SIMONE PIERANNI ( IL MANIFESTO ), VOCI DA HONG KONG, 30 AGOSTO 2019 — PUBBLICATO DA MINIMA & MORALIA

minima & moralia –30 agosto 2019

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VOCI DA HONG KONG

Pubblichiamo un pezzo uscito sul Manifesto, che ringraziamo.

 

di Simone Pieranni

 

«Sono nata e cresciuta a Hong Kong. Devo dire che gli abitanti di questa città mi hanno sorpreso ogni minuto da quando è iniziato questo movimento. Siamo uniti e connessi, anche nelle nostre differenze. E anche in strada ci siamo evoluti, siamo diventati davvero acqua. Non ho davvero idea di come finirà questa protesta, ma ho chiara una cosa: adesso o mai più. La Cina prenderà provvedimenti per limitare ulteriormente la nostra libertà? Se vogliono schierare l’Esercito di liberazione popolare facciano pure, noi siamo qui».

Li abbiamo visti scorrere per le strade di Hong Kong ricoperti di ombrelli sotto la pioggia o vestiti di nero con elmetto giallo per proteggersi dai lacrimogeni. Li abbiamo visti rendere invisibile lo scheletro urbano di Hong Kong, ricoperto dalle loro sagome e dalle loro voci e muoversi tanto in centro quanto in periferia.

Li abbiamo sentiti definirsi «acqua», prendendo a prestito una frase di Bruce Lee. E che domenica 18 agosto fossero 1,7 milioni o anche meno importa poco, perché la forza di una protesta che dura ormai da oltre undici settimane ha una sua rilevanza, specie se dall’altra parte c’è la Cina, un paese che ha raggiunto grandi risultati e che ora deve affrontare una prova di maturità non da poco.

Li abbiamo letti nei loro forum on line e nei loro canali su Telegram; dicono e ripetono di non avere un leader ma hanno saputo organizzarsi al meglio delle loro forze. Su Telegram hanno messo in piedi un coordinamento per la loro comunicazione capace di rendere chiare le richieste, consentendo anche ai giornalisti stranieri di accedere alle loro voci. Dopo alcune verifiche, non troppo paranoiche ma necessarie per evitare spiacevoli sorprese, alcuni dei protagonisti delle manifestazioni hanno accettato di raccontare quanto stanno vivendo.

C’è infatti un elemento umano che non va dimenticato in questo squarcio di Asia bizzarro e talvolta misterioso. Si tratta infatti di ragazzi e ragazze, dai 20 anni ai 40, studenti, lavoratori, precari intellettuali, che stanno affrontando una fase della loro vita scandita dall’impegno politico e da quella sensazione che pare pervadere ogni loro gesto e parola: la percezione di affrontare uno degli ultimi momenti possibili per difendere quell’autonomia che caratterizza Hong Kong e per estendere, come vuole la Costituzione, quei diritti che hanno fatto del «Porto profumato» un luogo unico al mondo, dopo un periodo burrascoso che si perde nei tempi della storia.

La guerra dell’oppio, la colonizzazione britannica, non certo più democratica dell’attuale Cina, l’handover di Pechino e la speranza, infine, di riuscire a mantenere quei caratteri distintivi che sono risuonati forte già nel 2014, quando ci furono proteste per richiedere proprio il suffragio universale.

A Hong Kong, arrivando dalla Cina, in metropolitana da Shenzhen dove oggi stazionano i tank dell’esercito cinese, benché solo come minaccia sospesa sulla città, si respira quella sensazione di come sarebbe potuta essere, o potrebbe essere, la Cina stessa.

Proprio nel mezzo delle domande e delle risposte con gli attivisti, ieri è arrivata l’apertura di Carrie Lam, al vertice del governo di Hong Kong(nominato da una sorta di comitato sempre più dipendente da Pechino).

Carrie Lam ha promesso un tavolo negoziale, lasciando intendere la possibilità di accettare alcune richieste della piazza. Le risposte dei ragazzi e delle ragazze di Hong Kong, però, non costituiscono una novità rispetto alle loro consuete parole d’ordine. «Se Carrie Lam vuole davvero fare qualcosa di pratico – spiega SJ, 30 anni, impiegato – si faccia un account su LIHKG (il sito attraverso il quale i manifestanti hanno lavorato a proposte e coordinamento delle proteste ndr) e dialoghi con noi. Non abbiamo un leader, deve relazionarsi con noi, con tutti».

La caratteristica unica di queste proteste, spiega T. 23 anni, «è che non esiste un singolo leader o comandante. Tutte le cose sono organizzate dai manifestanti. È inutile che il governo inviti “alcune persone” a dialogare poiché noi rappresentiamo solo noi stessi. Ciò che il governo deve fare è solo rispondere direttamente alle nostre richieste».

Questo è un punto importante per i manifestanti, benché pragmaticamente possa costituire un problema: una soluzione potrebbe arrivare, infatti, se fosse Pechino a riconoscere come interlocutore qualcuno degli organizzatori delle proteste.

Secondo altri quella di Carrie Lam è un’operazione di facciata, «come già accadde nel 2014»; l’unica soluzione è rispondere alle richieste dei manifestanti e «soddisfarne almeno una parte», spiega Kate, 34 anni, impiegata.

Kathy, 20 anni, studentessa, è della stessa idea: «Non mi fido. Abbiamo chiarito le nostre richieste per mesi e lei le ha completamente ignorate. Afferma di voler avviare un dialogo, ma quando le vengono poste delle domande si rifiuta assolutamente di dare una risposta chiara. Alcuni altri con posizioni più moderate potrebbero considerare questa proposta come un compromesso. Non lo è».

Riguardo alla paventata «piattaforma di dialogo» di Carrie Lam, Gary ,il più giovane degli intervistati (20 anni, studente), aggiunge: «Venne fuori una proposta simile nel 2014 durante le proteste di allora. Ma alla fine non si sono registrati risultati perché il governo è sempre rimasto sulla sua posizione, senza cambiare mai idea. Questo è il motivo per cui il dialogo è stato inutile, poiché il governo non ci stava ascoltando».

Con loro siamo partiti dall’inizio, provando a focalizzarci su alcuni temi principali: quale futuro per le proteste, quale la possibile mediazione e in che modo la loro protesta può essere spiegata a un pubblico occidentale sempre più irretito dalla forza della Cina, anche mediatica (proprio ieri il social network Twitter ha bloccato alcuni account filo cinesi accusati di diffondere fake news su quanto sta accadendo, mentre The Intercept ha denunciato l’utilizzo di tweet sponsorizzati da parte dei media governativi cinesi) e in che modo le tante persone scese in strada a Hong Kong vivono l’accusa proveniente da Pechino di essere eterodiretti e manovrati da forze straniere, in particolar modo dagli Stati uniti.

KH, 31 anni, un lavoro all’università, spiega: «Questa è una battaglia molto dura, ma sapevamo tutti che lo sarebbe stata. Il nostro avversario è molto potente e pieno di risorse. È improbabile la nostra vittoria. Ma abbiamo fatto tutto quanto potevano e lo abbiamo fatto bene. Hong Kong ha ricevuto molto sostegno da tutto il mondo, che è ciò di cui abbiamo bisogno per continuare e avere la possibilità di successo».

Peter, 26 anni e un impiego presso una società finanziaria, prova ad allargare il campo: «Stiamo combattendo per i nostri diritti fondamentali, per la democrazia e la libertà a Hong Kong. Ci stiamo difendendo dall’ingerenza del governo cinese. Pechino sta provando a trasformare Hong Kong in una città cinese di secondo livello. Il governo cinese ha perfino imbrogliato nel già iniquo sistema elettorale dei consigli legislativi, squalificando i parlamentari pro-democrazia; la protesta sulla legge per l’estradizione (che consentirebbe di estradare in Cina persone arrestate ad Hong Kong, ndr) è stata il punto di innesco perché la popolazione di Hong Kong sente l’urgenza di combattere la prepotenza cinese».

I manifestanti hanno esplicitato nel corso delle proteste le proprie richieste: abrogazione definitiva della legge sull’estradizione, amnistia per gli arrestati, una indagine trasparente sulle violenze compiute dalla polizia, l’eliminazione della classificazione come «scontri» delle manifestazioni e il suffragio universale. Quest’ultimo punto è quello dirimente: si potrà anche arrivare a un compromesso ma è quello l’obiettivo finale dei manifestanti.

«Sentiamo l’importanza del suffragio universale – continua Peter – che è nero su bianco nella nostra Costituzione. La Cina ha promesso di dare il suffragio universale, tuttavia, dopo 22 anni non è stato fatto alcun passo. E mentre la protesta continua, abbiamo scoperto altre nefandezze del governo e della polizia, ad esempio la collaborazione tra gangster, polizia e governo, e la brutalità della polizia».

Gli fa eco CL, 40 anni: «Anche se ritengo che il ritiro completo della legge sull’estradizione e l’indagine indipendente sulle violenze della polizia siano le richieste più condivise dagli abitanti di Hong Kong, il suffragio universale è, a mio avviso, il più importante. Non sarebbe accaduto quanto è successo se la Cina avesse mantenuto la sua promessa e ci avesse concesso il nostro diritto di eleggere la nostra legislatura. E spero che un giorno vedremo il suffragio universale anche in tutta la Cina stessa».

Sulle accuse di essere filo Usa, è Gary a rispondere: «Sono accuse completamente ridicole. Ogni volta che le persone di Hong Kong protestano o lottano per il miglioramento della propria società, il governo cinese tira fuori questa storia dell’influenza americana. Talvolta dicono persino che i manifestanti sono pagati dagli Stati uniti per protestare. Questa è assolutamente un’affermazione falsa poiché noi stiamo combattendo e protestando per i nostri diritti e lo facciamo in nome delle nostre idee, altro che denaro o influenza straniera. È ridicolo che il governo cinese stia facendo questo tipo di accuse maliziosamente false nei confronti dei cittadini di Hong Kong». E se davvero gli Usa finanziano il movimento «per pagare un milione e settecentomila persone dovrebbe avere un bel budget per Hong Kong».

A questo proposito, secondo Kate, «sappiamo tutti che la Cina ha grandi risorse e intelligence e grande capacità di controllare i media in Cina portando molti cinesi a dimostrarsi ostili nei nostri confronti». Del resto, aggiunge Peter, «il quadro è chiaro: da una parte ci siamo noi cittadini che abbiamo sollevato delle domande, dall’altra parte c’è il governo che vuole eliminare i cittadini che fanno domande».

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