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13 febbraio 2013
chi sono io?– mi direte voi——
Rispondo subito:
sono un fracchia –come diceva sempre una persona —
un fracchia come tanta gente di valore che se ne sta nel suo “oscuro” (alle ribalte) giardinetto.
Eh già averlo, costò grande fatica!
Come tutti gli altri, anch’io, quando ho dovuto studiare, ho studiato con molta serieta’ scegliendo di occuparmi di un campo solo -tralasciati tutti gli altri – nei quali, e non mi vergogno, sono un’analfabeta” per scelta e metodo”, mi piacerebbe poter dire in un salotto.
La mia invece fu una “necessità” ( bloccare tutta l’energia, il lavoro, lo studio per curare la mia mente.)
Chi mi sente parlare – o meglio tacere, ( la Do, Nemo, Mario, Marina) sanno…
l’ignoranza che ho su tutto –e non so neanche come vergognarmene, se non studiando…o, meglio, “riprendendo i miei studi”
oggi che posso,
la mente libera da quel “ruelo” / che mi acchiappò già a dodici anni, ma per poco;
mentre a quindici, facevo la quinta ginnasio al liceo Cassini di Sanremo, tutto pieno, all’epoca, di insegnanti dormienti. Ed io che “volevo andare a scuola a tutti i costi” : non facevo un’assenza!
A quindici, dicevo, potrei dire che s’installò, sempre quel “ruelo,
come quando –
anche se in un punto lontano di cui non avete percezione—
qualcosa graffia pian piano, silenzio assoluto,
rode ma con gentilezza, un filo e un altro,
mentre vi nasce in cuore uno spavento, di cui non sapete il dove,
che poteva essere anche terrore –se quel punto lontano si fosse fatto vicino—
“di diventare pazza”,
“quasi sentire che era quello il mio destino”.
“Quello che ti è destinato, non te lo toglie nessuno”, diceva mia madre.
All’epoca, in casa mia, questa era una parola: “pazzia”, che non esisteva,
e che se qualcuno l’avesse pronunciata, anche l’aria si sarebbe fulminata da sola!
Anche dopo la prima crisi, anche dopo l’ultima, sempre si parlò “di malattia”.
Ho avuto un’ esperienza simile: in questo caso,invece, di non poter dire-io- all’altro
neanche “sei malato, devi curarti”,
ero accanto ad un ragazzo, che viveva in delirio, e in delirio era stato due anni completamente solo a New York.
Questa solitudine in delirio due anni, allora mi “scorticava” molto, non trovo un’ altra parola per quel groppo di sentimenti che avevo per lui.
Da qualche parte l’ho già raccontato. Credo che neanche il suo psicoanalista –il professor Zapparoli – “abbia potuto”.
Quella parola “malato”, in quella enorme stanza dove ci vedevano, rivolta a lui, tu sentivi che non potevi, non potevi rivolgere all’altro, davanti a te, che parlava parlava, parlava da solo senza guardarti né fermarsi,
(anche qui, non so dire altro che)
che, se avessi detto parola : “una bomba avrebbe fulminato la stessa aria tra noi e poi noi stessi”.
Oppure ero io a saltare.
Questa era la vera paura.
Tu mi avresti fulminato. Ed io sarei morta – la stesa a terra-come da schok elettrico.
Non credo che questa paura fosse solo mia.
Ed oggi lo devo proprio ammettere: ” paura di un povero matto che così non avevo mai veduto, né provato in me”.
In me sembra rimaneva una parte-anche ampia -lucida.
Per come sono poi andate le cose per lui, qualcuno avrebbe dovuto avere “la scelleratezza” di dirglielo ed accettarne – dritto-in piedi- per sé e per lui – le conseguenze.
Ma nessuno l’ha detta quella parola “malato” “cura” “pastiglie”!
Questo, lui, assolutamente non voleva : farmaci.
E tu oggi,
alla fine della fiera (nessuno ha voluto ricoverarti in forma coatta),
da molti anni, vivi in un centro,
il più lontano possibile dalla famiglia—ti hanno già spostato due volte “più in là”—
perché eri troppo vicino a quella gente che provava per te, e di te, solo “una grande vergogna”.
Anche, penso adesso, di se stessi, di non aver saputo fare niente per te, con i tutti i mezzi spesi.
“Il nome della famiglia” : non li disprezzo, la crudeltà della gente che hai intorno, la conosco.
Ancora oggi –ed è una giovane, appena appena, forse, un po’ cattivella—passeggiavamo chissà perché sulla spiaggia d’inverno, scarpe e tutto –
“ Me ne hanno parlato in molti.— Tutto Sanremo sa che tu sei stata pazza.”
Testuale. E so che è la verità.
So che è così /”per dei minuscoli scricchiolii”.
( —Ma non è solo Sanremo che scricchiola—)
A casa mia questo mai avvenne… mai mi fecero sentire …meno “familiare” di quanto fossi sempre stata.
Ma frasi come questa: “ Meno male –detta con passione dolorosa – che tuo padre non si è accorto di niente!”
Ricordo come oggi di aver detto : “Ma io?”
Quasi che per lui, per il suo nome, avrebbe potuto essere uno sfregio, una figlia che si ammala di mente.
Non mi stupisco più, oggi.
Ma allora mi sembrò “un’ingiustizia”.
Tutto il lavoro, il dolore, che era panico da reggere, per mettere insieme”la mia testa”, pezzo per pezzo—dopo averlo lungamente esaminato.
Se qualcuno ha un malato mentale in famiglia, non può accettarlo in nessun modo come tale.
Lo stesso psichiatra che mi vede ogni tanto, durante una mia intervista a lui, tra le tante cose, ha lasciato cadere : “Nessun familiare lo ammetterà mai che ha un parente pazzo.”
Ci sarà pure “gente illuminata” dalla luna e dalle stelle, non ne conosco, ma-lo dico subito – “avrei timore di conoscerla”.
Avrei terrore che fossero come “gli illuminati della nostra sinistra, tutta gente per bene, dei lavoratori dell’intelletto…”, ma senza una terra, che sia terra, sotto i piedi.
Torniamo a quello che conosciamo.
Non è vero che mio padre non si accorse. Si accorse, lo so per certo, ma non volle dirmi niente.
Forse non trovava le parole.
Ma le parole, se avesse proprio voluto, lui le aveva:
e aveva “quelle rare parole” che colpiscono perché le sentivi venire proprio da tutta l’anima sua–senza pre-concetti–se si può dire…
Temo di non riuscire a spiegarmi-
Quando mi hanno portato in una clinica, sul mare ligure, ho una foto nel ristorante dove “abbiamo” pranzato prima di entrare –lo racconto sempre, chissà perché—
—–
“perché mio padre è morto prima che potessi rivederlo e dirgli “grazie” per tutto l’amore che mi aveva dato, grazie anche di quando non l’avevo capito abbastanza;
scusa per averlo “tradito” (è la mia parola) : me ne sono andata a Milano a cercare la sopravvivenza per me e l’ho lasciato lì, “amato per carità!”, ma senza nessuno che potesse capirlo e difenderlo come potevo io”.
“Come potevo io”, ma non allora.
E neanche dopo, quando sono tornata a stare con la mamma, dopo la tua morte.
Oggi saprei difenderti, mio grande amore dell’infanzia, anche se allora non si usavano codesta parole.
Ma, vedi, è,
oggi che,
per amore tuo,
cercandoti in mio marito senza trovarti,
posso –ogni tanto-difendere lui.
“Dalla mia lingua”.
Senz’altro.
Anche se non solo.
Da cose che a volte sento dire intorno a lui, da gente che sembra amarlo con passione.
Ma che equivoca.
Nessuno di noi, neanche il padre eterno, ha un mezzo per leggere il codice del comportamento di un altro.
Neanch’io l’ho.
(E fatico a dirlo.)
Anche se ti “osservo”
da oltre cinquant’anni.
L’unica cosa che ho capito è che “non c’è niente da capire”, se per “capire” intendi arrivare a una o due cose più o meno stabili.
E questo, sai papà, mi rende più leggera.
Sempre tra di me.
Dove sto sempre.
Non è che è perso l’amore perché questo non c’è mai stato:
se amore è confidenza, lealtà, voler il bene dell’altro.
La nostra era, se vogliamo proprio dire,
“una grande passione”,
un non poter vivere uno senza l’altro.
Ho due quadri tuoi – del Brasile – quindi prima dell’86- quando siamo venuto in Italia…
ma lo sai che non so più quella tua parola che tanto incantava Francesca…?
“con irrimediabile amore “
L’ho trovata : è “irrimediabile”.
Ed io aggiungevo
/o forte o tra di me/:
perché se uno potesse, rimedierebbe.
“Oggi abbiamo rimediato”.
Stiamo sempre insieme.
E forse non potrà mai essere diverso.
Ma con te non si sa mai.
Sei una girandola, non una giostra perché quella ritorna sul posto e si ferma.
E poi la giostra è per me sempre una cosa allegra.
Tu sei allegro e giù, come una trottola, se questa potesse non fermarsi mai.
Sei l’acqua in cui uno non puo’ bagnarsi due volte, di Eraclito.
Hai la consistenza dell’aria.
E per alcune persone, puoi prendere la forma del loro recipiente.
Quello che ti guida là è ” eros “-
e lì devo rimanere- ricordarmi –
di star lì–su quella parola–che è un giudizio,
ma molto molto
“benevolo”.
Perché invece chiamarla “carne fresca”
che magari è più vero riduttivamente
fa male solo a me
alla mia carne vecchia.
Che come la gallina
vecchia
non faccio neanche più il buon brodo.
Coinvolgente introspezione, personalissima eppure così ‘universale’.
ma nini, bello, sei sicuro? non ho parole, brrrrrù!