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forse, nel 1972
Ivan Della Mea, all’anagrafe Luigi (Lucca, 16 ottobre 1940 – Milano, 14 giugno 2009. Ha avuto per compagni di strada Fausto Amodei, Michele Straniero, Sandra Mantovani, Giovanna Daffini, Rudi Assuntino, Gualtiero Bertelli, Alfredo Bandelli, Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, Sandra e Mimmo Boninelli, Alessio Lega e gruppi come il Nuovo canzoniere milanese, il Canzoniere Pisano, il Nuovo Canzoniere Bresciano, gli E’Zezi di Pomigliano d’Arco, gli Apuamater, il Gruppo Padano di Piadena, I giorni Cantati, il Canzoniere Veneto, Peppino Marotto e i cantori di Orgosolo, Pino Masi e tanti altri.
Le sue tappe artistiche non sono solo rappresentate solo dai dischi a suo nome, ma anche e soprattutto dalla sua presenza attiva agli spettacoli organizzati dal Nuovo Canzoniere Italiano: in particolare egli partecipa nel 1963 ad uno spettacolo di canzoni padane con Fausto Amodei, Giovanna Daffini, Sandra Mantovani, Michele Luciano Straniero e Rudi Assuntino; nel 1964 a L’altra Italia e a Pietà l’è morta (la resistenza nelle canzoni); dal 24 aprile al 2 giugno 1965 prende parte alle trentacinque repliche di Bella ciao, nel 1966 a Ci ragiono e canto; nel 1967 partecipa con Giovanna Marini all’Encuentro Internacional de la Cancion comprometida sul canto di protesta tenutosi a Cuba. Il 2 dicembre 1967 lascia il Nuovo Canzoniere Italiano per dissenso politico-culturale con Gianni Bosio.
Attività letteraria e giornalistica / se vuoi apri qui il link
[1966]
Parole e musica di Ivan Della Mea
Paroles et musique: Ivan della Mea
Album: Il rosso è diventato giallo
” Ivan della Mea, non a caso è stato uno che aveva fatto davvero sue le parole di un famoso medico argentino a proposito del lottare senza perdere la tenerezza- ” ( Canzoni contro la guerra )
” Nostro amor la crescerà ” : di proposito la metto per prima — ” La speranza ha il calore.. Nostro amor la crescerà .”
Il silenzio conta un anno
di pensieri per capire,
note dolci, non parole,
è bambino questo sole
e la luce che ci dà:
nostro amor la crescerà.
Fare insieme anche i dolori,
fare insieme le speranze,
è bambino questo sole,
l’uomo nuovo nasce e vive
per la luce che ci dà:
nostro amor la crescerà.
La mia casa dà sul tutto,
dà sul mondo a tutte le ore,
la speranza ha il calore
del bambino nato sole,
della luce che ci dà:
nostro amor la crescerà.
ivan della mea, nel 1965 – canta ” E nei giorni della lotta ” per il ventennale della Resistenza a Milano
nove maggio– 1965
ho male all’orologio – 1997
Tic tac tic tac tic tac tic tac
tic tac tic tac tic tac tic tac
Ti che te tacchett i tac
fàa el tò mestèe bagatt
bagatt e bagattel
sto pù ‘rent’ à la pell
sto pù ‘rent’ a j calzon
vegn foeura anca i cojon
signor ch’el me perdonna
nel nomm de la madonna
madonna e bamborin
semm tucc gesù bambin
vegett tosann bagaj
tacàa in su quaj fanaj
per inciodà la gent
ghe voeur propri on bel gnent
un matt du gatt tri ratt
fàa el tò mestèe bagatt
ti che te tacchett i tacc
ti che te tacchett i tacc
tic e tac tic e tac tic e tac tic e tac
tic e tac tic e tac tic e tac tic e tac*
Mio caro dottore ho un male di vita
che fa tic e tac dai piedi alla testa
su in cima ai capelli giù in fondo alle dita
nei giorni feriali nei giorni di festa.
Tu mi dici dottore che è la circolazione
io mai circolato più meglio di adesso
e non stare a dirmi che è la digestione
le ore più belle son quelle nel cesso.
Il cuore mi dici, ho un cuore perfetto
è solo un po’ strano quel suo tic e tac
magari perché lui lo dice in dialetto
in lingua è diverso: fa tic e fa tac.
Il male di vita mi ruba il secondo
lo tiene costretto nel suo tic e tac
e non c’è più donna né uomo né mondo
né tempo c’è solo quel tic e quel tac.
Amico dottore tu non puoi capire
il male di vita si mangia le ore
non serve la scienza per farlo finire
ci vuole la voglia di amare l’amore.
E il tempo d’amore non c’è per l’Ambrogio
che abita ancora a via del dolore
il male di vita ce l’ho all’orologio
e tu cosa dici mio caro dottore….
Ma il tempo d’amore, no, non c’è per l’Ambrogio
che abita ancora a via del dolore
il male di vita ce l’ho all’orologio
e tu cosa dici mio caro dottore….
tic tac tic tac tic tac tic tac
tic tac tic tac tic tac tic tac
TAC
TAC
TAC
TOK!
La versione italiana dei versi in milanese:
Tic tac tic tac tic tac tic tac
tic tac tic tac tic tac tic tac
tu che attacchi i tacchi
fa’ il tuo mestiere, ciabattino [bagatto],
bagatto e bagattelle
non sto più dentro alla pelle
non sto più dentro ai calzoni
sorton fuori anche i coglioni
signore, perdonami
nel nome della madonna
madonna col bambino [= ombelico]
siamo tutti gesubbambini
vecchietti, ragazzine e ragazzini
attaccati a quei fanali,
non ci vuole proprio un bel niente
un matto due gatti tre ratti
fa’ il tuo mestiere, ciabattino,
tu che attacchi i tacchi
tu che attacchi i tacchi
tic e tac tic e tac tic e tac tic e tac
tic e tac tic e tac tic e tac tic e tac
A quel omm
Testo e musica / Lyrics and music / Paroles et musique / Sanat ja sävel: Omicron – Della Mea
(Omicron = Ernesto Esposito)
Album / Albumi: Io so che un giorno [1966]
A quel omm, che incuntravi de nott
in vial Gorizia, là sul Navili,
quand i viv dormen, sognen tranquili
e per i strad giren quei ch’inn mort.
A quel omm, ma te seret ‘na magia
che vegniva su l’asfalt de la strada
cont la facia on po’ gialda e stranida,
cont i œucc on po’ stracc, un po’ smort.
A quel omm, ma te seret on omm,
quater strasc, on po’ d’ombra, nient’alter,
no Giusepp, no Gioann, gnanca Walter
e gnanca adess mi cognossi el to nom.
A quel omm, a quel tocc de silenzi
a la nott e anca a lu vœuri dii:
in vial Gorizia ghe sont mi de per mi
e so no se ‘sti robb g’hann on sens.
Elio Vittorini (1908-1966) sui Navigli.
Un ragazzo proletario nella Milano degli anni ’50, e un uomo solo che cammina nella notte pallido e stranito. Quel ragazzo si chiamava Ivan Della Mea, e quel omm, che lui non sapeva chi fosse, era Elio Vittorini. Abitava in Viale Gorizia, a poca distanza dal ragazzo. Una semplice storia e un ricordo di quel ragazzo che, nel 1966, scriveva già canzoni come questa, in quel suo milanese in cui, lui toscano di origine, si era immerso fino al midollo. Camminava da solo assorto nei suoi pensieri, si può o meno immaginare la classica nebbia sui Navigli (ma fossero state anche chiare notti d’estate, sarebbe stato lo stesso), e il ragazzo si chiedeva chi fosse, a che cosa pensasse, che cosa fosse la sua vita, a quell’ora “quando i vivi sognano e dormono tranquilli, e per le strade girano i morti”. Un ricordo che Ivan Della Mea trascrisse in questo capolavoro dei suoi venticinque anni, quando aveva saputo oramai chi era quel omm che si preparava a morire (Elio Vittorini, malato di cancro, scomparve nella sua casa di Viale Gorizia il 12 febbraio 1966). Così Ivan Della Mea volle ricordare quegli incontri di fantasmi nella notte; la canzone è del 1965, ma fu pubblicata nell’album Io so che un giorno l’anno successivo. Cosicché assume il valore di un omaggio postumo al grande scrittore e intellettuale siracusano, trapiantato a Milano. Una storia di trapiantati nella notte, il ragazzo toscano e l’uomo siciliano, senza parole, senza sguardi, senza un cenno; una storia di solitudine e di interrogativi. Il comunista Della Mea che sfiora nell’oscurità il tormentato e solitario intellettuale dalla storia e dalla vita complesse, il giovane “fascista di sinistra”, marito della sorella di Salvatore Quasimodo, che nel 1936 incita i fascisti italiani a schierarsi dalla parte dei Repubblicani contro Franco (cosa per cui fu immediatamente espulso dal Partito Fascista), il successivo libertario spontaneista che appoggiava Camillo Berneri (a sua volta anarchico del tutto particolare, e probabilmente unico), il partecipante (nel 1942) al convegno delle intellettuali nazisti a Weimar promosso da Joseph Goebbels, e che nello stesso anno entra però nel Partito Comunista Italiano clandestino partecipando attivamente alla Resistenza antifascista. Il comunista libertario deluso che s’incontra con le posizioni di Jean-Paul Sartre, dichiarando fallite le culture antifasciste che non avevano saputo prevenire i disastri della Seconda guerra mondiale; la rottura con Palmiro Togliatti, il distacco dal PCI dopo la Rivoluzione Ungherese del 1956, l’approdo alla Einaudi con la condirezione del Menabò assieme a Italo Calvino e, infine, la presidenza del Partito Radicale. Un Della Mea, la cui casa fu, per tutta la vita, il PCI (ma una casa difficile, una casa di fughe e di odi et amo, una casa di rifiuti e incomprensioni, una casa che Ivan abitò comunque fino alla fine anche se con diverso nome), volle con questa canzone estrema interrogarsi su una figura come quella di Elio Vittorini innestandovi sopra il ricordo personale di notti sole, di notti di erranza, e proprio quando Elio Vittorini si apprestava a divenire un fantasma sul serio. Al tempo stesso, un testo di straniamento e, al tempo stesso, di identificazione. Sebbene oramai sapesse chi incontrava quelle notti sui Navigli, Ivan Della Mea diceva di non conoscerne il nome neppure al momento. A quel “pezzo di silenzio” diceva di esserci lui, ora, da solo, su quei Navigli nella notte, e di non sapere che senso avesse quel che stava scrivendo. Ce lo aveva eccome, però, un senso altissimo: lo sfioro di due ombre e di due vite, e le domande che ne conseguono. E chissà che, alla fine, non si siano incontrati, Ivan e Elio, su qualche Naviglio insondabile nel Vastissimo Nulla. [RV]- Riccardo Venturi
nota su
ELIO VITTORINI–
IL POLITECNICO, Editoriale del primo numero datato 29 settembre 1945
** lo riporto – quella di Vittorini – è la stessa domanda che dobbiamo farci in merito al genocidio di Gaza
«Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più sangue si chiamano Mauthausen, Majdanek, Buchenwald, Dachau. Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. (…) E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava la inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava l’inviolabilità loro? Questa «cosa», voglio subito dirlo, non è altro che la cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo, ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce (…) Valéry, Gide e Berdiaev. Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli?»
Mi so no el perché– bellissima
https://lyricstranslate.com/it/ivan-della-mea-mi-so-no-el-perche-italian
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o cara moglie —
non poteva mancare.. visto il decreto sicurezza– e quello che seguirà
c’è l’ulivo e il sole – 1966— è un canto splendido
pare sia stata scritta per la morte della madre _ vedi sotto
“Rividi mamma nel 1966, primi mesi di gennaio, ancora a Lucca, ancora in ospedale, ancora da lei inconosciuto. Cirrosi la diagnosi. Gisella ci raccontò che aveva fatto Natale a Torre dalla sorella Adele sposata Arrighi. Con occhi lustri di gioia ci disse di una mangiata di fritti misti ‘che come li fa la moglie di mio nipote Duino non ce n’è.’ La gioia negli occhi. La gioia nella voce. ‘Conigliolo disossato e fritto in pastella, salvia e cuori di carciofo , finocchio prima lessato e poi fritto e sì che mi sono cavata la voglia, fritta la salvia, ma poi sono andata in congestione ed eccomi qui.’ Aveva la morte negli occhi stanchi, nella pelle gialla e tirata fino alla trasparenza nel naso affilato con le narici dilatate a caccia di aria.
LUCIANO DELLA MEA ( 1924 – 2003 ), il fratello di Ivan
Nel movimento socialista italiano degli anni ‘50 e ’60 Luciano della Mea (1924-2003) ha ricoperto un ruolo affatto originale, segnalandosi fra gli esponenti più attivi di quell’ambito politico-culturale che si è soliti identificare con il termine “socialismo di sinistra”. Una categoria, quest’ultima, che non si estrinseca unicamente entro i confini dell’esperienza del socialismo partitico dei primi decenni del dopoguerra..
fine nota
( continua il racconto della visita alla madre )
Ma parlava con Luciano, soltanto con Luciano e Luciano le carezzava la mano bianca sul bianco del lenzuolo. Si diede il sangue per la mamma. Ci tornai dalla Gisella due mesi dopo. La vidi morta. Nel volto la tristezza rassegnata di sempre. La bocca appena socchiusa. In ordine, composta, ben pettinata. Pensa te, mi disse Luciano serio, indovina un po’ qual è l’ultima parola che ha detto prima di morire. Non potevo saperlo. Tacqui. Ghigo, ha detto, Ghigo mio. Mia madre fu una grande fumatrice. Avevo rimediato due stecche di Giubek, o Giubec con filtro. Le posai nella bara e dissi ciao Gisella. Poi ci fu il funerale. Un funerale da poco.
Poi il cimitero di Torre in una splendida giornata di sole pulito sopra gli ulivi e i cipressi e i lecci.” – Ivan Della Mea: “Se la vita ti dà uno schiaffo”, Jaca Book, 2009–pagina 102.
segue commento alla canzone di Riccardo Venturi di ” Canzoni contro la guerra ”
Per molti questa non è neppure una canzone, ma una parte di una canzone; più precisamente Mangia el carbon e tira l’ultim fiaa, dall’album “Io so che un giorno” del 1966. In pratica, è una canzone a sé stante e come tale Ivan Della Mea, a volte, la interpretava. Personalmente gliela ho sentita cantare una sola volta, ma la mia conoscenza personale di Ivan Della Mea non è antica; un’altra, quando Ivan era già bell’e morto, l’ho sentita cantata da Silvia Malagugini, la bellissima e filiforme Silvia che farebbe venire i bordoni anche se cantasse “44 gatti”, figurarsi questa canzone. Qualunque cosa sia, questa cosa fu scritta da un Ivan Della Mea ventiseienne di fronte ai funerali di sua madre, nel paese di Torrealta di Ponte del Giglio (Lucca); la “Gisella” è sua madre, perché lui la chiamava per nome. E le portava le sigarette, quelle poche volte che ancora la vedeva dopo essersene andato da bambino a diventare milanese di ossa e di cuore. Eppure, rimase anche un toscano, un maledettissimo toscano ma di quella parte della Toscana anomala, la Lucchesia, di chiesa e di sagrestia, e dove la religione è trattata comunque con estremo rispetto. Tanto da scrivere un autentico, bellissimo, straziante, solenne, ecclesiastico canto funebre per una madre con le sigarette nella bara. C’era Luciano, Luciano Della Mea, il fratello maggiore partigiano, scrittore e giornalista, che ora riposa anche lui nel cimitero di Torrealta accanto alla madre. E c’era la vita grama del giovane Ivan, emigrato, operaio, millemestieri, poeta, comunista e povero. C’era una madre che, anche in punto di morte, aveva invocato il nome del marito, quel “Ghigo” nominato da Ivan Della Mea, il padre fascista e violento, autentico aguzzino di sua moglie, cui Ivan ha restituito i massacri che somministrava in famiglia. Ma in punto di morte, la moglie lo chiamava. Ghigo mio. Si tratta di misteri che non sarebbe corretto liquidare in due parole e tre banalità. Cosa che non farò. Così, dopo il funerale della madre in quel giorno di sole a Torrealta di Ponte del Giglio, Lucca, Ivan Della Mea se ne tornò a Milano a cantare la libertà, cosa che ha fatto più che egregiamente fino alla fine dei suoi giorni. [RV]
C’è l’ulivo e il sole,
ride dietro il poggio
dove il marmo
si fa più bianco.
Cosa mai
può dire un prete
più che un requiem frusto e stanco?
Certo, questa è la vita
e io canto la fine.
C’è l’ulivo e il sole,
scema dietro il poggio
nel saluto
ognuno va.
E anch’io torno a Milano
a cantare
la libertà.
Certo, questa è la vita
e io canto la fine.
C’è l’ulivo e il sole,
muore dietro il poggio
con la tua
serenità.
Questo è il canto della morte
che non chiede
la pietà.
Certo questa è la vita
e io canto la fine.
canzoni contro la guerra
https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=64844
Divertente e bello questo testo, che riprende dei detti in dialetto milanese ( ti che te tachet i tacc, tachete ti i to tacc), una specie di scioglilingua. Oltre all’aspetto di gioco c’è una certa malinconia divertita. C’è anche un’altra parola milanese resa famosa in una canzone :” El bamburin de la mijè d’un ghisa” che tratta di un tizio che vuole a tutti i costi vedere l’ombelico della moglie di un vigile. Insomma, la parlata milanese e il surreale vanno benissimo d’accordo.
chiara, ammesso che qualcuno mai arrivi a guardare fino in fondo, e quindi ai commenti, si domanderà cosa mai mi ha fatto fare una tale lungaggine con i problemi che ci sono al mondo: il fatto che ” io ” ho così passato un bel pomeriggio a stare con Ivan della Mea e ” immaginando ” di stare anche con altri.. cioè voi, plurale anche se siete uno ( oggi,Donatella ). L’ho già detto: ” si ha un estremo bisogno di bellezza per sopravvivere e, aggiungo, ancor più alla mia età ( 81 a luglio ). E la musica è la bellezza più ” facilmente raggiungibile “, anche quando classica, secondo me. grazie