INTERVISTA DI BEPPE FAVA AL GIUDICE ROCCO CHINNICI DEL MARZO 1983 — DA ” I SICILIANI “— ++ UNA RECENSIONE DI GIORGIO BOCCA AL LIBRO DI NANDO DALLA CHIESA ” DELITTO IMPERFETTO “, SEGNALATO IN UN COMMENTO –DALL’ARCHIVIO DI REPUBBLICA, 1984

 

 

I Siciliani

 

29 LUGLIO 2014

Intervista al Giudice Rocco Chinnici

 

 

Intervista di Pippo Fava al Giudice Rocco Chinnici

Intervista al Giudice Rocco Chinnici, tratta da da “I Siciliani”, marzo 1983

 

 

 

– Signor giudice, lei ha ricevuto minacce di morte?

L’interlocutore sorride e per un attimo resta a guardarci con curiosità come se noi avessimo posto una domanda per scherzo. Sembra quasi voglia capire fin dove la nostra domanda possa essere ritenuta candida e non ci sia invece una punta di impercettibile sarcasmo. Continua a sorridere, però amabilmente. Fa uno strano gesto interrogativo a sua volta e risponde con una domanda: «Lei che ne pensa?»

Stiamo parlando con il giudice istruttore di Palermo, dottor Rocco Chinnici. Siamo a Siracusa in una giornata di sole e di vento subito dopo la conclusione del convegno «I giovani siciliani contro la mafia». Siamo usciti da un teatro che era gremito da almeno duemila studenti, abbiamo ancora negli orecchi e soprattutto nell’animo migliaia, decine di migliaia di parole che abbiamo ascoltato, talune inutili, altre retoriche, altre sinceramente appassionate, altre infine serie e importanti. Parole di giovani che hanno espresso il loro pensiero sulla mafia, sulla necessità di una lotta che va condotta anzitutto nelle coscienze, sui metodi stessi della lotta. In Sicilia negli ultimi mesi ci sono stati decine di convegni del genere, in cui sono state spese milioni di parole, quasi sempre le stesse. E’ come se tutta la società siciliana urlasse il suo sdegno, il suo dolore, la sua ribellione alla violenza mafiosa. Ma nella realtà tutto appare retorico: che i siciliani siano onestamente, disperatamente contro la mafia, è chiaro e saputo. Bisogna capire, e ancora stiamo cercando di capire, come i siciliani possano essere contro la mafia, con quali idee, con quali proposte, con quale intransigenza. Soprattutto i giovani. In questo stato d’animo continuiamo il nostro discorso con il giudice Chinnici, uno dei magistrati che più acutamente, con maggiore intelligenza anche giuridica, sta cercando di condurre la sua lotta. E’ un uomo che non indietreggia. Sa che ogni giudice è nel mirino della mafia e sa esattamente che, se vuole continuare ad essere giudice, cioè a campare con la sua intatta dignità di magistrato e di uomo, deve accettare questo pericolo.

 

– Giudice Chinnici, la mafia ha colpito ancora una volta e sempre con l’identica ferocia, un altro magistrato, Ciaccio Montalto, un magistrato che da anni era in prima linea nella zona di fuoco di Trapani, per la quale passa buona parte del contrabbando di droga. Era un giudice che sapeva di poter essere assassinato. Perché allora si è fatto cogliere solo e indifeso? Anche Terranova e Costa vennero colti soli e indifesi, ma erano altri tempi. Sono trascorsi due anni ma è come se fossero trascorsi due secoli. Perché Ciaccio Montalto si è fatto cogliere così indifeso?

«E’ una domanda difficile. Io opero in una sede giudiziaria diversa e quindi anche in un contesto diverso. Per quanto riguarda la protezione fisica del magistrato posso dirle che negli ultimi tempi a Palermo sono stati compiuti notevoli progressi: ci sono diverse auto blindate a disposizione, e sono anche molti gli uomini disponibili per la scorta armata. Comunque sufficienti. E’ difficile oggi ammazzare un giudice a Palermo, o comunque ucciderlo come è stato ucciso Ciaccio Montalto. Per quanto io sappia anche a Trapani ci dovrebbe essere un’auto blindata a disposizione dei magistrati. Si tratta ora di capire perché non venne utilizzata.»

– A parte l’auto blindata, resta il fatto che il giudice assassinato era solo, senza scorta.

«Spesso accade che un giudice, da solo, abbia più mobilità, più possibilità quindi di sfuggire a un agguato. Ma queste sono ipotesi. Io conoscevo Ciaccio Montalto per il suo coraggio e soprattutto per l’impegno che egli poneva contro la criminalità politica. Per lui non solo il terrorismo, ma anche la mafia era criminalità politica. Ebbi occasione di discutere questo aspetto del nostro lavoro pochi giorni prima che fosse assassinato, proprio al convegno di coordinamento fra magistrati impegnati in questo tipo di lotta. Ed era soprattutto un magistrato il quale credeva in una profonda riforma dei metodi di lotta alla mafia. Era convinto che uno strumento essenziale di lotta alla mafia fosse la cosiddetta legge La Torre. La mafia ne avrebbe subito un colpo mortale.»

 

– Ecco, giudice, ma secondo lei che ogni giorno si ritrova dinnanzi questa forza oscura e crudele che sembra onnipossente nella nostra società, cos’è realmente la mafia?

«Potrei darle un semplice giudizio storico, e dirle che da 150 anni ci trasciniamo questo fenomeno mortale nato fondamentalmente dalla necessità di difendere comunque la proprietà, e dunque anche il privilegio, contro qualsiasi stravolgimento della società, dal banditismo, alle scorrerie dei briganti, alla miseria dei contadini che si trasformavano in predoni, alla stessa evoluzione della società. La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza.»

– E in questa definizione, in questa immagine è possibile inserire l’ipotesi di un connubio costante fra mafia e politica?

«La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere. Se lei mi vuole chiedere come questo rapporto di complicità si concreti, con quali uomini del potere, con quali forme di alleanza criminale, non posso certo scendere nel dettaglio. Sarebbe come riferire della intenzione o della direzione di indagini.»

– Nella intervista resaci il mese scorso dalla figlia del generale Dalla Chiesa, la giovane donna affermò senza mezzi termini che l’assassinio del padre era stato un fatto politico e che anche il dopo assassinio viene manovrato da una sorta di grande puparo politico, una specie di grande vecchio della mafia, in altre parole un burattinaio che tira le fila della mafia. Può essere che egli sia a Palermo, può essere che sia a Roma. Lei è d’accordo?

«Non so in quale contesto Rita Dalla Chiesa situi questo personaggio, a quali livelli di potere, e con quali interessi. Non basta una definizione del genere. Bisognerebbe chiarire o comunque approfondire questo pensiero. Una cosa è certa, e su questo sono d’accordo con Rita Dalla Chiesa: esiste una connessione profonda fra mafia e politica, e può anche essere che l’assassinio del prefetto sia soprattutto un delitto politico. Può essere, ripeto, ma non è detto che lo sia! E’ stato detto tutto e il contrario di tutto, anche che Dalla Chiesa sia stato ucciso perché oramai sapeva troppe cose, oppure anche perché voleva fare troppe cose. Per ogni ipotesi può cambiare il mandante.»

– Ecco, torniamo alla legge La Torre. Lei ritiene veramente che essa abbia questa straordinaria validità che molti magistrati le attribuiscono?

«Senza dubbio! La legge antimafia recentemente approvata è certamente uno strumento di eccezionale validità, soprattutto se utilizzata con vigore, lucidità, intelligenza e implacabile decisione. Essa permette infatti l’uso di mezzi e strumenti che possono colpire il mafioso nel cuore stesso della sua attività: le indagini nelle banche, il controllo sugli appalti e sub-appalti. C’è un’altra norma particolare e importante che mette in condizione il magistrato di procedere contro il criminale per il semplice reato di associazione mafiosa, quando un cumulo di affari e di solidarietà a delinquere possa configurare questo particolare tipo di reato. Insomma nel passato, ras mafiosi notoriamente riconosciuti come tali e coinvolti in tutti i loschi affari, riuscivano quasi sempre a sfuggire alla giustizia per la mancanza o la certezza delle prove. Molti mafiosi che erano sicuramente autori degli omicidi imputati riuscivano a cavarsela con una assoluzione dubitativa. Non solo tornavano in libertà, ma il loro prestigio risultava sempre accresciuto. Ora c’è la possibilità di incriminarli egualmente per il reato di associazione mafiosa che consente quanto meno di paralizzare la violenza dell’individuo e portarlo dinnanzi alla giustizia. Ma onestamente la sola legge La Torre non basta a contenere il fenomeno mafioso e aggredirlo in tutte le sue manifestazioni: abbiamo bisogno di mezzi che non siano soltanto giuridici, ma debbono essere anche strumenti concreti di lotta, intendo dire l’aumento dell’organico nelle varie sedi giudiziarie, l’aumento degli stessi organici di polizia giudiziaria attualmente insufficienti a far fronte alle necessità. Basti dire che gli organici giudiziari di Palermo sono gli stessi di quindici anni fa al cospetto di una criminalità organizzata che ha moltiplicato invece la sua potenza. Infine è necessario istituire la banca dei dati, ed è questa una drammatica necessità che abbiamo rappresentato anche al Capo dello Stato proprio in occasione dei funerali del povero Ciaccio Montalto. Oramai la mafia ha ramificazioni in tutta Italia, conseguenza di quella sciagurata politica del confino, che non solo non eliminava il mafioso dalla società, ma lo metteva in condizione di inquinare un territorio fin’allora sano della nazione. Spedire un mafioso in Toscana, o Piemonte, o Veneto e pensare che se ne stesse quieto a fare il bravo cittadino fu una illusione micidiale. Il mafioso resta tale in qualsiasi tempo e contrada e dovunque egli si trovi continuerà a esercitare la sua attività criminale. Se non ha alleanze, se le trova, se non ha complici li cerca. Inquina, ammala, contagia. Con l’istituto del confino abbiamo esportato la mafia in tutto il Paese e quindi esiste la necessità di uno strumento più moderno, appunto la banca dei dati, che metta in condizione di sapere istantaneamente chi sono i personaggi implicati nei vari delitti mafiosi e quali eventuali collegamenti possano esserci fra di loro. Lo Stato deve intervenire concretamente e con spirito moderno anche nella struttura tecnica della lotta. Finora è stata fatta quasi sempre soltanto accademia. Viviamo in una società malata di cui non conosciamo le proporzioni della malattia, la gravità, le dimensioni del contagio. Pensi che, dopo tanti anni, abbiamo potuto capire che i miliardi sperperati mafiosamente nel Belice non erano soltanto due, ma otto. E forse i conti dovranno ancora crescere.»

 

– Crede in una legge sul mafioso pentito, cioè una legge che possa dare gli stessi risultati di quella sul terrorista pentito?

 

«Io non credo al pentimento del mafioso. Il mafioso è un personaggio diverso dal terrorista. Il mafioso è un individuo che si porta appresso da sempre la vocazione alla violenza e al crimine. Non ha senso morale, e quindi non può avere pentimento. Tuttavia può esserci un mafioso che sapendo di essere stato condannato a morte da un gruppo avversario, per scampare alla condanna si aggrappi disperatamente all’unica forza possibile che possa proteggerlo, cioè proprio allo Stato e alla Giustizia che ha sempre disprezzato. La Giustizia è la sua ultima spiaggia. In tal senso può essere utile e opportuno prevedere una congrua diminuzione di pena per un mafioso il quale sia deciso a contribuire alla Giustizia purché naturalmente il suo contributo sia effettivo e valido. Ben venga quindi una legge sui mafiosi pentiti. Non premierà una redenzione morale ma una collaborazione dettata dal terrore. Ma tutto è utile per lottare la mafia.»

 

– Il giudice Ciaccio Montalto è stato ucciso prima ancora di potere concludere delle indagini decisive sul contrabbando della droga, cioè di avere elementi decisivi che si sarebbe portato appresso nella sua nuova sede di Firenze. Quale è stata la reazione dei giudici del trapanese: rassegnazione, collera, impotenza, paura?

 

«Paura e rassegnazione mai. Dalla morte del loro collega i giudici di Trapani hanno tratto motivo umano e morale per continuare, anzi per accanirsi maggiormente nella lotta e proseguire le indagini in tutte le direzioni. La reazione a Trapani è stata la stessa che ha praticamente esaltato i giudici di Palermo dopo le ultime terrificanti imprese della mafia nella capitale. Questo è un messaggio onesto e chiaro e cosciente che posso lanciare alla mafia: Noi giudici siciliani non ci arrenderemo mai. Non avremo mai rassegnazione o paura. Per ognuno che cade ce ne sono altri dieci disposti a proseguire con maggiore impegno, coraggio, determinazione.»

 

– Nel suo intervento dinnanzi alla assemblea dei giovani studenti di Siracusa lei ha voluto soprattutto sottolineare il pericolo della droga. Anche questo vuole essere un messaggio?

 

«Io credo nei giovani. Credo nella loro forza, nella loro limpidezza, nella loro coscienza. Credo nei giovani perché forse sono migliori degli uomini maturi, perché cominciano a sentire stimoli morali più alti e drammaticamente veri. E in ogni caso sono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia. In questo tempo storico infatti il mercato della droga costituisce senza dubbio lo strumento di potere e guadagno più importante. Nella sola Palermo c’è un fatturato di droga di almeno quattrocento milioni al giorno, a Roma e Milano addirittura di tre o quattro miliardi. Siamo in presenza di una immane ricchezza criminale che è rivolta soprattutto contro i giovani, contro la vita, la coscienza, la salute dei giovani. Il rifiuto della droga costituisce l’arma più potente dei giovani contro la mafia.»

 

 

– Le rifacciamo la domanda: Riceve molte minacce, ha paura?

 

Nemmeno stavolta il giudice Chinnici risponde. Il sorriso è lo stesso di prima, enigmatico, con una punta impercettibile di ironia, forse di malinconia. E’ un uomo, e come qualsiasi essere umano non può non avere paura. Ma è anche un giudice con l’orgoglio, la coscienza morale di essere un giudice. Cioè un uomo che agisce sempre nel nome del popolo, una moltitudine senza fine che è però sempre un’entità astratta. Un giudice, soprattutto un giudice siciliano in Sicilia, è anche sempre un uomo solo. Orgogliosamente solo.

 

 

Delitto imperfetto. Il generale, la mafia, la società italiana

Nando Dalla Chiesa

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Editore:Melampo
Anno edizione: 2007
In commercio dal: 1 luglio 2007
Pagine: 275 p., Brossura
 “Delitto imperfetto” venne scritto per denunciare la natura nient’affatto “perfetta” dell’assassinio dalla Chiesa. Venne accolto dalla più ferrea censura televisiva ma da uno straordinario successo di pubblico, trasformandosi in un prodotto “collettivo” del nuovo movimento antimafia e contribuendo a mettere a fuoco lo scenario nel quale si muovevano i protagonisti della vita nazionale. Ripubblicarlo oggi – arricchito di una nuova introduzione, sorta di viaggio inquieto dell’autore nella storia recente italiana – significa offrire a tutti, specie ai più giovani, uno strumento per capire meglio la società di ieri e di oggi, per scoprire che cosa è cambiato di quella Italia, al di là degli anniversari e dei francobolli commemorativi.
repubblica del 04 ottobre 1984

‘DELITTO IMPERFETTO’ QUEL DRAMMATICO LIBRO CHE E’ L’ ATTO D’ ACCUSA DI

 GIORGIO BOCCA

 

 

IL LIBRO di Nando Dalla Chiesa, su suo padre, assassinato dalla mafia, sta per uscire in Italia. Finisco ora di leggere il manoscritto di “Meurtre imparfait” e dico: nessuno dei personaggi altolocati che Nando Dalla Chiesa accusa di complicità morale per quell’ omicidio finirà sotto processo per questo libro, terribilmente impotente, incisivamente generico, drammaticamente allusivo.Niente prove in carta bollata, nessuna confessione di mafiosi pentiti, ma chi vorrebbe trovarsi al posto di questi signori della Repubblica visti nel loro “nido di vipere” nelle loro astuzie ciniche e servili, nei loro raffinati quanto ignobili doppiogiochi? Ce n’ è per tutti, militari e borghesi, ministri e deputati, democristiani e laici, questori prefetti e carabinieri.Nando Dalla Chiesa è uno di quei figli timidi, introversi, che in vita del padre hanno con lui un rapporto controllato, in certo modo conflittuale, mai completamente risolto; e che in morte di lui tiran fuori l’ amore e l’ ammirazione repressi. C’ è dunque nel libro quel sovratono, quella violenza, magari qua e là con gli eccessi dettati dalla passione: ma il quadro italiano che ne esce è purtroppo credibile.Nel Comando generale dei carabinieri ci sono alti gradi che non perdonano a Dalla Chiesa di essere diventato un eroe nazionale. Il generale Valditara lo relega a modesti lavori d’ ufficio, gli fa correggere i compiti degli allievi ufficiali, lo rimprovera se si permette ancora di contribuire ad azioni contro il terrorismo. Poi al Comando dell’ Arma arriva il generale Cappuzzo, attuale capo di Stato maggiore che, a dire di Nando Dalla Chiesa, usa lo scandalo P2 per tentare di espellere Dalla Chiesa dai carabinieri.

Ma la diffamazione del generale Dalla Chiesa si allarga sino alla pubblicazione di note riservate in cui si dice ingenerosamente che negli anni del terrorismo “non si era poi esposto ai pericoli più di altri ufficiali dei carabinieri”.

QUI il figlio di Dalla Chiesa attacca di petto il capo di Stato maggiore: “La mia opinione è che non gli perdonasse la popolarità e il successo, il fatto che tra i carabinieri quando si parlava del ‘ nostro generale’ , si alludesse a lui”. Questo generale Cappuzzo che “sosteneva la spersonalizzazione, batteva poi scientificamente tutta la stampa italiana, dal ‘ Corriere della Sera’ a ‘ Famiglia Cristiana’ , e quando Biagi intervistò mio padre per una televisione pretese di essere a sua volta intervistato”.

L’ attacco di Nando Dalla Chiesa a Giulio Andreotti e agli andreottiani di Palermo era scontato. Nell’ intervista rilasciata in morte del padre le sue accuse ai D’ Acquisto e ai Lima erano state esplicite. Nel libro, a sorpresa, viene fuori il nome di Giovanni Marcora, leader di Base, cui si rimprovera di aver ostacolato in diverse occasioni la concessione al generale di più ampi poteri. Ma è Giulio Andreotti a trovarsi nell’ occhio di questo ciclone filiale: “Mio padre, nell’ ultimo incontro romano, gli disse: “Non avrò riguardo per quella parte dell’ elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori” e a noi dopo il colloquio: “Sono stato da Andreotti e quando gli ho detto tutto quello che si dice sul conto dei suoi in Sicilia è sbiancato in faccia””. Non siamo in grado di dire se l’ attuale ministro degli Esteri abbia avuto o meno tale reazione etico-emotiva. Crediamo però di sapere, anche dall’ ultimo lungo colloquio con il generale, quale fosse il suo stato d’ animo arrivando, come prefetto antimafia, in una città e in una regione in cui ai vertici del potere democristiano c’ erano i D’ Acquisto e i Lima, due andreottiani su cui aveva compilato relazioni di accusa per la commissione Antimafia: leaders di una Democrazia cristiana che, a suo avviso, a Palermo era “l’ espressione peggiore del suo attivismo mafioso”. Nella sua non credibile ma autentica ingenuità il generale credeva di aver dalla sua una parte decisiva del Potere. Il ministro dell’ Interno, Rognoni, che aveva messo al corrente delle sue preoccupazioni non gli aveva forse detto: “Non si preoccupi, lei non è il generale della Democrazia cristiana”? I signori della Repubblica e del partito democristiano chiamati in causa da Nando Dalla Chiesa hanno già, a quanto si legge, “duramente smentito”. Non so però come possano smentire che uno dei Salvo, Nino, colpito da insinuazioni e allusioni per le sue complicità mafiose, e ora inquisito per associazione mafiosa, si rivolgesse in un’ intervista alla Democrazia cristiana chiedendosi “come possa ancora consentire, questo partito, alle sistematiche persecuzioni nei confronti delle forze imprenditoriali che le sono più vicine”. Questo per lo scandalo e la polemica. Per la storia c’ è una ricostruzione precisa, angosciante, implacabile di come un giusto e coraggioso si trovi man mano solo e abbandonato. Cerca un colloquio con De Mita nei giorni di una breve vacanza presso Avellino, ma non riesce a trovarlo; “e sì che Nusco è a un tiro di schioppo dalla mia campagna”. Scrive lettere al presidente del Consiglio Spadolini, implora ministri e segretari di partito, cerca di far sentire la sua voce con l’ ultima intervista. Poi viene la morte prevista e affrontata. C’ è da stupire che un figlio scriva poi questo libro di appassionata accusa?

di GIORGIO BOCCA

UN PENSIERO SU “INTERVISTA AL GIUDICE ROCCO CHINNICI”

  1. Il 3 Settembre 1982 il Generale – Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa viene ucciso dalla mafia dei Corleonesi del boss, Totò Riina.
    Da subito – leggere il libro: ” Delitto Imperfetto ” del Professore Nando Dalla Chiesa – si imputava la responsabilità di fatto sui rapporti di coesistenza tra mafia e politica. Quella politica democristiana, che aveva il Suo promotore nella corrente andreottiana, la più accreditata ad assumere la valenza di complice della morte del Prefetto, che usò la mafia per eliminare fisicamente il Generale Dalla Chiesa, e con esso le Sue conoscenze di tutta una vita trascorsa all’interno dei Carabinieri. Ma bisognava, allora?!, iniziare a fare il nome di personaggi politici, quale quello di Giulio Andreotti, il politico degli anni ottanta più influente d’Italia. Una campagna di diffamazione iniziò proprio contro i figli del Generale.
    Ucciso anche perché – come sostiene il Giudice Chinnici – “ voleva fare troppe cose”: il Prefetto della Repubblica di Palermo, Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, dal quale doveva dipendere lo Stato per fronteggiare il fenomeno mafioso, che avrebbe dovuto coordinare la lotta alla mafia poteva ridimensionare le Sue responsabilità solo una volta che il Ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, avesse deliberato ufficialmente il senso della missione assegnata. Qualora il compito fosse stato delimitato alla sola città di Palermo, penso, che il Generale Dalla Chiesa avrebbe rinunciato all’incarico.
    Inoltre per il Dottor. Chinnici, e qui ogni Procuratore Capo della Procura della Repubblica si dovrebbe assumere la propria assunzione di responsabilità, il mandante può cambiare, ma certamente, perchè in base alla latitudine il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa richiama a sé il prodromo di un ipotesi investigativa legata alla Sua figura professionale.
    Grazie!…

 

 

 

 

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  1. Donatella scrive:

    Se ancora non siamo usciti dalla terribile trappola della mafia è perché di essa è intrisa l’economia, la politica e forse anche una parte della mentalità comune.

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