ore 09:47 antonio gnoli intervista cesare cases in occasione degli 80 (2000) – da repubblica del 30 gennaio 2000

[La seguente intervista e’ apparsa sul quotidiano “La repubblica” del 30
gennaio 2000. Antonio Gnoli e’ giornalista della pagina culturale del
quotidiano “La Repubblica” e saggista; ha anche curato l’edizione italiana
di testi di Alexandre Kojeve per Adelphi e di Carl Jacob Burckhardt per
Bompiani. Opere di Antonio Gnoli: con Bruce Chatwin, La nostalgia dello
spazio, Bompiani 2000]

Il professor Cesare Cases, germanista illustre e polemista eccelso, compira’
ottant’anni nel mese di marzo. E’ l’occasione per tornare a incontrarlo.
L’ultima volta che ci vedemmo fu a Torino, alcuni anni fa. Da qualche tempo
vive in una zona bella di Firenze: una casa con giardino dalle parti di
Forte Belvedere. Un enorme sanbernardo insieme a un altro cane malandato mi
accolgono piu’ incuriositi che sospettosi. Il professore incede con piccoli
passettini. Veste con un completo grigio e ha l’aria impeccabile. La trovo
bene, dico. “Se si soffermasse sui miei occhi non sarebbe cosi’ sicuro o
cosi’ gentile. Li guardi, stanno perdendo la loro funzione”, replica il
professore. Dice tutto questo senza amarezza, semplicemente constatando il
fatto.

Chiedo se e’ mai vissuto prima d’ora in questa citta’. “No, mai. Un periodo
della mia vita sono stato a Pisa. Era la meta’ degli anni Cinquanta,
insegnavo in un liceo. Vita quieta e interessante”.
Interessante perche’?
“Per le frequentazioni. Ci vedevamo spesso con Timpanaro,figura
straordinaria e appartata. E poi Cantimori, un intellettuale che ha scritto
cose di livello assoluto e che e’ morto come un attore in palcoscenico,
cadendo da una scala in mezzo a un mare di libri”.
Cosa le piaceva di lui?
“Il suo contributo ai movimenti ereticali italiani e’ fondamentale”.
Stimava anche i saggi del periodo fascista?
“A parte che era un fascista di sinistra, devo dire che i suoi lavori sul
pensiero di destra erano eccellenti. Su Juenger ad esempio ci intendemmo a
meraviglia”.
Lei perche’ si interesso’ a Juenger?
“Perche’ dovendo preparare una tesi di laurea, pensai di farla su un autore
che un po’ conoscevo. Mi aveva favorevolmente colpito l’analisi juengeriana
del lavoratore. Li’, per vie totalmente diverse dal marxismo, passava una
certa idea di ricostruzione del decadimento della borghesia”.
Solo questo la colpiva?
“No, direi che e’ interessante almeno fino a quando non si inventa la figura
dell”anarca’, roba che va bene in un supermercato per ricchi”.
Sento una vena polemica che riaffiora. Le piace ancora fare satira?
“Mi piace a volte guardare nel fondo dell’ego forte”.
E cosa ci trova?
“Molte cose ridicole”.
Ci dia una definizione di satira.
“Una risposta gliel’avrei data volentieri vent’anni fa. Oggi mi lascia
indifferente. Pensi a quante chiacchiere si sono fatte sui rapporti fra
satira e ironia”.
Non ama piu’ lavorare sui postulati?
“E’ un’impresa vana. Se si guarda oggi alle grandi costellazioni che si sono
succedute nella seconda meta’ del secolo – la fenomenologia, il marxismo,
l’esistenzialismo, lo strutturalismo – si vedra’ che e’ restato ben poco.
Anche se continuo a non considerarle dei fantasmi”.
In fondo in poco piu’ di un ventennio, tra gli anni Settanta e Ottanta, e’
stata fatta tabula rasa di molte cose. Il pensiero non entusiasma, l’azione
e’ stanca. Siamo allo sbando o no?
“Non sono di questo parere. Credo che quella che un tempo si chiamava ‘la
battaglia delle idee’ abbia ancora una sua importanza. Trovo deleterio un
certo disfattismo ideologico che circola e deprecabile l’idea che non
pensare sia meglio del pensare. Non le pare?”.
Io, se mi permette, trovo invece un po’ curioso questo appello alla
battaglia delle idee.
“E perche’? Le rispondo da ebreo. Sa cosa ci distingue dagli altri? Il fatto
che per noi il messia non e’ ancora arrivato. La battaglia delle idee, per
la quale ho ancora del tenero, ha senso proprio perche’ si aspetta sempre il
messia”.
Ma non ritiene che il cristianesimo ha le sue buone ragioni per non
aspettare piu’ il messia?
“Comprendo cio’ a cui allude. L’operazione di San Paolo che non per nulla
era ebreo aveva una sua legittimita’. In fondo non puoi dire: sto aspettando
il messia, e poi non vederlo mai arrivare. C’e’ dunque una parte di ragione
nel cristianesimo che si puo’ capire meglio con l’idea di famiglia”.
In che senso?
“Una volta un avvocato mi chiese perche’ noi ebrei eravamo cosi’ fissati con
la famiglia. Dissi che era vero, bastava guardare alla vicenda di Kafka,
alla sua fatica di staccarsi dalla famiglia. E poi aggiunsi che per un
cristiano e’ tutto piu’ semplice, perche’ c’e’ un Dio che ha avuto un
figlio. Mentre noi non abbiamo questo figlio, Dio incombe su di noi”.
Ma cos’e’ meglio?
“Dire come fa il cristianesimo che il messia e’ giunto, comporta una
menzogna fondamentale. C’e’ quella bellissima parabola chassidica in cui un
ebreo chiede a un altro ebreo se il messia e’ arrivato. E quello dice:
aspetta un momento che guardo. Poi apre la finestra, si affaccia e vede che
la piazza e’ vuota, nessuna manifestazione di tripudio, nessuna folla che
esulta. Si rivolge all’amico e gli dice: non e’ ancora arrivato, continuiamo
ad aspettare”.
Come fa uno spirito laico a convivere con l’idea di promessa messianica?
“Beh, non e’ detto che uno spirito laico non coltivi una propria attesa, una
propria utopia non necessariamente religiosa”.
Ma un’utopia ha qualcosa di religioso, implica una fede…
“Piu’ che una fede, direi una disperazione. Vede, noi siamo qui a parlare di
attese, di aspettative. Ma i miei ottant’anni sono una bella eta’ e
francamente non ho piu’ la forza di reagire in modo costruttivo al presente.
E allora capita che ci si abbandoni a una speranza di cui si sa nel proprio
cuore che non e’ verosimile, ma che d’altra parte e’ l’unica possibile. Fra
tenere la finestra chiusa e aprirla, preferisco quest’ultimo gesto”.
La disperazione, a cui allude, apre a Dio?
“Per me no. Pero’ so che anche quando gridavo troppo forte che non credevo
in Dio, ho sempre avuto l’opposizione del mio amico Fortini il quale in
qualche modo credeva. Allora, se Dio esiste tanto meglio, ma non credo che
esista. E se un messia arrivera’ non sara’ qualcuno inviato da Dio. So che
questa affermazione mi mette per alcuni aspetti nei guai”.
Nei guai per il contrasto con le sue radici ebraiche?
“No, gli ebrei atei sono un fenomeno frequente. L’ebraismo non comporta la
credenza nella divinita’, comporta solo la credenza nel possibile avvento
del messia”.
Comporta, a volte, un sottile rapporto con la teologia. Pensi a Walter
Benjamin..
“Si’, ma le diro’ che non ho mai avuto particolare simpatia per questo
aspetto del pensiero di Benjamin, cosi’ come del pensiero di Leo Strauss che
per certi versi e’ analogo. Non lo so. Ma per dirla in modo molto semplice,
in me gioca l’esser nato e vissuto in Italia, un paese in cui non c’e’ la
religione. Machiavelli l’aveva detto: il popolo e’ senza religione. E’
scettico, e io credo di avere assimilato questo scetticismo”.
Trova che sia un bene o un male tutto questo?
“Io l’ho sempre sentito come una benemerenza. Si puo’ dire quello che si
vuole degli italiani, ma credo che nonostante le forme di antisemitismo che
ci sono state era difficile persuadere un italiano che l’ebreo e’ un essere
qualitativamente diverso da lui. E cio’ depone a favore degli italiani”.
Si parla di scetticismo in un periodo in cui la religione e’ in pieno
rigoglio…
“E’ alla mentalita’ che occorre guardare. E’ il gusto della menzogna, del
credere e del non credere, che salva gli italiani e li rende accettabili di
fronte a un imperversare di fanatismi. Ho paura di elogiare un po’ troppo il
cattolicesimo, ma trovo interessante questo fenomeno religioso in cui il
dovere e’ soprattutto un fatto di pura esteriorita’”.
Chi trovava nell’esteriorita’ del cattolicesimo una grande forza seduttiva
era Carl Schmitt.
“Ma lui trovava una grande forza anche nel nazismo!”.
Lei e’ molto critico nei suoi riguardi.
“Era un figlio di buona donna”.
Solo questo?
“La prima volta che lessi qualcosa di Schmitt mi pare fu attraverso le
traduzioni di Cantimori, poi cominciai a leggerlo in originale. E mi venne
in mente che non sarebbe stata una cattiva idea di scrivere un libro e
intitolarlo La messa dei Nibelunghi. Eravamo subito dopo la guerra e ricordo
che proposi questa cosa a Laterza, il quale mi incoraggio’ a portarla
avanti. Il libro doveva essere costituito da una celebre triade: Juenger,
Heidegger e Schmitt. Ma poi non ne feci piu’ nulla”.
Ma lei cosa pensa di questa triade?
“Ne penso male. Come triade preferisco Hegel, Marx e, perche’ no?, Nietzsche
che ha avuto grandi intuizioni”.
Pensare male di certi autori non ci esime dal considerare la loro forza. E’
possibile imparare dal nemico? Mi riferisco a un articolo che lei scrisse
alcuni anni fa.
“Si’, era un articolo su Benjamin il cui nemico era Klages. Penso che si
possa imparare dal nemico, il nemico puo’ vedere cose che io non vedo.
Quindi, per fare un esempio, il crinale conservatore e anticapitalista che
si e’ prodotto in Germania negli anni Venti e Trenta lo considero
ragionevolmente stimolante”.
E ormai acquisito anche dalla sinistra. Secondo lei esiste ancora una
distinzione fra pensiero di destra e di sinistra?
“Ci sono singoli pensatori la cui consistenza pero’ francamente mi sfugge.
Ma chiedersi oggi se esiste un pensiero di destra o di sinistra, mi pare
impresa vana. Se non altro perche’ dubito che ci sia un pensiero”.
Ma in passato la distinzione aveva un senso?
“Non c’e’ dubbio, e aggiungo che esistevano passaggi sotterranei da una
sponda all’altra. Per esempio Bachofen e’ alla radice sia del pensiero di
destra, come quello di sinistra. Fu letto con profitto da Benjamin e dai
nazisti come Baeumler”.
Parlando di sinistra, mi viene in mente che lei per un certo periodo e’ stat
o iscritto al Pci, e’ cosi’?
“Si’, rimasi iscritto fino al 1959, poi ne uscii”.
Perche’ non usci’ con la grande crisi del 1956?
“Perche’ a quell’epoca studiavo in Germania Orientale. Vi arrivai una
settimana prima della rivolta di Budapest e assistetti a tutto: al disgelo
prima e poi al ricongelamento. L’ultima cosa che vidi come testimone fu la
seduta del partito in cui si scomunico’ Ernst Bloch”.
Che sensazione le dava stare nel partito comunista?
“Per noi rappresentava una garanzia di potere, soprattutto intellettuale.
Eravamo tutti, anche se non spudoratamente, dei seguaci di Lukacs, il quale
diceva che il peggiore dei socialismi era comunque superiore al migliore dei
capitalismi. Semplicemente vedevamo un’alternativa che in realta’ non c’era.
E non c’era perche’ il comunismo era fondato sulla menzogna, tanto quanto la
civilta’ cristiano- borghese”.
Che ne e’ di quella illusione?
“Spazzata via”.
Quando ha avuto la sensazione o la certezza che la scena era cambiata?
“Negli anni Ottanta. Ma per una ragione che le apparira’ strana…”.
La dica.
“Mi sono accorto che si parla sempre delle solite cose. Non si fa che
pensare a tutto quello che e’ accaduto nella prima meta’ del Novecento. E’
un continuo elaborare un lutto di qualcosa accaduto tanto tempo fa. Cosi’
rispuntano le stesse facce: Benjamin, Lukacs, Marcuse, Adorno, Kraus e
altri. Li si cucina in salse diverse. Un giorno li si stramaledice, un altro
li si esalta”.
Parte di loro lei li ha anche conosciuti personalmente, frequentati.
“Ma era normale, anche se oggi qualcuno si sorprende, poniamo, del fatto che
qualche volta hai scambiato le tue opinioni con Adorno”.
Che impressione le fece quest’uomo?
“Era di una intelligenza fuori dal comune. Piccolo, tondo, grasso, gli occhi
vivissimi e parlava un tedesco meraviglioso”.
C’era in lui un lato femminile?
“So che da giovane aveva avuto esperienze omosessuali. Si diceva di un suo
rapporto con Krakauer. Ma femminile non mi e’ mai sembrato”.
Alludevo a una specie di civetteria del suo pensiero.
“Non lo so. So pero’ che era molto pieno di se’ e a pensarci bene ne aveva
anche il diritto. Mi chiedo quale libro sia accostabile a Minima moralia,
che io considero uno dei grandi capolavori filosofici del Novecento. Adorno
e’ stato un grande”.
Una grandezza diversa poniamo da quella di Lukacs.
“In Lukacs agiva molto di piu’ la tradizione. Lui aveva inventato il
concetto di decadenza, credeva nel progresso filosofico. Cose rispetto alle
quali Adorno era fortemente critico”.
E tutto questo ha ancora un senso oggi?
“Diciamo un po’ meno. Ma loro insieme ad altri sono stati i miei compagni di
viaggio”.
Verso dove?
“Oggi non e’ piu’ cosi’ importante la meta, l’importante e’ aver viaggiato.
Anche se nei viaggi che ho intrapreso c’era sempre il problema dell’attesa”.
Torna la questione del messia…
“Il mio coetaneo Wojtyla celebra grandi conciliazioni universali. Dipendera’
dalla scarsa potenza dei miei occhi, ma non vedo prospettive imminenti. Se
attesa c’e’, sara’ lunga ed estenuante”.
Intanto come passa le sue giornate?
“Sto aspettando che maturi la cataratta. Ho un occhio ancora buono e gli
oculisti mi assicurano che presto tornero’ a vedere bene. Come passo le
giornate? Leggendo con enorme fatica, e guardando ahime’ la televisione.
Questo mi da’ l’idea della dissoluzione in cui stiamo precipitando”.
Auguri Professor Cases.
“Anche a lei”.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de “La nonviolenza e’ in cammino”
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 32 del 31 luglio 2005
 

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1 risposta a ore 09:47 antonio gnoli intervista cesare cases in occasione degli 80 (2000) – da repubblica del 30 gennaio 2000

  1. Donatella scrive:

    E’ un’intervista estremamente stimolante, con temi che sono di grandissima attualità. Mi piacerebbe saperne di più perché forse riuscirei a capire di più il presente.

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