GUIDO CALDIRON, Mathieu Belezi, l’eredità coloniale, minaccia presente –L’INTERVISTA. Parla l’autore di «Attaccare la terra e il sole», per Gramma/Feltrinelli. –IL MANIFESTO 6 LUGLIO 2024 + LARA RICCI, IL SOLE 24 ORE 21 GIUGNO 2024

 

 

 

 

IL MANIFESTO 6 LUGLIO 2024
https://ilmanifesto.it/mathieu-belezi-leredita-coloniale-minaccia-presente

 

 

 

 

Mathieu Belezi, l’eredità coloniale, minaccia presente

 

 

L’INTERVISTA. Parla l’autore di «Attaccare la terra e il sole», per Gramma/Feltrinelli ( 16 euro ). Una giovane donna e un soldato narrano il debutto sanguinario della colonizzazione dell’Algeria nell’800. «È una vernice superficiale, gli avvenimenti di oggi, non solo in Francia, lo indicano. Per quanto l’Europa cerchi di civilizzarsi, la rimozione di quel passato alimenta nuovi razzismi»

 

 

 

 

 

Mathieu Belezi, l’eredità coloniale, minaccia presente

Manifesto della Compagnie algérienne (1917) Getty Images

 

Una famiglia di coloni riunita intorno a Séraphine, al marito e ai figli, incapaci di vedere il dolore che il sogno di riscatto che è stato promesso loro provoca tra «gli indigeni». E un soldato, tra i tanti, bretoni, alsaziani e marsigliesi che sotto la guida di un capitano sanguinario seminano l’orrore tra la popolazione algerina uccidendo, stuprando, dando alle fiamme interi villaggi. Sono due le voci narranti, ugualmente palpitanti, forti e perdute, allo stesso tempo inquietanti e di una fragilità minacciosa, che scandiscono nelle pagine di Attaccare la terra e il sole (traduzione di Maria Baiocchi, Gramma/Feltrinelli, pp. 136, euro 16) la tragica epopea del debutto dell’impresa coloniale francese in terra d’Algeria. Evento letterario di prima grandezza, firmato dallo scrittore Mathieu Belezi (Limoges, 1953) che a quella stagione ha dedicato una parte significativa della propria opera, Attaccare la terra e il sole è un romanzo di temibile e struggente potenza che con una costruzione in apparenza semplice, un discorso diretto che traduce alternativamente le ansie e l’ubriachezza distruttiva dei protagonisti, riesce a rendere il portato collettivo di un capitolo spesso negato della Storia di Francia. Un libro che con estrema determinazione ma altrettanta sapiente poetica del dolore, finisce perciò per interrogare il presente. Belezi interverrà il prossimo 10 luglio alle 18 alla Libreria Ubik di Como e l’11 luglio alle 18 alla Libreria Volante di Lecco.

 

 

 

Un ritratto di Mathieu Belezi firmato da Edoardo Delille

 

Quando, oltre trent’anni fa, il Front National ottenne le sue prime affermazioni elettorali – nulla di paragonabile all’odierna «marea nera» -, alcuni studiosi osservarono che era il passato coloniale del Paese che stava riemergendo: non aver assunto collettivamente il peso dei crimini perpetrati in Algeria rendeva possibile un nuovo razzismo di massa, specie verso gli arabi. Da tempo lei indaga sul piano narrativo il rimosso del colonialismo di Parigi: ritiene valide quelle analisi e pensa ci dicano qualcosa anche su ciò che accade ora?

 

Nella Storia tutto è sempre collegato. Ad esempio, non è possibile parlare costantemente della guerra d’Algeria (1954-1962), così come hanno fatto, anche con la complicità di alcuni storici, tutti i governi che si sono succeduti fin qui a Parigi, senza sapere nulla della conquista di quel Paese da parte dell’esercito francese nel 1830 e del modo in cui i coloni hanno amministrato queste cosiddette «terre barbare» durante 132 anni terribili. Certo che i ricercatori cui fa riferimento avevano e hanno ancora ragione a stabilire un collegamento tra la Storia e il presente che vede un partito razzista alle porte del potere in Francia. Ma mi spingerei anche oltre, credo che il razzismo di massa sia sempre esistito: gli uomini rifiutano sempre ciò che non gli assomiglia.

Il rifiuto, ma anche il disprezzo, per non dire l’odio delle popolazioni che hanno l’audacia di vivere in modo diverso su questa terra, di pensare diversamente, di amare e morire in altri modi: popoli rapidamente definiti come barbari, subumani che devono essere soggiogati o addirittura sterminati se la loro sottomissione si rivela impossibile. Pensiamo al comportamento spaventoso degli spagnoli e dei portoghesi nella conquista dell’America del Sud, e agli inglesi, ai francesi, agli olandesi, ai tedeschi o agli italiani che si sono comportati in modo altrettanto riprovevole quando hanno tentato di costruire degli imperi nel 19° come nel 20° secolo. E non credo che dopo la Seconda guerra mondiale tali comportamenti sono cambiati in modo significativo. L’Europa ha cercato di civilizzarsi, di considerare altrimenti le popolazioni indigene. Ma la vernice è fragile, gli avvenimenti recenti, in Francia e altrove, lo dimostrano. Forse dovremmo riconsiderare effettivamente la Storia d’Europa, smontare le statue e produrre finalmente una storia popolare di Francia, Inghilterra, Italia o Spagna come Howard Zinn ha fatto per gli Stati Uniti, al fine di comprendere meglio attraverso quali violenze questi Paesi sono passati prima di inventarsi una Storia popolata di eroi da onorare: perché il problema è che questa Storia non è quella giusta.

 

 

«Attaccare la terra e il sole» è il suo primo romanzo ad essere tradotto nel nostro Paese, ed è in qualche modo parte di un affresco in vari capitoli che lei ha dedicato alla colonizzazione francese dell’Algeria: perché questa scelta che emerge al centro della sua opera?

Ho scritto quattro romanzi che attraverso le voci di una decina di personaggi, raccontano i 132 anni di presenza francese sulla terra d’Algeria: qualcosa che per me rappresenta più di quindici anni di lavoro. Ma volevo assolutamente impegnarmi in tale progetto, perché la letteratura francese, proprio come il cinema del resto, non hanno neppure osato avvicinarsi al tema, preferendo rifugiarsi in una sorta di autocensura davvero comoda.

 

 

Nel libro è descritta la prima fase della conquista coloniale dell’Algeria, intorno alla metà dell’Ottocento. Una storia che si sarebbe conclusa solo nel 1962 con l’indipendenza del Paese nordafricano che era stato a lungo inquadrato amministrativamente come un Dipartimento francese: ritiene che affrontare questa lunga e tragica

vicenda rappresenti ancora un tabù in Francia?

 

La colonizzazione dell’Algeria da parte della Francia, questi 132 anni di turpitudine coloniale, sono argomenti che si evita volutamente di affrontare e che continuano ad essere esclusi dalle proposte di alcuni media. Nonostante con i miei romanzi abbia vinto il premio letterario di Le Monde e quello del Livre Inter, nonostante la vendita di quasi 100 mila copie dei miei libri, fino ad ora non ho mai messo piede in uno studio della televisione francese: lo scrittore Belezi non esiste. Oggi la Francia ha ancora difficoltà a riconoscere i comportamenti inaccettabili tenuti dal suo esercito e dai suoi coloni. Come ha fatto il Paese dei Diritti Umani a dimenticare fino a questo punto i suoi valori fondamentali?Questa è una domanda a cui è davvero difficile rispondere. Ma il mio ruolo di scrittore non è esattamente quello di porre questo tipo di quesito?

 

 

Pur se immersa nella tragedia, la lingua del romanzo ha un ritmo poetico e il profilo dei personaggi ne rende palpabili le emozioni e gli stati d’animo: come ha proceduto intorno a questi elementi, a partire da quali suggestioni e da quale documentazione storica?

 

Per me era molto importante trovare una forma letteraria forte, capace di trascendere le voci di Séraphine e del soldato. Perciò ho inventato questo stile orale deciso, che avvicina il più possibile le parole di questi due personaggi che in realtà non si incontrano mai, ma che, allo stesso tempo, non possono esistere l’uno senza l’altro, perché rappresentano l’avamposto di ogni colonizzazione: il soldato e il colono. È difficile spiegare come lavoro, ma diciamo che prima di ogni altra cosa cerco delle voci. Voci che pian piano si impongono, prendono corpo e autorità. Quindi, permetto loro di esprimersi senza sapere veramente cosa diranno, senza cercare una qualche conferma; e soprattutto sono attento a non censurarli, anche se ad esempio le parole del soldato possono condurre la storia su percorsi molto violenti. Quanto alla documentazione, mi sono basato su un’importante mole di materiali storici, le lettere che i soldati scrivevano alle loro famiglie (come, ad esempio, le lettere del maresciallo de Saint-Arnaud), i rari racconti dei coloni dell’epoca, quelli di Eugène François o Alexandre Villacrose, le opere degli storici, come quelle di Pierre Darmon o Charles-Robert Ageron.

 

I personaggi del libro evocano la presunta «missione civilizzatrice» della Francia in una terra «barbara». Eppure, malgrado l’impresa coloniale debuttò durante la restaurazione borbonica, sarà la République fondata sui valori di libertà, uguaglianza e fraternità a condurla in seguito: quanto ha pesato questa drammatica contraddizione nel giudizio che in seguito si è dato dei fatti e nel formarsi dell’opinione pubblica al riguardo?

Ogni opera di colonizzazione è stata intrapresa in nome di questa famosa missione civilizzatrice. Era un modo per giustificare degli inaccettabili sbarchi di truppe ai quattro angoli del pianeta. E tutte queste manovre avevano un solo obiettivo: impossessarsi delle ricchezza del Paese colonizzato e ingrandire l’impero che i governi europei stavano edificando per affermare la loro potenza e imporre la loro influenza economica e culturale. Così, tra il 19° e il 20° secolo si è registrata una sorta di «corsa all’impero» da parte dei Paesi d’Europa. Ma, per tornare alla Francia, va detto che la Terza Repubblica (1870-1940) fu prima di ogni altra cosa colonialista e razzista. E fino alla Seconda guerra mondiale (e anche un poco in seguito), nel Paese si esprimevano tranquillamente (sia che si fosse di sinistra come di destra) delle opinioni colonialiste e razziste. Tutto ciò con poche eccezioni, di cui si deve però evidentemente tenerne conto.

 

In un suo intervento apparso in questi giorni sull’Humanité lei ha scritto che la Francia si trova sul bordo del precipizio e che forse, collettivamente, non solo nel suo Paese, abbiamo perso un po’ tutti la capacità di reagire e di far sentire la nostra voce di fronte al peggio. Che Paese si aspetta esca domani sera dalle urne?

Un Paese ingovernabile. E devo dire che la Francia è arrivata a tutto ciò per mancanza di coraggio, preferendo nascondere i propri errori negli armadi della Storia e lasciando operare delle persone irresponsabili che si sono sforzate di ignorare, o addirittura di far scomparire interi tratti di questa storia coloniale che si è perpetrata in Nord Africa, Madagascar e Indocina. Un grave errore. Che rischiamo di pagare molto caro nei prossimi mesi. Per finire, vorrei citare lo storico Patrick Boucheron che spiega come «riparare non significa cancellare la ferita, ma continuare a guardarla per ciò che è, e affrontare il taglio che ha prodotto».

 

 

 

IL SOLE 24 ORE — 21 GIUGNO 2024

 

In questo articolo di  LARA RICCI  sono riportati vari passi del romanzo così uno può farsi un’idea del modo di scrivere dell’autore

Da che parte sta la civiltà? Mathieu Belezi e la colonizzazione dell’Algeria

 

 

Da che parte sta la civiltà? Mathieu Belezi e la colonizzazione dell’Algeria

 

La carestia in Algeria, opera di Gustave Guillaumet, 1868, che descrive la terribile carestia che colpì l'Algeria tra il 1866 e il 1868 a causa della siccità ma soprattutto alla gestione coloniale che ha distrutto la pastorizia tradizionale. La fame e le malattie si ritiene abbiano ucciso un terzo della popolazioneLa famine  ( carestia ) di Gustave Guillaume, 1869, Museo Nazionale di Cirta in Algeria

 

Gustave Guillaumet

Gustave Guillaumet  1840 – 1887

da : https://app.fta.art/it/artwork/

 

 

 

 

 

Caption

foto dal blog – link sotto– italo-canadese

LARA RICCI

 

Chi sono

 

 

 

Sulle chiatte discendono la Senna, la Saona, il Rodano. Arrivano davanti al mare, infine: «il mare e la sua luce accecante che sbatteva come una bandiera sul porto di Marsiglia». Sono contadini francesi che a metà dell’ottocento si apprestano a salpare per l’Algeria, stipati con altri cinquecento in una fregata. Il governo ha promesso loro sette ettari da coltivare, in cambio della «forza, [del]l’intelligenza, [del]l sangue nuovo e ribollente di cui la Francia ha bisogno in queste terre di barbarie». Tra questi Séraphine, suo marito, i loro tre bambini, la sorella col marito e il figlio. «Ingenui emigranti»: molti moriranno, altri diverranno belve. Qualcuno farà ritorno, pieno di piaghe.

Attaccare la terra e il sole, di Mathieu Belezi, pseudonimo dello scrittore francese Gérard-Martial Princeau, che a partire dal 2008 ha raccontato in varie opere narrative il “far west” francese, ovvero la conquista dell’Algeria durante il regno di Louis-Philippe, è uno dei romanzi con cui si inaugura il nuovo imprint di Feltrinelli, Gramma.

La colonizzazione dell’Algeria, e la guerra che la portò all’indipendenza nel 1962, sono state a lungo un argomento tabu in Francia, se si pensa che un film come La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo (1966) non è apparso in tv fino al 2004 e che tuttora le opere che ne parlano restano limitate. Di ritorno da un viaggio di ricognizione in Algeria proprio negli anni in cui il romanzo è ambientato, Alexis de Tocqueville scrisse: «noi facciamo la guerra in modo più barbaro degli arabi stessi. Al momento è dalla loro parte che si trova la civiltà». Come Joseph Conrad con il Congo, o Antonio Lobo Antunes con l’Angola, Belezi accende una luce sulla violenza coloniale (anche linguistica: il cosiddetto peuplement, popolamento, le cosiddette campagnes de pacification, campagne di pacificazione). Violenza che alcuni storici come William Gallois, dell’Università di Exeter, hanno definito, non senza polemiche, genocidaria, e che tanto può dirci del mondo in cui viviamo oggi. Di un passato che non passa.

Attaccare la terra e il sole ha due voci narranti, quella esaltata di un soldato magnetizzato dalla furia del suo capitano, dall’odore e dal gusto dolciastro del sangue, e quella ipnotica e cantilenante di Séraphine, contadina partita per l’“avventura” coloniale – così ancora oggi la chiamano alcuni – piena di dubbi: «domande che [suo marito] spazzava via col dorso della mano perché per lui erano roba da brave donne, e non era con le domande da brave donne che si andava avanti». Giunti a Annaba – Bône per gli invasori – questi sono divisi in gruppi. Raggiungeranno sui carri militari «due colonie agricole tracciate alla cieca da qualche funzionario della malora» in un «percorso incerto tra campi e sassi, sotto lo sguardo cattivo di ragazzini lerci, di donne che nascondono i loro bassi istinti sotto stracci chiassosi». Sono i roumi, sono divenuti i nemici.

«Dietro la nostra colonna l’orizzonte era nero di nuvole, che si scavalcavano, si arrampicavano l’una sull’altra per vedere meglio quella gente sbarcata all’improvviso», ricorda Séraphine. La notte cala d’un colpo sull’accampamento, piantato in un deserto duro di sterpi e pietre. E, subito dopo, un diluvio durato tre mesi costringe tutti in tende fradice. Quando il sole riappare già scotta, e i contadini si rendono conto che anche solo per andare a dissodare i loro sette ettari di terra bisogna essere scortati dai soldati. I nemici incombono: tagliano la testa agli invasori, li smembrano, stuprandole prima, se si tratta di donne. Terribile, fa la sua comparsa il colera. Un sentimento di legittimità inizierà a fondarsi sul sangue e sul sudore versato. Oltre che sull’asserita alterità ontologica di coloro che vogliono sottomettere.

«Non siete angeli!» sbraita il capitano apostrofando i suoi soldati, tra cui l’altra voce narrante. «Come se fossimo sordi, e arrivati ieri, e ancora tutti impacciati sotto il giogo dell’equipaggiamento militare, mentre dopo lo sbarco a Sidi-Ferruch ne abbiamo fatta di strada, abbiamo dato fuoco a villaggi, tagliato teste, speronato il ventre di almeno centomila femmine e infilzato con la baionetta quante centinaia di migliaia di petti barbari? quanti? dopo quindici anni di conquiste su queste terre della malora non riusciamo nemmeno a fare il conto».

Invasati di rabbia contro chi non accetta la loro “missione civilizzatrice”, infoiati dall’avidità, assetati di dominio sulle donne che li respingono, eccitati dal grugnito selvaggio che si leva dalla truppa dopo giorni di cammino, di fame, di freddo, quando nel giorno di Natale avvistano un villaggio da assaltare, grugnito che «indurisce come un pugno il desiderio che è ancora in noi, quel desiderio folle che ci spinge ad affrettare il passo, anzi a correre (…), baionetta puntata contro i muri tremolanti del villaggio», i soldati si lanciano verso l’ennesimo eccidio. «Ho conquistato il tuo fondouk con la punta delle mie baionette e della mia sciabola e sono io il signore, il signore assoluto che ha diritto di vita e di morte su ognuno di voi, su di te, di te e di te!» dice il comandante al capovillaggio. In cambio della vita chiede di essere nutrito e servito, che gli vengano offerte le loro donne, le loro figlie. «Tu non mi credi, è così? – continua, in risposta al silenzio ostinato dell’altro – pensi che i miei capi ad Algeri non mi diano il diritto di tagliare quanto voglio le vostre teste di assassini? e però ti sbagli, sono dieci anni che non faccio altro che razziare i vostri villaggi e i vostri campi, ammazzare quelli che mi resistono e violentare le loro donne, è il mio lavoro di soldato, mi danno quello che mi serve per compierlo e si congratulano con me».

«Nel grande silenzio carico di neve che scende dalle montagne», nel bianco che «beve il sangue degli uomini come ha bevuto quello delle bestie», gli avvoltoi vanno a tuffare il becco nei cadaveri, mentre gli uomini si svegliano «sbalorditi da quel lago di luce». Il massacro è sospeso. Un attimo, solo per riprendere con più furore. E bruciare fino a noi.

 

Condividi
Questa voce è stata pubblicata in GENERALE. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *