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Thomas Ruff
Fotografie: 1979-2017
L’Empereur-06, 1982
INTERVISTE
TESTO
Sara Dolfi Agostini
14 DICEMBRE 2017
Per farsi notare, un fotografo di solito cerca di sviluppare uno stile coerente e riconoscibile. La regola non vale per Thomas Ruff, uno degli autori più celebrati degli ultimi quarant’anni, il cui lavoro, dal 1979 a oggi, è protagonista di due mostre personali alla Whitechapel di Londra e alla Fondazione Mast di Bologna.
Ruff, artista prolifico affiliato a quella Scuola di Düsseldorf – promossa da Bernd e Hilla Becher – che trasformò la fotografia documentaria in uno strumento concettuale, ha riformato la politica delle immagini, spaziando tra i generi: dal ritratto al porno, dal fotogiornalismo alle incursioni nell’ambiente domestico e architettonico, dalla guerra al cosmo. La sua opera crea un cortocircuito tra l’atto di guardare e quello di pensare criticamente le immagini, interrompendo il rapporto spontaneo tra spettatore e rappresentazione nella moderna società dei consumi.
Hai studiato all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf e ancora oggi sei annoverato tra i membri della cosiddetta Scuola di Düsseldorf. È un’etichetta che condividi con i tuoi compagni di classe di allora: Andreas Gursky, Thomas Struth, Candida Höfer e Axel Hütte. Avete studiato con Bernd Becher e ancora oggi vivete in quella stessa città dove vi siete incontrati; ma a parte questo, cos’altro vi accomuna?
Sono entrato nella classe di Bernd Becher nel 1977, era un momento storico particolare. Quel momento è passato e non si ripeterà più con le stesse caratteristiche. Abbiamo esordito tutti in modo simile, cercando di sfruttare al massimo le potenzialità del banco ottico per la fotografia in bianco e nero di stampo documentario. Ciascuno guardava un soggetto fotografico che gli altri non stavano trattando, volevamo differenziarci. Tutto ciò accadeva quarant’anni fa, e in quarant’anni molto è cambiato. Abbiamo seguito percorsi diversi: Andreas ha sviluppato il suo immaginario alterato e monumentale della realtà, Thomas continua a lavorare in modalità oggettiva e frontale, così come Candida Höfer, forse ancora oggi la più vicina per sensibilità a Bernd e Hilla Becher. Axel, invece, si è concentrato sulla sua versione immaginifica del paesaggio. Io ho preso le distanze da tutti, interrogando la struttura stessa della fotografia. Dunque, siamo partiti insieme, ma poi ci siamo allontanati.
Porträt (P Stadtbäumer), 1988. © Thomas Ruff.
Il banco ottico ti ha permesso di sperimentare con dimensioni inusuali in fotografia e produrre al contempo stampe di grande qualità e dettaglio. Credi che la dimensione sia un elemento importante dell’opera fotografica, al pari della macchina o del processo di stampa?
Sì, certo. La dimensione è molto importante per l’immagine. Io ho scelto di stampare Portraits in grandi dimensioni (160×210 cm) perché volevo che la loro presenza fosse travolgente. Ma ogni serie fotografica richiede un approccio diverso: stampa piccola, media o grande. Per decidere, produco varie versioni delle prime immagini di una serie fotografica, le appendo al muro e procedo per sottrazione. L’ultima rimasta è la mia scelta.
Spostandoci sul piano delle idee, ancora adolescente scattavi foto dei paesaggi della Foresta Nera, dove sei cresciuto. In seguito, però, nonostante tu abbia trattato vari generi fotografici, non ti sei più occupato di paesaggio. Perché?
È naturale dedicarsi a ciò che ci circonda. Ai tempi vivevo in campagna, per questo mi soffermavo sul paesaggio. Quando mi sono trasferito a Düsseldorf per studiare, il paesaggio non c’era più, quindi mi sono dovuto occupare d’altro. Forse questa è anche una lezione che ho portato a casa dai Becher: concentrarsi su un soggetto. Se la scelta ricade sul volto, fare ritratti oggettivi e frontali, e non distrarsi con il paesaggio sullo sfondo. Se il focus sono gli interni domestici, guardare quelli soltanto, e così con gli edifici. In questo senso, sono stato rigoroso quanto Bernd e Hilla Becher. Ho scelto di produrre una tassonomia eterogenea di oggetti, nessuno dei quali era solo un paesaggio.
Interieur 1A (Interior 1A), 1979. © Thomas Ruff.
La griglia tipologica dei Becher che hai citato evoca una prospettiva oggettiva e distaccata del soggetto ritratto. Eppure, osservando fonti e riferimenti, nel tuo lavoro si percepisce una storia privata.
La scelta del soggetto, all’inizio, è sempre legata a un interesse personale; poi, pensando all’immagine e lavorandoci, l’interesse personale diventa collettivo. Se guardo alle mie prime serie fotografiche, gli Interiors, ora in mostra alla Whitechapel, ho iniziato a lavorarci l’anno dopo aver lasciato la casa dei miei genitori. Come gli altri studenti della classe dei Becher, stavo cercando un soggetto con cui avessi una certa familiarità, ma che fosse anche di facile accesso – e questi sono i motivi per cui ho deciso di fotografare la casa dei miei genitori, quelle degli amici e la mia, che tra l’altro non ho più lasciato per i successivi vent’anni. Se guardi invece ai Portraits, ero poco più che ventenne e conoscevo solo la mia generazione, niente anziani o bambini, e così i ventenni sono diventati il centro di quel lavoro. I Buildings sono stati un passaggio naturale dopo gli Interiors e i Portraits: ormai in possesso degli spazi domestici e di coloro che li abitavano, la domanda successiva era osservare la città che li circondava. Non ho mai pensato a questa cornice teorica prima di cominciare il lavoro, ho sempre e solo reagito spontaneamente a ciò che avevo di fronte.
press++21.11, 2016. © Thomas Ruff.
Qual è il passaggio, nel tuo caso, dalla fotografia all’opera d’arte?
È molto semplice: le immagini fotografiche fanno parte della quotidianità, si presentano e non riesco a cacciarle via dalla mia testa, quindi comincio a lavorarci: interrogo l’immagine e la analizzo alla ricerca di un punto fermo. Alla fine, il processo è tutto di natura autobiografica.
Questo processo sembra rievocare le parole di John Szarkowski, curatore del MoMA, nella prefazione al catalogo della mostra New Documents (1970), dedicata all’opera di Diane Arbus, Lee Friedlander e Garry Winogrand. Scrisse che i tre fotografi “reindirizzarono la tecnica e l’estetica della fotografia documentaria verso una prospettiva personale. Il loro scopo non era più quello di plasmare la realtà, ma di conoscerla”. Pensi che la soggettività in fotografia basti per fare una rivoluzione?
L’equivalente tedesco di Szarkowski è Klaus Honnef, che ha pubblicato numerosi libri sulla fotografia enfatizzando il potere dello sguardo artistico nell’uso del media. Ma la fotografia è davvero così autentica e oggettiva, oppure è sempre legata alla posizione del fotografo nel mondo? Io credo che la fotografia sia sempre il prodotto di un tempo specifico e può sempre e solo cogliere una porzione piccola e speciale di questo mondo. A volte può essere interessante, altre molto noiosa. Dunque, cosa serve per fare una rivoluzione? Non saprei, credo solamente che non si debba usare semplicemente un medium, bisogna pensarlo.
jpeg ny01, 2004. © Thomas Ruff.
Il medium fotografico è molto versatile – può essere una traccia della realtà, una matita della natura, per citare William Fox Talbot, ma offrire anche un approccio più concettuale alla ricerca artistica. Tu ne hai sfruttato tutto il potenziale, con serie come Negative, press++, Substrates e jpeg, adesso in mostra alla Whitechapel di Londra e alla Fondazione Mast di Bologna. Da qui la domanda: dall’alto della tua esperienza, in che direzione si sta muovendo adesso il medium fotografico?
Il medium andrà avanti per la sua strada. Le opere più astratte e quelle ispirate a La matita della natura sono alcune delle possibilità espresse dalla fotografia. Io stesso ho esplorato molte possibilità, e ne esplorerò altre. Continuerò guidato dal mio interesse, spostandomi tra elementi fisici e virtuali della fotografia. Non mi interessa la tecnologia come fine. Sceglierò sempre la tecnica più affine all’immagine che ho in mente, quella che voglio produrre. Può essere una tecnica di oggi, oppure obsoleta e magari nostalgica, come ritengono le persone che guardano la serie press++. Per quel che riguarda il futuro della fotografia, lascio a sociologi e filosofici il compito di prevederlo.
Più che di nostalgia, parlerei di pericolo. C’è sempre qualcosa di sinistro nelle tue foto.
Forse perché in fondo non credo nell’immagine che pretende di raccontare un mondo. Il mondo offerto dalla fotografia sparisce, le persone smettono di avere una familiarità con un certo tipo di fotografia – quella analogica, per esempio –, la fotografia stessa cambia. Ma io posso continuare a indagare i diversi approcci fotografici, e non è importante in quale periodo siano stati sviluppati o cosa rappresentino. Non percepisco il limite del tempo.
Haus Nr.11 III (House Nr.11 III), 1990. © Thomas Ruff.
Parlando di Photograms, omaggio a una pratica fotografica che ci porta indietro al Bauhaus e in generale al Modernismo, ho letto che ti sei ispirato a dei fotogrammi di Arthur Siegel che hai acquistato per la tua collezione fotografica. È la collezione la tua fonte di ispirazione principale?
È una fonte, ma non l’unica. La mia collezione fotografica non si basa su un’idea di qualità, è una collezione davvero molto personale. È composta per la metà da fotografie astronomiche, e per il resto da fotografie bizzarre dal punto di vista tecnologico o sovraesposte in modo grezzo – le adoro. Le ho acquistate quasi tutte da piccole case d’asta francesi – a volte hanno materiali incredibili. In un certo senso, la mia collezione cerca l’errore fotografico, immagini che mostrano modi diversi di utilizzare il medium, anche con esiti decisamente singolari. Ai miei occhi queste stampe fotografiche sono fantastiche, proprio per la loro stranezza. Le colleziono prima che spariscano dalla circolazione. Forse sono come i due protagonisti del romanzo di Flaubert – Bouvard e Pécuchet.
16h 30m / -50°, 1989. © Thomas Ruff.
La fotografia “muore” molte volte, per la precisione ogni volta che spunta una nuova tecnica capace di spazzare via quella precedente. Questo ciclo di vita, morte e rinascita è oggi estremizzato dalla velocità dello sviluppo tecnologico. In questo senso, vedo la fotografia, e soprattutto il collezionismo fotografico, come un’esperienza affine alla mortalità, e credo che il tuo lavoro esprima questa stessa visione. Cosa ne pensi?
Il ciclo di vita, morte e rinascita di cui parli è un principio universale – riguarda il concetto stesso di evoluzione. È solo cambiata la velocità con cui avviene, e non solo per la fotografia. Naturalmente, quando guardi una collezione fotografica, provi un senso di mortalità legato al tempo che passa. Allo stesso modo, le mie indagini sulle fonti in fotografia sono un tuffo nel passato, un tentativo di trattenerlo nel presente. Qualcuno direbbe che il mondo della fotografia è come un puzzle e io ci sto lavorando. A volte i pezzi combaciano, altre volte no, e restano dei buchi. Non credo che il puzzle sarà completo quando morirò.
Che effetto fa guardare indietro a opere come Nacht, che fu una reazione all’esperienza di guardare in televisione la prima guerra del Golfo, dalla posizione colpevole del voyeur? Trovo che la rappresentazione visiva della guerra sia anche più critica oggi, all’indomani di due guerre del Golfo e della Primavera Araba.
Il mio interesse oggi si è spostato dalla rappresentazione della guerra alle pratiche politiche. Credo che l’agenda politica sia sempre più intrinsecamente legata alla propaganda. Nell’ultima guerra del Golfo, la terza, condotta da George W. Bush, i fotogiornalisti non avevano accesso alle informazioni necessarie per documentare la realtà della guerra, le immagini erano soprattutto prefabbricate e sottoposte a un rigoroso controllo prima di essere diffuse. Nella prima guerra del Golfo, invece, le immagini erano piuttosto naïf.
Nacht 9 II (Night 9 II), 1992. © Thomas Ruff.
In un periodo storico che ha promesso uno sguardo democratico e libero sul mondo, come effetto della rivoluzione digitale e della diffusione di internet, ci ritroviamo paradossalmente ostaggi di un immaginario manipolato dai filtri e da Photoshop. Pensi che l’idea di un’esperienza visiva diversa, spontanea nel senso di non filtrata, sia persa per sempre?
Sì, e non credo che esista una libera circolazione delle immagini. La produzione di immagini è certo molto diversificata e spontanea, ma le immagini che sono scelte, usate e condivise dai media e dalle agenzie governative sono solo quelle che consolidano un punto di vista egemone. La politica delle immagini è brutale, perché sono sempre interessi di tipo politico, sociale ed economico a dominarla.
Zeitungsfoto 101 (Newspaper Photograph 101), 1990. © Thomas Ruff.
Prevedi uno scollamento ancora maggiore tra potenziale fotografico e immagini in circolazione in futuro?
È probabile. Siamo partiti con la visione apocalittica di George Orwell in 1984, e adesso andiamo verso l’immaginario distopico de Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley. Penso ai miei figli, a come usano gli smartphone, a come sono cresciuti con la pubblicità, Snapchat e i vari social media. Si adattano e imitano ciò che vedono, non hanno alcun approccio critico, e così sono vittime di un blando lavaggio del cervello.
Credo che ciò derivi anche dal fatto che oggi si riconosce alla fotografia un valore crescente legato alla sua facile distribuzione nel mondo digitale. Un valore che ha un prezzo, perché nulla – su Facebook, Instagram o Snapchat – è gratis. Si tratta solo di definire cosa si sta scambiando nella transazione: tempo, attenzione, dati. Potremmo anche dire che le internet companies sono una sfida per gli artisti, ma nei fatti non è così. Come reagisci da artista a questo fenomeno?
Ho qualche chance? Io posso raggiungere solo lo 0,0001% della popolazione.
Ho letto che prima di diventare artista, il tuo sogno era quello di lavorare al National Geographic per intraprendere la missione di fotografo documentarista. È andata diversamente. Ha fatto i conti con la realtà della professione?
Sì e no. National Geographic e molte altre riviste che leggevo tra i dieci e i vent’anni erano diffusissime negli anni Sessanta e Settanta. Promettevano un futuro roseo e tanti luoghi affascinanti da visitare. La terra appariva come un posto incantevole da vivere ed esplorare, ma quelle promesse non furono mantenute per niente. Ci sono tanti posti dove non voglio andare, perché sono pericolosi; e ce ne sono altri dove non posso andare perché sono molto inquinati o perché la popolazione è vittima di carestie e dittature. Dunque, la domanda fu come reagire fotograficamente a questo confronto con la realtà. D’altro canto, ho anche imparato che il metodo dei Becher non era l’unico percorribile in fotografia. Per esempio, io sono un fan di Sebastião Salgado, e mi sono accorto che spesso sono più interessato al lavoro fotografico prodotto al di fuori della cornice artistica, perché risulta più vero dell’opera fotografica destinata al mercato dell’arte. Inoltre, negli ultimi quarant’anni ci sono stati cambiamenti tecnologici impensabili che hanno riguardato sia le macchine fotografiche sia la distribuzione di immagini – cambiamenti che non possono essere ignorati.
ma.r.s. 01_III, 2011. © Thomas Ruff.
Lo spazio cosmico è un soggetto che hai affrontato spesso – nella serie ma.r.s., per esempio. La sua rappresentazione è strettamente legata all’evoluzione tecnologica. Lì, il semplice atto di guardare o editare non basta, perché lo spazio è invisibile all’occhio umano. Quali sono gli strumenti oggi disponibili?
Dovresti chiederlo a un fisico o a un astronomo. La radiazione elettromagnetica nell’universo raggiunge uno spettro che va dai 10.000 ai 10-17 metri in lunghezza d’onda, tuttavia a occhio nudo il campo visibile si colloca tra i 380 e i 640 nanometri. Un telescopio può catturare uno spettro più ampio, ma richiede dei miglioramenti tecnici per rendere visibile la luce. Un radiotelescopio cattura le onde elettromagnetiche che non vedi con gli occhi, e con altri strumenti permette di visualizzarle. Quindi, se vuoi guardare lo spazio in modo più accurato, dovresti usare delle protesi, non soltanto la macchina fotografica. La fotografia non ha un ruolo primario nel processo di comprensione dello spazio.
Hai mai pensato di spostarti verso altri media per investigare meglio lo spazio?
Che strumento hai in mente?
Non so dirti quale strumento o quale tecnologia, qualcosa che rifletta una ricerca più profonda sull’atto di guardare. Cosa stiamo guardando davvero quando osserviamo lo spazio cosmico?
Guardiamo un passato di 14 miliardi di anni e uno spazio che non possiamo nemmeno immaginare. Troppo per il nostro piccolo cervello umano.
Substrat 31 III (Substrate 31 III), 2007. © Thomas Ruff.
Maschine 1390 (Machine 1390), 2003. © Thomas Ruff.
phg.07_II, 2014. © Thomas Ruff.
nudes lk18, 2000. © Thomas Ruff.
jpeg CO01, 2005. © Thomas Ruff. Courtesy: Thomas Ruff e Galleria Lia Rumma.
© Thomas Ruff.
AUTRICE DELL’INTEREVISTA :
SARA DOLFI AGOSTINI
Curatrice e giornalista, vive tra l’Italia e gli Stati Uniti, ma spesso cambia rotta per visitare musei, biennali e studi d’artista. Specializzata in arte contemporanea e fotografia, è consulente scientifica della Triennale di Milano. Inoltre, ha co-curato il progetto di arte pubblica ArtLine Milano e scritto il libro Collezionare Fotografia (2010, con Denis Curti). Collabora con Il Sole 24 Ore dal 2008.
è un articolo molto difficile per me…..
Belle, divertenti, imprevedibili e a volte inquietanti queste foto. Rispondendo a Mariapia, credo che queste foto vadano semplicemente guardate e sentire quello che ci trasmettono. Altrimenti non oseremmo guardare niente, soprattutto le opere più “complesse”.