REPUBBLICA DEL 28 MAGGIO 2019 –p. 22
REGNO UNITO
Londra, non solo Farage “Pro-Ue la maggioranza”
Nonostante il trionfo sovranista, le forze europeiste superano il 40% Ora il leader Labour chiede un “secondo referendum” sulla Brexit

Nigel Paul Farage (Londra, 1964)
dal nostro corrispondente Antonello Guerrera
LONDRA — Il trionfo di Nigel Farage alle elezioni europee nel Regno Unito ha oscurato un’altra, silenziosa vittoria. Quella degli europeisti. Già, perché il neonato Brexit Party ha travolto tutti con il suo incredibile 31,6% e 29 seggi a Strasburgo (primo partito con la tedesca Cdu). Ma se Oltremanica si sommano i voti ottenuti dalle liste espressamente anti-Brexit e pro secondo referendum, queste sfondano quota 40%. E cioè: i liberaldemocratici, che con il loro 20,3% hanno scalzato i laburisti al secondo posto; i verdi al 12,1%; lo Scottish National Party (3,6%) al potere in Scozia e prossimo a innescare un’indipendenza unilaterale pur di restare nell’Unione europea; il deludente Change Uk (3,4%) che aveva accolto i delusi Labour e Tories; e infine gli indipendentisti gallesi pro-Ue di Plaid Cymru (1%). Al contrario, il blocco eurofobico non arriva al 35% (Brexit Party più estrema destra Ukip al 3,3%).
Da questo computo rimangono fuori i disastrati partiti tradizionali, ossia i conservatori della premier uscente Theresa May, sprofondati al 9% e i laburisti sgonfiatisi a un misero 14%. Per quanto riguarda i Tory, il partito non ha mai avuto una linea ufficialmente euroscettica neanche al referendum 2016, tanto che gli ultimi due premier (May e Cameron) erano per restare in Ue. E ancora oggi il sinistrato partito ha tante anime al suo interno difficili da sintetizzare in una linea univoca: il disastro sulla Brexit del governo May ne è la prova. Ancora più indecifrabile è il Labour, da mesi dilaniato da dilemmi e correnti interne, oltre che dai vacui equilibrismi del leader Jeremy Corbyn che hanno alienato sia gli elettori pro che anti Ue.
Dopo i risultati di domenica, il Labour è scivolato in uno psicodramma che potrebbe spezzare la leadership di Corbyn. Certo, come diceva Ronald Reagan, «se devi spiegare, perdi», mentre gli slogan facili di Farage vincono. Ma le ambiguità del leader sull’“irreversibile” Brexit sono state venefiche: il Labour è riuscito a perdere roccaforti del nord industriale come Leeds e Wigan, zone del Galles dove dominava da quasi un secolo, è praticamente scomparso in Scozia, è stato spodestato dai libdem nella “Mecca” Londra e qui ha capitolato addirittura nella circoscrizione di Corbyn, Islington. A Chesterfield, prima del voto di giovedì, alcuni attivisti Labour si sono messi a fare campagna per i lib-dem.
Insomma, una catastrofe disarmante per il sonnambulismo politico che l’ha provocata. E così, vedendo l’eccezionale performance dei partiti anti-Brexit, domenica notte Corbyn s’è svegliato e su Facebook ha scritto che «la parola deve tornare al popolo: elezioni o nuovo voto». Ieri mattina è andato oltre: «Serve un referendum su qualsiasi accordo approvato dal Parlamento», come ha scritto anche il suo giovane “Rasputin” Owen Jones sul Guardian .
Ma oramai la guerra interna al partito è iniziata: come spiegano fonti laburiste, c’è un pesante fronte europeista composto dal presidente del partito Tom Watson (figlioccio dell’ex premier Gordon Brown), il ministro ombra per la Brexit Sir Keir Starmer e la ministra ombra degli Esteri, Emily Thornberry, che ora torneranno all’attacco contro Corbyn. Può succedere di tutto. Tanto che ieri, mentre il leader insisteva sulla doppia soluzione («elezioni o secondo voto su Brexit»), persino il suo fedelissimo vice John McDonnell lo smentiva dicendo ai media che «il referendum è l’unica soluzione ». Se pure la loro “fratellanza socialista” viene meno, ora Corbyn rischia davvero grosso.
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