La città vecchia
Brano di Fabrizio De André
Nei quartieri dove il sole del buon Dio
Non da i suoi raggi
Ha già troppi impegni per scaldar la gente
D’altri paraggiUna bimba canta la canzone antica
Della donnaccia Quel che ancor non sai tu lo imparerai Solo qui fra le mie bracciaE se alla sua età le difetterà la campetenza
Presto affinerà le capacità con l’esperienza Dove sono andati i tempi d’una volta, per Giunone Quando ci voleva per fare il mestiere Anche un po’ di vocazione?Una gamba qua una gamba là
Gonfi di vino Quattro pensionati mezzo avvelenati Al tavolino Li troverai là col tempo che fa Estate inverno A stratracannare a strameledir Le donne il tempo ed il governoLoro cercan là la felicità
Dentro a un bicchiere Per dimenticare d’esser stati presi Per il sedere Ci sarà allegria anche in agonia Col vino forte Porteran sul viso l’ombra di un sorriso Fra le braccia della morteVecchio professore cosa vai cercando
In quel portone Forse quella che sola ti può dare Una lezione Quella che di giorno chiami con disprezzo Pubblica moglie Quella che di notte stabilisce il prezzo Alle tue voglieTu la cercherai tu la invocherai
Più d’una notte Ti alzerai disfatto rimandando tutto Al ventisette Quando incasserai delapiderai Mezza pensione Diecimila lire per sentirti dire “Micio bello e bamboccione”Se ti inoltrerai lungo le calate
Dei vecchi moli In quell’aria spessa carica di sale Gonfia di odori Lì ci troverai i ladri gli assassini E il tipo strano Quello che ha venduto per tremila lire Sua madre a un nanoSe tu penserai e giudicherai
Da buon borghese Li condannerai a cinquemila anni Più le spese Ma se capirai se li cercherai Fino in fondo Se non sono gigli son pur sempre figli Vittime di questo mondoFonte: Musixmatch
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QUESTA E’ LA CITTA’ VECCHIA MA DI SANREMO::
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Ho un rapporto difficile con Genova: mi ricordo la città buia, triste, inospitale fine anni Sessanta. Il mare non si vedeva, il porto era chiuso da lamiere blindate, il mare era un’idea ” come un’altra”, ma non si vedeva. I palazzi nobiliari, sede della Università, sapevano di polvere e di vecchi fasti ormai passati. Non c’era neppure l’ascensore per andare ai piani alti dell’Università e così, per i poveretti che arrancavano dalla stazione Principe per arrivare in tempo alle lezioni di greco antico ( ore 8,30 e firma obbligatoria con bidello inesorabile all’entrata, tranne mancia) non c’era pietà: bisognava fare i tre o quattro piani a piedi per farti dire che la lezione ormai era iniziata e tu non avevi speranza. di avere riconosciuta la presenza. Inutile affidarsi alla solidarietà dei poveretti che dovevano fare esercizi dall’italiano in greco antico: lo studio della classicità imponeva una indifferenza disumana alle traversie del presente. Non dico la difficoltà degli spiriti aspri e quelli dolci: per me rimangono un mistero e che non mi occuperò mai più di loro: lo giuro sulla mia vita. Lo studio del greco antico lo abbandonai felicemente a Milano, dove trovai una società, almeno quella dell’Università, aperta e che sapeva coniugare il presente al passato. Non c’erano neppure scale faticosissime per raggiungere i piani alti della cultura. Era tutto in pianura e finalmente si entrava in un’altra epoca: Milano a quell’epoca era veramente un porto di libertà, dove si poteva respirare. Con tutto ciò, devo dire che quello che amo ancora di Genova è il profumo del caffè che si respirava nei suoi vicoli: quando uscivo dall’ambiente polveroso dell’Università di via Balbi andavo a Principe attraversando via Prè e lì c’era la Genova che mi piaceva: mi piace De André perché ha amato e cantato quella città, per tanti versi inospitale.