IL MANIFESTO 12 FEBBRAIO 2024
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Wael al-Dahdouh: «La guerra vera non sono le bombe, è la vita degli sfollati»
Palestina Il racconto del giornalista di al-Jazeera. La famiglia sterminata, è tornato in onda dopo ogni massacro: «La cosa essenziale era raccontare cos’era Gaza assediata, minuto per minuto. Ma la natura dell’offensiva ci ha sorpreso, non avevamo previsto quella crudeltà»
Il giornalista palestinese Wael Al-Dahdouh durante una premiazione a Valencia – Ap/Rober Solsona
foto dal suo X
CHIARA CRUCIATI — (1983 )- Tra Medio Oriente e Italia
Redattrice Esteri/vicedirettrice al manifesto. Autrice con Michele Giorgio di “Cinquant’anni dopo”, “Israele, mito e realtà”, “La montagna sola”– EDITORE PORTO ALEGRE
Wael al-Dahdouh siede al centro dello scranno della sala stampa di Montecitorio e l’attenzione la catturano due cose: il tutore al braccio, un artiglio meccanico che tiene insieme un arto fatto a pezzi dalla guerra; e lo sguardo quasi indeciso tra dolore e fierezza. Ha puntate addosso le telecamere di decine di giornalisti, lui che giornalista lo è e ora è la storia.
LA STORIA lo è diventato, per noi che guardiamo Gaza dall’altro lato del mare, il 25 ottobre 2023 quando un missile israeliano ha sbriciolato la casa nel campo di Nuseirat dove la sua famiglia aveva cercato rifugio. In pochi secondi si è preso la moglie Amina, la figlia Sham di sette anni e il figlio Mahmoud di 15. E poi fratelli, cugini, nipoti. Sono morti in 21. Lui era in diretta su Al-Jazeera quando l’ha saputo, dell’emittente qatariota è il responsabile nella Striscia.
Wael al Dahdouh trasporta il corpo di uno dei suoi figli morti nel campo profughi di Nuseirat, nel centro di Gaza, il 25 ottobre.
«Quando sono arrivato, era buio pesto. La casa era distrutta. Chiedevo alle persone lì intorno: chi è morto? chi è ferito? chi è disperso? Abbiamo scavato con le mani. Ho trovato mio nipote Adam». Aveva 18 mesi, era morto. Un’altra delle figlie la troveranno poco dopo, seguendone la grida: era sepolta sotto un cumulo di macerie, ma ancora viva. Per mesi non è riuscita a vivere sotto un tetto di cemento.
a sinistra Wael Al-Dahdouh — DALLA BBC
Wael racconta, accanto ha esponenti del gruppo interparlamentare per la pace tra Palestina e Israele, Stefania Ascari (M5s), Laura Boldrini (Pd) e Nicola Fratoianni (Avs). Lo presentano come «simbolo della resistenza di un popolo» (Boldrini), «la testimonianza di quello che non si voleva fosse raccontato, il genocidio» (Fratoianni), la voce «del luogo più pericoloso al mondo per i giornalisti» (Ascari). Poi lasciano a lui lo spazio per raccontare.
Al-Dahdouh vuole parlare di giornalismo. Lui reporter lo è diventato quasi per caso, eredità della prima Intifada. Doveva andare in Iraq a studiare medicina, ma nel 1987 fu arrestato dall’esercito israeliano per lancio di pietre e «attività legate all’Intifada». Lo avevano condannato a 15 anni, ne ha scontati in carcere la metà e quando è uscito Israele gli ha vietato di lasciare la Striscia. Ha iniziato a lavorare per testate locali, un passo dopo l’altro fino all’esplosione globale di al-Jazeera.
«Il giornalismo a Gaza è come la guerra, è fuori da ogni logica – dice – La cosa essenziale era raccontare cos’era Gaza assediata, minuto per minuto. Ma la natura dell’offensiva ci ha sorpreso, non avevamo previsto quella crudeltà».
Il giornalista di Al Jazeera Wael al Dahdouh tiene la mano del figlio Hamza, morto in un attacco israeliano, mentre abbraccia una delle sue figlie il 7 gennaio.Hatem Ali (AP)
«Da subito abbiamo detto di essere dei professionisti, di non essere parte in guerra, di svolgere un lavoro protetto dalle leggi internazionali, eppure abbiamo pagato un prezzo altissimo: oltre 200 colleghe e colleghi sono stati ammazzati».
I giornalisti Hamza al-Dahdouh ( Il figlio ) e Mustafa Thuraya uccisi dopo che un missile ha colpito il loro veicolo a Khan Younis -, il 7 gennaio 2024
(Mohammed Salem/Reuters) -da : Middle East Eye
WAEL PARLA delle precauzioni inutili, le pettorine e gli adesivi «Press» sulle auto, il coordinamento con la Croce rossa e Israele per muoversi in sicurezza, «ma poi attaccavano comunque». A lui è successo a Khan Younis, il tutore è una cicatrice ma anche la prova di un miracolo: il missile ha ammazzato tre paramedici e il suo cameraman, Samer Abu Daqqa. Non è morto subito, ci ha messo delle ore a dissanguarsi: l’esercito impediva ai soccorsi di raggiungerlo, chi si muoveva riceveva fuoco. Era il 15 dicembre 2023.
Il 7 gennaio l’aviazione israeliana gli ha ucciso un altro figlio, Hamza, il maggiore. Aveva 27 anni e faceva il giornalista anche lui. Una bomba ha fatto saltare in aria l’auto su cui viaggiava con un collega, Mustafa Thuraya. Il giorno dopo, un’altra bomba: due nipoti ammazzati. A metà gennaio 2024, Wael ha ricevuto l’autorizzazione a lasciare Gaza per le cure mediche.
Dopo ogni massacro, al-Dahdouh è tornato on air a fare il suo lavoro. Una decisione che credeva personale ha avuto un’eco globale: dentro e fuori Gaza, tra la sua gente che gli rendeva omaggio quando andava in onda e nelle capitali del mondo, volto disegnato sui muri e nei cartelli delle proteste.
Wael se l’era chiesto subito, il 26 ottobre 2023, quando ha guidato i funerali della sua famiglia: «Cosa dovevo fare? Rimanere accanto ai miei cari, prendermi una pausa…Mia moglie mi ha aiutato tanto a diventare un giornalista. Mio figlio Mahmoud voleva diventarlo, girava video sulle storie dei vicini, il suo ultimo video l’ha fatto da sotto le macerie. Ne ho parlato con le mie figlie sopravvissute e ho deciso di tornare al lavoro. Quando sono riapparso in diretta, poco dopo, volevo mostrare il più alto livello di professionalità possibile. Come non fosse successo niente. Ho pagato come giornalista, come uomo, come sfollato, come assediato. Ma dovevamo continuare a trasmettere».
RACCONTARE GAZA senza fermarsi. E la guerra vera, contro i civili. Wael la vede oltre le bombe: «Puntiamo le telecamere sui bombardamenti, le macerie, corriamo dove sono gli eventi.
Ma la guerra vera è un’altra: è la vita degli sfollati. Sono le mie figlie, la notte in cui il vento ha sradicato via la tenda a Deir al-Balah in cui dormivano. Tutte le telecamere del mondo non bastano a descrivere la vita degli sfollati, la guerra è quella lì».
qualcosa sulla vita degli sfollati a Gaza







E’ quasi impossibile raffigurarsi il dolore di queste persone, le difficoltà di chi rimane, l’indifferenza di quasi tutto il mondo. Eppure Trump ha pensato di fare su questo territorio intriso di sangue e di dolore delle belle villette per le vacanze. Se non fosse tragico e disumano, sarebbe grottesco, da farci un bel film horror.