RIVISTA ECO – fondata e oggi diretta da TITO BOERI, economista
DEI = Diversità, Equità e Inclusione
La caduta della DEI
Tito Boeri
Dopo gli editti di Trump negli Stati Uniti, la terra del Primo Emendamento che tutela la libertà di espressione, si ha paura a parlare di Diversità, Equità e Inclusione. Eppure le nostre società sono permeate di discriminazioni contro le donne e le minoranze. Non possiamo tornare indietro anni luce nel modo in cui trattiamo chi è diverso dal gruppo dominante. Cosa fare per monitorare il fenomeno e contrastarlo?
«La supremazia dell’uomo bianco è il sistema politico (mai chiamato con questo nome) che ha fatto del mondo ciò che è oggi». L’incipit di The Racial Contract di Charles Mills, un libro di trent’anni fa che ha fatto storia, dovrebbe essere proposto come traccia di un tema all’esame di maturità. Fa riflettere su ciò cui stiamo assistendo ben oltre la dimensione razziale. La discriminazione di genere, etnia, orientamento sessuale, età, apparenza fisica, obesità, disabilità permea tuttora le nostre società. La tocchiamo con mano ogni giorno. Colpisce chi non appartiene al gruppo dominante, chi è minoranza, chi è diverso. Chi la opera non sempre ne è consapevole. Per chi la subisce, oltre alla frustrazione per l’ingiustizia subita, c’è la perdita di motivazioni e spesso anche dell’autostima, con danni permanenti ai propri percorsi professionali e di vita. La discriminazione condiziona le scelte scolastiche, l’ingresso nel mercato del lavoro, le carriere e molti altri aspetti della nostra vita quotidiana. Dovrebbe essere al centro delle nostre preoccupazioni, dovremmo trovare modalità per monitorare il fenomeno e porvi rimedi perché, oltre a essere profondamente ingiusta, la discriminazione finisce per privare le nostre comunità di risorse umane importanti e mina la coesione sociale, dunque il benessere di noi tutti.
La restaurazione
Oggi è in atto una campagna che vuole riportarci indietro anni luce nel modo con cui trattiamo chi è diverso. È una campagna che parte dagli Stati Uniti, il paese che forse più di tutti ha introdotto politiche volte a concedere maggiore rappresentanza alle minoranze nei posti di comando, nell’accesso alle università e a molte altre posizioni a numero chiuso. Forse non è un caso che parta proprio da lì, sospinta dagli editti di Donald Trump. La controffensiva delle maggioranze è brutale.
Nel settore pubblico vengono licenziate le persone che avevano il compito di vigilare sul rischio di discriminazioni e di promuovere misure di inclusione delle minoranze. Le imprese fanno a gara per cancellare le strutture di “diversity, equity and inclusion” (DEI). Le università nella terra del “free speech” ( nota 1 ), del Primo Emendamento della Costituzione che tutela la libertà di espressione, bandiscono il termine DEI da ogni comunicazione per timore di perdere i finanziamenti federali e impongono ai loro docenti di fare altrettanto.Non si concede cittadinanza a chi ha voluto cambiare sesso o non si riconosce nel genere maschile come in quello femminile. Le agenzie sanitarie pubbliche cancellano dalle loro pagine web istruzioni su come affrontare malattie sessualmente trasmissibili e condizioni di salute di persone Lgbtq+. La DEI è diventato il capro espiatorio contro cui scagliare la rabbia di chi soffre per l’aumento dei prezzi, la perdita del proprio lavoro o perché le case costano sempre di più. Il silenzio di chi ha fatto della tutela della diversità e dell’inclusione il proprio cavallo di battaglia è fragoroso.Certo l’argomento è spinoso. Ma tacere equivale a spianare la strada alla restaurazione. Per questo noi abbiamo deciso di trattarne in questo numero di eco.
Di cosa stiamo parlando
Non è sempre chiaro cosa si intenda per discriminazione e, di conseguenza, cosa si può fare per tutelare la diversità. Nelle pagine che seguono consideriamo discriminatorio, ad esempio, il comportamento di chi nelle scelte di ogni giorno su chi assumere o licenziare oppure su quanto remunerare il lavoro svolto da altri dà peso a caratteristiche personali che non hanno nulla a che vedere con la produttività, con la qualità delle prestazioni svolte. È discriminazione, ad esempio, quella di un insegnante che consiglia a un ragazzo di fare la scuola professionale anziché il liceo per il solo fatto di essere figlio di un immigrato o di avere la pelle nera. È discriminatorio l’atteggiamento di chi paga meno le donnedegli uomini anche quando il lavoro delle prime contribuisce a dare valore all’impresa tanto quello degli uomini. Il fatto che due persone siano pagate diversamente non implica che ci sia discriminazione. Questa si manifesta solo quando due persone sono pagate diversamente anche se contribuiscono esattamente allo stesso modo a creare valore. I datori di lavoro e, nelle grandi imprese, i direttori delle risorse umane sono le persone meglio in grado di valutare se c’è discriminazione ed è per questo importante rafforzare la loro consapevolezza del problema. Era, almeno in linea di principio, l’obiettivo dei programmi DEI introdotti da molte grandi imprese negli Stati Uniti e ora smantellati in fretta e furia per sfuggire agli editti di Trump.Si voleva prevenire, anziché intervenire dopo, magari attraverso procedimenti giudiziari lunghi, costosi e viziati da uno squilibrio di fondo a sfavore di chi ha l’onere della prova.
La discriminazione di genere
Le principali vittime di questa restaurazione sono le donne che avevano maggiormente beneficiato dei programmi DEI. Perciò in questo numero di eco ci occupiamo soprattutto della discriminazione di genere. Documentiamo come i divari salariali tra uomini e donne all’ingresso nel mercato del lavoro, dopo essersi ridotti fino all’inizio del nuovo millennio, negli ultimi venti anni si sono stabilizzati. Permangono differenze nelle condizioni contrattuali che vengono offerte a giovani uomini e donne.
Queste ultime si vedono più spesso proporre contratti a tempo determinato da datori di lavoro di imprese in cui sono più frequenti le dimissioni volontarie in caso di maternità.
Le donne, spesso più istruite degli uomini, entrano in Italia nel mercato del lavoro avendo in partenza un gap salariale del 7-9%, un divario che poi tende ad aumentare nel corso della loro carriera lavorativa. Le donne oggetto di violenze da parte di un collega di sesso maschile perdono il lavoro più spesso di chiha esercitato violenza nei loro confronti. La violenza di un uomo contro un collega è punita di più della violenza contro una collega.
Sono tutti indizi della presenza di discriminazione dentro e fuori i luoghi di lavoro. Per provarne l’esistenza ci vorrebbe di più. In assenza di dati sulla produttività dei singoli lavoratori, un metodo ampiamente utilizzato per monitorare la presenza di discriminazione consiste nel saggiare le reazioni di imprese che hanno posti vacanti per i quali fanno domanda persone fittizie, con curricula identici in tutto e per tutto, salvo per il fatto di essere di sesso diverso.
Se ne ricava che le donne vengono chiamate per interviste molto meno degli uomini e meno ancora degli immigrati albanesi di sesso maschile, pur con l’invio dello stesso curriculum.
L’apparenza fisica (rivelata da foto allegate al cv), a parità di altre condizioni, influenza la probabilità di essere chiamati per colloqui di lavoro per le donne, ma non per gli uomini. È possibile simulare condizioni di questo tipo non solo riguardo alle differenze di genere, ma anche a quelle di orientamento sessuale, nazionalità, massa corporea, e così via. E non solo nelle scelte di assunzione, ma anche riguardo, ad esempio, alla scelta su a chi dare in affitto il proprio appartamento o a chi offrire un posto all’asilo nido. Anche su queste altre dimensioni e scelte si è riscontrato un diffuso atteggiamento di discriminazione. Sarebbe opportuno che simulazioni di questo tipo venissero condotte sistematicamente e centralizzate dall’Istat nell’ambito di un sistema di monitoraggio della discriminazione.
Cosa fare per contrastarla?
Non sempre la discriminazione è frutto di pregiudizi. In non pochi casi è dovuta al fatto che si devono compiere scelte avendo informazioni limitate sulle persone che si hanno di fronte e, quindi, si tende a compiere generalizzazioni, a cadere in stereotipi. In altri casi, è il frutto di condizioni oggettive che rendono possibile a un datore di lavoro offrire ad alcuni lavoratori, ma non ad altri, salari inferiori alla loro produttività.
Sul primo tipo di discriminazione, quella fatta di pregiudizi, di retaggi culturali, si può intervenire con politiche di discriminazione positiva, come il fatto di riservare quote di posizioni apicali alle donne (ad esempio, posti nei consigli di amministrazione delle società quotate, come avviene in Italia) o ad altre categorie poco rappresentate. L’obiettivo delle quote è quello di documentare che le categorie sin lì escluse sono in grado di dare un contributo fondamentale al valore delle imprese.Questa consapevolezza, l’abbandono di pregiudizi ancestrali, renderà poi in futuro non più necessarie le quote. In altre parole, la discriminazione positiva serve a superare la necessità di imporla. Il suo problema è che è esplicita e, ovviamente, non gradita da chi ne subisce le conseguenze. Forse negli Stati Uniti si è andati troppo in là e questo spiega le reazioni virulente attuali. È la legge del pendolo.
Il secondo tipo di discriminazione è più subdolo e difficile da contrastare. Quando dobbiamo decidere se assumere o meno una persona cui affidare le persone che sono a noi più care, spesso ci affidiamo a stereotipi sulla nazionalità (tipo “le badanti peruviane sono più affettuose delle badanti dell’est europeo che però sono più attendibili”), non fidandoci delle impressioni che abbiamo della singola persona al primo colloquio, delle lettere di raccomandazione che la candidata/il candidato a quella posizione ci consegna. In questo caso, ciò che pesa non è il pregiudizio, ma la difficoltà di saperne di più quando si devono fare scelte importanti. Ci si aggrappa a tutte le informazioni che si riesce a ottenere su persone che appartengono alla stessa categoria. Si finisce per scegliere quelle di una nazionalità piuttosto che di un’altra prescindendo in gran parte dai loro meriti individuali, perché si dà peso a notizie raccolte su chi proviene dallo stesso paese. Questa discriminazione è molto più difficile da contrastare. Sappiamo dall’esperienza che più informazione è meglio che meno informazione. Esperimenti in cui, ad esempio, si è oscurato il nome dei curricula per nascondere le origini di chi ha fatto domanda di impiego si sono rivelati, alla prova dei fatti, controproducenti: la probabilità di essere chiamati per un colloquio si è ridotta anziché aumentare per chi apparteneva a minoranze etniche.
Il terzo tipo di discriminazione è forse quello più frequente ed è quello su cui concentriamo, nelle pagine seguenti, gran parte delle nostre attenzioni. È la discriminazione legata al potere di mercato. Datori di lavoro che sanno che le donne hanno più difficoltà degli uomini a cambiare lavoro perché, ad esempio, hanno maggiori responsabilità famigliari che le vincolano a lavorare vicino a casa, si possono permettere di pagarle meno degli uomini anche quando sono altrettanto, se non più, produttive. Per il semplice fatto che gli uomini, se pagati meno, cambierebbero rapidamente datore di lavoro. Per combattere questo tipo di discriminazione bisogna rafforzare la mobilità e il potere contrattuale delle donne, a partire da quello che hanno all’interno della loro famiglia e sgravarle di responsabilità che possano penalizzare la loro carriera professionale, ponendo questi oneri a carico della collettività o dei loro compagni.
Sono le politiche sui congedi di paternità obbligatori, sui servizi per l’infanzia, sull’offerta di asili nido, sugli aiuti alle famiglie di cui trattiamo ampiamente nelle pagine che seguono. Sono fondamentali in paesi come l’Italia dove, come documentiamo col grafico del mese, le donne lavorano molto di più degli uomini, una volta che al lavoro retribuito si aggiunge quello non retribuito svolto tra le mura di casa.
P.S. Nel prossimo numero (in uscita il 17 aprile, eccezionalmente di giovedì) ci occuperemo di pensioni.
PUBBLICHIAMO L’INDICE DEL NUMERO- SEMBRA CHE GLI ARTICOLI SIANO APRIBILI E LEGGIBILI–
** al fondo un cruciverba che credo difficilissimo perché è di Battezzaghi
ACCADE NEL MONDO
IN QUESTO NUMERO
GRAFICO DEL MESE
IA E SOCIETÀ
SALUTE & ECONOMIA
UN LIBRO – CINQUE MOTIVI PER LEGGERLO
Penso che, per combattere la discriminazione tra uomo e donna, soprattutto nell’ambito del lavoro, occorrerebbero più strutture pubbliche a prezzi accessibili, come ad esempio gli asili nido e scuole a tempo pieno.