CROCETTI EDITORE 2020
L’opera di Alejandra Pizarnik, autrice di culto nei Paesi di lingua spagnola, è segnata dal senso della perdita, dell’assenza, della solitudine e di una lacerazione senza rimedio. La sua dimensione è un’inscalfibile penombra, in cui Alejandra, figlia dell’insonnia, si muove alla ricerca di un rifugio. E l’unico rifugio possibile è la scrittura, che diventa la sua vita. Alla sua morte, Julio Cortázar le dedica una poesia: “Dato che l’Ade non esiste, sicuramente sarai là,/ ultimo hotel, ultimo sogno,/ passeggera ostinata dell’assenza./ Senza bagagli, senza scartafacci,/ il tuo obolo sarà un quaderno/ o una matita colorata./ – Accettali, nocchiere: nessuno pagò a più caro prezzo/ l’ingresso ai Grandi Trasparenti,/ al giardino dove Alice la aspettava”.
( CROCETTI EDITORE )
Flora Alejandra Pizarnik
SEGUE DA:
8 Gennaio 2024
Beatrice Fagan
Alejandra Pizarnik nasce con il nome di Flora il 29 Aprile 1936 ad Avallaneda, presso Buenos Aires. Seconda figlia di Elìas e Rosa Pozharnik, due emigrati ebrei di origine russa, ricorda l’infanzia come un periodo infelice, ma a cui farà sempre riferimento con un’amara nostalgia, definendola “un vecchio sacco di juta svuotato del carbone, nel quale ci sono giocattoli rotti, che non ricordo” ( Diarios, 6 novembre, 1962).
Ad Avellaneda, il padre lavorava come cuentenik, mestiere tipico ebreo: vendita porta a porta, a volte di gioielli, a volte di elettrodomestici.
L’infanzia fu complicata dagli echi della seconda guerra mondiale, soprattutto per il massacro di Rivne, di cui parte dei suoi parenti lontani rimase vittima. Ebbe inoltre diversi problemi di salute, come asma, acne e tendenza ad aumentare di peso; questi fattori influenzarono la sua autopercezione fisica e la sua autostima, e, congiuntamente alle pressanti aspettative borghesi dei suoi genitori, sono ritenute il punto di partenza dei suoi tormenti e dei suoi disturbi degli anni a seguire.
Pizarnik procede per la prima parte della sua vita in maniera disorientata, come una bimba che gioca a mosca cieca, con i palmi delle mani aperte in avanti che brancolano nel buio. All’età di diciannove anni, tre atti scandiscono la sua ri-nascita poetica: il cambiamento del nome da Flora ad Alejandra, l’iscrizione alla facoltà di lettere e filosofia dell’università di Buenos Aires e la pubblicazione del suo primo libro di poesie, La tierra màs ajena (1955).
Con l’urgenza di una recisione totale con le proprie radici, nel 1960 compie un ultimo atto identitario, e si imbarca su un transatlantico per un autoimposto esilio letterario. Lei pellegrina, lei straniera: questi appellativi che ricorrono nelle sue poesie, le servono a ricalcare un’immagine di una sé sdoppiata, ma anche a richiamare il dolore sempre latente dell’esilio. D’altronde, lei stessa individuerà i tre presupposti essenziali per un’arte duratura nella povertà, nelle passeggiate notturne e nel dolore.
Alla ricerca di questa condizione, Pizarnik raggiunge Parigi, al tempo luogo ricco di riferimenti letterari, universo caleidoscopico e sovversivo di artisti devoti al rovesciamento dell’ordine razionale in virtù del sogno, e nuovo rifugio degli esuli sudamericani.
Dal 1960 al 1964 lavorò a Parigi per la rivista Cuadernos, ma collaborò anche con Sur e Nouvelle Revue Française e per varie case editrici. Tradusse anche autori come Antonin Artaud, Aimé Césaire, Yves Bonnefoy ed altri. Nel frattempo studiò storia delle religioni all’Università della Sorbona. Parigi fu per lei un rifugio letterario ed emotivo, ebbe modo di conoscere Georges Bataille, Italo Calvino, Roger Caillois e Simone de Beauvoir, strinse poi amicizia con Julio Cortázar, Ivonne Bordelois e il poeta messicano Octavio Paz, che scrisse il prologo ad Árbol de Diana (1962), la sua quarta raccolta di poesie in cui commenta come un’opera iridescente, al contempo fenomeno fisico, chimico, botanico, poi mitologico e mistico, l’altare di una sacerdotessa visionaria.
Nel 1962 conobbe la poetessa italiana Cristina Campo, per cui provò una profonda attrazione e con cui scambiò per alcuni anni poesie e lettere. Dagli scritti emerge una la pulsione erotica di Alejandra che avvolge la “casta” Cristina, la quale ne resta sopraffatta ma distante.
Dopo una serie di frenetici spostamenti, a Parigi, Alejandra Pizarnik si ricava il suo spazio creativo da una vecchia mansarda, al quarto piano di un palazzo di fronte alla chiesa di Saint-Sulpice, nel VI arrondissement. Questo diventerà il tempio della sua poesia, descritto dalla sua amica Ivonne Bordelois come un “luogo disordinato, riempito di carte, libri e una pesante aria di tabacco”.
Parigi sarà fondamentale per formulare la sua poetica, così come per riconoscere una natura sregolata e incline alle dipendenze. Nelle pagine di un suo diario, un giorno del 1962, Alejandra Pizarnik riconosce a sé stessa l’urgenza di dover vivere uno stato di perenne inebriamento indotto da qualsiasi sostanza:
“solo dopo aver bevuto dieci tazze di caffè e ingoiato varie pillole “rivitalizzanti cerebrali” posso respirare liberamente, vagare per le strade senza sentire l’impellente desiderio di uccidermi” (Diarios, 12 agosto, 1962).
Il ritorno di Alejandra Pizarnik a Buenos Aires coincide con una discesa negli abissi e un’immersione totale nelle sue ossessioni. Con un linguaggio dai perimetri ormai ben definiti, Pizarnik esplora il silenzio, la notte, il corpo, la follia, la morte. Un decennio di abbandono al tormento, aggravato dalla morte improvvisa del padre nel 1967 e dalle conseguenti crisi che la avvicineranno sempre di più all’abuso di alcol e pillole.
Descrive la morte del padre nel suo diario come una : “Morte interminabile, oblio del linguaggio e perdita di immagini. Come mi piacerebbe stare lontano dalla follia e la morte (…) La morte di mio padre rese la mia morte più reale”. Sembra quasi che il linguaggio poetico che prima era stato il suo nutrimento ed il suo vestito si stesse dissolvendo, perdendo“la materica consistenza in grado di renderla corpo, vita, donna”.
Questi sono gli anni di Los trabajos y las noches (1965), Extracciòn de la piedra de locura (1968) e El infierno musical (1971).
Nel 1969 esce La contessa crudele (o sanguinaria), testo in prosa. Lo stesso anno va a New York per ricevere la borsa di studi Guggenheim, e ne viene frastornata, percependo a pieno la “ferocia insostenibile” della città. Dopo due anni vince anche la borsa di studio Fulbright.
Compie un ritorno in Francia cercando un approdo verso ciò che credeva rimasto del suo precedente periodo parigino. Disillusa fa ritorno in Argentina, iniziando un processo di chiusura e disgregazione che culminerà in due tentativi di suicidio e un internamento in clinica psichiatrica.
Dopo la sua ultima pubblicazione, la notte tra il 24 e 25 settembre del 1972, all’età di trentasei anni, mentre era in permesso dalla clinica, Alejandra Pizarnik ingerisce una cinquantina di pillole sedativo-ipnotiche e compie l’atto definitivo del suicidio.
opere in italiano
- La figlia dell’insonnia, a cura di Claudio Cinti, Milano, Crocetti, 2003, ; nuove ed. 2015, 2020
- La contessa sanguinaria, a cura di Francesca Lazzarato, Roma, Playground, 2005,
- Poesia completa, a cura di Ana Becciu, trad. di Roberta Buffi, Faloppio, LietoColle, 2018,
- L’altra voce. Lettere 1955–1972, a cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini, Macerata, Giometti & Antonello, 2019,
- Il ponte sognato. Diari. Vol. 1: 1954-1960, a cura di Ana Becciu, trad. di Roberta Truscia, La Noce d’Oro, 2023
*** le notizie sull’artista oltre che Kinodromo ( link all’inizio ) sono completate da Wikipedia
*******
ALCUNE FOTO MOLTO BELLE DELL’ARTISTA
Le foto che seguono sono prese dalla mostra Alejandra Pizarnik . Tra l’immagine e la parola, della Biblioteca Nazionale “Mariano Moreno di Buenos Aires
Alejandra Pizarnik nel 1965, dal catalogo della mostra «Entre la imagen y la palabra», Buenos Aires, Biblioteca Nazionale – DA IL MANIFESTO 26 FEBBRAIO 2023
Foto di copertina: Enrique Pezzoni
Foto nell’articolo: Anatole Saderman
Foto dalla mostra Alejandra Pizarnik . Tra l’immagine e la parola, della Biblioteca Nazionale “Mariano Moreno di Buenos Aires
In una delle foto sembra una bambina che chiede il perché di tanto dolore.