OTTO DIX: UN REAZIONARIO DI SINISTRA
“Me ne sono andato per colpa di Hitler. Perché è un pittore anche lui: e la Germania mi è sembrata semplicemente troppo piccola per tutti e due.”
(Georges Grosz)
Il 17 luglio 1937, Adolf Ziegler, presidente della Camera del Reich per l’arte figurativa, inaugurò a Monaco la mostra Entartete Kunst (Arte Degenerata) con lo scopo di gettare fango sull’opera delle avanguardie, ultimo atto di accusa al regime e alla sua ideologia.
I libri erano già stati bruciati, la musica era già stata spenta, restavano solo quei quadri che raccontavano lo scempio della giustizia, la malvagità del totalitarismo, il macello della prima guerra mondiale e la tragedia del militarismo.
Paul Klee, Max Ernst, Georges Grosz, Marc Chagall, Vasilij Kandinskij, Oskar Kokoschka e molti altri ancora vennero messi alla pubblica accusa come esempio “della follia,dell’impudenza, dell’incompetenza e della degenerazione”, artisti idonei solo a provocare, a detta dello stesso Ziegler, “sgomento e disgusto.”
Fra queste voci di opposizione figurava anche Otto Dix, crudele interprete degli orrori della grande guerra ridotto, dopo la presa del potere da parte di Hitler, a dipingere asettici ritratti di paesaggio.
Nato il 2 dicembre del 1891 a Gera, città della Turingia, Otto Dix si formò presso la Scuola d’Arte Decorativa di Dresda, che frequentò fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Non era politicamente impegnato, ma era partito entusiasta per una missione che, come tutta la sua generazione, vedeva come una necessità, un nobile ideale alimentato dalla filosofia interventista di Nietszche.
La guerra, dunque, sentita come un momento inevitabile per far risorgere l’anima tedesca più bella e più forte di prima.
Tornato dal fronte, assai scosso e turbato, Dix cominciò a dipingere le sue prime opere di contenuto anti militarista, opere da cui traspare più che orrore, un morboso compiacimento per la sofferenza e la morte.
Con sguardo lucido e glaciale egli portò la violenza ai vertici di un ideale estetico: un’agghiacciante mitizzazione delle brutture della guerra.
A tal scopo Dix trascorreva lunghe ore delle sue giornate negli ospedali per osservare e disegnare i resti di quelli che una volta erano stati esseri umani: le sue macabre ideazioni dovevano essere le più oggettive e reali possibili.
Nasceva così un nuovo espressionismo, di stampo tedesco, definito Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) dal tema della mostra tenutasi a Mannheim nel 1925.
La vena dissacratoria di Dix non si limitò a denunciare le brutture della guerra, ma si spinse ad una demonizzazione più generale della nuova società tedesca, lasciata allo sbando dopo l’acclamazione della Repubblica di Weimar.
Una società che si trovava profondamente divisa tra chi aveva vissuto passivamente la guerra, rinchiusa nei suoi prestigi nobiliari e nelle sue ricchezze economiche, e chi l’aveva vissuta attivamente, tristemente ferita nell’animo e nel fisico dall’evento: i reduci di guerra, mutilati e impossibilitati a svolgere qualsiasi lavoro, un tempo eroi della patria, ora feccia della società, inutile rifiuto umano difficile da smaltire.
NELL’AUTUNNO DEL 1925 OTTO DIX GIUNSE A BERLINO, DOVE RIMASE PER CIRCA DUE ANNI, GLI ANNI PIÙ SIGNIFICATIVI DELLA SUA CARRIERA DI PITTORE.
Berlino aveva preso il posto della Parigi di fine secolo come capitale delle tendenze culturali più moderne e alla moda.
Il senso di precarietà per la fragilità dello stato democratico funzionava da acceleratore per ogni innovazione tecnica ed artistica: Berlino era una città che bruciava tutto in fretta, dimostrando così di non avere più molte speranze per il futuro.
Di giorno c’erano i bar dove si discuteva l’ultimo libro di Mann o di Hess, di musica atonale o di Bauhaus, di psicanalisi o di teatro liberato; la sera c’erano i locali dove si ballava la fame e l’isteria, la paura e la sensualità, il panico e l’orrore.
Ovunque serpeggiava un’atmosfera di frenetico erotismo, di febbrile eccitazione, di nevrotica intossicazione: si andavano consumando gli ultimi slanci di una libertà che, di lì a poco, sarebbe stata annientata.
Con tre delle sue tele più note, Metropolis, il Ritratto della giornalista Sylvia von Harden e lo stupefacente Ritratto di Anita Berber, Otto Dix penetrò in modo esemplare l’anima di un’epoca nella sua convulsa ed isterica deriva.
“Là dove io sono, con me è la Germania. Porto dentro di me la mia cultura tedesca. Coltivo rapporti con il mondo e non mi considero spezzato.”
(Thomas Mann, 1938)
5 COMMENTS
POST A COMMENT
ELENA
Posted at 07:39h, 19 ottobre
Un bellissimo articolo. Grazie per averlo pubblicato.
BARBARAMELETTO
Posted at 13:11h, 19 ottobre
Grazie mille a te.
TOM
Posted at 08:35h, 18 aprile
Reazionario? Perchè?
BARBARA
Posted at 12:26h, 18 aprile
Harry Kessler, diplomatico e conoscitore d’arte, con queste parole definì Otto Dix: “Dix è essenzialmente un pittore reazionario di motivi di sinistra”.
Con questo intendeva affermare che la pittura di Dix, sebbene fosse rivoluzionaria, a ben guardare era molto attenta ai modelli classico-rinascimentali (in lui si ritrivano schemi compositivi di Durer, Cranach e Hans Baldung Grien) e anche la sua personalità risentiva di un attaccamento a vecchi sistemi istituzionali che fecero sì che non fosse mai politicamente impegnato. Insomma una figura sicuramente “moderna”, ma fortemente legata a strutture preconfezionate. Non so se sono stata abbastanza chiara, in caso chiedi pure. 😀
ANGELA
Posted at 21:26h, 02 giugno
Bellissimo articolo. Sono alla ricerca di informazioni sugli ultimi ritratti di questo splendido artista, in particolare sull’ auto ritratto come prigioniero di guerra del 1947.Grazie