MATTEO NUCCI (ROMA, 1970), SCRITTORE—IL VENERDI’ DI REPUBBLICA, 18 APRILE 2018 —INTERVISTA A PETROS MARKARIS in occasione del suo ultimo libro: L’università del crimine, la nave di teseo, 2018

 

repubblica.it / il venerdi’ — 18 aprile 2018

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Carri armati ad Atene durante la rivolta studentesca del 1973 (Keystone/ Getty Images)

 

 

 

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Petros Markaris, da Atene con furore

Nel suo nuovo giallo un killer fa strage all’università. E lui ne ha per tutti: Tsipras, l’Europa, Renzi, i giornali, gli smartphone… Chiacchierata con lo scrittore greco. E per niente olimpico

ATENE. «La ripresa? Figuriamoci. Hanno sostituito i numeri alle persone. Ma i numeri non dicono nulla della gente che soffre e della classe media che scompare. Che poi a far questo sia la sinistra è una vergogna. Ma lei, Mister Nucci, lo sa cosa stiamo vivendo? Glielo dico subito. Siamo tornati esattamente ai tempi dell’Impero Ottomano. I grandi proprietari andavano dal Sultano giurando fedeltà e obbedienza e in cambio ricevevano privilegi, quindi tornavano a casa, in Grecia, e facevano soffrire la gente. Questo fanno Tsipras e compagnia. Vanno a Bruxelles, ottengono benefici per pochi ricchi, tornano a casa con misure insostenibili che portano solo sofferenza».

Petros Markaris è furioso. Mi ha accolto con la gentilezza di sempre nella sua casa di Kipseli, un quartiere popolare di Atene che ama molto, fra vie pedonali, empori e bar dove a fine giornata passa il tempo con amici, negozianti e tutta quella folla tipicamente greca di gente dedita alla discussione e alla critica. È pieno di passione, Markaris (accento sulla prima A), e gli basta pochissimo per scatenarsi furibondo.

Chi conosce i suoi libri, del resto, sa bene quanto gli argomenti che lo spingono a immaginare storie per il suo alter ego, il commissario Charitos (accento sulla I), rappresentano perlopiù un portato delle situazioni di crisi sociale più delicate. Stavolta, in L’università del crimine (La Nave di Teseo, pp. 336, euro 18, traduzione di Andrea Di Gregorio), è venuto il tempo di dedicarsi, appunto, all’università. Gli omicidi che assillano il commissario di ritorno dalle vacanze estive hanno a che fare con professori che lasciano la cattedra per darsi alla politica.

«Francamente è difficile pensare qualcosa di più assurdo» mi fa servendo un caffè filtro per niente greco, «l’università in Grecia è alla canna del gas. Non ci sono fondi per gli stabili, per il materiale, per le pulizie. Eppure i professori che lasciano la cattedra per entrare in politica sono innumerevoli. Ora, io non ho nulla contro la loro presunta vocazione. Ma il dramma è che mica lasciano completamente. Si tengono il posto per quando smetteranno i panni di politico. Il che significa che vengono a mancare le possibilità di sostituire il docente che lascia. Giovani studiosi non possono essere assunti perché la cattedra è congelata e soldi per pagare un supplente non ce ne sono. Capisce il disastro? Ho fra i miei amici parecchi docenti in pensione che si offrono volontari per continuare a tenere aperti i corsi. Ma le pare possibile? Con Syriza al governo il fenomeno è diventato debordante perché si tratta di un  partito che ha rapporti profondissimi con l’Università».

Secondo Markaris tutto cominciò con la rivolta del Politecnico contro il regime dei Colonnelli, nel 1973. «Fu il nostro Sessantotto. Come nel resto d’Europa, si arrivò a un avvicinamento di docenti e studenti che da una parte ha avuto effetti positivi, dall’altra effetti nefasti. Una certa perdita di autorevolezza che oggi ha conseguenze drammatiche. Eppure io non li capirò mai questi professori che sognano un’altra vita. Fanno un lavoro bellissimo. Insegnano, formano nuove generazioni. Perché devono cambiare mestiere? Io faccio lo scrittore. Amo il mio lavoro. Sa quante volte mi hanno offerto di diventare ministro della Cultura? Ho sempre rifiutato».

La crisi dell’università, esemplare del disastro di un sistema di formazione che rischia sul lungo periodo di aumentare il dramma della disoccupazione, si affianca in questi anni a un esodo di giovani di proporzioni mostruose. Mentre gli faccio notare scherzosamente che nella realtà sono poche le figure come il suo vecchio comunista senzatetto capace di convincere Caterina, la figlia del Commissario, di non lasciare la Grecia, Markaris fa un cenno di assenso, poi avvampa e prende fuoco. «Un disastro epocale. Sono 660 mila secondo le ultime stime i giovani che hanno lasciato il Paese! Su undici milioni di abitanti. Lei capisce che si tratta di un numero sconcertante. E guardi: questa sarà veramente una generazione perduta. Chi emigrava negli anni Sessanta non aveva istruzione. Metteva via il denaro. In parte lo spediva a casa. Poi, appena era possibile, chi aveva lavorato duramente tornava in patria, apriva un hotel, una taverna, una piccola attività. Questi giovani di oggi non torneranno più. Che tornerebbero a fare? Per lavorare dodici ore al giorno con stipendi da fame? Parlo di duecentocinquanta euro al mese, e non sto scherzando. Che tornerebbero a fare? Resteranno in Cina, Germania, Australia o dovunque siano emigrati. E noi, qui, con la crisi delle nascite che è un altro grosso problema, mancheremo di un’intera generazione. Mi sa dire che futuro possiamo immaginare?».

Il futuro, per Markaris, è il dominio della mentalità protestante, del dio danaro e della globalizzazione. Dico bene? «Quasi» fa lui «La globalizzazione è una realtà a cui era impossibile sfuggire, dopo il 1989. Ma il dramma è che dietro c’è un problema di regole. La deregulation è il vero disastro. Si è creato uno stato di fatto insostenibile in cui tutti fanno quel che vogliono, i detentori dei grandi capitali non pagano tasse, i paradisi fiscali dettano legge, e l’Europa? L’Europa non muove un dito. Si limita a osservare. A dettare piccole leggi insopportabili mentre sui grandi temi… Lasciamo stare. Sa come s’intitola il libro a cui sto lavorando ora? L’età dell’ipocrisia. Quando ascolto i discorsi di Juncker, quando vedo quello a cui sta portando il liberismo selvaggio, no guardi vengo preso dalla disperazione».

Un po’ di speranza potrebbero portarla le grandi inchieste, una stampa non acquiescente, forte. «Ma lei, Mister Nucci, la vede in giro? Il giornalismo ha raggiunto un punto così basso che è diventato ininfluente. Il suo declino è dovuto ai social media – così dicono. Io dico che è dovuto all’incapacità di fare quel che diceva lei, lavorare seriamente, continuare nelle inchieste. E soprattutto nel non accettare la sfida di internet. Se vuoi competere con internet hai perso in partenza. Devi vincere la tua partita su un altro piano. Oggi si può leggere ancora soltanto il New York Times e in Europa il Guardian. Neppure più Le Monde che una volta amavo molto. Ma lasciamo perdere, mi dica piuttosto che succede da voi. Chi lo farà il governo? Renzi ha distrutto la sinistra, eh? L’ha completamente demolita. Impressionante e inaccettabile».

Tento qualche disperata analisi e Markaris stavolta se la ride. Poi torna serio e s’infiamma di nuovo quando ricominciamo a parlare di Europa, visto il successo ovunque degli antieuropeisti. «Qui siamo al grottesco. Gli esseri umani sempre si accorgono di quel che hanno perso a posteriori. Con l’Europa probabilmente sarà lo stesso. Ci accorgeremo che si trattava di un progetto meraviglioso solo quando sarà perduto definitivamente. Purtroppo la cecità di politici e burocrati in questo senso è completa. Non capiscono che ci vuole politica, primato della politica, ossia idee, strategie e non solo economia. A volte ascolto Putin e mi domando perché non si accorgano che lui perlomeno fa politica, ha una visione, idee contestabili quanto si vuole, ma idee. Qui solo parole e mercati». E su tutto l’ipocrisia che racconterà nel suo nuovo libro? «L’ipocrisia cresce quando mancano le idee. Una volta c’era la Francia. Vede, la Germania non vuole l’egemonia politica. Alla Germania basta l’egemonia economica. Per la politica demandava alla Francia. Poi fra Sarkozy e Hollande… Per questo adesso sperano tutti in Macron. Staremo a vedere. No, non ho tante speranze. Sono un ottantunenne greco di Costantinopoli. Ho vissuto e lavorato in Germania. Sono venuto a vivere qui, in questa città che amo moltissimo, per scrivere nella mia lingua. Nei mercati, nei bar sento ancora echeggiare i suoni e gli odori di quella che per noi è semplicemente la Polis, mai Istanbul. Cosa vuole che le dica? Quando vedo due ragazzi innamorati che si tengono per mano e camminano per strada e ciascuno guarda nello schermo del suo smartphone mi pare che prospettive non ce ne siano più».

Sul Venerdì del 27 aprile 2018

 

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 Matteo Nucci (Roma, 7 ottobre 1970) è uno scrittore italiano.

 

 

 

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