GARIWO- LA FORESTA DEI GIUSTI
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Raphael Lemkin (Wolkowysk, Impero russo, 1900 – New York, Stati Uniti, 1959)
il grande giurista che ha formulato la definizione di genocidio e l’ha imposta al mondo
Un ruolo importante nello sviluppo della personalità di Raphael Lemkin lo ha avuto sicuramente il luogo in cui è nato, il 24 novembre del 1900. Wolkowysk era un piccolo centro della Hrodna, che oggi appartiene alla Bielorussia e a quei tempi era parte dell’impero russo. Una terra di confine dove per secoli si erano combattute guerre di conquista tra polacchi, russi, l’esercito di Napoleone, gli svedesi, i lituani e gli ucraini.
E gli ebrei? La loro sfida era quella di arrangiarsi e cercare vie per convivere con le altre genti, con la precaria speranza di non venire distrutti. C’è un proverbio ebraico che spiega bene questa sensazione: “Se tre uomini condividono la stessa coperta di un letto, l’uomo che si trova in mezzo è sicuro di rimanere coperto anche se quelli di destra e sinistra la tirano a sé”. Il piccolo Raphael trascorre i primi anni di vita nella grande fattoria della sua famiglia. Suo padre Josef è un contadino mentre sua madre Bella è una pittrice, linguista e studiosa di filosofia, che ama collezionare libri di letteratura e storia. Spetta a lei fare scuola a Raphael e ai suoi fratelli, visto che agli ebrei è vietato studiare nelle città russe.
Molti anni dopo, nelle sue memorie, Lemkin si ricorderà di quando un poliziotto russo entra nella loro proprietà, lega il cavallo al recinto e aspetta che i genitori gli consegnino una tangente per evitare che lui torni di nuovo. Sono gli anni dei pogrom: al piccolo Raphael raccontano che a Białystok la folla ha preso di mira gli ebrei e che alle vittime hanno aperto le pance per riempirle delle piume strappate dai loro cuscini. Durante la Prima guerra mondiale l’area in cui si trova la fattoria della famiglia Lemkin è al centro dei combattimenti tra russi e tedeschi. I Lemkin sono costretti a sotterrare i libri e gli oggetti di valore e si nascondono in una foresta. La loro casa viene distrutta durante i combattimenti e le truppe tedesche sequestrano i raccolti e il bestiame. È un periodo difficilissimo per Raphael: la sua famiglia soffre di malnutrizione e il fratello Samuel muore di polmonite.
Nonostante gli stenti, Raphael si dedica senza sosta agli studi. Parla nove lingue e riesce a leggerne quattordici, ma il suo principale interesse è il rapporto tra la legge e le atrocità di massa. A vent’anni, da studente di giurisprudenza a Leopoli, inizia a pensare a una legge internazionale contro ogni tipo di odio razziale o religioso.
Subito dopo Lemkin inizia una brillante carriera giuridica: prima come procuratore aggiunto, poi come pubblico ministero per il tribunale distrettuale di Varsavia. Si occupa anche di codificare le leggi dello stato polacco e insegna legge all’università di Varsavia. Nel 1933 gli viene chiesto di preparare una presentazione per la Conferenza del consiglio legale della Società delle Nazioni, che si tiene a Madrid. Per questa conferenza Lemkin sviluppa la proposta di introdurre due nuovi crimini di guerra – barbarie e vandalismo – per intendere la distruzione di gruppi collettivi e la distruzione del patrimonio culturale. In pratica, l’essenza di quello che avrebbe poi definito genocidio. Le sue idee vengono denunciate da un giornale polacco, secondo il quale farebbero gli interessi solo degli ebrei e non di tutti i polacchi. Il capo della delegazione polacca, Emil Rappaport, che poi diventerà un giudice di successo nella Polonia comunista, decide che Lemkin deve ritirarsi.
Su sollecitazione del Ministro degli esteri, Lemkin si dimette per esercitare privatamente la professione di avvocato. Isolato dall’establishment giuridico polacco, continua a scrivere e a partecipare a conferenze internazionali, da privato, per mandare i suoi moniti al mondo: l’Europa, secondo lui, sta andando incontro a una catastrofe. Ma i suoi appelli vengono ignorati e il 1° settembre 1939 tutto quello che aveva cercato di evitare si realizza con la duplice invasione della Polonia da parte di Germania e Unione Sovietica.
Il paese è allo sbando, Lemkin abbandona Varsavia intuendo che una catastrofe si sta per abbattere sugli ebrei. Fugge in stazione senza nemmeno prepararsi una valigia e prende il primo treno disponibile, dopo ore di attesa schiacciato dai corpi di tanti altri disperati. Quando il treno viene bombardato dagli aerei tedeschi, Lemkin fugge nei boschi. Qui inizia a riflettere sulla necessità di immaginare una legge che preservi i paesi e le minoranze. Nelle sue memorie, custodite in alcuni appunti ritrovati nei suoi archivi americani, spiegherà che è proprio tra questi boschi che concepisce l’idea del genocidio.
Lemkin si reca a Wolkowysk, dove vive la sua famiglia, per convincerla a fuggire con lui. Ha in mente di raggiungere la Svezia e da lì ottenere il visto per gli Stati Uniti. Ma i suoi cari non vogliono lasciare la casa calda, i loro letti, il loro negozio e le loro usanze per fare la vita dei profughi in povertà. Del resto non sono capitalisti, credono che i sovietici non daranno loro fastidio. Raphael è davanti a un dubbio esistenziale: resistere in Polonia insieme ai suoi amati o immaginare di vincere la sua battaglia nel mondo libero, in America? Saluta tutti e promette alla madre di sposarsi. Forse, scherza Lemkin, da nomade avrà più fortuna in amore di quanta l’abbia avuta finora da giurista sedentario.
Passando per la Lituania e per la Lettonia, Lemkin raggiunge la Svezia all’inizio della primavera del 1940. Insegna all’università di Stoccolma e trascorre le sue giornate in biblioteca a studiare approfonditamente la fenomenologia nazista nei confronti degli ebrei nei vari paesi occupati. Un anno dopo riceve il permesso per entrare negli Stati Uniti, che raggiunge nel 1941. Raphael è salvo, ma ha perso 49 parenti per mano nazista. Gli unici familiari europei di Lemkin sopravvissuti sono suo fratello Elias con la moglie e due figli, a cui capita in sorte un campo di lavoro forzato sovietico. Dagli Stati Uniti Lemkin realizza che la Polonia è perduta per sempre. L’ultimo messaggio dei suoi genitori è scritto in un pezzo di carta piccolo e sgualcito. Dicono che stanno bene, ma Raphael capisce che è un messaggio di addio. Intanto cerca, ostinatamente, di portare il suo messaggio a tutti i leader americani, compreso il presidente Roosevelt, senza avere successi concreti.
Demoralizzato ma non abbattuto, Raphael lavora a testa bassa sul suo nuovo libro. Se i grandi della terra sono indifferenti al futuro degli ebrei forse, pensa Lemkin, vale la pena rivolgersi ai loro elettori: al popolo. Spiega che il suo Axis Rule, (La legge dell’Asse), è rivolto all’uomo della strada: vuole che venga letto nelle cucine, nelle chiese, nei salotti. In realtà si tratta di un testo ostico: 712 pagine che raccolgono meticolosamente tutta la legislazione antisemita nei 19 paesi occupati dalla Germania. Forse Lemkin esagera nel credere che fosse alla portata di tutti, eppure Axis Rule è un libro fondamentale perché per la prima volta propone l’utilizzo di una parola fino ad allora sconosciuta: genocidio.
Grazie a questo lavoro, quello che Winston Churchill aveva chiamato un “crimine senza nome” finalmente un nome ce l’ha. Nei dieci anni successivi, Lemkin trascorre tutto il suo tempo a convincere i grandi della terra a includere questa nuova parola in tutti i documenti di diritto internazionale. La prima grande operazione internazionale a cui partecipa è a Norimberga, in occasione del processo di cui in seguito si dirà insoddisfatto perché passa il concetto che i crimini contro l’umanità avvengono in tempi di guerra mentre secondo lui i genocidi possono avvenire anche in contesti di pace.
Norimberga ha una importanza anche personale: frugando tra le migliaia di dichiarazioni giurate preparate per il processo contro i criminali nazisti, Raphael scopre anche cosa è successo ai membri della sua famiglia.
A questo punto l’ossessione di Lemkin diventa far approvare la Convenzione sul genocidio dalle neonate Nazioni Unite. Per farlo sviluppa un vero e proprio metodo di convincimento che ha come fulcro l’insistenza: i diplomatici iniziano a temere questo rifugiato solitario con i suoi occhi azzurri intensi, un abito marrone che sicuramente ha visto giorni migliori, scarpe consumate ma fatte lucidare e una valigetta imbottita di carte. Ogni giorno si accampa tra i corridoi delle Nazioni Unite alla ricerca di funzionari da convincere. Panama e Cuba sono i primi a firmare la sua Convenzione. Poi l’India. Contemporaneamente fa pressione sui giornalisti. Uno dei casi più eclatanti, e forse decisivi, della sua campagna di convincimento avviene una notte, verso l’una, in un parco di Ginevra quando, non riuscendo a dormire, si avvicina a un altro insonne, l’ambasciatore canadese. Riesce a persuaderlo a fissare un appuntamento per lui con il presidente australiano dell’Assemblea Generale al fine di inserire la Convenzione sul genocidio all’ordine del giorno dell’ONU.
Così, il 10 dicembre 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunita a Parigi, approva la Convenzione. Ma invece di festeggiare, Lemkin si fa ricoverare in un ospedale della capitale francese per esaurimento nervoso. Del resto, la campagna di Lemkin per promuovere la convenzione sul genocidio è stata un’ossessione divorante: ha lasciato incarichi universitari a Yale e a New York University, ha trascurato se stesso, ha dimenticato di pagare l’affitto, è stato sfrattato, è rimasto senza cibo e con pochi vestiti. Agli amici di Washington – che man mano diventano sempre meno – chiede soldi per pagare quelli di New York. Per il resto della sua vita, Lemkin ha difeso la sua definizione di genocidio, estendola anche a casi come l’Holodomor, la grande carestia organizzata che ha ucciso milioni di contadini ucraini. Si è sempre indignato con chi ha associato il genocidio esclusivamente allo sterminio fisico. Anche il tentativo di schiacciare la lingua e la cultura di un popolo, come ha già visto in Polonia, sono per lui un tentativo di genocidio.
Il 28 agosto del 1959, Raphael si accascia davanti alla fermata dell’autobus sulla 42esima strada, a New York. Muore a 59 anni senza amici, senza un soldo e solo. Trovano nella sua stanza in affitto, del tutto spoglia, solo alcuni vestiti e un caos di carte non ordinate. Al suo funerale partecipano sette persone.
Durante la sua vita gli Stati Uniti – suo paese di adozione – non hanno mai ratificato la Convenzione sul genocidio. Lemkin muore convinto che il suo impegno per prevenire i genocidi sia fallito. Nelle sue memorie scrive: “La pioggia del mio lavoro è caduta su una pianura incolta. Solo che questa pioggia è un misto del sangue e delle lacrime di otto milioni di persone innocenti, tra cui i miei genitori e i miei amici”.
Fino agli anni ’90 il lavoro di Lemkin ha avuto diffusione solo tra gli addetti ai lavori. Le cose sono cambiate con i procedimenti internazionali in risposta alle atrocità nell’ex Jugoslavia e in Ruanda, quando si sviluppa tra le masse l’idea che il “genocidio” è il crimine dei crimini.
C’è un ultimo importantissimo insegnamento che Lemkin ci ha lasciato e che ispira tutte le persone che scoprono la sua storia passeggiando tra i Giardini dei Giusti in cui è onorato: l’importanza di lottare per i principi, anche quando i risultati non si vedono e anzi le sconfitte portano sconforto e isolamento. Nelle sue memorie, di se stesso ha scritto: “Al di sopra di tutto questo vola un’anima bella che ama il genere umano e perciò è sola”.
NOTE AGGIUNGE DA WIKIPEDIA:
— Nel 2015, il governo russo di Vladimir Putin dichiarò l’opera di Lemkin sull’Ucraina come “materiale estremista”, proibendone la pubblicazione in Russia
— nel 1951, entrò in vigore la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, che definisce la fattispecie giuridica del genocidio come:
- Ciascuno dei seguenti atti effettuato con l’intento di distruggere, totalmente o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale:
- (a) Uccidere membri del gruppo;
- (b) Causare seri danni fisici o mentali a membri del gruppo;
- (c) Sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
- (d) Imporre misure tese a prevenire le nascite all’interno del gruppo;
- (e) Trasferire forzatamente bambini del gruppo in un altro gruppo.
Lemkin viene proposto per 6 volte per la premiazione con il Premio Nobel per la pace senza aggiudicarselo mai. È sepolto nel Cimitero ebraico di Mount Hebron.
A ME SEMBRA MOLTO CHIARO IL TESTO DEL GIURISTA-
VOGLIO PUBBLICARE QUALCOSA CHE HO TROVATO SULLA
ENCICLOPEDIA BRITANNICA PER AIUTARE CHI VOLESSE CAPIRE PERCHE’ TANTE DISCUSSIONI E DUBBI SU QUESTA PAROLA- MI PARE DI CAPIRE CHE SONO ARGOMENTI PORTATI DOPO LA MORTE DI LEMKIN, DOVUTE A DISCUSSIONI DENTRO L’ORGANISMO INTERNAZIONALE.
LA TRADUZION E’ AUTOMATICA–NEL LINK TROVATE IL TESTO INGLESE-
— DOPO UNA PARTE SEGUE:
Critiche alla convenzione sul genocidio
Sebbene la convenzione abbia goduto di un sostegno internazionale pressoché unanime e sebbene il divieto di genocidio sia diventato, secondo la Corte internazionale di giustizia , una norma imperativa ( jus cogens [latino: “legge cogente”]) del diritto internazionale, la convenzione è stata spesso criticata per aver escluso gruppi politici e sociali dall’elenco delle possibili vittime di genocidio. La cosiddetta “clausola di intenzionalità” della definizione di genocidio della convenzione, la parte che menziona “l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” è anch’essa problematica . Due delle obiezioni più comuni sono che tale intento può essere difficile da stabilire e che il tentativo di attribuire tale intento a individui ha poco senso nelle società moderne, dove la violenza può derivare tanto da forze sociali ed economiche anonime quanto da scelte individuali.
A sostegno della prima obiezione, alcuni studiosi hanno notato che i governi non ammettono apertamente di aver commesso atti di genocidio, un fatto che è confermato dalla storia. Il regime iracheno di Saddam Hussein , ad esempio, ha descritto il suo uso della guerra chimica contro i curdi negli anni ’80 come uno sforzo per ristabilire la legge e l’ordine, e il governo ottomano e i successivi governi turchi hanno affermato che gli armeni uccisi nei massacri erano vittime di guerra.
Persino il regime nazista tedesco non ha pubblicizzato il suo sterminio di ebrei e altri gruppi. In risposta, i difensori della clausola di intenzionalità hanno sostenuto che “un modello di azione intenzionale” che porti alla distruzione di una parte significativa del gruppo preso di mira è sufficiente per stabilire l’intento genocida, indipendentemente dalle ragioni che il regime autore adduce per le sue azioni.
I sostenitori della seconda obiezione hanno sostenuto che un approccio che si concentra esclusivamente sull’intento ignora la “violenza strutturale” dei sistemi sociali in cui vaste disparità politiche ed economiche possono portare alla totale marginalizzazione e persino allo sterminio di gruppi particolari. I difensori della clausola di intenzionalità rispondono che è necessaria per differenziare il genocidio da altre forme di uccisioni di massa e per ideare strategie efficaci per prevenire il genocidio.
I dibattiti tra sostenitori e oppositori della convenzione sul genocidio hanno importanti implicazioni politiche, che possono essere viste nella discussione della
connessione tra crimini di guerra e genocidio.
I due concetti differiscono principalmente nel modo in cui il gruppo preso di mira è definito e identificato. Mentre il gruppo preso di mira nel caso di crimini di guerra è identificato dal suo status di nemico, il gruppo preso di mira nel caso di genocidio è identificato dalle sue caratteristiche razziali, nazionali, etniche o religiose. L’indicazione principale che il targeting è basato sullo status di nemico in contrapposizione all’identità razziale, etnica o religiosa è principalmente il comportamento dell’avversario del gruppo una volta terminato il conflitto.
Se gli attacchi contro il gruppo preso di mira cessano, allora la (probabile) commissione di crimini di guerra è la questione in gioco. Se gli attacchi persistono, tuttavia, la commissione di genocidio può essere legittimamente sostenuta . L’importanza attribuita alla condotta post-conflitto riflette la consapevolezza che il genocidio può e avviene in tempo di guerra, solitamente sotto la copertura di attività legate alla guerra. La distinzione tra crimini di guerra e genocidio è della massima importanza in qualsiasi discussione sull’azione preventiva. Nei casi di crimini di guerra, la cessazione del conflitto sarebbe sufficiente e non sarebbero necessarie ulteriori misure di protezione. Nei casi di genocidio, la cessazione del conflitto richiederebbe l’adozione di misure di protezione per garantire la sopravvivenza del gruppo.
Sebbene molte delle critiche alla convenzione sul genocidio siano fondate, non dovrebbero oscurarne i punti di forza. La convenzione sul genocidio è stato il primo strumento legale a districare il più atroce dei crimini contro l’umanità dal requisito del “nesso di guerra”, che aveva limitato la giurisdizione del tribunale di Norimberga ai casi in cui un crimine contro l’umanità era stato commesso congiuntamente a un crimine contro la pace interstatale.
Invece, la convenzione ha dichiarato che il genocidio è un crimine internazionale “sia che venga commesso in tempo di pace o in tempo di guerra“. Inoltre, la convenzione è stato il primo strumento legale delle Nazioni Unite a stabilire che gli individui possono incorrere nella responsabilità penale internazionale indipendentemente dal fatto che agiscano o meno per conto di uno Stato. La convenzione può anche servire, in conformità con l’articolo 8, come base legale delle misure di esecuzione ordinate dal Consiglio di sicurezza (l’unico organo delle Nazioni Unite che può autorizzare l’uso della forza).
Sviluppi recenti
Durante i primi 50 anni dopo la sua ratifica, la convenzione sul genocidio non aveva meccanismi di applicazione efficaci, nonostante contenesse disposizioni che consentissero all’ONU di applicarla. Sebbene la convenzione stabilisse che le persone accusate di genocidio dovessero essere processate da un tribunale penale internazionale o da un tribunale dello Stato in cui era stato commesso il crimine , non esisteva un tribunale penale permanente a livello internazionale fino all’inizio del XXI secolo e le azioni penali a livello nazionale erano improbabili, tranne nei rari casi in cui un regime genocida veniva rovesciato e i suoi funzionari venivano perseguiti da un regime successore.
La convenzione sul genocidio fu invocata per la prima volta dinanzi a un tribunale internazionale nel 1993, quando il governo della Bosnia-Erzegovina sostenne dinanzi alla Corte internazionale di giustizia che la Repubblica federale di Jugoslavia aveva violato i suoi obblighi ai sensi della convenzione.
Durante gli anni Novanta la comunità internazionale divenne più vigorosa nel perseguire i presunti crimini di genocidio. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite istituì tribunali separati, il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) e l’Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR), entrambi i quali hanno contribuito a chiarire gli elementi materiali del reato di genocidio nonché i criteri che stabiliscono la responsabilità penale individuale per la sua commissione. Il tribunale ruandese , ad esempio, ha affermato che il genocidio includeva “sottoporre un gruppo di persone a una dieta di sussistenza, l’espulsione sistematica dalle case e la riduzione dei servizi medici essenziali al di sotto del minimo richiesto”. Ha anche stabilito che “lo stupro e la violenza sessuale costituiscono genocidio… fintantoché sono stati commessi con l’intento specifico di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo particolare, preso di mira come tale”, come nel caso del conflitto ruandese, dove il governo, dominato dal gruppo etnico hutu , ha organizzato lo stupro di massa di donne di etnia tutsi da parte di uomini infetti da HIV.
Sulla questione critica dell’intento, il tribunale jugoslavo ha anche stabilito che l’intento genocida può manifestarsi nella persecuzione di piccoli gruppi di persone, così come di grandi gruppi. Secondo il tribunale, tale intento
può consistere nel desiderare lo sterminio di un numero molto elevato di membri del gruppo, nel qual caso costituirebbe un’intenzione di distruggere un gruppo in massa. Tuttavia, può anche consistere nella distruzione desiderata di un numero più limitato di persone selezionate per l’impatto che la loro scomparsa avrebbe sulla sopravvivenza del gruppo in quanto tale. Ciò costituirebbe quindi un’intenzione di distruggere il gruppo “selettivamente”.
Il 1° luglio 2002 è entrato in vigore lo Statuto di Roma dell’La Corte penale internazionale (CPI), adottata nel 1998 a Roma da circa 120 paesi, è entrata in vigore.
La giurisdizione della CPI include il crimine di genocidio e lo statuto adotta la stessa definizione del reato come riportato nella convenzione sul genocidio. L’istituzione della CPI, sebbene senza la partecipazione di Stati Uniti , Cina e Russia, è stata un’altra indicazione di un crescente consenso internazionale a favore di sforzi vigorosi e concertati per reprimere e punire il crimine di genocidio.
Giorgio J. Andreopoulos ( notizie al fondo )
Nel 2009 la CPI ha emesso un mandato di arresto per Omar al-Bashir , presidente del Sudan, con l’accusa di crimini di guerra e crimini contro l’umanità nella regione del Darfur , nel Sudan occidentale. Un secondo mandato di arresto per Bashir, accusandolo di genocidio, è stato emesso nel 2010.
Nel 2019 il Gambia ha intentato una causa presso la Corte internazionale di giustizia contro il Myanmar, accusando quel paese di genocidio per la sua sistematica persecuzione della minoranza musulmana Rohingya .
NOTA :
GIORGIO ANDREOPOULOS
DA : https://www.jjay.cuny.edu/faculty/george-andreopoulos
E’ professore di Scienze politiche al John Jay College of Criminal Justice e al Graduate Center, CUNY ( UNiversità della città di New York ), e direttore fondatore del Center for International Human Rights al John Jay College.
Ha scritto molto su organizzazioni internazionali, diritti umani internazionali e questioni di diritto umanitario internazionale; ha partecipato a diverse missioni sui diritti umani ed è stato consulente per organizzazioni internazionali e ONG. È stato presidente dell’Interdisciplinary Studies Section (IDSS) dell’International Studies Association (ISA) e presidente dell’Human Rights Section dell’American Political Science Association (APSA).
Attualmente sta completando un libro sul Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e l’antiterrorismo. È caporedattore della rivista Human Rights Review.