LIMES, nov. 16 GLI IMPERI NON VIVONO DUE VOLTE —chi vuole leggere vedrà che sulla Turchia concorda con Alberto Negri (mi pare, post sg)

 

 

Gli imperi non vivono due volte

Pubblicato in: LA TURCHIA SECONDO ERDOĞAN – n°10 – 2016

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[carta di Laura Canali]

Editoriale del numero di Limes 10/16, La Turchia secondo Erdoğan

1. LA TURCHIA FU IMPERO. DUNQUE NON CESSERÀ MAI DI PENSARSI tale. Ma il sogno neocesariano, esaltato dal surplus ideologico del suo credo, che si vuole universale, e dal culto della sua razza, che si pretende guerriera, resterà probabilmente tale. Per carenza di risorse, non di volontà.

Qui sta il dramma geopolitico di un popolo dall’identità incompiuta, tuttora sofferente per l’umiliazione subìta nel cataclisma della prima guerra mondiale, sancita dai trattati ineguali che ne seguirono. Per sopravvivere, i turchi dovettero smettere i logori ma gloriosi panni ottomani. E inventarsi nazione. Trauma identitario: in epoca imperiale, coloro che comunemente chiamiamo turchi non amavano definirsi tali. Erano gli europei a bollarli così, imponendo un marchio di permanente successo, misto di disprezzo e paura, occidentale senso di superiorità e islamofobia. Peggio: per ogni fiero ottomano, sul cui ceppo turanico, germogliato nelle steppe centroasiatiche, si erano innestate nei secoli fioriture persiane, bizantine, levantine, arabo-islamiche, «turco» era sinonimo di «tonto», con specifico riferimento agli anatolici rurali, miseri analfabeti. Il motto stesso della nuova nazione, «felice colui che può dirsi turco», trasudava ironia.

Allo Stato turco battezzato nel 1923 restava uno spazio irrisorio rispetto all’apogeo imperiale, quando i tricontinentali domini ottomani si estendevano almeno nominalmente dall’Atlantico nordafricano al Volga, dalle marche austro-ungariche alla Penisola Arabica, fino al Corno d’Africa. Torso amputato delle sue plurisecolari articolazioni extra-anatoliche, avendo perso fra Settecento e incipiente Novecento prima l’egemonia sul Mar Nero, poi i Balcani, infine le Arabie. Arroccato sugli Stretti e nel contiguo acrocoro orientale, non proprio terra di elezione. Attardato a emulare modelli politici e amministrativi europei proprio mentre l’Europa cessava di torreggiare sul mondo, poi che i suoi miraggi positivisti erano evaporati sui campi di battaglia della Grande guerra. Sicché Abdullah Cevdet, fra i più brillanti ideologi dei Giovani Turchi, concedeva: «Non c’è altra civiltà. Civiltà significa civiltà europea e dev’essere importata con le sue rose e le sue spine»1. A esporre un complesso d’inferiorità talmente vivo che ancora oggi nella sinossi ufficiale della politica estera turca è stabilito: «La Turchia è determinata a diventare membro a pieno titolo dell’Unione Europea come parte del suo sforzo bicentenario di raggiungere il più alto livello della civiltà contemporanea» (tondo nostro, n.d.r)2.

Lo sguardo fisso al faro europeo, soprattutto francese ma anche italiano, tedesco, svizzero, induceva la nuova classe dirigente a promuovere una formidabile pedagogia nazionale. Quasi rifondazione antropologica. Fondata sullo sprezzo della recente decadenza ottomana, sull’oblio della trascorsa grandezza imperiale e sulla pulsione rivoluzionaria volta a formare i cittadini della repubblica laica in ambito culturale musulmano. Con istituzioni e prassi che un giorno avrebbero dovuto evolvere il bruco post-ottomano nella farfalla di una compiuta democrazia europea.

Questo il grandioso progetto di Mustafa Kemal, poi Atatürk. Padre della patria. Ateo, ma venerato fondatore di una religione laica. Macedone, ma inventore della Repubblica Turca. Architetto e guida dello Stato nazionale in costruzione. Presidente di un’assai peculiare repubblica, non sultano/califfo di un insieme sovranazionale già declinato in una miriade di comunità religiose, etniche e culturali, cui la Sublime Porta concedeva briglie più o meno sciolte. Atatürk è tuttora oggetto di culto, specie da parte di ciò che resta della laica élite militare. Omaggio peraltro ossificato, sterile. Sicché un fido consigliere di Ahmet Davutoğlu, stratega principe dell’islamismo politico oggi dominante, caduto in disgrazia dopo aver invano cercato da ministro degli Esteri e poi da capo del governo di realizzare il sogno alchemico di ogni accademico – trasmutare le proprie teorie in realtà effettuale – confida: «Dobbiamo accompagnare il signor Atatürk alla tomba» 3.

Impresa cui si sta applicando il padre padrone della Repubblica Turca, Recep Tayyip Erdoğan, che si vorrebbe proprio quel che Atatürk rifiutava di essere: sultano e califfo. Il tempo stringe, visto che l’orizzonte neo-sultanale dovrebbe consolidarsi entro il 2023, centenario della fondazione della repubblica. Da virare nel frattempo in regime presidenziale, formalizzando lo stato di fatto: a capo della repubblica c’è un presidente sultano. Ad ogni modo, nella Turchia di Erdoğan – come nella Russia di Putin – il potere non deriva dalla carica, ma dalla persona che la ricopre: lui stesso. La sovranità in carne e ossa.

Sotto il profilo geopolitico, questa repubblica ad personam è revisionista. Destino che sembra accomunare gli Stati che nascono per disintegrazione dall’impero (valga anche qui l’analogia con la Federazione Russa): la Repubblica Turca non può accettare lo status quo perché il paragone con il passato imperiale riflette l’insopportabile chirurgia territoriale cui fu sottoposta dai nemici interni ed esterni che secondo Erdoğan da sempre complottano contro la sua grandezza: terroristi curdi e militari felloni, sette parareligiose e massonerie locali protette da padrini d’Oltremare, infidi arabi, perfidi ebrei e occidentali infedeli, imperi rivali, superpotenze alleate ma non amiche.

Erdoğan non può accettare per la Turchia il formato residuale, ritagliato dalla sconfitta dell’impero. Non si rassegna a che la sua terra sia ridotta a nazione anatolica, più minime appendici. Abito troppo stretto, quasi soffocante. Ne pretende uno nuovo, di taglia congrua alle proprie ambizioni, che non possono spiegarsi solo quale rivincita sulle modeste origini – peraltro avvolte da un filo di mistero, visto che un tempo si definiva georgiano (alcuni lo vorrebbero armeno), per professarsi due anni fa di ceppo turco4. Erdoğan immagina che nell’altro mondo dovrà rendere conto della sua geopolitica a Maometto II il Conquistatore (Fatih), eversore nel 1453 della Costantinopoli bizantina, e a Solimano I il Magnifico ovvero il Legislatore (Kanuni), incarnazione dell’apogeo ottomano. Così si rivolge il 5 maggio 2013 a un raduno di militanti del suo Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp): «Noi non siamo come altri Stati, altre nazioni. Noi non siamo un popolo o uno Stato che resterà quieto a vegliare in nome degli interessi, della congiuntura politica o per mantenere la stabilità. Quando compariremo alla presenza del Sultano del Mondo, Fatih il Conquistatore, vorremo apparirgli con la testa ben alta. Quando compariremo alla presenza del Sultano del Mondo, Solimano il Magnifico, vorremo apparire di fronte a tale presenza spirituale con la testa ben alta» 5.

Proiezioni di un megalomane? Visti popolarità e potere di Erdoğan, considerati peso e peculiare collocazione strategica del suo paese, questo revisionismo merita di essere indagato. A partire dal soggetto che dovrebbe guidarlo: lo Stato turco, o meglio il sultanato del presidente. Per poi definirne l’oggetto: quale impero? Ed esaminarne insieme il predicato: le risorse mobilitate in rapporto alle resistenze da eliminare onde conseguire l’obiettivo.

 

 

continua nel link: a chi interessa, anche di storia, vale leggerlo tutto!

 

http://www.limesonline.com/cartaceo/gli-imperi-non-vivono-due-volte

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