltivare i propri interessi e non quelli della collettività. Dunque per questo cacciati o relegati in ghetti, tollerati o ciclicamente perseguitati»[16].
Secondo il Colocci:
«In Italia i nostri Stati e le nostre Repubbliche cominciarono fin dal principio del decimosesto secolo ad impensierirsi di questi incomodi ospiti e ad emanare ordinanze contro di loro»[17]. Il primo decreto di espulsione a noi noto in Italia, quello del 1512 a Milano, espelle Rom-Sinti e mendicanti come possibili portatori di peste.
A questo periodo (prima età moderna) datano le prime rigide disposizioni contro i Rom-Sinti.
«Dalla fine del sec. XV (a partire dal primo provvedimento emanato nel 1492 in Spagna con il quale si condannavano all’esilio mori, ebrei e Rom-Sinti) cominciò lo stillicidio di leggi e decreti dei sovrani europei impegnati a cacciare i Rom-Sinti dai propri territori con la minaccia di tremende punizioni che andavano dalla fustigazione ai tratti di corda, alla perforazione delle narici all’amputazione delle orecchie, al marchio a fuoco, alla galera e all’impiccagione»[18].
Tra i capi d’accusa rivolti verso i Rom-Sinti, che sono stati all’origine della loro cacciata da quasi tutti gli stati europei, ci fu perfino quello di antropofagia. Ma già prima «nel 1482, in Ungheria, l’accusa di cannibalismo costò la vita a ben 200 Rom-Sinti»[19]. A questi si addossavano le colpe più assurde tra cui quella di essere portatori di malattie gravi, motivo per cui dovevano essere espulsi o perfino uccisi.
L’unico paese che si dimostrò abbastanza clemente con la popolazione rom-sinta fu la Russia, dove, a metà del Settecento, essi divennero oggetto di curiosità come lo erano stati nel resto dell’Europa quattro secoli prima, al loro arrivo.
Le cose cominciarono a cambiare solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo quando il dispotismo illuminato di alcuni sovrani europei «ebbe l’ambizione di mettere fine a secoli di persecuzioni. Ma con l’intento di assimilare completamente i Rom-Sinti e di farne cittadini come tutti gli altri, li spogliava di tutte le loro tradizioni. Insomma senza espulsione né genocidio, tendeva ad annullarli come popolo»[20] (politica dell’inclusione).
I provvedimenti dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, di Carlo III di Spagna, di Federico II di Prussia e dell’imperatrice Caterina di Russia mirarono ad «assimilare i nomadi alla popolazione locale con mezzi coercitivi, anche se dettati da idee filantropiche e illuminate: la forzata sedentarizzazione, l’abbandono dei loro usi, costumi, linguaggio e persino del loro nome per cancellare per sempre la loro entità etnica ed eliminare qualsiasi parvenza di distinzione dal resto della popolazione»[21].
Nel caso dell’Austria, l’imperatrice Maria Teresa e suo figlio Giuseppe II decisero di “realizzare la felicità” dei Rom-Sinti, loro malgrado. In Ungheria e in Transilvania, dove vivevano da secoli secondo le loro usanze, dovevano perdere persino il loro nome, chiamandosi non più Rom ma “nuovi coloni” o “nuovi Magiari”. Divenuti obbligatoriamente sedentari, erano obbligati ad abbandonare il romanes, esprimendosi solo in ungherese o tedesco; dovevano abitare in case, esercitare mestieri onesti senza mai mendicare, frequentare le chiese e vestirsi come la gente del paese. I figli sarebbero stati allontanati dai genitori per essere educati lontani dalla famiglia. In cambio il governo distribuiva case, bestiame e attrezzi agricoli. Inutile dire che l’iniziativa fallì.
Essi non poterono reggere questo tipo di vita e alla fine si rifugiarono in montagna, dove si diedero al brigantaggio, mentre i bambini scappavano per raggiungere i loro genitori. Il governo fu costretto a tornare un po’ alla volta a una politica più liberale.
In Romania, il principe Costantino comincia ad interessarsi alla loro sorte. “Egli dichiarava: “Gli zingari sono stati creati da Dio come gli altri uomini ed è peccato grave trattarli come bestiame”. A questo punto la liberazione dei Rom-Sinti non poteva più tardare”[22].
I paesi rumeni presero così un poco alla volta coscienza di questa anomalia: la persistenza della schiavitù in un paese cristiano. E fu tra il 1855 e il 1856 che si ebbe la liberazione di tutti i Rom-Sinti in Romania.
A seguito di ciò cominciò una grande emigrazione non solo verso la Russia, la Bulgaria, la Serbia, l’Ungheria, l’Europa centro-occidentale, ma anche verso le terre d’oltremare. Già nella prima metà dell’Ottocento aveva avuto inizio una grande emigrazione di Rom-Sinti verso gli Stati Uniti, il Messico e l’America latina in particolare Brasile e Argentina.
«Questo fenomeno di migrazioni intercontinentali, che interessò specialmente i Rom di origine balcanica, andò intensificandosi ed ebbe punte elevate nella seconda metà dell’Ottocento con l’emancipazione degli schiavi rumeni, dopo la prima guerra mondiale in seguito allo sfacelo dell’impero austro-ungarico e durante la seconda guerra mondiale, per sfuggire alle persecuzioni naziste»[23].
Il nazismo, infatti, riservò ai Rom-Sinti lo stesso trattamento riservato agli ebrei. Essi furono deportati in campi di concentramento o massacrati nei paesi occupati (politica dell’esclusione). Sebbene ariani puri, secondo l’aberrante logica nazista, si erano imbastarditi con sangue di razze inferiori, come quella slava; il verdetto finale del Centro di Ricerca sulla Ereditarietà di Berlino fu di irrecuperabilità.
Circa 500.000 Rom-Sinti trovarono la morte durante il barò porrajmos (in lingua romanes: grande genocidio).
Una drammatica testimonianza sulla persecuzione nazista è riportata da Rudolf Hoess, comandante del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau nelle sue memorie:
“Negli anni 1937-1938 tutti gli zingari nomadi furono raccolti nei cosiddetti campi di abitazione, perché fosse facile sorvegliarli. Nel 1942 venne l’ordine di arrestare tutti gli individui di tipo zingaresco, compresi gli zingari di sangue misto, che si trovavano nel Reich, e di trasportarli ad Auschwitz a qualunque età e sesso appartenessero (…). Nel luglio del 1942, Himmler venne a visitare il campo. Gli feci percorrere in lungo e in largo il campo degli zingari, ed egli esaminò attentamente ogni cosa: le baracche di abitazione sovraffollate, i malati colpiti da epidemie, vide i bambini colpiti dall’epidemia infantile Noma, che non potevo mai guardare senza orrore e che mi ricordavano i lebbrosi visti in Palestina: i loro piccoli corpi erano consunti e nella pelle delle guance grossi buchi permettevano addirittura di guardare da parte a parte; vivi ancora, imputridivano lentamente (…). Gli zingari atti al lavoro vennero trasferiti in altri campi, e alla fine rimasero da noi (era l’agosto del 1944) circa 4000 individui da mandare alle camere a gas”[24].
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale i Rom-Sinti si sono rimessi in movimento. Nel dopoguerra Rom Kalderàsa, Lovara e Curara si sono spostati dalla Jugoslavia, dall’Ungheria e dalla Turchia verso l’Europa occidentale mentre altri sono affluiti dalla Carelia verso la Finlandia. In tempi più recenti con la guerra nei paesi della ex Jugoslavia, il flusso è considerevolmente aumentato.
In sintesi, dagli anni Cinquanta ai giorni nostri, la storia dei popoli rom-sinti è colma di spostamenti all’interno dell’Europa e si può affermare che «la loro espansione, iniziata oltre 2500 anni fa non si è ancora conclusa»[25].
[1] F. DE VAUX DE FOLETIER, Mille anni di storia degli zingari, Jaca Book, Milano, 1990, p. 38.
[2] A. ARLATI, “La lunga marcia del popolo zingaro”, in Calendario del popolo, n° 52, Teti Editore, Milano, n. 606, febbraio 1997, p. 7.
[3] A.ARLATI, Op.cit. p. 10.
[4] Dal greco classico “intoccabili”, da cui deriva il nome di zingari, tsiganes, zigeuner, cygani.
[5] A. ARLATI, Op. cit., p. 12.
[6] Nasce in queste circostanze il gruppo dei Khorakhané, “portatori del Corano”, rom musulmani.
[7] M.CONVERSO, Rom, Sinti e Camminanti in Italia: l’identità negata in AAVV, Zigeuner-Lo sterminio dimenticato, Roma, Sinnos Ed., 1996, p.83
[8] Italiani di origine albanese.
[9] DE VAUX DE FOLETIER, Op.cit., p.
[10] G. VIAGGIO, Storia degli zingari in Italia, Anicia, Roma, 1997, pp. 19-20.
[11] G. VIAGGIO, Op.cit. p. 23.
[12] A. ARLATI, Op. cit., p. 13
[13] I Rom-Sinti giunsero nel 1418 nel bacino del Reno; nel 1419 in Francia, nella valle del Rodano; in Spagna nel 1425, nei pressi di Saragozza sul fiume Ebro, e nel 1427 a Parigi; in Inghilterra nel 1480, in Scozia nel 1492, in Portogallo e in Russia nel 1501, in Danimarca nel 1505, in Svezia nel 1512, in Finlandia nel 1515 e in Norvegia nel 1540.
[14] K. WIERNICKI, Nomadi per forza – Storia degli zingari, Rusconi, Milano, p. 50.
[15] A. ARLATI, Op. cit., pp. 13-14.
[16] G. VIAGGIO, Op. cit., p. 33.
[17] A. COLOCCI, Gli zingari, storia di un popolo errante, Arnaldo Forni Ed., Torino 1889, p. 79.
[18] A.COLOCCI, Op. cit. p. 14.
[19] K. WIERNICKI, Op. cit., p. 45.
[20] F. DE VAUX DE FOLETIER, Op. cit., p. 95.
[21] A. ARLATI, Op. cit., p. 14.
[22] A. ARLATI, Op. cit., p. 51.
[23] A. ARLATI, Op. cit., p. 15.
[24] R.HOESS, Comandante ad Auschwitz, Torino, Einaudi, 1997
[25] A. ARLATI, Op.cit., p. 18.
|