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Suicidio: Schopenhauer, Plinio, Hume
Divano. Dobbiamo a David Hume, con il saggio «Of Suicide» del 1757, una delle più fini meditazioni sull’interdizione al suicidio che la tradizione cristiana impone al credente
È doveroso precisare l’angolatura dalla quale si guarda al suicidio, perché varie e non sovrapponibili sono le motivazioni e le circostanze che possono portare l’uomo alla determinazione di togliersi la vita. Recenti casi hanno suscitato nel nostro paese una rinnovata attenzione per l’argomento. Si discute sulla liceità o meno d’un ausilio medico che assicuri adeguata assistenza ospedaliera a chi abbia deciso di porre fine alla propria vita, quando sia mantenuta grazie a terapie efficaci, pur se è ridotta a infermità permanente, pur se è dilaniata da sofferenze irreversibili.
La questione solleva numerosi ambiti di riflessione. Ne elenco tre. Apre, per un lato, a tematiche civili e istituzionali. Per altro verso, pone domande di ordine morale. Coinvolge, poi, e interpella convincimenti e prescrizioni di eminente e peculiare carattere religioso. Riflessioni, domande, convincimenti che trovano il loro luogo di consistenza nella meditazione su l’etica del suicidio. Nella discussione in corso un consueto argomento, di continuo richiamato, sembra predominare: se il soffio vitale, si dice, è infuso da Dio, anche l’ora della sua estinzione è stabilita per disposizione divina. Se dunque la mia vita consegue a un atto divino, come non fu mia libera scelta il suo inizio, così non sta nella mia libera disponibilità la sua fine. Tanto che, allorquando maturo la certezza che la morte soltanto mi libererà dalle più atroci sofferenze, che non trovano sollievo alcuno né nella cura né nel sonno, anche allora non mi sarà consentito sopprimere io la mia vita. Commetterei un gesto indebito, col quale recherei offesa al mio creatore. E si porta cieca violenza a Dio proprio quando più forte è la determinazione che induce al suicidio allorché, considera Arthur Schopenhauer, «si è giunti a ritenere che gli orrori della vita prevalgono sugli orrori della morte», e alla morte liberatoria «si è spinti da profonda depressione puramente patologica». È che, come egli scrive, «il cristianesimo porta nel suo intimo la verità secondo cui la sofferenza (la croce) è il vero scopo della vita: perciò respinge il suicidio in quanto è contrario a tale scopo, mentre l’antichità lo approvava, anzi lo onorava». E cita un passo di Plinio che recita: «nella morte la cosa migliore è che ciascuno se la può procurare quando vuole».
Dobbiamo a David Hume una delle più fini meditazioni sull’interdizione al suicidio che la tradizione cristiana impone al credente. Il saggio Of Suicide risale al 1757. Il suicidio si propone di «rendere gli uomini alla loro nativa libertà con l’esaminare tutti i comuni argomenti contro il suicidio e col dimostrare che questa azione può non meritare alcuna accusa di colpa né alcun biasimo, secondo il modo di pensare di tutti i filosofi antichi». Nel ‘corollario generale’ a conclusione della Storia naturale della religione, Hume ammette che «una finalità, un piano, un disegno» contrassegnano le comuni opere della natura e inducono ad accogliere l’idea di un loro autore. Constata, tuttavia, come tale immagine d’un artefice venga «sfigurata nelle nostre rappresentazioni. Quanti capricci, quante assurdità e immoralità le vengono attribuite! Come è degradata, anche al disotto dell’indole degli uomini ai quali di solito, nella vita comune, attribuiamo buon senso e virtù!». È questa immagine degradata e sfigurata dell’Autore onnipotente che viene convocata a interdire la libertà di chi «perseguitato dai dolori e dalle miserie, coraggiosamente supera tutti i terrori naturali di cui la morte si circonda, ed evade da questa scena crudele». Il lavoro dell’uomo costantemente agisce a mutare, costruire e demolire il mondo creato senza che questo venga giudicato «un usurpare l’opera della provvidenza, disturbare o alterare» le leggi generali della natura.
Del resto, argomenta Hume, «se fosse il disporre della vita umana riservato all’opera particolare dell’Onnipotente al punto da divenire un’usurpazione dei suoi diritti, per gli uomini il disporre delle loro esistenze, sarebbe ugualmente criminoso agire per la salvezza della vita come per la distruzione di essa».
E’ da un po’ di mesi che mi imbatto nel pregiudizio che ” chi si suicida ” deve essere in qualche modo
” fuori di testa” e in questo senso, lo si compiange come un inferiore. Si cerca un modo di scusarlo. La volta scorsa, in una visita di controllo, ho chiesto allo psichiatra quale fosse l’opinione dei professionisti della mente : ” Se uno è malato di mente, lo è indipendentemente dal fatto che commetta suicidio o no.” Questo articoletto che ho trovato su Il Manifesto, mi ha erudito sulla radice profonda che caratterizza la nostra cultura di base. E’ un’ingiuria a Dio, al quale non sembra interessare la tragica situazione del morente. Al di sotto di questa cultura, penso ci sia un gran spavento, forse ancora di più che di fronte alla persona in delirio. La malattia mentale, uno sente che è appicicabile, muove e tocca in profondità il tuo sistema nervoso, ma la morte da’ panico e mistero. chiara