LE SCIENZE.IT — 3 GIUGNO 2013
Gaza
foto Vatican News
Il dolore del bambino abbandonato
di Charles A.Nelson, Nathan A.Fox e Charles H.Zeanah
Le difficoltà degli orfani rumeni svelano le cicatrici psichiche e fisiche di chi, nei primi anni di vita, è rimasto privo delle cure e dell’affetto di
“una persona sensibile ai suoi bisogni”.
Dati sulla situazione che ha portato alcuni funzionari statali rumeni ad accettare la collaborazione di ricercatori degli Stati Uniti per risolvere i grossi problemi che alcune leggi fatte ” a beneficio della popolazione “, avevano finito per causare.
foto di Nicolae Ceausescu da ragazzo –
Nicolae Ceausescu ( Scornicești, 1918 – Târgoviște, 1989), segretario generale del Partito Comunista Rumeno dal 1965, fu dittatore della Romania dal 1967 al dicembre 1989, anno in cui fu deposto e processato e ucciso ( la storia è controversa- vedi :
https://it.wikipedia.org/wiki/Nicolae_Ceau%C8%99escu . )
Nel 1966 il regime bandì l’aborto e il controllo delle nascite e introdusse altre politiche a sostegno dell’incremento del tasso di natalità per aumentare la popolazione della Romania. L’aborto era ammesso solo per le donne sopra i quarantadue anni o già madri di quattro (successivamente cinque) bambini. Le madri che avevano più di cinque figli ricevevano vari benefici che diventavano moltissimi per le madri con più di dieci.
Nei tardi anni sessanta la popolazione incominciò a crescere, accompagnata da un incremento della povertà e del numero di persone senza fissa dimora (specialmente bambini di strada) nelle aree urbane.
Un nuovo problema fu così creato dalla crescita incontrollata del fenomeno dell’abbandono dei bambini, che portò alla conseguente crescita della popolazione degli orfanotrofi (vedi Cighid). Infatti, sopraffatti dalle difficoltà, i genitori abbandonarono migliaia di bambini agli istituti statali. Proprio per interessare la popolazione e indurla a prendersi cura di questi bambini Ceaușescu e la moglie ne avevano adottato uno, Valentin Ceaușescu (n. il 17 febbraio 1948).
Negli anni Novanta, alcuni funzionari statali rumeni, nel tentativo di rimediare a questi abusi, hanno autorizzato uno studio condotto da ricercatori degli Stati Uniti sui bambini istituzionalizzati, ancora numerosi, per determinare gli effetti avversi dovuti al trascorrere l’infanzia in orfanotrofio.
foto: Unicef
LA RICERCA
Abbiamo reclutato, da tutti e sei gli istituti per bambini e neonati di Bucarest, un gruppo di 136 bambini risultati privi di difetti neurologici, genetici e di altro tipo alla nascita all’esame condotto da uno dei componenti del nostro gruppo. Tutti erano stati abbandonati e affidati a un istituto nelle prime settimane o mesi di vita. Alla data di inizio della ricerca avevano un’età compresa tra i 6 e i 31 mesi, con una media di 22 mesi. Subito dopo una serie di esami fisici e psicologici, che avrebbero fatto da riferimento, metà dei bambini è stata assegnata a caso a un intervento di affidamento sviluppato, gestito e finanziato dal nostro gruppo.
L’altra metà è rimasta in istituto – il gruppo detto dell’«assistenza di routine».
Abbiamo inoltre reclutato un terzo gruppo, composto da bambini con uno sviluppo tipico in famiglia a Bucarest, mai istituzionalizzati. I tre gruppi sono stati studiati per oltre dieci anni.
Dato che l’assegnazione al gruppo in affidamento o a quello rimasto in istituto era stata casuale, è stato possibile dimostrare che tutte le differenze nello sviluppo o nel comportamento tra i due gruppi di bambini erano attribuibili all’ambiente in cui erano stati allevati.
Poiché quando iniziammo a Bucarest non esisteva praticamente nessuna possibilità di affidamento infantile, ci siamo ritrovati nella condizione senza precedenti di dover costruire noi stessi una rete. Dopo un’ampia campagna pubblicitaria, e fatti i debiti controlli, abbiamo reclutato 53 famiglie cui sono stai affidati 68 bambini (abbiamo lasciato insieme i fratelli). Numerose, ovviamente, sono state le questioni etiche sollevate dal condurre una ricerca scientifica controllata su bambini piccoli, in uno studio in cui all’inizio solo metà dei partecipanti erano fatti uscire dall’istituto.
La progettazione della ricerca metteva a confronto l’intervento standard sui bambini abbandonati – l’allevamento in istituto – con l’affidamento familiare, un intervento che per questi bambini non era mai stato disponibile. Fra le salvaguardie etiche adottate vi erano la supervisione di varie istituzioni rumene e statunitensi, l’applicazione delle misure di «minimizzazione del rischio» comunemente adottate per la protezione dei bambini, e l’immediata accettazione delle decisioni statali sui cambiamenti di destinazione dei bambini nei casi di adozione, restituzione ai genitori biologici o, in seguito, di affidamento familiare promosso dallo Stato, pratica inesistente all’inizio.
Nessun bambino è stato riportato in istituto alla fine dello studio. Non appena si sono resi disponibili i primi risultati, li abbiamo comunicati al Governo rumeno in una conferenza stampa. Per assicurare la qualità dell’affidamento familiare, il disegno del programma prevedeva il regolare coinvolgimento di un team di assistenza sociale e comprendeva modesti sussidi per le spese. Tutti i genitori affidatari hanno dovuto ottenere un’autorizzazione, e hanno ricevuto un salario, non un sussidio. Sono inoltre stati sottoposti a formazione e incoraggiati a un pieno coinvolgimento psicologico verso i bambini loro affidati.
Lo studio intendeva esplorare l’assunto secondo cui spesso le esperienze precoci esercitano un’influenza particolarmente forte nel modellare il cervello immaturo.
Per alcuni comportamenti, le connessioni neurali si formano nei primi anni in risposta agli influssi ambientali durante determinate finestre temporali, o periodi sensibili. Un bambino che sente parlare gli altri, o che semplicemente si guarda attorno, riceve stimoli uditivi e visivi che in particolari periodi dello sviluppo modellano le sue connessioni neurali. Il risultato dello studio conferma la premessa iniziale che vi sia un periodo sensibile: trascorrere i primi anni in istituto o in affidamento comporta una differenza assai netta.
A 30, 40 e 52 mesi di età, il QI medio dei bambini istituzionalizzati era intorno a 70–75: per i bambini dati in affidamento era circa 10 punti più alto.
Prevedibilmente, nel gruppo che non era mai stato ricoverato in istituto il QI era intorno a 100, il valore medio standard.
Abbiamo anche scoperto che c’è un periodo sensibile in cui i bambini possono ottenere il massimo aumento del QI: quelli che avevano trovato una casa prima dei due anni presentavano QI significativamente più alti di quelli dati in affidamento più tardi. Queste osservazioni dimostrano chiaramente l’impatto devastante sulla mente e sul cervello del trascorrere i primi due anni di vita fra le mura impersonali di un istituto.
I bambini rumeni che hanno vissuto in istituto costituiscono a oggi la migliore prova per affermare che i primi due anni di vita sono un periodo sensibile in cui il bambino deve avere intimi contatti fisici ed emotivi per non trovarsi gravemente ostacolato nel suo sviluppo personale.
I bambini imparano con l’esperienza a chiedere conforto, sostegno e protezione alle persone che li accudiscono, che si tratti di genitori naturali o affidatari – e dunque abbiamo deciso di misurarne ” l’attaccamento “. Solo un’estrema limitazione delle opportunità di formare attaccamenti può interferire con questo processo, che sta a fondamento del normale sviluppo sociale.
Quando abbiamo misurato questa variabile nei bambini istituzionalizzati, abbiamo visto che la stragrande maggioranza mostrava di avere legami incompleti o aberranti con chi li accudiva. Quando i bambini hanno compiuto 42 mesi siamo tornati a valutare questa variabile, osservando che i bambini in affidamento presentavano nettissimi miglioramenti nella formazione di attaccamenti emotivi. Quasi la metà di essi aveva stabilito una relazione sicura con un’altra persona, contro il 18 per cento dei bambini vissuti in istituto.
Nei bambini della comunità in generale, che non erano mai stati istituzionalizzati, il 65 per cento presentava un attaccamento stabile.
I bambini dati in affidamento prima della fine del periodo sensibile di 24 mesi avevano maggiori probabilità di stabilire attaccamenti sicuri rispetto a quelli dati in affidamento dopo tale soglia.
Questi numeri sono qualcosa di più che mere differenze statistiche fra i due gruppi: si traducono per i bambini in vere esperienze di sofferenza e di speranza.
Sebastian (nessuno dei bambini è citato con il suo vero nome), 12 anni, ha trascorso praticamente l’intera vita in orfanotrofio, e ha visto il suo QI ridursi di 20 punti rispetto ai test condotti quando aveva cinque anni, fino a un valore, nettamente insufficiente, di 64. Forse non ha mai stabilito un attaccamento verso un’altra persona; e oggi beve alcolici e presenta altri comportamenti a rischio. Nel nostro incontro ha manifestato irritabilità e scoppi d’ira.
Bogdan, anche lui dodicenne, illustra la differenza dell’aver ricevuto l’attenzione individualizzata di un adulto. Abbandonato alla nascita, è rimasto in un reparto maternità fino ai due mesi, per poi trascorrere nove mesi in un istituto. Poi è stato immesso nel nostro progetto, assegnato a caso al gruppo dei bambini da dare in affidamento, e inserito in una famiglia composta da una madre sola con una figlia adolescente. Bogdan ha cominciato un rapido recupero, superando il suo lieve ritardo di sviluppo nel giro di qualche mese. Presentava comunque qualche problema comportamentale, ma l’équipe del progetto ha lavorato di concerto con la famiglia, e quando Bogdan ha compiuto cinque anni la madre affidataria ha deciso di adottarlo.
A 12 anni, continua ad avere un QI superiore alla media. Frequenta una delle migliori scuole pubbliche di Bucarest ed è il primo della sua classe.
Dato che i bambini cresciuti in istituto non sembravano ottenere grande attenzione personale, eravamo interessati vedere se una scarsa esposizione al parlato avesse avuto qualche effetto su di loro. Abbiamo così riscontrato ritardi nello sviluppo linguistico; se i bambini erano stati dati in affidamento prima di arrivare ai 15 o 16 mesi circa, parlavano normalmente, ma più tardi era avvenuto l’affidamento più erano rimasti indietro.
Abbiamo anche confrontato la prevalenza di problemi mentali tra i bambini istituzionalizzati, in qualsiasi misura, e quelli che non erano mai stati in istituto, osservando che il 53 per cento dei bambini passati per un istituto era stato diagnosticato come affetto da disturbi psichiatrici entro i quattro anni e mezzo di età, in confronto al 20 per cento di quelli poi dati in affidamento o mai istituzionalizzati.
In effetti, al 62 per cento dei bambini istituzionalizzati intorno ai cinque anni erano state diagnosticate condizioni che andavano dai disturbi d’ansia – 44 per cento – al disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD, 23 per cento).
I bambini tolti da un istituto dopo i due anni e quelli che non l’hanno mai lasciato manifestano un’attività cerebrale meno matura. L’affidamento familiare ha avuto una forte influenza sui livelli di ansia e depressione – riducendone l’incidenza della metà – ma non ha influito sui disturbi di tipo comportamentale (ADHD e altri disturbi).
Non abbiamo potuto individuare un periodo sensibile per la salute mentale. Le relazioni personali, tuttavia, erano senz’altro importanti.
Quando abbiamo esplorato il meccanismo per spiegare disturbi da ridotta risposta emotiva come la depressione abbiamo trovato che quanto più l’attaccamento tra bambino e genitore affidatario era sicuro tanto più era probabile che i sintomi si attenuassero.
Ci siamo inoltre chiesti se trascorrere i primi anni in affidamento influisse sullo sviluppo del cervello in modo diverso dal passarli in istituto. La valutazione dell’attività cerebrale mediante elettroencefalografia (EEG) – che registra i segnali di probabilità di stabilire attaccamenti sicuri rispetto a quelli dati in affidamento dopo tale soglia, ha mostrato che i bambini che vivevano in istituto presentavano riduzioni in una delle componenti dell’attività EEG e aumento del livello di un’altra componente (onde alfa ridotte e incremento delle onde theta), un andamento che potrebbe riflettere un ritardo nella maturazione del cervello.
Al traguardo degli otto anni siamo tornati a registrare gli EEG dei bambini, e abbiamo potuto vedere che il modello di attività elettrica cerebrale di quelli dati in affidamento prima dei due anni di età non differiva da quello dei bambini mai ricoverati in istituto.
I bambini tolti da un orfanotrofio dopo i due anni e quelli che non lo avevano mai lasciato presentavano invece modelli di attività cerebrale meno maturi. La notevole riduzione dell’attività EEG nei bambini istituzionalizzati ci ha sconcertato. Per interpretarla siamo passati ai dati ottenuti mediante risonanza magnetica, che permettono di visualizzare le strutture cerebrali, scoprendo che quei bambini presentavano una forte riduzione del volume sia della materia grigia (neuroni e altre cellule cerebrali) sia della sostanza bianca (il materiale che ricopre i prolungamenti filiformi dei neuroni).
Nel complesso, tutti i bambini che erano stati istituzionalizzati presentavano una riduzione del volume cerebrale. L’affidamento familiare, a prescindere dall’età, non aumentava in alcun modo la quantità di materia grigia – il gruppo dei bambini affidati aveva livelli di materia grigia paragonabile a quella dei bambini
istituzionalizzati.
Rispetto a questi ultimi, però, nei bambini affidati il volume della sostanza bianca era maggiore, il che potrebbe rendere conto delle differenze nell’attività EEG.
Per meglio esaminare il tributo biologico dell’istituzionalizzazione precoce ci siamo concentrati su una zona cruciale del genoma.
I telomeri, le regioni terminali dei cromosomi che li proteggono dallo stress della divisione cellulare, sono più brevi negli adulti sottoposti a stress psicologici estremi. L’accorciamento dei telomeri potrebbe persino segnalare un invecchiamento cellulare accelerato.
Quando abbiamo determinato la lunghezza dei telomeri nei bambini del nostro studio abbiamo osservato che, nel complesso, coloro che erano stati ospitati in un istituto per un qualunque periodo di tempo avevano telomeri più corti di quelli che non vi erano mai stati.
Il Progetto di intervento precoce di Bucarest ha dimostrato le profonde conseguenze delle prime esperienze sullo sviluppo del cervello. L’affidamento familiare non ha rimediato del tutto alle anomalie legate alla crescita in istituto, ma è riuscito prevalentemente a spostare la traiettoria di sviluppo dei bambini in una direzione favorevole.
L’identificazione di periodi sensibili – in cui il recupero dallo stato di privazione si verifica quanto prima il bambino comincia a vivere in un ambiente favorevole – è forse uno dei risultati più significativi del nostro progetto.
Gaza: «I bambini hanno sopportato un incubo senza tregua» | unicef.ch
Questa osservazione ha implicazioni che vanno al di là dei milioni di bambini che oggi vivono in istituto, e si estendono ai tanti altri milioni di piccoli maltrattati di cui devono occuparsi le autorità preposte alla protezione dell’infanzia. Attenzione, a non dare per scontato che i primi due anni possano essere definiti rigidamente come il periodo sensibile per lo sviluppo infantile; ma le prove suggeriscono che quanto prima i bambini godono delle cure di genitori stabili ed emotivamente coinvolti tanto migliori sono le loro possibilità di seguire un percorso di sviluppo più normale.
Stiamo continuando a seguire questi bambini nell’adolescenza, per vedere se vi siano effetti latenti, vale a dire significative differenze biologiche o comportamentali che si manifestano soltanto più tardi, in età giovanile o addirittura da adulti. Inoltre determineremo se gli effetti del periodo sensibile da noi osservati nell’età infantile saranno ancora osservabili all’entrata nell’adolescenza. Se così sarà, ciò andrà a rinforzare la crescente letteratura che parla del ruolo delle esperienze precoci nel condizionare lo sviluppo di tutta la vita.
Queste acquisizioni, a loro volta, possono servire a esercitare pressioni sugli apparati statali di tutto il mondo perché prestino maggiore attenzione al tributo che avversità e istituzionalizzazione precoci impongono alla capacità del bambino, via via che matura, di attraversare i rischi emotivi dell’adolescenza e acquistare la resilienza necessaria ad affrontare le prove che lo attendono da adulto.
Bambini in Romania che hanno partecipato alla ricerca
Bambini a Gaza
Laura Bresciano scrive:
23 Giugno 2024 alle 17:30 (Modifica)
Molto interessante. Grazie
Chiara Salvini scrive:
24 Giugno 2024 alle 15:45 (Modifica)
La ringrazio del suo apprezzamento, non ricordavo di averlo pubblicato, è ancora attuale, se si pensa ai bambini a Gaza, in Ucraina e nei vari posti dove c’è la guerra. E, certamente, le cause non sono solo la guerra ! Lo ripubblicherò. Per caso lei lavora in questo campo ? Glielo chiedo perché se fosse così, per noi- senza fare un lavoro specifico si interessasse alla tematica dei bambini- sarebbe importante avviare una collaborazione. Che fosse una volta sola o di più dipenderebbe soprattutto da lei. Ancora grazie, chiara per il blog
Questi dati, frutto di una ricerca scientifica, ci chiariscono ulteriormente l’importanza dell’affetto e dell’attenzione verso i bambini. Pensiamo a tutti quelli che in questo momento vivono in situazioni di estrema precarietà, magari perché privati dei loro genitori.