via Pré —
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Il suk di Genova
Genova la intravedevo al mattino, scendendo dal treno verso le otto, assonnata e di malumore, sia io che lei. Dal finestrino la città che mi era estranea si era annunciata con gli impianti rugginosi dell’Ansaldo, con piccoli corsi d’acqua color petrolio, con facciate di casa annerite e tarlate, con la scomparsa dell’azzurro del mare. Dalla stazione Principe fino a via Balbi dovevo correre per riuscire ad arrivare in tempo alla lezione di greco, che iniziava alle otto e quindici ed era all’ultimo piano dell’Università. Il professore esigeva la presenza, altrimenti niente ammissione all’esame.
via Pré
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Lungo la strada e rasente i muri alcuni barboni, dall’aria sfinita, chiedevano l’elemosina per racimolare una dose. Il cuore mi si stringeva e pensavo solo al ritorno, alla mia città che non era grigia e da cui si vedeva sempre il mare. Via Prè mi salvò allora dall’ annientamento per tristezza. Finite le lezioni, mi incamminavo finalmente verso Principe per il treno del ritorno. Non rifacevo via Balbi ma prendevo la via malfamata, che tutti sconsigliavano di percorrere.
Vi scendevo attraverso qualche vicolo scuro ed un mondo vivido e variegato mi accoglieva: profumo di caffè appena tostato, odore di pesci fritti che stuzzicava l’appetito, botteghe strette come budelli che rigurgitavano di ogni tipo di merce, montagne di vestiti in jeans, maree di borse di ogni tipo che rilasciavano un buon odore di cuoio.
Ogni tanto profumi forti, violenti ti assalivano, seguiti dall’olezzo paradisiaco della focaccia appena sfornata e della farinata calda. Venditori di accendini e di sigarette insistevano ad offrirti la loro merce, misera e colorata.
Sedute sui gradini delle case ragazze africane, bellissime ed incomparabilmente eleganti nei loro costumi sgargianti, offrivano sfacciatamente la propria merce. Linguaggi stranieri si incrociavano, si percepiva un fermento di vita, un fiume di umanità che trascinava, che non ti isolava ma anzi ti invitava con energia e calore a farne parte.
Avrei barattato volentieri il mondo dell’Università, il suo sapere un po’ imbalsamato e freddo con quel mondo agitato, forse violento di cui però si percepiva la forza vitale. Avrei messo anni a comprendere che lo studio può essere altrettanto avventuroso, vivo, entusiasmante come la vita vissuta, ma intanto il suq di Genova mi ha aiutato a sentirmi viva e a sperare.
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MURI
il classico ” muro ligure a secco ” che poi si trova in altre regioni e in altri paesi
E’ come parlare ad un muro: quante volte avete sentito questa frase, detta in tono sprezzante, per indicare qualcuno che non sente o non vuole sentire. Ebbene, io sono un muro e vi assicuro che sono tutte fandonie, messe in giro dagli uomini, che pensano di essere solo loro in grado di fare ogni cosa. Quanto poi ad ascoltare, se c’è una cosa per cui sono negati è proprio questa. Neppure se stessi sono capaci di ascoltare, figurarsi gli altri! Però sono capaci di parlare, e questo per me è un grande vantaggio. Non potendo spostarmi, se gli umani non parlassero in continuazione, io mi annoierei a morte. Invece ho davanti un film che cambia continuamente e gli attori sono protagonisti effettivi, completamente calati nella loro parte. Altro che neorealismo! Penso che qualsiasi proiezione cinematografica mi annoierebbe a morte e nessun grande attore riuscirebbe a muovermi le viscere ( sì, le viscere! In fondo le abbiamo anche noi), come fanno invece le donne e gli uomini che passano davanti a me. Beh, non vi ho ancora detto dove abito: sono il muro portante di una pizzeria di Milano. Ho un bell’intonaco bianco e mi hanno messo addosso delle fotografie della città di una volta. Sembra che vada di gran moda. Non riesco a capire perché se piacevano tanto quei miei antenati, non se li siano tenuti cari. Invece hanno buttato giu’ un sacco di cose per poi mettere delle belle foto ricordo. Come uccidere qualcuno per poi tenersi la foto sul comodino. Noi siamo sicuramente più solidi dei sentimenti umani e se non interviene l’uomo o qualche terremoto restiamo lì dove ci hanno costruito, a dispetto di tutto quel gran turbinio che quotidianamente abbiamo attorno. Io sono abbastanza giovane, quindi non ho la saggezza di qualche mio conoscente che ha visto la guerra e ne ha passato di tutti i colori ( nel senso letterale del termine), però nel mio piccolo ( sono nato subito dopo la guerra, quando la gente aveva una gran voglia di ricostruire e noi di rinascere) ho accumulato un bel po’ di foto. Le chiamo così per intenderci. Nessuno sa ancora che le immagini che ci passano davanti restano in qualche modo imprigionate dentro di noi. Se un giorno si troverà il modo di liberarle e di farle scorrere come un film, se ne vedranno delle belle. Ad ogni modo il mio destino da subito è stato legato al cibo: appena nato mi sono trovato in una trattoria toscana. Ho poi capito che eravamo in tanti a Milano a chiamarci così: un po’ perché i gestori venivano effettivamente da quella regione, un po’ perché quel nome faceva pensare alle bistecche alla fiorentina. Mi sono trovato bene per parecchi anni: a mezzogiorno venivano a mangiare operai ed impiegati che lavoravano nel quartiere, alla sera stavamo aperti solo il sabato. C’è stato poi un periodo, non troppo lungo, pieno di studenti: venivano a mangiare, ma soprattutto a parlare, a discutere: il tema preferito era la rivoluzione. A me facevano tanta tenerezza perché, se c’è una cosa che adoro, è sentire parlare di cose in movimento, forse proprio per il mio handicap, chiamiamolo così. Allora eravamo già diventati pizzeria, ma fornivamo un po’ di tutto, con prevalenza di specialità pugliesi. C’erano odori meravigliosi e con tutta quella gioventù attorno si stava proprio bene. Gradatamente la clientela è cambiata: non si sentiva più parlare di rivoluzione, ma di compatibilità col sistema, di adeguamento ai nuovi tempi, al nuovo stile di vita. Dato che tutto doveva essere nuovo o almeno sembrarlo, siamo stati rimessi a lucido anche noi, io e i miei fratelli, da un architetto alla moda. Io, come gli altri come me, eravamo terrorizzati: sentivamo parlare di impiantare piramidi di vetro, di sventrare da una parte, di mettere in luce le strutture dall’altra e via architettando. Per fortuna come muro portante non ho avuto troppe noie. I grandi cambiamenti erano nei piatti: tanta rucola, tanti carpacci, tante crudité (che bisogno c’è di chiamarle così?). Le porzioni diventavano sempre più piccole, scomparivano le pastasciutte, i minestroni e avanzavano le insalate, le salsine, i cibi esotici. Più diminuiva la quantità e più aumentava l’importanza dei piatti dal punto di vista estetico. Erano così belli che avrei potuto appendermeli come quadri. C’è stata poi una specie di crollo. Quei pochi clienti che venivano parlavano di giudici, di tangenti, di manette. Non so come, ma ci siamo ritrovati in poco tempo da soli, noi muri. Infine, l’ultima resurrezione: siamo una pizzeria alla moda, forniamo 50 tipi di pizza, dalla Margherita a quella zen; c’è la birra, la Coca Cola, perfino il vino ma non si può fumare. Alla fine forniamo anche, per digerire, una tisana alle erbe mediterranee; di sottofondo c’è musica etnica. Sento parlare di globalizzazione e non ho ancora capito bene cosa sia perché non lo sa nessuno. In fondo sono soddisfatto della mia vita e penso che l’ideale sia stare fermi come me, guardando la grande agitazione che mi frulla attorno e aspettando tempi migliori. Ho proprio nostalgia di quella gioventù che si scannava a dire che la rivoluzione era così e non cosà. Ma io ho tempo e tanta pazienza, “è questione di feeling” come diceva un tempo Mina, la si sentiva dappertutto, e il mio feeling è tenace.
Elezioni
Ho sempre partecipato con interesse e con vera passione agli scontri elettorali. Dal dopoguerra in poi, i mesi di aprile e maggio hanno significato per me non solo il ritorno della bella stagione, l’aria più tiepida, il verde tenero delle foglie appena nate, ma anche i palchi per i comizi nelle piazze, gli inni suonati a pieno volume, la gente che si radunava e discuteva, i volantini multicolori, insomma quell’atmosfera frizzante che sottolinea l’imminenza di un evento. Ricordo con una punta di nostalgia i comizi del dopoguerra, le parole infuocate dei grandi tribuni, il calore degli applausi e dei fischi con cui venivano sottolineate le frasi più significative. Sui palchi lasciati liberi dagli oratori alla fine delle manifestazioni i bambini giocavano, mimando i discorsi che ancora facevano infervorare gli adulti rimasti in piazza.
L’Inno dei Lavoratori era la colonna sonora di quella meravigliosa festa. Mi piaceva quella marcetta non tanto per ragioni politiche, ma perché mi sembrava di procedere insieme a tanti , uomini e donne, verso un futuro gioioso. Gli altri inni mi piacevano anche loro, ma erano troppo fiacchi o troppo solenni e non mi davano quella specie di ebbrezza che si ha quando ci si aspetta di divertirsi insieme a molti. Io stavo proprio vicinissimo ad una grande chiesa e sentivo anche le campane, che interrompevano ad intervalli regolari i comizi e le musiche. Nascevano polemiche, tafferugli, dibattiti infuocati, poi, terminato lo scampanio, come bravi scolari dopo l’intervallo, tutti si rimettevano ad ascoltare l’oratore di turno. Ho visto anche una processione della Madonna Pellegrina. Mi piaceva quella statua, vestita con un manto bellissimo, che sembrava guardare tutti amorevolmente dall’alto, un po’ preoccupata per quel suo procedere ondeggiante tra la folla, con la corona che traballava ad ogni scossa.
Lo spettacolo più bello era la preparazione: gli elettricisti che mettevano le luminarie, i negozianti che tralasciavano i loro affari per costruire grandi festoni di carta multicolore, le fioraie che mettevano in grosse ceste i petali delle rose già un po’ sfiorite che sarebbero stati gettati sulla strada immediatamente prima del passaggio della Vergine. La colonna sonora era ” Noi vogliam Dio”, cantato in un coro sommesso dai partecipanti, che sembravano davvero chiedere qualcosa di importante e di irrinunciabile alla Madre Celeste. Volute deliziose di incenso arrivavano fino a me e anch’io, nella mia totale materialità, mi sentivo profondamente commosso da non so bene che cosa, come quando all’improvviso viene da piangere senza motivo perché qualcosa si scioglie dentro di noi e ci ritroviamo più liberi e più indifesi di fronte al mondo.
Beh, io sono un muro, sì un muro vero, perciò, se vi dico queste cose mi dovete credere. A quei tempi ero un muro scampato ai bombardamenti, con l’intonaco un po’ scrostato, ma arzillo e vitale come tutti i sopravvissuti alla guerra. I miei strati più profondi, delle magnifiche pietre di torrente che mi avevano permesso di resistere ai colpi e agli spostamenti d’aria causati dalle bombe, cantavano dentro di me come fossero ancora accarezzate dall’acqua. Non mi importava granché di avere un aspetto un po’ malconcio: mi appiccicavano in continuazione dei manifesti, che poi qualcuno nottetempo strappava. Ero tutto sporco di colla, ma ero fiero delle cose che comunicavo. C’erano parole importanti su quei pezzi di carta: libertà, pace, progresso, ricostruzione. Mi trasmettevano una gran voglia di fare, come da tanto tempo non provavo più. Mi divertiva sentire i commenti di quelli che si fermavano a leggere: erano frasi molto diverse, chi era per la Russia e chi per l’America, chi per la Chiesa e chi per il Socialismo, ma tutti parlavano e sembravano appassionati. C’era anche chi mi scriveva sopra con la vernice rossa ” Viva Stalin”, ma io non mi arrabbiavo, anzi pensavo che avrei potuto conservare di quegli anni una memoria più duratura e meno effimera di quella su carta.
Se si dessero la pena di scrostarmi, troverebbero dentro di me quella scritta, come altre più anonime e qualunquiste: ” Siete tutti ladri”, “Abbasso tutti e viva me”,” Viva il partito della bistecca”. Non ho mai sopportato la scemenza e quando l’ho dovuta subire mi sono sempre augurato che qualcuno di buona volontà un giorno la sconfessasse ed io potessi dare vivente testimonianza di uomini barbari e irragionevoli vinti dalla serenità della ragione. Ad un certo punto della mia memoria ci sono più scritte che manifesti : ” Viva Mao”, ” Vietato vietare”,” Uno, due, cento Viet-Nam”: Non è che capissi tutto, però mi sembrava che chi scriveva su di me si riferisse ad avvenimenti importanti che stavano accadendo nel mondo e questo mi faceva viaggiare con la fantasia che, per un muro, è il massimo di spostamento concesso.
C’è stato poi un periodo di gran silenzio. Da chiacchiere che sentivo vicino a me ho intuito che qualcosa aveva sostituito le parole, almeno quelle scritte, un oggetto chiamato Tivu, che le persone guardano regolarmente ogni sera in casa propria prima di addormentarsi. Insomma un concorrente sleale, che non mi ha più permesso di testimoniare le idee degli uomini e che mi ha estromesso con violenza subdola dalla storia. Attualmente sono stato restaurato, che vuol dire che mi hanno dato la solita riverniciata. Le persone si sono fatte più educate e non mi scrivono più addosso. Anzi, hanno messo degli appositi tabelloni, proprio qui davanti a me, per appiccicarci i manifesti. Visto il contenuto, sono contento di non doverli più sopportare: ci sono degli enormi faccioni, poco rassicuranti a dire il vero, che invitano la gente a votarli, non si sa bene il perché. Il perché infatti non viene spiegato. L’immagine ha sostituito le idee e le parole che le esprimevano. Io però, avendo molto tempo a disposizione ed essendo per natura meditativo, riesco a sapere molte cose da quelle facce.
Mentre credono che nessuno ascolti, si dicono tra loro quello che pensano davvero e che io avevo già intuito. Molti manifesti si vergognano di essere lì, per la carta sprecata e per le facce che hanno stampate addosso. Certi confessano di fare di tutto per fare apparire ancora più disgustosi i vari personaggi e sono grati a quelli che nottetempo vanno a cambiare gli slogan o aggiungono particolari esilaranti alle facce. Ultimamente sono stati molto grati a quelli che hanno aggiunto ad una faccia che imperversa un bel naso rosso da pagliaccio. Io sto dalla loro parte, dalla parte della carta stampata con su facce di gente malvissuta che ha la pretesa di fare gli interessi degli altri per potere fare meglio i propri. Allora sento le mie vecchissime pietre di torrente che vorrebbero rivoltarsi come in una piena. Ma poi la rabbia si trasforma in un mormorio sommesso, quasi un canto, che mi dice: ” Sta’ tranquillo, sono passati i Turchi, passeranno anche loro e noi saremo invece qui con te, ad assistere alla giostra infinita degli uomini”.
Grazie per avere pubblicato questi racconti e aver fatto parlare i muri!
ti scopro piano piano, pwerchè Bruna, invidiosa, non me ne ha neanche accennato. Ti vuole per se.
E’ piacevole leggerti e “ti si sente”,’.
Ciao
Grazie Roberto per queste parole affettuose. Un affettuoso saluto.