CARLO GINZBURG, LA FRAGILITA’ DELL’ARTE, REPUBBLICA 26 MARZO 2019 ++ UN ARTICOLO DE IL CORRIERE, 8-05-2009, IN CUI DINO MESSINA RIFERISCE CARLO GINZBURG CHE PARLA DEL PADRE, LEONE CHE MORIRA’ IL 5 FEBBRAIO 1944 NELL’INFERMERIA DI REGINA COELI IN SEGUITO ALLE PERCOSSE SUBITE DURANTE UN INTERROGATORIO DEI NAZISTI

 

 

REPUBBLICA DEL 26 MARZO 2019

https://quotidiano.repubblica.it/edizionerepubblica/pw/flipperweb/flipperweb.html?testata=REP&issue=20190326&edizione=nazionale&startpage=1&displaypages=2

 

Il caso

LA FRAGILITÀ DELL’ARTE

Carlo Ginzburg

 

La polemica sul prestito delle Sette Opere di Misericordia di Caravaggio negato alla mostra che si aprirà al museo di Capodimonte ha assunto toni molto accesi. Non voglio entrare nel merito della vicenda; penso però che sia opportuno discutere alcune questioni, estremamente complesse, che essa solleva.

Comincio col ricordare un’ovvietà: il quadro di Caravaggio è un oggetto a) materialmente fragile, b) unico. Ma l’unicità di quest’oggetto non è un dato irrevocabile: è legata a una serie di fenomeni storici così profondi, così radicati nella nostra cultura, che qualcuno può darli per scontati. Possiamo immaginare una società in cui, tra un originale di Raffaello e una sua copia cinquecentesca, oppure tra un originale e una sua riproduzione digitale, non esista alcuna differenza, nemmeno dal punto di vista del mercato. Si tratterebbe di una perdita culturale enorme: e tuttavia sarebbe assurdo usare quest’argomento per negare l’utilità delle riproduzioni di immagini, resa possibile da nuove, più raffinate tecnologie. Ma dobbiamo renderci conto che l’accessibilità delle immagini in Rete sta già attenuando, per la generazione più giovane, la distinzione tra originale e riproduzione. Quali siano gli sviluppi di questa tendenza è impossibile dire.

Lasciamo da parte un futuro più o meno immaginario e torniamo al presente. Gli originali sono minacciati dalle riproduzioni (di cui nessuno nega l’utilità). Ma sono minacciati, nella loro fragilità, dagli spostamenti legati alle mostre. Anche qui, negare in assoluto l’utilità delle mostre sarebbe assurdo; ma sarebbe altrettanto assurdo sostenere che tutte le mostre siano ugualmente utili. Spostare le opere ( che so, le Sette Opere di Misericordia di Caravaggio o la Santa Cecilia di Raffaello) oppure chiedere al pubblico di spostarsi per vederle, addirittura entro la stessa città? Bisognerà decidere caso per caso. Certo, la fragilità delle opere non andrà dimenticata. Nella discussione sulle Sette Opere di Misericordia di Caravaggio si è usato il termine ” conservatrice” in senso negativo, come se la conservazione e la tutela delle opere fossero un fatto “elitario”.

Aspettando che la mostra sul periodo napoletano di Caravaggio apra i battenti è possibile visitare, al museo di Capodimonte, un’altra mostra: Depositi. Uno dei pannelli s’intitola “Depositi lancia il progetto digitalizzazione”. Leggiamo: “La storia dell’arte è sempre stata legata alla fotografia e le immagini ad alta definizione rappresentano una rivoluzione nella disciplina”.

” Sempre”? E Vasari? E Winckelmann? Si rimane senza parole. Qualcuno dirà: non facciamola lunga, è soltanto un lapsus. Ma è un lapsus estremamente significativo. La storia dell’arte viene mutilata da un presente che si cura sempre meno della fragilità delle opere, forte della loro crescente riproducibilità. Due fenomeni opposti, due facce della stessa medaglia.

Alla mostra che si aprirà a Capodimonte le Opere di Misericordia di Caravaggio si vedranno ” in altissima risoluzione”. « È una soluzione che ci consente di spiegare anche l’evoluzione dello sguardo sull’arte» informa il direttore del museo ( la Repubblica, 20 marzo). «Si pensi alla fotografia, oggi agli smartphone».

Benissimo. A patto di non dimenticare la differenza tra originali e riproduzioni. Tutto ciò, si dirà, è banale. Ma rendiamoci conto che quella differenza è, oggi, fragile e minacciata.

 

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LEONE GINZBURG E NATALIA

 

 

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Carlo Ginzburg (Torino,  1939) è uno storicosaggista e accademico italiano.
Figlio di Leone e Natalia Ginzburg, entrambi ebrei, studiò all’Università di Pisa e alla Scuola Normale, quindi al Warburg Institute di Londra; ha insegnato Storia moderna all’Università di Bologna e poi a Harvard (Boston), Yale (New Haven), Princeton e UCLA (Los Angeles dove fu anche titolare di una cattedra di Storia del rinascimento italiano). Dal 2006 al 2010 ha insegnato Storia delle Culture Europee alla Normale di Pisa.

Carlo Ginzburg storico e saggista interviene sulla polemica sulle “Sette Opere di Misericordia” di Caravaggio sollevata da “Repubblica” Il suo ultimo libro è “Nondimanco” (Adelphi, 2018)

 

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IL CORRIERE 8 MAGGIO 2009

Carlo Ginzburg: mio padre Leone filologo della libertà

 

“Fare cultura in un paese dominato” è il titolo dell’incontro dedicato a Leone Ginzburg a cento anni dalla nascita sabato 16 maggio nella sala rossa del Lingotto nell’ambito della Fiera del libro di Torino. Interverranno Luisa Mangoni e Domenico Scarpa, coordinamento di Walter Barberis.Ripropongo qui l’intervista realizzata per il Corriere del 1° maggio con lo storico Carlo Ginzburg, che per la prima volta ha parlato del padre. 

 

 

BOLOGNA – «Mi terrò lontano dall’ambito del privato». Con questa precisa indicazione comincia la prima intervistacarloginz.jpgche Carlo Ginzburg, uno dei maggiori storici italiani, il più noto in campo internazionale, abbia mai dedicato a suo padre Leone.
Figura cruciale dell’antifascismo e della cultura italiana fra le due guerre, uno di quei personaggi che hanno avuto una vita breve e intensa, come Piero Gobetti (che non conobbe) e Giaime Pintor, che invece incontrò nei primi anni Quaranta, Leone Ginzburg nacque a Odessa il 4 aprile 1909 e morì nell’infermeria del carcere di Regina Coeli in seguito alle percosse subite durante un interrogatorio da parte dei nazisti il 5 febbraio 1944. Arrivato a Torino a quindici anni,  superò gli esami di ammissione al liceo Massimo D’Azeglio e continuò il brillante percorso di studi con ragazzi che si chiamavano Norberto Bobbio, compagno di classe e coetaneo, Cesare Pavese, di un anno più grande che lo avrebbe considerato come il suo migliore amico, Massimo Mila, Giorgio Agosti, Vittorio Foa, Carlo Dionisotti, Giulio Einaudi, cui avrebbe ispirato la fondazione nel 1933 della casa editrice. Un gruppo in cui svolgeva la funzione di maestro e guida spirituale Augusto Monti.
«Augusto Monti – dice Carlo Ginzburg – commentava il “Breviario di estetica” di Benedetto Croce, che per quei ragazzi fu la via verso l’antifascismo». Come ha notato Norberto Bobbio nella introduzione agli “Scritti” di Leone Ginzburg editi nel 1964, Einaudi,  «l’adesione a Croce ci faceva sentire estranei alle convenzioni». La precocità intellettuale, politica e persino morale è sottolineata in questo saggio di Bobbio: «La sua sicurezza era frutto non soltanto di una cultura più ampia e più solida, ma anche di una consapevolezza del proprio compito». Non ancora finito il liceo, Leone si mise a tradurre “Taras Bul’ba” di Nikolaj Gogol, poi avviò una versione di Anna Karenina e scrisse un’introduzione a “Guerra e pace” di Tolstoj. Si laureò con una tesi su Maupassant e andò maturando le convinzioni politiche sulla scorta delle discussioni avute con Carlo e Nello Rosselli a Parigi. Ma prima del 1931, anno in cui ottenne la cittadinanza italiana, non si espose pubblicamente. «Fu Vittorio – ricorda Carlo – a segnalarmi l’importanza di questo punto. Mio padre era finito in Italia un po’ per caso ma non tanto, perché suo padre naturale era ebreo di origini italiane e la famiglia aveva passato alcuni periodi di vacanza a Viareggio. Poi però aveva scelto di esserlo e questa decisione fu fondamentale nella costruzione della personalità intellettuale e del percorso politico. Lui, al pari di Vittorio Foa, che ne parla esplicitamente nelle lettere dal carcere, aveva un legame fortissimo con il Risorgimento. Quando era al confino a Pizzoli, il paese vicino all’Aquila dove era stato mandato dopo lo scoppio della guerra, lavorava a una raccolta di scritti sul Risorgimento, di cui è rimasto il saggio “La tradizione del Risorgimento”, che esprime quanto fosse forte il legame di una generazione con quel periodo della storia d’Italia. Di fronte all’ignomia delle leggi razziali, Vittorio Foa e mio padre ebbero reazioni simili: le considerarono un tradimento della tradizione risorgimentale».
L’attenzione al Risorgimento andava di pari passo con gli studi sull’Ottocento: «Curò un’edizione dei “Canti” di Leopardi per la collana Scrittori d’Italia di Laterza fondata da Croce e stava lavorando a un libro su Manzoni che è andato perduto quando lasciò Pizzoli dopo l’8 settembre 1943 per andare a Roma a dirigere l’edizione clandestina dell’”Italia libera”, giornale del Partito d’Azione.

L’Ottocento italiano veniva messo a confronto con quello russo: così nacquero i paralleli Puskin-Manzoni e il saggio “Garibaldi e Herzen”. La scelta di essere italiano venne rinnovata quando dopo le leggi razziali gli arrivò dagli Stati Uniti, credo attraverso Max Ascoli e la fondazione Rockefeller, l’offerta di espatriare. Lui rifiutò, il suo posto era qui».
Di quel periodo a Pizzoli Carlo Ginzburg conserva una foto appesa di fianco a una delle librerie della grande casa bolognese che lo ritrae bambino di due anni, con una matita in mano, in braccio al padre. Sul retro c’è un messaggio di Leone al filologo Santorre Debenedetti, che in quel periodo era il direttore occulto, per via dei divieti razziali, della collana di classici Einaudi. A Pizzoli Leone era stato raggiunto dalla moglie Natalia, la scrittrice da cui ebbe tre figli.
«Leone, la sua passione vera era la politica – scrive Natalia in “Lessico famigliare” -. Tuttavia aveva, oltre a questa vocazione essenziale, altre appassionate vocazioni, la poesia, la filologia e la storia». Quali di queste vocazioni era la più forte? «Il letterato e lo storico erano molto intrecciati. Resta il problema di capire se la vocazione politica fosse imposta dalle circostanze, dall’esigenza morale di contrapporsi al fascismo o se fosse qualcosa di originario. Per rispondere a questa domanda di nuovo mi viene in mente Vittorio Foa e quel che mi disse una volta in cui mi parlava di Piero Gobetti. Però tuo padre era un filologo, mi disse. Questa vocazione alla filologia non emerse subito, ma negli anni, grazie al decisivo incontro con Santorre Debenedetti, che dopo Croce, con cui mio padre ebbe un rapporto intenso e diretto, divenne il suo secondo maestro. Forse “il maestro”. La vocazione di filologo in qualche modo definisce un atteggiamento che si può trovare sia negli studi sulla letteratura sia in quelli di storia, e paradossalmente, anche nell’atteggiamento di fronte alla politica. Mi spiego: la filologia non nel senso tecnico ma nel senso stabilito da Giovan Battista Vico (qui tra i libri di mio padre conservo un’edizione della “Scienza nuova”) definisce una sorta di abito mentale di chi ascolta e interpreta la voce degli altri, del passato ma anche dei contemporanei, senza prevaricare. A me pare di aver riscontrato questo atteggiamento anche nello scritto politico del 1932, “Viatico ai nuovi fascisti”, di cui ha parlato Carlo Dionisotti negli “Scritti sul fascismo e sulla Resistenza” a cura di Giorgio Panizza. A proposito delle iscrizioni forzate al Partito nazionale fascista dei dipendenti pubblici mio padre scriveva: “Le settecentomila persone che sentono come un marchio questa iscrizione forzata al Partito nazionale fascista hanno modo di non dare al fascismo che il guadagno del prezzo annuale della tessera. Dinanzi alla loro vendetta Mussolini si avvedrà di quel che significhi ridurre la gente per bene alla vergogna e alla disperazione”. È un discorso duro e generoso: io non faccio le vostre scelte ma non condanno moralisticamente le vostre, a patto che esse non diventino un alibi per una vita di compromessi». Nel 1934 dopo aver lanciato quell’appello Leone Ginzburg avrebbe lasciato il posto di libero docente di letteratura russa per il rifiuto a prestare fedeltà al fascismo e nel novembre di quell’anno sarebbe stato arrestato e mandato in carcere a Cvitavecchia per due anni.
Il rispetto filologico e la leadership di Leone Ginzburg si vedono soprattutto nella collaborazione alla neonata Einaudi: «Gli studi di Luisa Mangoni lo hanno dimostrato inequivocabilmente e lo stesso Giulio Eianudi lo riconobbe più volte: mio padre uscito di prigione diede un’impronta decisiva alla casa editrice che si sarebbe mantenuta per decenni con la crezione della Biblioteca di cultura storica, le collane Classici stranieri tradotti, i saggi, Classici italiani. Le “Rime” di Dante annotate da Gianfranco Contini erano una via di mezzo tra i classici Laterza privi di note critiche e quelle edizioni in cui i commenti erano preminenti rispetto al testo. La vocazione filologica lo portò a criticare le straordinarie traduzioni che Giaime Pintor aveva fatto delle poesie di Rainer Maria Rilke».
Giaime sarebbe morto il 1° dicembre 1943 nel tentativo di attraversare sul Volurno le linee naziste e a unirsi alla Resistenza Romana. Leone era stato catturato il 20 novembre nella tipografia dell’”Italia libera”. Diede il falso nome di Leonida Gianturco ma fu riconosciuto perché già schedato e consegnato ai nazisti. «Sandro Pertini – ricorda Carlo – ha scritto nella sua autobiografia “Sei condanne e due evasioni” che mio padre dopo l’interrogatorio, con il volto tumefatto, gli disse: non dobbiamo odiare i tedeschi. Perché questa questa frase? Io mi sono dato due spiegazioni. La prima si riferisce alle sue convinzioni politiche per la costruzione di un’Europa federalista, in cui la Germania avrebbe naturalmente avuto un posto importante. La seconda è contenuta nell’ultima lettera scritta a mia madre e raccolta nel volume “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana”. In essa mio padre invitata al distacco e scriveva: “Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali di fronte al pericolo personale». Leone Ginzburg volle mantenere fino all’ultimo il distacco del filologo.
Dino Messina

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