ILAN PAPPE’ -La fine d’Israele– Nazzareno Mataldi ( Traduttore ) — Fazi, 2025–+ Il collasso è inevitabile, la transizione violenta no–  in anteprima, estratto, IL MANIFESTO  7 ottobre 2025; + Michele Giorgio, intervista a Ilan Pappé- IL MANIFESTO 12 ottobre 2025

 

 

 

La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina - Ilan Pappé - copertina

 

La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina

 

 

Summa dell’analisi storico-politica di Pappé, La fine di Israele è un contributo fondamentale per comprendere l’insostenibilità del progetto sionista e la via possibile per la pace in Palestina.

«Stiamo assistendo all’inizio della fine dello Stato di Israele»

«La fine di Israele è un capolavoro, una lettura imprescindibile per chiunque voglia comprendere la disintegrazione del progetto sionista e le sue conseguenze. Pappé, uno dei massimi studiosi del conflitto israelo-palestinese, è autore di libri innovativi e fondamentali. Anche questo non fa eccezione». – Chris Hedges

«Quando pensi che sia già stato detto tutto, Ilan Pappé ti offre questo libro illuminante, originale e, soprattutto, pieno di speranza». – Eyal Weizman

«Ilan Pappé è il più coraggioso, più onesto, più incisivo degli storici israeliani». – John Pilger

Dopo il 7 Ottobre e il genocidio a Gaza, il progetto sionista in Palestina – il tentativo secolare dell’Occidente di imporre uno Stato ebraico in un paese arabo – è destinato a una «disintegrazione inevitabile». È la tesi del celebre storico israeliano Ilan Pappé che, dopo opere considerate pietre miliari nella storiografia del conflitto israelo-palestinese, in questo nuovo volume sposta lo sguardo sul futuro di Israele e della Palestina. Diviso in tre parti, nella prima – Il collasso – Pappé esamina il fallimento del cosiddetto “processo di pace” ed evidenzia le fratture profonde che minacciano la stabilità di Israele: l’ascesa del sionismo religioso, le crescenti divisioni all’interno della società israeliana, l’allontanamento dei giovani ebrei dal sionismo, il sostegno dell’opinione pubblica mondiale alla causa palestinese, la crisi economica e la messa in discussione dell’invincibilità militare di Tel Aviv. Nella seconda parte – La strada per il futuro – l’autore delinea sette mini-rivoluzioni cognitive e politiche necessarie per costruire un avvenire migliore per tutti gli abitanti della Palestina storica: da una nuova strategia per il movimento nazionale palestinese alla giustizia transitoria e riparativa sul modello sudafricano, dal diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alla ridefinizione dell’identità collettiva ebraica. Nella terza parte – La Palestina del dopo-Israele, anno 2048 – Pappé offre una preziosa visione di speranza e riconciliazione. Immagina un domani in cui le mini-rivoluzioni hanno avuto successo e descrive come potrebbe essere la vita in uno Stato palestinese democratico e decolonizzato, con il ritorno dei rifugiati, la coesistenza di ebrei e palestinesi come cittadini con pari diritti e la guarigione delle ferite del passato.

 

 

 

nota su 

Ilan Pappé  —1954, Haifa

 

Ilan Pappé è uno dei maggiori storici del Medio Oriente. Nato ad Haifa da genitori ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista, si è laureato alla Hebrew University e ha conseguito il dottorato a Oxford. Nel 2005 ha sostenuto il boicottaggio (incluso quello accademico) di Israele e per questo, dopo aver insegnato per anni a Haifa, si è dovuto trasferire in Gran Bretagna, all’Università di Exeter. Docente di Storia all’Istituto di studi arabi e islamici presso il College of Social Sciences and International Studies e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter, ha publbicato numerosi saggi. Fra le sue opere tradotte in italiano, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (Einaudi, 2005), La pulizia etnica della Palestina (Fazi, 2008); con Noam Chomsky ha scritto Ultima fermata Gaza (Ponte alle Grazie, 2010) e Palestina e Israele: che fare? (Fazi 2015). Con nottetempo ha pubblicato Israele/Palestina. La retorica della coesistenza nel 2011. Per Einaudi nel 2014 esce Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli e con Tamù nel 2022 10 miti su Israele.
Nel 2022 Fazi pubblica La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, entrato nelle classifiche di vendita a ottobre 2023 a causa del drammatico riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese. Del 2024 è Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina. Dal 1882 a oggi.

da : IBS–
https://www.ibs.it/libri/autori/ilan-papp%C3%A9

 

 

 

IL MANIFESTO  7 ottobre 2025

https://www.ibs.it/libri/autori/ilan-papp%C3%A9

 

Il collasso è inevitabile, la transizione violenta no–  in anteprima, estratto

 

Coloni israeliani si radunano al confine con Gaza, mentre sullo sfondo si vedono scie di fumo dietro l'avanzata dei carri armati israeliani (Ilia Yefimovich, Ap)

Coloni israeliani si radunano al confine con Gaza, mentre sullo sfondo si vedono scie di fumo dietro l’avanzata dei carri armati israeliani – Ilia Yefimovich, Ap

Il passo da uno Stato in crisi alla sua fine può essere breve. Non prendo con leggerezza il processo che potrebbe portare alla fine di uno Stato di cui sono cittadino e in cui vivono milioni di persone. Gli Stati in realtà non finiscono come se niente fosse, e da questo punto di vista parlare di «fine» potrebbe essere esagerato; nella maggior parte dei casi gli Stati cambiano e a volte lo fanno in modo drastico. È di questo che si discute qui. Abbiamo esempi di Stati che non solo si sono disintegrati o sono collassati, ma sono proprio scomparsi: per esempio, la Iugoslavia e il Vietnam del Sud, per citare i due casi più noti della storia recente.

La fine di uno Stato può anche significare la fine di un regime, e qui gli esempi abbondano: Sudafrica, Cile, Argentina, Iraq e così via. Dunque, un potenziale crollo di Israele potrebbe essere come la fine del Vietnam del Sud, con la cancellazione totale di uno Stato, oppure ricalcare la vicenda del Sudafrica, con la caduta di un particolare regime ideologico e la sua sostituzione con un altro.

Sono del parere che nel caso di Israele si avranno elementi di entrambi gli scenari prima che molti di noi se ne avvedano o possano prepararsi per farvi fronte. Perché sollevare il problema adesso? Non sono l’unico a essersi posto il problema. Il periodo movimentato avviato con l’attacco di Hamas a Israele, il 7 ottobre 2023, ha sollevato seri dubbi sul futuro dello Stato ebraico.

Alcuni dibattono sulla scorta della grande animosità che nutrono verso questo Stato e ciò che esso rappresenta; altri discutono preoccupati per il futuro di Israele. Ma nel 2023 si è fatta strada l’idea, tra gli amici tanto quanto tra i nemici, che l’esistenza di Israele non sia mai apparsa così precaria. I segnali di allarme precedono l’attacco devastante di Hamas del 7 ottobre, come dimostrato dall’implosione sociale all’interno della società israeliana emersa con l’elezione nel novembre 2022 del governo più di destra nella storia del paese. Molti si domandano se Israele sopravvivrà in futuro come uno Stato ebraico e tra gli esperti sono cominciate a circolare alcune ipotesi. Quando alcuni palestinesi e coloro che ne sostengono la lotta rispondono negativamente a questa domanda, è con la grande speranza che Israele finirà per davvero e sarà rimpiazzato da una Palestina libera. Quando invece sono gli israeliani a ipotizzare la fine del loro Stato, lo considerano uno scenario da incubo per sé e per gli ebrei di tutto il mondo.

Queste due distinte risposte emotive a uno scenario altamente probabile tendono a ignorare le complessità e le complicazioni che ci attendono prima che si realizzi. Quando si auspica la fine dello Stato o se ne teme l’idea, bisognerebbe avere ben presente, alla luce dei precedenti storici, che questi processi sono sempre caratterizzati da una violenza estrema. E se così fosse, in Palestina sarebbero i palestinesi a pagare il prezzo più alto di un tale evento. Ma ciò non è inevitabile. Se ci si addentra in un’analisi più accurata di una simile traiettoria, emerge anche la possibilità di percorsi non-violenti o meno violenti verso un futuro migliore per tutti coloro che oggi vivono in Israele e in Palestina e per coloro che sono stati espulsi da questi territori a partire dal 1948.

Sebbene io sostenga la visione di un unico Stato democratico per Israele e Palestina, il mio non vuole essere un appello perché si arrivi alla fine di Israele. Da storico, evidenzio che la fine di Israele sembra essere già cominciata. E la morte di uno Stato o il collasso di un’entità geopolitica creano un vuoto. Alla discussione sui motivi della fine dello Stato o sulle circostanze in cui avverrà farà dunque seguito un’analisi di chi e che cosa potrebbero e dovrebbero riempire il vuoto inevitabile. E, quanto prima il vuoto sarà riempito, tanto meno violento sarà il processo di disintegrazione, se la mia valutazione è corretta.

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Come molti dei miei amici palestinesi, anch’io mi riferisco alla fine di Israele come a un processo di decolonizzazione. In qualità di storico so bene dei casi del passato in cui la decolonizzazione è avvenuta attraverso trasformazioni violente e brutali. La storia, la migliore maestra che abbiamo, ci fornisce innumerevoli esempi in cui le lotte per la decolonizzazione e la liberazione sono sfociate nella creazione di nuovi sistemi di ingiustizia, per usare un eufemismo.

Realisticamente, sarebbe ingenuo immaginare una fine del progetto sionista o dello Stato di Israele come una felice e rapida trasformazione da un luogo di occupazione, oppressione e, da ultimo, di genocidio in un paese dove le libertà sono garantite a tutti e dove viene ristabilita la giustizia per chi in passato abbia subito dei torti. Ma è importante aspirare e adoperarsi per giungere a una transizione che sia la più pacifica possibile, si dimostri costruttiva e prefiguri un futuro migliore per quante più persone possibile. Una transizione che vada innanzitutto a beneficio delle vittime dell’oppressione e degli spargimenti di sangue, ma anche di coloro che temono che perdere la propria posizione di privilegio e superiorità li trasformerà in vittime, da agiati oppressori quali sono attualmente.

Il progetto sionista si sta sbriciolando e con esso lo Stato di Israele come uno Stato ebraico. E questa idea non è una pia illusione né lo scenario a cui si potrebbe arrivare nel peggiore dei casi. È qualcosa di inevitabile, non perché io stia adottando una prospettiva determinista sulla storia o perché possieda una sfera di cristallo, ma perché è una situazione già in essere, anche se non se ne parla. Le fondamenta dell’Israele sionista hanno crepe così grosse che nessuna opera di manutenzione potrà ripararle. Non si tratta di stabilire se l’edificio crollerà, ma quando ciò avverrà.

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Il collasso di Israele non è una posizione politica, qualcosa che si possa accettare oppure rifiutare. È un processo oggettivo che è già cominciato. La sua probabilità dovrebbe essere discussa come argomento principale nella conversazione a lungo termine sul futuro di Israele e della Palestina, anziché concentrarsi – come facciamo noi – sul futuro dei palestinesi. La sorte dei palestinesi nei prossimi anni è comprensibilmente la nostra più grande preoccupazione, ma nel lungo periodo sarà la sorte degli ebrei nella Palestina storica la questione da risolvere. Il tentativo secolare dell’Occidente, Regno Unito in testa, di imporre uno Stato ebraico su un paese arabo sembra essere arrivato alla fine. È riuscito a creare una società organica di milioni di colonizzatori, molti dei quali ormai di seconda e terza generazione, ma la cui sorte dipende ancora, come quando sono arrivati, dalla capacità di imporre con la forza violenta la loro volontà su milioni di palestinesi indigeni che non hanno mai rinunciato al proprio diritto all’autodeterminazione e alla libertà sulla propria terra natia. La loro unica speranza per il futuro sarà data da una disponibilità a vivere da cittadini con pari diritti in una Palestina liberata e decolonizzata. Sono convinto che molti lo faranno.


Pappé – autore di libri imprescindibili sulla questione palestinese e la storia di Israele – ha ricevuto il fine settimana scorso il premio Stefano Chiarini. Giunto alla sua sedicesima edizione, il premio dedicato al giornalista de il manifesto è promosso dall’associazione «Per non dimenticare Odv».

 

 

 

 

IL MANIFESTO 12 ottobre 2025

https://ilmanifesto.it/questo-piano-ferma-la-strage-ma-sara-al-massimo-una-tregua-non-la-pace

 

«Questo piano ferma la strage ma sarà al massimo una tregua, non la pace»

Ilan Pappé
Ilan Pappé

 

 

«La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina» (Editore Fazi) è l’ultimo saggio di Ilan Pappé appena pubblicato in Italia. Sulle tesi di questo nuovo volume che guarda futuro di Israele e Palestina, sul piano Trump e gli ultimi sviluppi a Gaza, abbiamo intervistato lo storico israeliano nei giorni scorsi in Italia per ricevere il Premio «Stefano Chiarini».

 

Donald Trump è in arrivo in Israele per incontrare gli ostaggi che saranno rilasciati da Hamas e per esaltare la sua immagine di promotore di pace tra israeliani e palestinesi e in Medio oriente. A suo avviso l’entusiasmo generale che circonda il piano del presidente americano è giustificato?

Alcuni punti hanno delle potenzialità, specie per le questioni immediate. Come lo stop al massacro della popolazione di Gaza e lo scambio di prigionieri, ma questo è il massimo che ci si possa aspettare dal piano Trump. Non credo contenga un’idea su come porre fine al conflitto. Nella migliore delle ipotesi la proposta Usa può ottenere una lunga tregua. Parlare di un piano di pace però è assurdo, per due ragioni. La prima è che presenta tutte le caratteristiche delle proposte fallite in passato; quindi, non affronta le questioni fondamentali e propone un’occupazione (israeliana) con altri mezzi e modi. La seconda è che per Gaza teorizza un’occupazione mascherata, la continuazione della mega-prigione creata da Israele.

 

L’iniziativa del presidente americano è anche una scialuppa di salvataggio per Benyamin Netanyahu?

È uno dei motivi principali che hanno portato alla formulazione di questo piano. Per comprenderlo occorre domandarsi: chi dovrebbe essere il partner israeliano di questo presunto piano di pace? Un primo ministro come Netanyahu che guida una coalizione che desidera vedere la popolazione palestinese fuori da Gaza? Un premier che intende annettere la Cisgiordania a Israele? E che vuole imporre leggi ancora più dure contro i cittadini palestinesi di Israele? Il piano di Trump è stato concepito in modo tale che un governo israeliano di questo tipo, questa élite ideologica, possa accettarlo.

 

Netanyahu ha ripetuto che Israele in due anni ha imposto la sua forza ai nemici e che non è mai stato così potente come in questo momento. Nel suo libro, al contrario, lei scrive che il crollo di Israele, come Stato sionista, non è più solo una ipotesi politica, bensì è un processo già in corso.

 

Assolutamente vero. E penso che esista un legame tra questa idea megalomane di Netanyahu e la fine dello Stato israeliano sionista. Bombardare tutti e ovunque non è una manifestazione di potenza, ma una visione miope. Se ti comporti come il prepotente del quartiere, se agisci come lo Stato più aggressivo e pericoloso della regione, prima o poi, e accadrà, la regione si stancherà di te. Credo che questo tipo di atteggiamento e comportamento acceleri i processi che descrivo nel libro, come l’incapacità di costruire una società ebraica equilibrata e accettata sia dagli ebrei secolari sia da quelli religiosi. Una teocrazia come quella che sta diventando Israele, unita a un comportamento aggressivo, fa dello Stato sionista un peso. Nessuno vorrà investire in un paese costantemente in conflitto armato con i propri vicini.

 

Crede che le mobilitazioni viste in Europa e nel resto del mondo a sostegno di Gaza e della Palestina, possano aiutare la trasformazione di Israele?

Se milioni di persone nel mondo tra cui molti che in passato erano sostenitori di Israele ora ritengono che sia diventato uno Stato canaglia e chiedono ai loro governi di imporre sanzioni e disinvestimenti, ciò rappresenta una forza storica che può trasformare la politica ovunque.

 

Un tema del suo libro è in quali forme potrà svilupparsi il processo di decolonizzazione.

La storia ha mostrato che la decolonizzazione in tanti casi è disordinata, non lineare. E molto spesso è accompagnata dalla violenza. Come ci ha sempre ricordato Frantz Fanon, quando la decolonizzazione è particolarmente violenta non promette nulla di buono per il futuro del paese postcoloniale. Ciò che mi rende fiducioso, nel caso della Palestina e di Israele, è che il processo potrebbe essere, spero, meno violento. Penso che, nonostante tutto ciò che i palestinesi hanno subito negli ultimi cento, forse centoventi anni, l’impulso fondamentale della maggior parte di loro – non di tutti, ma della maggior parte – non sia la vendetta. Quando avverrà la decolonizzazione, l’energia dei palestinesi sarà rivolta al godimento, per la prima volta, di una vita libera. Poi c’è la comunità internazionale. Quanto più la comunità internazionale costringerà Israele ad abbandonare la sua natura di Stato d’apartheid permettendo la nascita di una società democratica al suo posto, tanto meno violenta sarà la decolonizzazione. In caso contrario assisteremo a un cammino verso segnato da gesti di disperazione e ad atti estremi.

 

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2 risposte a ILAN PAPPE’ -La fine d’Israele– Nazzareno Mataldi ( Traduttore ) — Fazi, 2025–+ Il collasso è inevitabile, la transizione violenta no–  in anteprima, estratto, IL MANIFESTO  7 ottobre 2025; + Michele Giorgio, intervista a Ilan Pappé- IL MANIFESTO 12 ottobre 2025

  1. DONATELLA scrive:

    E’ difficile non condividere la speranza di due popoli in pace, magari cittadini dello stesso Stato. D’altre parte la speranza, nel senso più profondo, può diventare energia e aiutare a creare un mondo migliore.

  2. DONATELLA scrive:

    Oggi ho sentito un pezzo del discorso di Trump: oltre a glorificare se stesso e ad esaltare la liberazione degli ostaggi c’era poco altro. Credo che quello che dice Ilan Pappé sia molto credibile: oltre alla liberazione degli ostaggi e dei prigionieri palestinesi c’è la creazione di una colonia.

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