GIULIANO ALUFFI, IL LATO POSITIVO DELLA PIGRIZIA, REPUBBLICA–IL VENERDI’– 17 OTTOBRE 2018

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REPUBBLICA DEL 17 OTTOBRE 2018

https://rep.repubblica.it/pwa/venerdi/2018/10/17/news/il_lato_positivo_della_pigrizia-209170995/

 

 

(Getty Images)

 

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il venerdì  Scienza

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Il lato positivo della pigrizia

Lo dicono nuovi studi: dai molluschi ai mammiferi, la lentezza è utile a sopravvivere. Perciò l’attrazione per l’ozio è innata (anche se ora può risultare dannosa). E contagiosa

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Senza nulla togliere a Darwin, la “sopravvivenza del più adatto” ha fatto il suo tempo: oggi si potrebbe parlare di “sopravvivenza del più pigro”. Una serie di studi piuttosto eterogenei, che vanno dai molluschi all’uomo, suggerisce infatti che la lentezza sia un’efficace, sorprendente, strategia evolutiva. “C’è una correlazione tra la quantità di energia che si consuma quando si è a riposo, vale a dire il metabolismo basale, e la sopravvivenza a lungo termine della specie: più il metabolismo è lento, più la specie risulta longeva e capace di superare i grandi cambiamenti climatici” spiega Luke Strotz, paleontologo all’Università del Kansas. Strotz, insieme a Bruce Lieberman, docente di biologia alla stessa università, ha pubblicato su Proceedings B uno studio dove si mostra che a fare la differenza tra specie viventi ed estinte è proprio la lentezza del metabolismo, che si rispecchia in una minore velocità nei movimenti.

 

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“Per ora abbiamo verificato questa ipotesi solo su 300 specie di molluschi marini. In passato si è visto, sia nei mammiferi che nei moscerini della frutta, che più il metabolismo è rapido più è alto il tasso di mortalità individuale. Ed è possibile che questo meccanismo sia all’opera anche nell’uomo: l’antropologo e biologo Danny Longman, dell’Università di Cambridge, commentando il nostro studio, ha sottolineato che il dispendio di energie dell’uomo e in genere nei primati è più basso di quello degli altri mammiferi, e che questo potrebbe avere un legame con la nostra longevità” spiega Lieberman. “Il vantaggio del metabolismo lento è che richiede meno risorse energetiche.  E in tempi in cui è più difficile trovare cibo, come durante i cambiamenti climatici, essere più parchi nell’uso delle risorse permette di sopravvivere alle avversità”.

 

 

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Che questo valga anche per l’uomo è suggerito anche da uno studio pubblicato su Plos Computational Biology da Jean Daunizeau e Marie Devaine, ricercatori in scienze cognitive all’Inserm (Institut national de la santé et de la recherche médicale) di Parigi. La ricerca consiste in un esperimento diviso in tre fasi: dapprima si sono rivolte a 56 persone  domande come: “Correresti per due ore se ti offro 10 euro? E per 20 euro?”. Poi si è fatto vedere loro come avessero risposto gli altri. Infine si è riproposta la domanda iniziale: “Abbiamo visto che quando i partecipanti vedevano che gli altri erano in media più pigri di loro, tendevano a imitarli. Come se fossero stati contagiati” spiega Jean Daunizeau. “È un allineamento di attitudini. Così la prima cosa che viene da pensare è che, al di là delle altre influenze dell’ambiente sul nostro comportamento, se  vogliamo resistere alla pigrizia è meglio che non ci circondiamo di persone più indolenti di noi”.

 

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A collegare questo studio al discorso iniziale è il fatto che tendiamo a imitare gli altri non per un mero automatismo, ma per una questione di sopravvivenza. “In certe condizioni ambientali, ridurre al minimo gli sforzi è un vantaggio. Quindi c’è un motivo per copiare il comportamento altrui: gli altri potrebbero sapere qualcosa che noi non sappiamo, qualcosa di utile per sopravvivere” spiega Daunizeau. “C’è qualcosa nel nostro cervello che ci suggerisce che le altre persone sappiano ciò che è meglio per loro. Quindi, se ci conformiamo alla pigrizia altrui, non lo facciamo per piacere agli altri o per essere accettati – come sostiene la maggior parte della letteratura scientifica su questo tema – ma perché l’imitazione è una forma di apprendimento veloce di comportamenti vantaggiosi, che ci risparmia la fatica di dover riscoprire da zero le informazioni più utili per vivere in un ambiente”.

 

 

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Il sogno di ogni seguace di Oblomov – una giustificazione evoluzionistica per il pelandronismo – sembra trovare conferme perfino nelle neuroscienze, in particolare in uno studio appena pubblicato sulla rivista Neuropsychologia. “Abbiamo voluto indagare sul cosiddetto “paradosso dell’esercizio”: a parole, tutti dicono di voler fare attività fisica. Ma poi le statistiche mostrano che siamo sempre più sedentari. È su questo che prosperano le palestre: ci abboniamo per tutto l’anno e poi ci facciamo vedere solo qualche volta” spiega Matthieu Boisgontier, ricercatore in fisioterapia dell’Università  canadese della Columbia britannica. Per capire il perché di questo paradosso i ricercatori sono andati a investigare nel cervello, usando l’elettroencefalografia.

 

 

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“Abbiamo proposto a 29 adulti, su un monitor, figure stilizzate che rappresentavano l’esercizio fisico (una bicicletta e una rampa di scale) o l’ozio (un’amaca). E abbiamo chiesto loro di muovere, mentre erano sotto encefalogramma, l’omino che, sullo schermo, li impersonava, prima verso la bicicletta e lontano dall’amaca, e poi viceversa” racconta Boisgontier. “Si è visto che i partecipanti all’esperimento erano più veloci nell’avvicinarsi alla bicicletta che all’amaca, e più veloci nell’allontanarsi dall’amaca che dalla bicicletta. Quindi, almeno al livello delle intenzioni, sembravano tutti persone sportive. Ma l’elettroencefalogramma ci ha mostrato un’altra cosa importante, che svela un automatismo inconscio del nostro cervello: nell’allontanarsi dall’amaca, si vedeva un’impennata nello sforzo cerebrale. In particolare diventavano iperattive le regioni cerebrali legate all’inibizione dei comportamenti e quelle legate alla gestione del conflitto. Come se avessimo una resistenza innata ad allontanarci dalla pigrizia e fosse necessaria una “battaglia” cerebrale per farlo”.

 

 

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Una resistenza all’idea di faticare che arriva da lontano. “Ci è stata preziosa lungo la storia dell’umanità perché ci ha resi più efficienti – ovvero ci ha portati a minimizzare allo stretto necessario gli sforzi utili a raggiungere un risultato – in ciò che facevamo, dal trovare il cibo all’evitare i predatori”. Con la regola d’oro, però, che gli eccessi sono sempre deleteri. Uno studio pubblicato due mesi fa dall’archeologo Ceri Shipton su Plos One suggerisce infatti l’idea che a Saffaqah (Arabia Saudita) l’Homo erectus se la sia passata peggio rispetto ai Neanderthal e ai Sapiens, estinguendosi presto in quella località, perché si accontentava delle pietre più vicine per costruire i suoi utensili, pur di non inerpicarsi su una vicina collina per recuperare le pietre di maggior qualità.

 

 

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Eccessi di indolenza a parte, una delle maggiori differenze tra il nostro passato preistorico e la contemporaneità è che oggi la minimizzazione degli sforzi non è utile a tutti indiscriminatamente, ma solo ad alcune categorie di persone. “Come gli sportivi professionisti: un giocatore di basket deve tendere verso la massima efficienza dei movimenti se vuole avere fiato anche negli ultimi minuti della partita. Ma, per noialtri che svolgiamo un lavoro sedentario, questo istinto a risparmiare sforzi è deleterio”. Rendersene conto è il primo passo per diventare più attivi. “Il messaggio del nostro studio non è “non è colpa nostra, siamo pigri di natura”, ma piuttosto: “Ora che sapete che c’è un’attrazione automatica verso i comportamenti sedentari, non avete più scuse. Potete decidere che è il caso di combatterla”” conclude Boisgontier. “Per esempio quando vedete l’ascensore potete pensare “Non lascerò che l’attrazione innata verso la pigrizia mi controlli. Prenderò le scale””.

 

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Fatta salva la necessità di non abbandonarsi completamente alla pigrizia, per elementari questioni di salute, è però utile salvaguardare, nel corso della giornata, qualche momento di inattività, che possa aiutarci a pianificare il futuro: quando la mente ozia pensiamo ai nostri obiettivi a lungo termine sette volte di più rispetto a quando siamo impegnati in qualche compito, come mostra uno studio del 2011 di Benjamin Baird dell’University of California. Combinando quest’ultimo risultato con il valore evolutivo della pigrizia, verrebbe da dare ragione ad Agatha Christie che, nella sua autobiografia, scrisse: “Non penso proprio che la necessità aguzzi l’ingegno. L’ingegno, per me, deriva direttamente dalla pigrizia. Dal desiderio di evitare fastidi”.

 

 

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