+++ ( lungo, ma vale ) — LUCIO CARACCIOLO, UCRAINA, TRE GUERRE IN UNA – MAPPE DI LAURA CANALI — REPUBBLICA.IT / ESTERI / 24 MARZO 2024  — coordin. Carlo Bonini

 

 

chiara : vi consiglio di leggere l’articolo, veramente chiarificatore, sul link di Repubblica perché lì avete il testo insieme alle  cartine, ammesso che possiate accedervi-

 

 

REPUBBLICA.IT / ESTERI / 24 MARZO 2024
https://www.repubblica.it/esteri/2024/03/24/news/crisi_ucraina_russia_occidente_usa_cina-422350470/

 

 

Ucraina, tre guerre in una

 

 

In Ucraina si incrociano tre guerre. La calda tra Mosca e Kiev; quella per procura fra America più soci occidentali e Russia, controllata ma tendente al surriscaldamento; la Guerra Grande, ovvero il riflesso delle prime due sulla competizione globale fra Washington, Pechino e Mosca. Per gli amanti dei grandi schemi e della lunga durata, le ribattezziamo nell’ordine terzo tempo della prima guerra mondiale; secondo atto della seconda dopo l’interludio “freddo”; alba del nuovo disordine planetario, segnato dalla crisi dell’Occidente e del suo modello di capitalismo liberaldemocratico che si presumeva universale.

Esploriamo senso e incroci del triplice scontro richiamando i caratteri delle tre guerre.

 

 

 

 

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La prima – russi contro ucraini – verte sul tentativo di una nazione in formazione di emanciparsi dal suo impero di origine. Collisione fra popoli dalle storie talmente intrecciate da averli resi per secoli quasi indistinguibili. Sotto questo profilo, è guerra civile postsovietica. Scatta la battaglia delle narrazioni. Gli ucraini si inventano un più che millenario passato nazionale. I russi agitano la tesi dell’unicità dei tre rami russo, ucraino e bielorusso quali variazioni sul tronco del medesimo popolo e della stessa civiltà – Mondo Russo – in ordine strettamente gerarchico. Manipolazioni strumentali della storia ad uso bellico.

Il conflitto russo-ucraino dura da più di cent’anni, fra lunghi intervalli e incendi catastrofici. Da quando nel 1917-18, durante la prima guerra mondiale, il nascente nazionalismo ucraino sfruttò crollo dello zarismo, interesse tedesco a installare un regime satellite a Kiev e progetto bolscevico di dare veste pseudofederale al proprio Stato per dotarsi di un fatuo abbozzo di sovranità all’ombra del Kaiser. Per finire inghiottito nell’Urss. Il movimento nazionale ucraino si riaccende con l’aggressione nazista all’Unione Sovietica, nel 1941. Una quota rilevante della popolazione ucraina si unisce ai tedeschi nella speranza presto repressa di guadagnarsi l’indipendenza nel contesto dell’Europa dominata dal Terzo Reich.

 

 

 

 

PRIMA CARTA  DI LAURA 

 

Al fronte ucraino

di Laura Canali

Fonte: Nato, lnstitute for the Study of War, Bbc, Le Monde, autori di Limes. (al 18 marzo 2024)

CARTINA DI LAURA CANALI — DA REPUBBLICA – LINK SOTTO

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La mappa comprende una vasta area geografica. Questo per rendere l’insieme dello spazio interessato più direttamente dal conflitto, allargato dalla profondità con la quale i droni ucraini recentemente colpiscono dentro il territorio della Federazione Russa. Gli obiettivi principali sono le infrastrutture legate alla produzione di idrocarburi.

Il 21 gennaio scorso i droni a lunga percorrenza hanno colpito il terminal di Ust’-Luga nella regione di Leningrado. Questo era il punto di partenza anche del secondo ramo del gasdotto Nord Stream. Il primo ramo partiva da Vyborg, dall’altra parte della baia.Il terminal di Ust’-Luga dispone di impianti per la condensazione del gas gestiti dall’azienda statale russa Novatek.

Fra gli ultimi attacchi di droni ucraini quello alla raffineria di Slavneft-Yanos.

Scendendo verso la linea del fronte, nell’Ucraina orientale e meridionale, la novità più importante è la costruzione di fortificazioni ucraine che corrono parallelamente a quelle già erette dai russi per assorbire la fallita controffensiva di Kiev.

Dopo l’annessione della Crimea, nel 2014, la Russia ha conquistato altri spazi ucraini e continua a premere lungo tutta la zona di contatto fra i due eserciti, profittando della scarsità di uomini, armi e munizioni a disposizione delle forze di Kiev. Nell’area del Mar Nero, alcuni alleati atlantici, come Romania, Bulgaria e Turchia, stanno sminando la parte di mare disegnata con righe bianche orizzontali. Le mine erano state posizionate dai russi tra la penisola della Crimea e l’Ucraina. Molte stanno andando alla deriva.

 

 

Nel 1991 il crollo dell’Urss eleva l’Ucraina comunista disegnata da Lenin, poi ritoccata nei suoi confini amministrativi da Stalin e Khruš?ëv, a repubblica indipendente per sottrazione dal cadavere sovietico. Ma non risolve la disputa fra impero russo residuo e residuata nazione ucraina.

 

A partire dai primi anni Duemila, la tensione fra ucraini filorussi appoggiati da Mosca e filoccidentali sostenuti da americani e britannici riaccende la miccia bellica. Putin tratta la possibile trasformazione del suo cuscinetto anti-Nato in avanguardia atlantica da intollerabile minaccia alla sicurezza imperiale. Sfida alla linea rossa stabilita dalla Russia zarista, sovietica e postsovietica, che impone di tenere Kiev nell’impero o almeno di impedirne l’aggancio all’Occidente. La guerra scoppia nel 2014, con la cacciata del presidente filorusso Janukovich  sull’onda del movimento di Euromaidan e dell’esibito supporto anglo-americano alla piazza contro la mediazione franco-polacco-tedesca(valga il “Fuck the EU!” di Victoria Nuland, avanguardia neocon a Kiev).

Seguono ratto russo della Crimea e scoppio della guerra nel Donbas fra filorussi appoggiati da Mosca e resistenza ucraina alimentata da britannici e americani. Fino all’invasione del 24 febbraio 2022. La guerra fra i due massimi Stati postsovietici diventa teatro principale dello scontro indiretto fra Russia e America. Salto di scala dall’Europa orientale al teatro mondiale.

 

La seconda guerra, fra Mosca e Washington, è derivata strategica dello scontro russo-ucraino. Condizionata dall’impossibilità che una parte distrugga l’altra senza rischiare di distruggere il pianeta.

 

Nel novembre 2021 il capo della Cia Burns si preoccupa di concordare al telefono con Putin i limiti della guerra che il Cremlino si appresta a scatenare contro Kiev e della reazione americana: entrambe sotto la soglia nucleare. Quanto al coinvolgimento atlantico, avverrà per interposti ucraini.

 

Quando la Russia invade l’Ucraina, l’America con i suoi alleati si trova così vincolata a due scopi strategici contraddittori. Primo: Mosca si deve ritirare dai territori occupati. Secondo: noi non facciamo né faremo la guerra ai russi. A meno di non contare sulla conversione alla pace di Putin sulla via di Kiev, il doppio obiettivo era e resta impossibile. Pur di non ammetterlo e quindi concedere a Mosca di tenersi la parte di Ucraina che riesce a conquistare oppure scatenare la guerra mondiale nucleare, ad americani e soci occidentali resta il classico conflitto per procura. Armiamo e finanziamo Kiev, che in cambio si impegna a una guerra solamente difensiva per evitare il rischio dell’olocausto atomico. Scontro di attrito, in cui di norma prevale chi ha più risorse da consumare: nel caso, la Russia. Disposto a tutto pur di guadagnarsi l’agognato accesso alla Nato, Zelensky accetta la sfida.

 

SECONDA  CARTA DI LAURA CANALI 

Ipotesi scenario caduta di Odessa

Direzione del probabile attacco russo

di Laura Canali

Fonte: Nato, lnstitute for the Study of War, Bbc, Le Monde, autori di Limes. (al 18 marzo 2024)

 

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Gli ucraini combattono una guerra che non possono vincere a meno che la Russia non collassi dall’interno. Ma l’amministrazione Biden non vuole distruggere la seconda (forse prima) potenza nucleare del pianeta. Non solo perché ne teme la rappresaglia atomica. Negli apparati di Washington non si è persa la memoria del postulato segreto di Eisenhower, che nel 1953 considerava nefando l’annientamento dell’Urss perché avrebbe costretto gli Stati Uniti a occuparla, involvendo così da liberaldemocrazia a Stato caserma. Sicché Biden punta a indebolire la Federazione Russa non per eliminarla ma per colpire il nemico strategico cui la Russia si è malvolentieri associata proprio in seguito alla perdita di Kiev, la Cina.

Il segretario Usa alla Difesa, Austin, è esplicito fin dai primi giorni dell’aggressione russa: l’obiettivo è che Putin ne esca talmente provato da rinunciare a qualsiasi speranza di invadere nuovamente un paese vicino. L’Ucraina funge da carta assorbente dell’imperialismo moscovita per la maggior sicurezza degli atlantici.

 

Paradossi incrociati: gli ucraini usano gli americani e viceversa per scopi strategici incompatibili; gli americani dissanguano gli ucraini prima e più di quanto infragiliscano i russi; senza sparare un colpo, i cinesi ne profittano per ergersi a promotori di pace mentre penetrano la sfera d’influenza della Russia in Asia centrale e premono sulla Siberia, mirando a controllare la rotta artica fra Estremo Oriente, Nord Europa e America, estrema risorsa di Mosca per restare potenza mondiale.

 

Eccoci alla terza dimensione del conflitto ucraino: la Guerra Grande,

intesa parossistica

competizione fra America, Russia e Cina sui più diversi scacchieri e con le più varie modalità, con attuale prevalenza della guerra economica.

 

Noi euroatlantici restiamo comprimari. Cerchiamo di orientarci in questa giungla, mentre la guerra batte alle porte di casa. Ci muoviamo in ordine rigorosamente sparso: le “avanguardie antirusse”, come Biden definisce i paesi dell’Est a ridosso del nemico – dagli scandinavi ai baltici, dai polacchi ai romeni – riarmano alla grande e virano verso economie di guerra, in stretto coordinamento con i britannici, vicari degli americani per il Nord Europa; francesi, tedeschi, spagnoli e italiani con gradi variabili di (dis)impegno e scarsa coerenza fra retorica e fatti; ungheresi e slovacchi ripiegano sulla neutralità di fatto, mentre i “neutrali” svizzeri si scoprono atlantici e gli “atlantici” turchi giocano in proprio, offrendosi (dis)onesti sensali a Mosca e a Kiev mentre perseguono i propri sogni neoimperiali.

 

Parola d’ordine di britannici e altri atlantici di punta: sosteniamo gli ucraini con tutte le risorse militari, economiche e politiche disponibili per tutto il tempo necessario. Salvo scoprire, dopo oltre due anni di guerra, che le nostre risorse e il nostro tempo sono quantità limitate. E che l’Ucraina non dispone dei mezzi sufficienti per riprendere e poi controllare le sue province conquistate dalla Russia. Il doppio obiettivo si svela doppio boomerang.

 

Di qui lo slittamento dal salvare l’integrità territoriale dell’Ucraina al salvare la faccia sulla pelle degli ucraini. Rischiando di perdere l’una e l’altra.

 

Ecco il rilievo del 24 febbraio, data simbolo nel calendario della storia. Ben più importante dell’11 settembre. Questo segnava l’attacco jihadista al territorio americano, presunto santuario inviolabile. Gli Stati Uniti si facevano trascinare nella “guerra al terrore”, ovvero alla galassia islamista. Duello per definizione invincibile, dato che intendeva liquidare non un nemico ma una modalità bellica. Poco si capisce della riluttanza americana a spedire proprie truppe a protezione dell’Ucraina senza considerare il trauma in quella sconfitta autoinflitta, culminata nell’ingloriosa fuga da Kabul. Il resto del mondo l’ha registrata e classificata sintomo rivelatore del ripido declino americano. Con il Numero Uno in affanno scatta il festival dei revisionismi.

Nella Guerra Grande l’Occidente si scopre minoritario rispetto al “Sud Globale”, l’ex Terzo Mondo della guerra fredda.

Certo non un blocco, ma una galassia eterogenea da cui russi e cinesi, in sorda competizione, pescano risorse da impiegare per indebolire l’America e dividere gli occidentali. Mentre antiche e nuove potenze fino a ieri secondarie profittano per coltivare ambizioni forse sproporzionate alla rispettiva taglia: è il caso in Europa della Polonia, che nella guerra di Ucraina si guadagna il rango di riferimento continentale degli Stati Uniti e riscopre ambizioni imperiali, tra Baltico e Nero;

in Asia dell’India e del Giappone;

all’incrocio di Europa, Asia e Africa si fa largo la Turchia in vena neottomana e panislamista. Siamo in piena transizione egemonica. L’America non è più in grado di mettere ordine nel mondo. Ma non si vede chi possa prenderne il posto. Garanzia di caos prolungato.

Monito per noi italiani ed altri europei, attori sempre meno indiretti sul fronte ucraino e sempre meno influenti sulle altre due scale belliche. Costretti a convivere con le nostre differenze verniciandole di mediatico afflato unitario mentre ci muoviamo ciascuno per sé, al massimo per sottogruppi provvisori. Così subiamo gli effetti combinati delle tre guerre, che ci svelano comprimari destinati a soffrire le conseguenze di questa colossale partita senza davvero incidervi. Con ammirevole tendenza a rimuoverla, perché nel nostro piccolo universo ci era stato insegnato come la guerra fosse orrore del passato. Europa Felix, maestra di pace nel mondo invaso e dominato durante i secoli “nostri”. Lo iato tra ciò che credevamo di essere e ciò che siamo rende più doloroso l’impatto con la realtà, manda fuori giri la nostra retorica, produce qualche isteria. Proprio quando la sobria rilevazione dei fatti assurge a necessità esistenziale. Per non finire nella guerra totale. A che punto siamo?

 

TERZA CARTA DI LAURA CANALI

 

L’Ucraina fra URSS e indipendenza

Primi Stati ucraini dopo la prima guerra mondiale

di Laura Canali

 

 

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Se crolla l’Ucraina

“Sappiamo che non finiremo la guerra con una nostra parata della vittoria a Mosca. Ma Mosca non deve mai sperare in una sua parata della vittoria a Kiev”. Così lo scorso settembre Kyrylo Budanov, giovane ed estroverso generale a capo del servizio di intelligence militare ucraino, prefigurava l’esito non trionfale della guerra russo-ucraina.

Lo stesso ufficiale che il 4 gennaio aveva festeggiato il trentasettesimo compleanno tagliando una torta che raffigurava la Federazione Russa spezzata in diverse porzioni. Tra cui la Siberia, affidata alla Cina. Paradosso dei paradossi: per il capo dei servizi di Kiev la frammentazione della Russia avrebbe dovuto assegnarne la parte più grande e più ricca in risorse minerarie alla Cina, avversario strategico dell’America, paese da cui il suo dipende.

 

Al di sotto del chiasso propagandistico, si delinea in teoria un asimmetrico “pareggio” da ciascuno spacciabile per (quasi) vittoria: la Russia perde l’Ucraina e l’Ucraina perde il Donbas insieme alla Crimea, ma continua a rivendicarle proprie, con la benedizione dell’Occidente tutto e di quasi tutti gli altri Stati, Cina inclusa.

Si stabilisce una frontiera di fatto lungo l’attuale linea del fronte, via interposizione di contingenti internazionali a garanzia di una tregua illimitata. L’Unione Europea promette di accelerare l’integrazione dell’Ucraina. La Nato non accoglie Kiev ma lascia aperta la porta a questa prospettiva.

Non è la pace, solo il cessate-il-fuoco necessario a porne le premesse, sapendo che non sarà per domani né dopodomani. Sviluppando il doppio slogan di Budanov, Mosca e Kiev organizzeranno le rispettive sfilate celebrative – però ciascuna a casa propria. Mascherando da successo l’esito di uno scontro inconcluso. Guerra congelata in stile coreano, come suggeriscono da tempo alcuni apparati ed esperti americani.

Ipotesi realistica, ma non immediata né priva di alternative. Anche perché contraddetta dalla propaganda, pervasiva, urlata e soprattutto indifferente ai dati sul terreno. Strumento bellico irrinunciabile, tanto più nell’èra dei social media. Come ricordava il barone di Ponsonby nel classico Falsehood in Wartime (1928): “La falsità è un’arma di guerra riconosciuta ed estremamente utile. Ogni paese la usa deliberatamente per ingannare il proprio popolo, attrarre i neutrali e confondere il nemico”. L’importante è non confondere sé stessi. E valutare i fatti, se riusciamo a discernerli, per quel che sono e non per come vorremmo fossero. Anche perché tra i pochi insegnamenti della storia spicca la ricorrente vendetta dei fatti su chi li travisa o traveste. Specialmente nelle società relativamente aperte come le occidentali, dove capita che le verità vengano comunque a galla per chi vuole intenderle, mentre i regimi autocratici, non solo orientali, le coprono fino all’assurdo, al punto di suicidarsi pur di non ammettere la menzogna.

 

Che cosa ci dicono oggi i fatti nella mischia russo-ucraina, sul piano strettamente militare? In sintesi e per importanza.

 

Primo: l’Ucraina è uno Stato tecnicamente fallito, perché totalmente dipendente dall’aiuto occidentale, in specie americano. A meno di un miracolo, non pare in grado di riconquistare i territori perduti causa aggressione russa. Se poi perdesse anche Odessa, sarebbe ridotto a satellite di Mosca senza sbocco al mare, tagliato fuori dal resto del mondo. Inoltre, preso il porto sul Mar Nero i russi potrebbero risalire fino alla Transnistria, exclave strappata alla Moldova, per riconnetterla direttamente alla Federazione.

Secondo: la Russia non ha sfondato in profondità il fronte nemico. Dopo la fallita marcia su Kiev si è attestata su una linea ultraforticata che protegge quel 20% circa di territorio ucraino in suo controllo, non molto più di quello su cui aveva già indirettamente messo le mani prima del fatidico 24 febbraio. Anche dopo il fallimento della cosiddetta “controffensiva ucraina” – più propaganda che sostanza – Putin sembra preferire non prendere troppi rischi. Almeno fin quando dall’altra parte della barricata vi saranno uomini e risorse sufficienti a infliggere gravi perdite alle sue truppe. La rivolta di alcuni reparti russi che spinse Prigožin all’avventurosa marcia su Mosca gli è valsa da lezione. Ma un cedimento del fronte interno ucraino potrebbe rovesciare questa logica.

Terzo: per conseguenza dei primi due fattori, Zelensky ha ordinato di fortificare il fronte a poca distanza dalle avanguardie nemiche. Denti di drago, barriere, filo spinato. Esattamente come i trinceramenti russi. Le fotografie satellitari indicano questo parallelismo fra opposte linee difensive. Messaggio in codice: non vengo a cercarti oltre il mio pomerio e tu non provare a penetrare il mio. “Coree” pure.

 

A questo trittico conviene sommare un elemento trascurato ma dirimente: il fattore umano. Il fronte divide l’Ucraina fra la zona occupata dalle truppe di Mosca, a grande maggioranza abitata da russi o filorussi per vocazione od opportunismo, e il grosso del paese, ucraino o reso tale per reazione all’aggressione russa. Con punte ultranazionaliste nel Nord-Ovest, centrate su Leopoli e sulla Galizia, che i “falchi” russi volentieri assegnerebbero alla Polonia, così come lascerebbero esigui spazi ucraini a romeni e ungheresi. In omaggio al postulato di Putin per cui l’Ucraina non esiste dunque va smaltita fra i suoi vicini. Il recente rientro di parte degli sfollati ucraini nelle zone occupate da Mosca, Mariupol compresa, segnala che vi è chi preferisce vivere sotto i russi ma in casa propria piuttosto che altrove.

 

Quanto fragile sia il fronte interno ucraino lo conferma il continuo rinvio della molto annunciata legge che promette mezzo milione di coscritti per evitare il crollo del fronte. Sono decine di migliaia i giovani e meno giovani che sfuggono all’obbligo militare perché non vedono più il senso della guerra, certo non incoraggiati dai pronostici di autorevoli esponenti americani. Come il leader dei democratici al Congresso, Schumer, per cui “l’Ucraina potrà resistere ancora un paio di mesi”. Quanto a Macron, che ventila l’invio di soldati sul terreno sapendo che avrebbero munizioni per meno di una settimana, il suo bluff non illude nessuno. Ma spaventa molti in Occidente (meno in Russia). Se la comunicazione prevale sulla realtà, se ragioniamo sulle speranze invece che sui fatti, tutto diventa possibile. Anche perderci dentro una guerra che non vogliamo né possiamo combattere al fronte, mentre proclamiamo di doverla vincere.

 

 

QUARTA CARTA DI LAURA CANALI

Russia e rivoluzione

di Laura Canali

Fonte: Storia Contemporanea – Le Monier Università 2021, The Times Books London – Complete History of the World 2004 e autori di Limes

 

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La mappa storica inquadra il contesto in cui si esprime per la prima volta il tentativo ucraino di emanciparsi dall’impero russo, ovvero quello della prima guerra mondiale (1914-18) e della conseguente guerra civile fra “rossi” bolscevichi e “bianchi” sostenuti da potenze straniere (1918-21). Al centro spiccano due simboli. Quello rotondo, presso Pietrogrado, capitale della Russia zarista, evidenzia il carattere di quel regime, mentre l’altro, con frecce che si dipanano a stella da Mosca, segnala la metropoli che sarà la capitale dell’Unione Sovietica, scelta perché più facile da proteggere.

Già verso l’estate del 1915 l’impero russo aveva perso molti territori, sicché lo zar Nicola II decise di assumere il comando delle Forze armate spostandosi nel quartier generale di Mogilëv, in Bielorussia. Mossa politicamente fatale perché lasciò allo sbando i vertici del governo rimasto a Pietrogrado. L’inadeguatezza dello zar nella gestione della guerra segnò la sua sorte e quella della dinastia Romanov. Il vuoto di potere aprì le porte alla rivoluzione bolscevica.

Nella mappa si mette in rilievo le ribellioni in Ucraina. Il gruppo di insorti contadini guidato da Nestor Makhno oppose seria resistenza sia agli austro-tedeschi che ai russi bianchi e ai bolscevichi.

Un primo embrione di Stato ucraino ebbe breve vita tra 1917 e 1918, sotto protezione tedesca. L’Armata Bianca, posizionata al Sud e all’Est era composta da controrivoluzionari e zaristi.

 

 

Vincere la pace

I manuali insegnano che le guerre si combattono per vincere la pace. Logica fuori moda, visto che i conflitti risultano spesso fini a sé stessi. Precetto però cogente per chi nel conflitto è coinvolto e vorrebbe uscirne vivo, in modo da considerare il prezzo pagato nello scontro quale investimento per un futuro migliore. In questo senso, chi nelle tre scale del conflitto sembra oggi in condizione di uscire vincente dalla cessazione delle ostilità? Visto il grado di logoramento imposto a tutte le potenze coinvolte, precisiamo: chi sta perdendo di meno?

Nella guerra russo-ucraina il provvisorio verdetto è chiaro: prevalgono i russi perché il fronte interno ucraino appare prossimo al collasso. La Russia ha pagato e continuerà a pagare un prezzo alto per l’aggressione del 24 febbraio, ma la sua esistenza non pare minacciata, almeno nel futuro visibile. L’Ucraina invece ha perso non solo territori importanti, che comunque aveva dimostrato di non poter gestire con profitto causa ostilità di buona parte della popolazione, ma soprattutto sostanza demografica. Al momento dell’indipendenza, 33 anni fa, si contavano 51 milioni di ucraini. Oggi le stime si aggirano attorno alla trentina, o meno. Effetto della fuga all’estero e del trasferimento sotto la Russia delle popolazioni di Crimea, Sebastopoli e province del Sud-Est. Sommando questi deflussi al crollo della natalità, se ne trae che nel 2033 abiteranno l’Ucraina al massimo 35 milioni di anime, al minimo 26 (stime dell’Istituto ucraino di demografia e ricerca sociale).

Quanto ai danni materiali sono tali da stimare la ricostruzione in almeno cinquecento miliardi di euro. E’ chiaro che senza il sostegno occidentale il futuro dell’Ucraina sarà amaro. Soprattutto, ogni giorno di guerra in più lo rende meno attraente. Considerando anche come il tempo giochi contro la disponibilità di americani ed europei a impegnare risorse per l’Ucraina.

 

Sulla scala russo-americana, il verdetto non è scritto ma oggi pende a favore di Mosca. Con qualche bemolle. L’obiettivo strategico di Washington era portare l’Ucraina a bandiere spiegate nella Nato. Prospettiva impossibile con i russi che ne controllano un quinto del territorio e tengono sotto schiaffo il resto. Nel frattempo però la Nato si è allargata a Svezia e Finlandia, sicché il Mar Baltico è ormai Lago Atlantico. E l’Alleanza, seppure divisa, sta spostando uomini, basi e armi a ridosso della frontiera russa.

A far pendere la bilancia contro Washington sta un fattore immateriale ma rilevante:

ancora una volta gli americani promettono molto più di quanto possano mantenere ai loro associati in pericolo. Salvo poi defilarsi. Dal Vietnam all’Afghanistan, questa è la regola. Le guerre per procura finiscono in sconfitte perché minano la credibilità del Numero Uno. Se poi l’avversario è un rivale storico come la Russia, l’effetto negativo è moltiplicato.

 

Nel contesto della Guerra Grande, quanto accade sul fronte ucraino gioca a favore della Cina. Se Washington usa Kiev contro Mosca, Pechino usa Mosca contro Washington. E a differenza dell’arcirivale a stelle e strisce lo fa con profitto.

Contribuisce infatti a tenere in piedi la Russia senza impegnarsi al fronte, mentre ne infiltra la sfera d’influenza. Guerra per procura soft, molto più redditizia e meno rischiosa della versione hard praticata dagli americani tramite i combattenti ucraini. Russi e cinesi contribuiscono inoltre a suscitare gli umori anti-occidentali del cosiddetto “Sud Globale”, salvo disputarsene diverse aree strategiche, specie in Africa e in Asia.

Chi figura senza ombra di dubbio nella colonna dei perdenti siamo noi europei.

 

Come può vincere la pace chi pensava di averla acquisita per diritto naturale e si trova invece coinvolto fino al collo nella guerra combattuta nel proprio continente, con la partecipazione delle massime potenze mondiali? Scopriamo di dover dubitare della disponibilità americana a difenderci senza disporre di una deterrenza minimamente paragonabile a quella perduta in seguito al relativo disimpegno della superpotenza protettrice, orientata verso l’Indo-Pacifico. Intanto paghiamo la bolletta delle sanzioni anti-Putin, che ci colpiscono più radicalmente di quanto infieriscano sulla Russia.

Con la Germania caso limite: senza gas russo e mentre perde quote del mercato cinese, quel motore economico in esaurimento si volge contro i suoi costruttori. E per conseguenza contro i partner europei, Italia in testa.

Noi italiani abbiamo un problema in più rispetto agli altri. Continuiamo a mettere la testa nella sabbia. Facciamo finta di non vedere che la triplice dimensione della guerra in Ucraina, sommata al surriscaldamento del fronte mediorientale e al rivoluzionamento delle gerarchie internazionali ci costringe alla radicale revisione del nostro modo di (non) stare al mondo. Riusciremo in extremis a raddrizzare la barca? Non sarebbe dolce naufragar in questo mare.

 

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