Matisse, La tavola imbandita- La Desserte rouge, 1908, Ermitage, San Pieterobugo
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Non ho mai dovuto e voluto convivere con personale “domestico”. Il termine fa sorridere: il personale di qualsiasi altro tipo è forse selvaggio? A parte queste sciocchezze, ho sempre avuto l’impressione che le persone “ di servizio” siano delle terribili spie dentro il cuore di una casa, dei potenziali e tremendi nemici della nostra intimità. Più che intimità, direi della nostra persona più profonda.
Pensate cosa potrebbe dire chi, come estraneo, ha a disposizione la visione più concreta possibile del nostro disordine, della nostra sporcizia, della nostra indifferenza alla polvere che si accumula nei locali dove abitiamo. Vedendo da vicino il caos che involontariamente produciamo, il nostro ipotetico domestico ( ma più sovente è, ahimè, una domestica, giudice più inesorabile del corrispettivo maschio) non potrà che elaborare disprezzo verso di noi, superiorità morale, odio di classe, nascosto sotto un sorriso apparentemente indulgente verso le nostre abissali mancanze. Ad una semplice domanda:” Ma lei dove tiene i pullover invernali?” noi balbettiamo, cercando di nascondere che non abbiamo mai fatto” il cambio di stagione”, punto fondamentale in una casa condotta seriamente da tutte le casalinghe del mondo. Opponiamo dei ridicoli “Non so, non mi ricordo, provi a vedere nell’armadio” e poi diciamo che dobbiamo uscire per qualche commissione inesistente, pur di levarci dalla situazione imbarazzante. Sì, ci disprezziamo profondamente per la nostra vigliaccheria, ma intanto ci vogliamo male anche per l’ incapacità di condurre seriamente la nostra dimora, il primordiale focolare domestico. Siamo doppiamente colpevoli per la mancanza di coraggio nell’assumerci serenamente le nostre responsabilità e più concretamente di avere fallito come casalinghe. Usciamo di casa con un senso di sconfitta, il nostro io è a terra, dobbiamo tuffarci in qualcosa che ci rassicuri. Ci rifugiamo nella biblioteca comunale per ritirare dei libri. Nella sala di lettura notiamo che ai tavolini ci sono solo uomini, beati loro che possono leggere indisturbati dai sensi di colpa. Sostiamo un po’ a leggiucchiare riviste, ma siamo torturati dal tarlo dell’angelo della casa, che come un fantasma alberga in noi. Ci diciamo che quel modello di donna di casa è ormai morto, che vivono in noi antichi pregiudizi instillatici fin da piccole, che ormai le donne hanno conquistato posizioni apicali nella nostra società. Tutto inutile: verso le ore dodici abbandoniamo la nostra parte spregiudicata e ci avviamo a casa per preparare il pranzo.
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Il suk di Genova
Genova la intravedevo al mattino, scendendo dal treno verso le otto, assonnata e di malumore, sia io che lei. Dal finestrino la città che mi era estranea si era annunciata con gli impianti rugginosi dell’Ansaldo, con piccoli corsi d’acqua color petrolio, con facciate di casa annerite e tarlate, con la scomparsa dell’azzurro del mare. Dalla stazione Principe fino a via Balbi dovevo correre per riuscire ad arrivare in tempo alla lezione di greco, che iniziava alle otto e quindici ed era all’ultimo piano dell’Università. Il professore esigeva la presenza, altrimenti niente ammissione all’esame . Lungo la strada e rasente i muri alcuni barboni, dall’aria sfinita, chiedevano l’elemosina per racimolare una dose. Il cuore mi si stringeva e pensavo solo al ritorno, alla mia città che non era grigia e da cui si vedeva sempre il mare. Via Prè mi salvò allora dall’ annientamento per tristezza. Finite le lezioni, mi incamminavo finalmente verso Principe per il treno del ritorno. Non rifacevo via Balbi ma prendevo la via malfamata , che tutti sconsigliavano di percorrere. Vi scendevo attraverso qualche vicolo scuro ed un mondo vivido e variegato mi accoglieva: profumo di caffè appena tostato, odore di pesci fritti che stuzzicava l’appetito, botteghe strette come budelli che rigurgitavano di ogni tipo di merce, montagne di vestiti in jeans, maree di borse di ogni tipo che rilasciavano un buon odore di cuoio. Ogni tanto profumi forti, violenti ti assalivano , seguiti dall’olezzo paradisiaco della focaccia appena sfornata e della farinata calda. Venditori di accendini e di sigarette insistevano ad offrirti la loro merce, misera e colorata . Sedute sui gradini delle case ragazze africane, bellissime ed incomparabilmente eleganti nei loro costumi sgargianti, offrivano sfacciatamente la propria merce. Linguaggi stranieri si incrociavano, si percepiva un fermento di vita, un fiume di umanità che trascinava, che non ti isolava ma anzi ti invitava con energia e calore a farne parte. Avrei barattato volentieri il mondo dell’Università, il suo sapere un po’ imbalsamato e freddo con quel mondo agitato , forse violento di cui però si percepiva la forza vitale. Avrei messo anni a comprendere che lo studio può essere altrettanto avventuroso, vivo, entusiasmante come la vita vissuta, ma intanto il suq di Genova mi ha aiutato a sentirmi viva e a sperare.
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Grazie!!!
La Genova che in tanti ponentini abbiamo conosciuto così!
Ma bisogna saper scrivere ed in questo la signora Donatella è veramente brava!
grazie caro Adriano, felice di vederti qui, la signora Donatella è Donatella, almeno per te, avrai forse conosciuto il fratello che è rimasto a Sanremo, lei si è sposata un milanese, poeta ligure e scrittore di commedie rappresentate all’Ariston e in altri posti, ciao caro, molto contenta di vederti, ch.