ULTIMA PARTE :
SUL CONFLITTO ISRAELE // HEZBOLLAH ( LIBANO )
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LIMESONLINE — 25 GIUGNO 2024 — 17.13
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COME LA QUESTIONE SIRIANA È TORNATA AL CENTRO DEI NEGOZIATI IN MEDIO ORIENTE
La normalizzazione con Damasco e il destino dei profughi siriani sono la posta in gioco di numerose iniziative diplomatiche regionali. Il “club di Cipro” e l’Italia come mediatore. Il senso del viaggio del cardinale Parolin a Beirut. La Russia riprova a mettere al tavolo Turchia e Assad.
Dettaglio di una carta di Laura Canali. La versione integrale è nell’articolo.
Il prolungato conflitto siriano segue una dinamica altalenante. Come un fiume carsico, che scorre ora sotto terra e ora appare in superficie per poi scomparire nuovamente nei meandri rocciosi. Da diverso tempo sembra che non succeda nulla e che nulla succederà. In realtà, sotto le trincee apparentemente immutate dal 2018, sono in corso diversi movimenti politici e diplomatici, con un fermento che spinge alcuni osservatori a immaginare, persino a breve, sviluppi improvvisi.
Di fronte al possibile scatenarsi di numerose variabili, una costante emerge chiara: il mantenimento di una relativa stabilità del potere di Damasco appare una priorità di quasi tutti gli attori coinvolti in queste manovre, inclusi numerosi paesi europei.
In queste ultime settimane la questione siriana e il relativo dossier dei migranti clandestini, per lo più siriani, provenienti dal Libano verso le coste italiane dell’Unione Europea è infatti tornata al centro dei negoziati politici regionali e internazionali.
E ciò è avvenuto in tre diverse occasioni di rilievo: la visita in corso in Libano del segretario di Stato del Vaticano, il cardinale Pietro Parolin; un incontro a metà giugno in Siria tra rappresentanti dei governi russo, siriano e turco; il summit a Cipro a metà maggio tra i ministri degli Interni e altri rappresentanti di otto paesi dell’Ue, tra cui l’Italia, per discutere di “migrazione e dinamiche siriane”.
Si tratta di incontri formalmente distinti l’uno dall’altro, che coinvolgono diverse questioni non legate tra di loro e che hanno a che fare con teatri di conflitto in apparenza differenti. Ma che sono organici a una dinamica di lungo corso parte dell’incessante negoziato tra attori locali e regionali per la definizione degli equilibri mediorientali e, dunque, mediterranei.
In questo senso, sia l’Italia sia il Vaticano possono svolgere un ruolo cruciale. Al centro della questione c’è il tema della normalizzazione dei rapporti tra il sistema di potere siriano, incarnato dal contestato presidente Bashar al-Asad (Assad), e diversi attori occidentali, tra cui appunto i paesi dell’Unione Europea.
L’interesse di quest’ultimi è contenere i crescenti flussi di migranti clandestini che provengono sia dal continente africano (rotta mediterranea centrale) sia dal Mediterraneo orientale. In effetti, dopo che la rotta balcanica terrestre è stata di fatto bloccata nel corso degli anni e successivamente alla crisi del 2015, i flussi riguardano le rotte marittime dal nord del Libano verso l’Italia.
Cipro, Grecia e Malta sono in prima linea come terre di transito delle imbarcazioni dirette verso le coste di Calabria, Puglia e Sicilia. Oltre ai quattro paesi del Mediterraneo meridionale, al summit di Cipro hanno partecipato anche i ministri degli Interni di alcuni governi dell’Europa centrale: Repubblica Ceca, Austria, Polonia e Danimarca. Le prime tre puntano a consolidare i blocchi della rotta balcanica. Copenaghen, visto che confina con la Germania (destinazione della stragrande maggioranza di migranti siriani arrivati in Europa nel corso dell’ultimo decennio), vuole proteggersi da future nuove ondate di richiedenti asilo. Se la Danimarca non ha firmato il documento finale, è possibile che l’Italia abbia lavorato per apportare delle modifiche sostanziali alla bozza per renderla meno drastica.
Nel documento finale si fa infatti riferimento ai principi, stipulati dall’alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), sulla necessità degli Stati di garantire la volontarietà del rimpatrio dei profughi siriani, la loro sicurezza e dignità. È verosimile ipotizzare che il chiaro riferimento a questi principi sia stato inserito grazie alla mediazione dell’Italia.
A parte l’Italia, gli altri paesi membri dell’Ue presenti al summit di Cipro hanno preferito un approccio che prioritizza l’apertura di un dialogo politico con Damasco. Questo in cambio di una stretta collaborazione da parte di Assad sia per far tornare i milioni di profughi da anni presenti tra Turchia, Libano e Giordania, sia per contenere le spinte migratorie verso il Vecchio Continente.
Questa linea politica cozza con la posizione ufficiale di Francia e Germania. Da anni i due paesi guida dell’Ue, in linea con gli Stati Uniti, rifiutano di modificare il loro approccio alla questione siriana, rimanendo fermi sul principio che la normalizzazione con Assad deve essere condizionata all’avvio di un processo di transizione politica interno alla Siria. In poche parole, accettare il rimpatrio massiccio di profughi siriani significherebbe ammettere che Assad, assieme ai suoi alleati russi e iraniani, ha vinto la guerra.
Nell’ambito della sua alleanza strategica con gli Stati Uniti, l’Italia non sembra volersi discostare troppo dalle posizioni franco-tedesche. Eppure, è verosimile che riconosca l’esigenza di modificare gradualmente l’approccio di Bruxelles alla questione siriana. Questo spiega la sua presenza al tavolo di quello che da alcuni è stato già ribattezzato il “club di Cipro”.
All’interno di questa dialettica interna all’Ue, da anni l’Italia appare svolgere un ruolo di mediazione tra le posizioni più intransigenti e rigide di Parigi e Berlino e quelle più pragmatiche – e accomodanti nei confronti di Assad – di altri paesi europei.
Carta di Laura Canali – 2023
All’inizio di giugno, una notizia mai confermata dalle autorità italiane ha fatto il giro dei media siriani e mediorientali: il 28 maggio il generale Giovanni Caravelli, a capo dell’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise), si è recato il 28 maggio a Damasco per un incontro con Assad in persona e con il generale Husam Luqa, a capo dell’ufficio che coordina le agenzie di intelligence siriane e noto da anni per essere uno dei migliori negoziatori siriani.
Sebbene non ci siano prove della veridicità della visita di Caravelli, resta indicativo che nella mediasfera siriana e regionale si sia dato tanto risalto a questo potenziale sviluppo.
Tali media hanno riportato che, tra le varie questioni trattate, il rappresentante italiano e la controparte siriana hanno discusso della possibile apertura di un dialogo politico tra Damasco e gli Stati europei che hanno partecipato all’incontro di Cipro di metà maggio: Italia, Austria, Repubblica Ceca, Polonia, Danimarca, Grecia. A questi, secondo i media siriani, si aggiunge la Romania, un altro paese coinvolto direttamente nel fenomeno migratorio lungo la rotta balcanica.
Al di là di quelle che possono sembrare solo illazioni, è un fatto ormai accertato che, dal punto di vista di Damasco, il ritorno massiccio dei profughi può essere effettuato soltanto a patto che la comunità occidentale riconosca il governo centrale, incarnato da Assad, come unico rappresentante istituzionale del paese.
Per il regime siriano, il primo passo deve essere la rimozione dei vari tipi di sanzioni economiche, commerciali, finanziarie e individuali imposte dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Inoltre, la normalizzazione dovrà inevitabilmente portare al ritiro dal territorio siriano delle forze militari statunitensi e turche. Le quali sono definite “occupanti” dal governo siriano perché sono entrate in Siria senza un accordo bilaterale con Damasco, a differenza di quelle russe e iraniane.
In breve, Assad chiede il ripristino totale della sua sovranità, politica e territoriale, su tutto il territorio siriano. E quindi della sua legittimità internazionale come presidente della Repubblica Araba di Siria. Queste richieste sono considerate, almeno per ora, inaccettabili da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania. Oltre a essere umanitaria, logistica su scala regionale e locale, la questione del ritorno di circa sei milioni di profughi siriani è dunque politica e su scala internazionale.
ISRAELE / HEZBOLLAH – LIBANO
In questo intreccio si inserisce il conflitto in corso tra Hezbollah e Israele e la questione, strettamente collegata alla guerra mediorientale, del futuro istituzionale del Libano. Un paese travolto da quasi cinque anni dalla peggiore crisi finanziaria della sua storia e afflitto da più di un decennio dalla presenza di oltre un milione di profughi siriani.
Qui si inquadra la visita, dal 23 al 27 giugno, a Beirut e dintorni del capo della diplomazia vaticana, il cardinale Parolin. Non è escluso ipotizzare che tra gli obiettivi più urgenti per il Vaticano ci sia quello di contribuire a trovare una via d’uscita diplomatica all’escalation militare in corso da nove mesi tra il Sud del Libano e l’Alta Galilea.
L’alto rappresentante di Papa Francesco è un attore di mediazione d’alto rango. A Beirut, Parolin incontra Nabih Berri, presidente del parlamento e interlocutore privilegiato tra gli hezbollah e i paesi occidentali. Lo stesso cardinale dialoga costantemente con gli Stati Uniti, i paesi europei e con gli stessi israeliani.
Nel più lungo termine, gli sforzi del Vaticano possono mirare a far uscire il Libano da un vuoto istituzionale che si prolunga da quasi due anni. Il paese non ha un capo di Stato dall’autunno 2022. Non ha un governatore della banca centrale. E non ha neanche un governo nel pieno dei suoi poteri. Il capo delle Forze armate libanesi, il generale Joseph Aoun, di recente recatosi negli Stati Uniti, ha un mandato scaduto, rinnovato in extremis lo scorso gennaio per altri dodici mesi.
Molti osservatori sostengono che il Libano sia sempre più dominato dagli hezbollah. L’alleato mediterraneo dell’Iran appare egemone sia sul terreno – sul fronte del Sud del Libano e nelle retrovie, nell’entroterra e lungo i confini con la Siria – sia negli organi istituzionali, inclusi i vertici giudiziari e i servizi di sicurezza. Gli stessi servizi di sicurezza incaricati di fatto di gestire il rimpatrio col contagocce di profughi siriani considerati clandestini.
Secondo questi osservatori, fare in modo che le forze politiche libanesi – soprattutto quelle cristiane, alcune ostili e altre alleate di Hezbollah – riescano a trovare quanto prima un accordo per eleggere il capo di Stato (maronita) è il primo passo per emancipare il Libano dalla morsa militare-istituzionale del Partito di Dio.
Ma sarà molto difficile che ciò accada nel breve e nel medio termine. Per ora infatti le forze politiche locali e regionali che spingono per il mantenimento dello status quo sembrano avere più carte da giocare di quelle che chiedono un cambiamento degli equilibri.
Sia Hezbollah che i suoi alleati, inclusi i maroniti della Corrente patriottica libera (Cpl) guidata da Gibran Bassil, hanno ripetutamente minacciato i paesi europei di organizzare partenze in massa di profughi siriani dalle coste libanesi. Il Partito di Dio, su questo tema perfettamente allineato a Damasco, preme affinché l’eventuale rimpatrio di siriani dal Libano e dagli altri paesi della regione avvenga solo in caso di piena normalizzazione tra Stati Uniti, Ue e governo siriano. Non ci sono né alternative né vie di mezzo
Nel frattempo, permangono il vuoto istituzionale libanese e lo stallo sulla questione migranti dal Libano verso i paesi europei. Con buona pace di quegli attori che, per vari interessi particolari, hanno fretta di modificare l’equazione attuale. Per ora la situazione rimane uguale anche all’interno della Siria, dove la Russia sembra esser tornata di recente a proporre ad Ankara e a Damasco la possibilità di un accordo di normalizzazione a danno delle forze curdo-siriane presenti nel nord-est del paese.
Carta di Laura Canali – 2024
Un’altra notizia, inizialmente non confermata, poi smentita da Damasco, ma ampiamente ripresa dai media siriani, riferisce di un incontro tra non meglio identificati rappresentanti turchi, siriani e russi svoltosi l’11 giugno scorso nella base militare russa di Hmeimim (Latakia), sede del quartier generale delle forze russe in Siria.
I media hanno riportato che al centro dei colloqui c’è stato il tentativo di Mosca di rimettere siriani e turchi al tavolo, già allestito dai mediatori russi quasi due anni fa. I negoziati erano cominciati nel 2022 tra Ali Mamluk, allora capo dell’intelligence di Damasco e predecessore di Husam Luqa, e il suo omologo Hakan Fidan, ora ministro degli Esteri della Turchia.
Secondo i media turchi e siriani, oggi come ieri il tema dei colloqui è il ritiro delle truppe turche dal nord-ovest e dal nord-est della Siria in cambio del ripristino degli accordi di sicurezza siro-turchi del 1998. Questi di fatto prevedevano una stretta collaborazione tra Damasco e Ankara in funzione anti-Partito dei lavoratori curdi (Pkk) e della sua ala siriana.
Anche la normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Siria riguarda da vicino la questione dell’eventuale rimpatrio di milioni di siriani presenti da anni nei territori turchi.
Ma ha a che fare soprattutto con il destino di oltre quattro milioni siriani che affollano da quasi un decennio il nord-ovest del paese (Idlib e dintorni) inclusa l’ex enclave curda di Afrin. In questa zona – dove gli Stati Uniti hanno dichiarato di aver ucciso nel 2019 il fondatore e allora leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi – ci sono tra l’altro numerose milizie qaidiste, per lo più locali accanto a delle formazioni straniere, come i combattenti uiguri del Turkestan orientale (cioè provenienti dalla Cina).
È dunque evidente che normalizzare i rapporti tra Ankara e Damasco significa aprire il vaso di Pandora di cosa ne sarà di Idlib e dintorni, un territorio del Mediterraneo orientale situato a sole tre ore di volo da Roma. E ciò chiama inevitabilmente in causa numerosi attori locali, regionali e soprattutto internazionali, tutti interessati alla “sicurezza” e alla “stabilità” dell’area.
Seguendo i fili intrecciati di queste varie manovre diplomatiche e politiche, che si muovono mentre avvengono diversi sviluppi militari sui vari teatri di guerra, appare chiaro quanto Assad e il suo sistema di potere si sentano, oggi più che mai, al centro sia degli equilibri regionali sia dei negoziati in corso tra chi spinge per un cambiamento – ognuno alla propria maniera e secondo la propria ricetta – e chi fa di tutto per mantenere le cose “così come stanno”.
Un bel rompicapo!