Pubblichiamo un racconto per noi bellissimo e di uno dei mille autori che non conosciamo : Ngugi wa Thiong’o ( 5 gennaio 1938, Kamirithu, Kenya– Atlanta, Usa, 28 maggio 2025 )

 

 

IL MANIFESTO – ALIAS — 8 GIUGNO 2025
https://ilmanifesto.it/senza-ombra-di-dubbio-la-mia-prima-lezione-di-arte-e-cinema

 

 

Alias Domenica

 

Senza ombra di dubbio: la mia prima lezione di arte e cinema

 

 

Kaloki Nyamai, dalla serie Twe Vaa («Noi siamo qui»), 2024

Kaloki Nyamai, dalla serie Twe Vaa («Noi siamo qui»), 2024

 

 

 

Per mia figlia, Mumbi Wanjiku Ngugi

 

Mio fratello minore, Njinju, sosteneva di potere afferrare la sua ombra. Poiché ero di un anno più grande, non avrei mai ammesso di essere da meno. Dalla competizione nacque una gara tra fratelli per chi fosse riuscito per primo nell’impresa. Con la cupa ma avida determinazione dei cacciatori di taglie ci mettemmo in moto per catturare le nostre ombre. Ma queste erano molto scaltre. Scappavano lontano da noi, eppure mantenevano fastidiosamente la nostra stessa velocità, accelerando e rallentando quando noi lo facevamo, e fermandosi quando ci fermavano.

Decidemmo di essere noi quelli che scappavano, ma si ripeté la stessa storia. Le ombre ci seguivano facendo tutto quello che facevamo noi e proprio nello stesso momento e con la stessa velocità. Se portavamo un carico sulla testa, in mano, sulla schiena o facevamo rotolare un cerchio, la nostra ombra appariva come una perfetta replica. Eccole là, nelle notti di luna, che ci camminavano dietro, davanti, accanto, facendosi beffa della nostra incapacità a farle prigioniere.

Ce ne liberavamo solo quando cadeva il buio, e all’inizio eravamo orgogliosi di esserci riusciti, ma non appena ci sedevamo accanto al fuoco, erano già tornate. Purtroppo non eravamo stati noi a fuggire da loro ma piuttosto erano state loro a nascondersi nel buio solo per ricomparire all’improvviso in maniera teatrale all’ora dei racconti. Facevano i loro giochi sulle pareti, sui nostri volti, e seguendo il movimento delle fiamme, si mettevano perfino a ballare. A volte si moltiplicavano e continuavano a prenderci in giro con i loro movimenti e ondeggiamenti che sembravano proprio disegnati a questo scopo.

La loro scomparsa nell’oscurità, comunque, ci suggerì l’idea di come liberarcene. Sotto un grosso albero o in un boschetto, la loro ombra inghiottiva le nostre, ma non appena venivamo fuori dalla boscaglia, tornavano a farsi vedere. Non essendo sicuri di chi avesse veramente ingannato l’altro, non provavamo un vero senso di trionfo per quel successo momentaneo. Decidemmo di studiare le ombre. Non puoi combattere un avversario che non conosci. E così ci mettemmo all’opera con la pignoleria di ricercatori scientifici.

Alberi, mucche, capre, gatti, rane, insetti, e perfino legno e pietre avevano ombre. Anche automobili e aeroplani. Tutto aveva un’ombra. C’erano piccole ombre sui volti delle persone, sotto gli occhi e le orecchie; ombre che si spostavano sulle facce a seconda della posizione rispetto alla fonte di luce. Notammo qualche piccola differenza. L’ombra di una macchina le correva accanto, mentre quella di un aeroplano in cielo correva sulla terra. Lo stesso per gli uccelli: il corpo volava in cielo, l’ombra correva sulla terra, ma così veloce che non provammo neppure ad acchiapparle. Tutto al contrario delle ombre delle piante e delle pietre. A differenza di quelle degli oggetti volanti, che sembravano capaci di staccarsi da loro, le loro ombre non andavano lontano, anche se si allungavano e si accorciavano a seconda dell’ora del giorno.

Cambiammo tattica o piuttosto atteggiamento. Invece di catturarle o sfuggirle, cercammo di usarle. Segnavamo il passaggio del tempo dalla lunghezza delle nostre ombre. Al mattino si allungavano a terra. Dopo mezzogiorno si allungavano di nuovo, ma quasi nella direzione opposta. A mezzogiorno erano cortissime. La pioggia e le nuvole ci rovinavano tutto ma quando il sole splendeva per tutto il giorno riuscivamo ad essere abbastanza precisi riguardo all’ora. Fissavamo perfino gli appuntamenti regolandoci sulle ombre. Vediamoci quando l’ombra è più corta, significava a mezzogiorno. Vediamoci prima o dopo che la grande ombra ha inghiottito tutte le altre. Davvero non sentivamo la mancanza di orologi al polso e in casa. La cosa stupefacente fu scoprire che portavamo la scansione del tempo, il giorno e perfino la notte, nelle nostre ombre.

 

Qui e in pagina, opere di Kerry James Marshall

 

Ma non servivano soltanto per dirci l’ora. Quando faceva molto caldo, ci sedevamo sotto l’ombra degli alberi, dove era bello e fresco. Quando la mamma arrostiva le patate all’aperto ci piaceva mangiarle all’ombra delle piante di ricino Mbariki. Presto scoprimmo altre qualità dell’ombra, il lato artistico. I racconti serali mentre sullo sfondo si muovevano ombre scherzose erano più intensi e più piacevoli. Le ombre creavano intorno a noi una atmosfera di magica morbidezza.

A volte facevamo combattere le nostre ombre, a imitazione delle nostre lotte. Provammo anche altri giochi con le ombre trasformando i teli di calicò, il nostro unico capo di vestiario, in una specie di tenda legandoli tra due paletti contro una fonte di luce. Uno di noi si metteva nudo dietro la tenda, facendo smorfie, provando pose e atteggiamenti, mentre l’altro a sua volta completamente nudo, si piazzava davanti alla tenda godendosi le buffonerie dell’altro che arrivavano sotto forma di ombre. Poi ci scambiavamo i posti e lo spettacolo continuava.

Ma presto ci rendemmo conto che c’era qualcosa di meno giocoso nelle ombre. Un giorno io e mio fratello incontrammo un uomo in bicicletta. Portava occhiali cerchiati di alluminio. La bicicletta era decorata di specchietti col dorso di alluminio e aggeggi vari che al vento producevano strani suoni. Mia madre si mise in apprensione quando glielo raccontammo. Se l’avessimo visto nuovamente dovevamo correre all’ombra della boscaglia più vicina e assicurarci che le nostre ombre fossero completamente ricoperte da quella della boscaglia. Scoprimmo poi che era il personaggio più temuto della regione perché comandava le ombre degli umani. Lavorava in una vicina fabbrica di scarpe, ma svolgeva anche un’altra attività, quella di consulente specialista in magia e dietro compenso poteva catturare il nemico di qualcuno imprigionandone l’ombra e graffiandola con un coltello. Dovunque si trovasse, il malvagio sarebbe morto dissanguato se non si fosse arreso, smettendola di comportarsi male. Secondo alcuni perfino l’ombra imprigionata nello specchio avrebbe sanguinato. Mia madre non pensava che fossimo cattivi ma non poteva escludere un incidente o un atto di pura malvagità da parte di quell’uomo.

Questo confermava quel che già sapevamo, che c’era qualcosa di speciale nelle ombre. Ci interrogavamo e litigavamo sull’ontologia dell’ombra. L’ombra nello specchio o sott’acqua era uguale a quelle che ci seguivano? A me sembrava di no, che non potevano essere la stessa cosa. Quelle nello specchio erano proprio uguali alle nostre facce, le ombre che ci seguivano non erano altrettanto identiche. Come pure quelle sotto un’acqua limpida. Secondo mio fratello invece erano la stessa cosa: l’acqua e lo specchio erano la loro vera casa. Quando al buio non le vedevamo più era perché erano saltate dentro le loro case di specchi e di acqua.

Benché sulla questione non la pensassimo allo stesso modo ci trovammo d’accordo nel provare noi stessi la magia. Invece di intrappolarle in uno specchio, saremmo andati noi da loro. Prendemmo con noi un coltello non per pugnalare un’ombra umana, e meno che mai la nostra, e neppure quelle di animali perché non volevamo che nessun individuo o animale morisse. Era impossibile pugnalare le ombre degli insetti perché si muovevano troppo rapidamente per le nostre mani. Ma ci sembrò che quelle delle piante e degli alberi fossero più abbordabili: erano immobili e poi le piante non provavano dolore, anche se avevamo sentito urlare certi alberi abbattuti dagli uomini con un’ascia. Per quanto potessimo pugnalare, non ci fu verso di far sanguinare né le ombre né le piante. E questo fu per noi una delusione ma anche un sollievo. Gli alberi e le piante sono diversi dagli umani e dagli animali perché non hanno sangue da versare.

Ma non finì qui la nostra disputa, perché non ci trovavamo d’accordo sul colore dell’ombra umana. Dal momento che le nostre erano invariabilmente nere, mio fratello affermò con assoluta certezza che dipendeva dal fatto che eravamo neri. Ombre nere per i neri, ombre bianche per i bianchi, ombre brune per chi aveva la pelle bruna. Le ombre ci imitavano in tutto, perché non nel colore della pelle? quando feci notare che anche le ombre delle piante erano scure, lui disse che era perché si trattava di piante. Le ombre umane erano diverse: dopo tutto le ombre delle piante erano immobili. Avremmo potuto risolvere la controversia solo dando una controllata agli umani.

 

Kerry James Marshall

 

Non c’erano bianchi nel nostro villaggio. Vivevano al di là della strada ferrata, nascosti dietro enormi case in vaste piantagioni o dentro automobili. La nostra unica speranza erano gli indiani, che forse non erano bianchi quanto i bianchi europei, ma dalle differenze che avremmo riscontrato tra le ombre africane e quelle indiane potevamo trarre una conclusione logica. Così un giorno ci incamminammo verso il centro commerciale indiano, a due miglia dal nostro villaggio. Data la solennità della missione, la sera prima ci facemmo lavare e asciugare perfettamente il nostro telo di calicò per essere puliti e eleganti. Non lasciammo trapelare lo scopo di quel viaggio di scoperta né ai nostri genitori né agli altri fratelli. Nonostante la pensassi diversamente sulla questione, non mi dispiaceva se mio fratello avesse avuto ragione, un’ombra bianca sarebbe stata magnifica da osservare e fu con grande curiosità e aspettativa che guardammo i primi indiani, i bambini davanti alle botteghe. Le loro ombre si comportavano esattamente come le nostre: gli avatar seguivano e fuggivano ma senza mai staccarsi del tutto dal corpo dell’indiano. Erano nere. Forse perché si trattava di bambini? Ma fu lo stesso con le ombre degli indiani adulti. Ombre scure. Come sarebbe stato con i bianchi, i bianchi veri? vere ombre bianche?

A quel punto la fortuna ci venne incontro. Una coppia bianca ci oltrepassò in macchina. Un evento raro. Ci mischiammo ai bambini indiani che circondarono la macchina per vedere uscirne la coppia. I bambini facevano commenti sui loro vestiti, scarpe, gioielli, andatura: erano dei veri europei e portavano caschi per proteggersi dal sole. La coppia camminava con rigida dignità quasi ignorando lo sguardo antropologico dell’altro, ma di tanto in tanto lo riconoscevano e cercavano di distoglierlo gettando in lontananza delle monete. Guardavano per un attimo i bambini correre dietro il tesoro, ma non tutti prendevano parte alla mischia, come a rifiutare di essere trasformati in oggetto dello sguardo.

L’unica cosa che interessava me e mio fratello erano le loro ombre. E queste purtroppo si incrociavano a quelle di tutti gli altri che erano intorno a loro. Poi la coppia si diresse sotto la veranda dove non fu più possibile distinguere le loro ombre da quelle dei tetti. Anche dopo che gli altri bambini ebbero soddisfatto la loro curiosità e se ne furono andati, non ci arrendemmo ma li seguimmo da vicino da una bottega all’altra. La coppia bianca cercò di liberarsi di noi lanciando a terra delle monete, ma noi non ci muovemmo. Volevamo le loro ombre non le loro monete. Volevamo che la coppia venisse fuori dalla veranda.

Finalmente uscirono all’aria aperta. Li seguimmo alla macchina e così vedemmo le loro ombre, nette, distinte. Ahimè, erano uguali alla nostre e a quelle indiane, altrettanto scure. Non ci bastò, e io e mio fratello continuammo a seguirli aspettando che le vere ombre saltassero fuori. Incuriositi, i due si fermarono e ci fecero cenno di avvicinarci. La donna tirò fuori delle caramelle. Scuotemmo la testa. Che cosa volete?

«Stringervi la mano» si precipitò a dire mio fratello, guardando dalla mia parte.
Sapevo cosa voleva dire quello sguardo. La donna lentamente si mise i guanti e con uno sguardo confuso tese la mano guantata a mio fratello. Non guardai la stretta di mano: mi concentrai sulle ombre sul terreno. Poi toccò a me stringere la mano di quel signore egualmente confuso che non si curò di mettersi il guanto. Mio fratello fece come me: si concentrò sulle ombre. Giungemmo alla stessa conclusione.
Tornammo a casa in silenzio, senza discutere, senza che nessuno rivendicasse la vittoria, senza neppure parlare della reazione della coppia bianca al nostro desiderio. Ci sentivamo uniti da una scoperta che non aveva bisogno di parole. A casa dicemmo ai nostri fratelli che avevamo scoperto un segreto e indicammo un giorno in cui l’avremmo svelato.

La cosa si venne a sapere e la sera della rivelazione la nostra capanna era piena zeppa. Alcuni erano rimasti fuori. Perfino gente che abitava non tanto vicino si era unita alla folla in attesa.
Quando arrivò il momento ci mettemmo fianco a fianco. Silenzio di tomba. Senso di attesa. Abbiamo fatto una grande scoperta, dicemmo all’unisono. Ogni cosa ha l’ombra. L’annuncio fu salutato da risatine maligne e qualche E allora? La situazione ci stava sfuggendo di mano. Ripresi subito: umani, animali, piante, pietre e cose erano imparentati: tutti avevano l’ombra. Che state dicendo, bambini, che siamo pietre?

Mio fratello allora annunciò la nostra vera scoperta. Bianchi, bruni e neri, erano tutti uguali. La prova? avevamo stretto la mano a delle persone bianche e non c’era nessuna differenza tra le loro ombre e le nostre. Erano tutte ugualmente scure. Questo non impressionò i nostri ascoltatori che sembravano più interessati all’incontro con la coppia bianca che alla nostra epocale conclusione.

Insomma, la nostra scoperta non cambiò il mondo e ci vollero spargimenti di sangue per le strade e sulle montagne del nostro paese perché lo stato coloniale facesse la stessa scoperta e accettasse il principio una persona un voto. Ma io e mio fratello pensavamo che se avessero accettato la nostra semplice evidenza, non ci sarebbero stati spargimenti di sangue, né i Mau Mau, né i campi di concentramento. Sfortunatamente mio fratello non visse abbastanza per godersi la mattina successiva al voto. Morì in un incidente d’auto.
Molti anni dopo quando avevo quasi dimenticato la nostra disputa sulle ombre andai a seguire un corso di cinematografia allo Stockholm Dramatiska Institute. Eravamo dodici studenti provenienti da varie parti del mondo, tutti eccitati alla prospettiva di imparare l’uso della cinepresa e i segreti di Hollywood in un istituto da cui era uscito il campione del cinema svedese, Ingmar Bergman.

 

Kerry James Marshall

 

L’insegnante entrò in classe. Più tardi apprendemmo che si trattava di un famoso regista in esilio fuggito, ancora studente, dalla rivolta ungherese del 1956. Parlava inglese con qualche esitazione, inserendo in ogni frase parole come Varsogod, mycket bra, ma era chiaro che ci stava chiedendo di seguirlo. Pensammo che stavamo per andare in uno studio, la nostra prima visita a un vero studio cinematografico. Ma il mistero sulla destinazione si infittì quando uscimmo per le strade acciottolate di Stoccolma. Era primavera, tutti portavano abiti dai colori vivaci. Dopo una breve passeggiata entrammo in una galleria, un museo d’arte, non lo studio hollywoodiano dei nostri sogni.

Si fermò accanto ai quadri di Rembrandt, L’accecamento di Sansone La ronda di notte e ci chiese di guardarli attentamente. Non capivo perché per la prima lezione di cinematografia ci mettesse davanti a tanta violenza. Voleva che notassimo come l’artista usava la luce. Vedete la fonte della luce? La fonte della luce, che si tratti del sole di giorno o della luna di notte, del fuoco dentro una casa o fuori, e l’ora, sì, l’ora, e anche se la luce passava da una finestra o una crepa nel muro, determinavano il modo in cui le ombre cadevano sul soggetto. Nei dipinti religiosi, era Dio la fonte universale di luce. Nella Natività di Geert tot Sint Jans, il bambino Gesù era la fonte della luce che illuminava ogni cosa intorno a lui. Varsagod. Si soffermò più a lungo sulla Gioconda di Leonardo da Vinci, spiegandoci il modo in cui l’artista aveva abilmente ombreggiato orecchie e bocca per realizzare il sorriso misterioso.

Ci parlò poi del chiaroscuro in arte, fotografia e cinema e di un certo Merisi da Caravaggio, un altro Michelangelo, l’apostolo della luce, citando i tre quadri su Matteo, La vocazione di San Matteo, Il Martirio di San Matteo, San Matteo e l’Angelo, nella cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi a Roma.

È l’ombra che definisce l’identità dell’essere. Il cinema delle origini, disse, era un gioco di ombre, in cui gli attori e le loro azioni dietro uno schermo arrivavano allo spettatore come ombre. L’allegoria della caverna di Platone era ‘ombrografia’, quasi una descrizione orale del cinema…

Restai in silenzio, non ascoltavo più. Rividi mio fratello, perso in un incidente d’auto subito dopo la scoperta che avrebbe potuto cambiare il corso della storia se solo qualcuno se ne fosse accorto. Mi resi conto all’improvviso che era stato mio fratello Njinju, al villaggio, tanto tempo prima, a darmi la prima lezione di arte e cinema.

 

Cape Town, Table Mountain, Sudafrica, 11-22 giugno 2012.

 

Traduzione di Paola Splendore

 

 

Per gentile concessione de Lo straniero n. 181, luglio 2015 – vedi sotto

 

E’ possibile che qualcuno sia più interessato ad un’altra rivista che avrei piacere di guardare con lo stesso nome :

 

 

 

SEGUE DA: 

 

L’INTEGRALE RIVISTA.IT  L’INTEGRALE – LO STRANIERO


https://www.lintegralerivista.it/titoli/lintegrale-straniero/

 

 

 

Straniero

Copertina

 

Piatti speziati, il ribollire di una fermentazione, l’architettura di un croissant, il dialogo tra piante e quello tra sobri e ubriachi. Il cibo dà forma al senso di appartenenza e a quello di estraneità. In ogni pezzo di questo numero incontriamo lo straniero: come creatura misteriosa, come sguardo dominante, come terra sconosciuta, come radice e come destinazione, come minaccia e come rifugio.

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Piatti speziati, il ribollire di una fermentazione, l’architettura di un croissant, il dialogo tra piante e quello tra sobri e ubriachi. Il cibo dà forma al senso di appartenenza e a quello di estraneità. In ogni pezzo di questo numero incontriamo lo straniero: come creatura misteriosa, come sguardo dominante, come terra sconosciuta, come radice e come destinazione, come minaccia e come rifugio.


Pagine: 112

ISBN: 9788870918342

Prezzo: 19,00 €

Uscita: Maggio 2022

Contributi di: Ferdinando Cotugno, Dario De Marco, Matteo Gallello, Franco La Cecla, Agnese Negrini, Tommaso Melilli, Martina Miccichè, Greta Plaitano, Fabio Pracchia, Rete Semi Rurali, Gabriele Rosso, Diletta Sereni, Giulia Ubaldi, Nadeesha Uyangoda.

A cura di: Diletta Sereni

Illustrazioni: Gianluca Cannizzo

Progetto grafico: Elisa Cusimano

 

 

 

 

 

Sommario

Badare alla bestia

— Diletta Sereni

Durante una fermentazione si impara a convivere con la paura dell’incertezza, ad avere fiducia in creature invisibili e a trovare un senso nuovo alla fine delle cose.

La distanza tra il piatto e noi

— Nadeesha Uyangoda

Un terzo del mondo mangia con le mani, ma lo sguardo occidentale considera questa pratica come incivile o “esotica”. Eppure qualcosa si perde, a prendere il cibo con le posate.

Nessun pane è straniero

— Dario De Marco

In Italia il pane fa fatica a riflettere le diverse culture presenti, e si muove nella strettoia tra il vecchio campanilismo e i nuovi standard di eccellenza internazionale.

Nelle terre che aspettano

— Ferdinando Cotugno

Il popolo Saharawi vive in territori frammentati e privati di ogni risorsa. I loro pasti durano ore e sono una forma di resistenza e di esercizio della memoria.

Stare al mondo senza disciplina

— Gabriele Rosso

L’ubriaco è considerato il dannato, il reietto, lo straniero che minaccia la nostra morale. Ma avremmo bisogno di slegarci dall’atavica fame di rettitudine.

I sapori strani e squisiti

— Tommaso Melilli

Confrontarsi con la cucina di un paese straniero vuol dire esporsi al rischio di appropriazione culturale. Per evitarlo bisogna rovistare a fondo nella storia dei cibi, quelli degli altri, ma anche i nostri.

Desiderio di lontano

— Ilaria Turba

L’artista Ilaria Turba fa viaggiare i desideri dentro a pani dalle forme straordinarie.

Tutto succede per strada

— Franco La Cecla

Cronaca immaginaria di una giornata itinerante per le vie di Istanbul, tra carretti, banconi e tavolini sui marciapiedi, con un panino di sesamo a fare da guida.

Vini e paste d’ogni maniera

— Greta Plaitano

Le grandi esposizioni del XIX e XX secolo sono un viaggio attraverso le invenzioni dell’industria alimentare. In questi eventi internazionali si è formata la nostra cultura gastronomica.

Sorti alterne delle uve foresti

— Matteo Gallello

Il mito dei vitigni internazionali era legato a un approccio enologico omologante, che oggi ha fatto il suo tempo. Ma liquidare le uve straniere tout court non è giusto per varie ragioni.

Ricordi dell’Ucraina

— Giulia Ubaldi

Pani conditi e pasta alla marmellata, varenyki e vodka, tavolate e merende: tre testimonianze personali di una gastronomia profondamente legata al grano.

Umani di frontiera

— Martina Celestina Miccichè, Saverio Nichetti

 

 

 

Fotografie

Reportage dal confine ucraino, a pochi giorni dall’invasione russa, per raccontare la prima accoglienza di chi fugge da una guerra.

 

 

FOTO E TESTO SOPRA DA:

L’INTEGRALE RIVISTA.IT  L’INTEGRALE – LO STRANIERO

https://www.lintegralerivista.it/titoli/lintegrale-straniero/

 

 

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1 risposta a Pubblichiamo un racconto per noi bellissimo e di uno dei mille autori che non conosciamo : Ngugi wa Thiong’o ( 5 gennaio 1938, Kamirithu, Kenya– Atlanta, Usa, 28 maggio 2025 )

  1. DONATELLA scrive:

    Che bello leggere cose a cui non saremmo mai arrivati senza questo blog!

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