UTE LEMPER, GRANDE CANTANTE TEDESCA, CANTA BRANI SCRITTI NEI LAGER A TORINO IL 31 GENNAIO/ 1° FEBBRAIO +++ 10 CANZONI DAL SUO SPETTACOLO: ” CANZONI PER L’ETERNITA’ ” ++ ANSA.IT +++ VARIE NOTIZIE SU REPUBLICA DEL 18-04-2016

 

ANSA.IT  16-01-2019

http://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/musica/2019/01/16/ute-lemper-canta-brani-scritti-nei-lager_e303a7c7-7618-4914-858e-cec8a6e7c3ca.html

 

Ute Lemper canta brani scritti nei lager

Al Conservatorio di Torino e al Teatro Toselli di Cuneo

 

 © ANSA

(ANSA) – TORINO, 16 GEN – La cantante tedesca Ute Lemper si esibisce in brani scritti nei ghetti e nei campi di sterminio il 31 gennaio al Conservatorio di Torino e l’1 febbraio al Teatro Toselli di Cuneo, in occasione delle celebrazioni per il Giorno della Memoria 2019.
Un appuntamento molto atteso, gratuito, promosso dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte e dal Polo del ‘900 con il sostegno della Compagnia di San Paolo, della Fondazione Crt, del Goethe-Institut e il patrocinio della Città di Torino e della Comunità Ebraica di Torino.
“La Shoah è la più grande tragedia del ‘900 e i campi di sterminio sono il pozzo più nero della storia umana, ma anche in quei luoghi si fece musica, e farla conoscere vuol dire portare quella storia fuori dai lager”, dice il presidente del Consiglio regionale Nino Boeti, che ricorda anche come il 22 gennaio a Torino verranno installate 15 nuove pietre d’inciampo (Stolpersteine) di Gunter Demning in memoria delle vittime della deportazione.
 

 

 

Piano Francesco Lotoro
Bass Guiseppe Bassi
Bandoneon Victor Villena
Violin Daniel Hoffman
Clarinet Andre Campanella

Concert filmed by RAI in Mantova, Italy

 

 

REPUBBLICA 18-04-2016

https://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2016/04/18/news/ute_lemper_canto_le_canzoni_dei_lager_perche_l_orrore_non_si_e_fermato_-137706089/?SSID=4A1B7D24057C59AF1AC33F1559B30494C8C835EEBFDED5C81ACC4187BE9F5AC0B123352D9A21909E4894F19BA4C95D088C3BA81421393990AA690A7959C4337E0E2B68B73ECA88ADCD42DD2D5AD1F99050303B6F8B4468178A327B6BE1311C10

 

 

Ute Lemper: "Canto le canzoni dei lager perché l'orrore non si è ancora fermato"

 

Ute Lemper: ” Canto le canzoni dei lager perché l’orrore non si è ancora fermato “. 

 

di PAOLO RUSSO

 

La grande cantante il 18 e 19 aprile a Mantova con ‘Songs for Eternity’. Con Moni Ovadia e un quintetto. Un recital nato dalle trentennali ricerche del musicista Francesco Lotoro nello sconfinato repertorio scritto nei luoghi di prigionia di tutto il mondo dal ’38 al ’45

 

 

“Quando canto le canzoni scritte dai deportati ebrei nei ghetti e nei lager vedo un dolore immenso in un universo di crudeltà, la profondità della sofferenza davanti al Genocidio. E vedo anche l’oggi di migliaia di emigranti siriani dietro i fili spinati nella speranza di poter accedere ai paesi occidentali… il fango… lo sporco… la facce distrutte dal pianto… i bambini morti dal caos fatto di guerra civile, crimine e case perdute”. Mettere la propria grande arte e sensibilità al servizio di conoscenza, riscatto e speranza non è una novità per la tedesca di Colonia Ute Lemper. Che il 18 (sinagoga Norsa Torrazzo, ad inviti) e 19 aprile (teatro Bibiena, 20.30; le serate saranno riprese per la Rai), sarà a Mantova con Songs for Eternity. Sedici canzoni composte dagli ebrei deportati, scelte fra quelle che le ha donato un amico israeliano figlio di vittime dei lager. Ma soprattutto fra i 5mila brani già studiati, trascritti e registrati dei 17mila che il pianista e musicologo Francesco Lotoro, alla tastiera nelle serate mantovane, studi anche alla prestigiosa “Liszt” di Budapest e con Ciccolini, rintraccia dal 1990, quando iniziò dalla Biblioteca Nazionale di Praga, con ricerche appassionatissime fra quelli composti dal 1938 al 1945 nei luoghi di deportazione, concentrazione e sterminio della Seconda Guerra Mondiale – dalla Germania e la Cina al Giappone, dall’Africa al Pacifico, Russia, Gran Bretagna, l’Italia di Salò e la Francia di Vichy – rinvenuti su brandelli di tessuto, carta oleata o igienica e qualsiasi altra superficie possibile (la carta nei campi valeva oro). E con le centinaia di interviste ai superstiti, ogni anno più difficili da trovare per via dell’età.

 

Un’enciclopedia senza precedenti. Un tesoro incalcolabile che ha significato la riapertura di una questione cruciale. E che Lotoro, dopo 22 anni di indagini fra musei, università, librerie e antiquari di tutto il mondo, e 10 di registrazioni con centinaia di musicisti perlopiù al conservatorio Giordano di Foggia, ha intanto riunito nella sua fondamentale Enciclopedia della musica concentrazionaria Kz Musik (un libro e 24 cd-volumi per 4000 brani, ed. Musikstrasse, Roma 2012), che non fa, ovviamente, alcuna distinzione razziale o politica e abbraccia le musiche non solo di ebrei e cristiani anche di rom, comunisti, gay e lesbiche, baschi, quaccheri, geovisti, civili e militari. Né, altrettanto ovviamente, traccia confini di cultura musicale, accomunando compositori di rango come Viktor Ullman, Erwin Schuloff, l’ufficiale francese Emile Goué, e anonimi autori di canzoni, come le trecento firmate dal polacco Jòzef Kropiski.

 

Lotoro e gli applausi della Francia. Un lavoro immane e indispensabile che Lotoro e la moglie Cristina Tiritiello hanno svolto a proprie spese con la fondazione Istituto di letteratura musicale concentrazionaria apposta creata. Una vera missione la loro, da qualche anno integrata dalla onlus LastMusik (lastmusik.com) – braccio operativo che, come a Mantova, organizza concerti, spettacoli e raccolta fondi – che necessita e merita ogni sostegno possibile, dato che oltre al valore intrinseco di quelle testimonianze estreme, rivela a presente e futura memoria come l’uomo abbia resistito con la grazia e la bellezza all’orrore più spaventoso della storia. Peccato solo che, ad oggi, non sia stata l’Italia a valorizzare ed aiutare l’azione del musicista barlettano ma la Francia, che lo ha insignito del cavalierato dell’Ordine delle arti e delle lettere, gli ha dedicato il libro Le maestro di Thomas Saintourens (uscito in Italia per Piemme), il quale ha poi preso parte alla scrittura dell’omonimo documentario italo-francese con Michel Welterlin e Alexandre Valenti, pure regista: pronto a fine anno, il film partirà poi per festival e palinsesti tv.

 

Il violino della Shoah. Sul palco anche il magnetico, eticissimo carisma di Moni Ovadia, voce narrante, e un pregevole, cosmopolita ensemble da camera, in perfetta sintonia con la timbrica yiddish (e volendo anche del tango): sola variazione, in stile appunto tanguero, il bandoneon (invece della fisarmonica) dell’argentino Victor Hugo Villena, cui si uniscono il clarinettista Andrea Campanella, il contrabbassista Giuseppe Bassi. E Daniel Hoffman, noto violino yiddish, che per un paio di brani avrà fra le mani quello detto “della Shoah”, oggi al Museo civico di Cremona, riapparso casualmente, con tanto di stella di David in madreperla, decenni dopo esser appartenuto alla giovanissima musicista Eva Maria Levy, morta col fratello Enzo, ad Auschwitz. Nei lager i deportati ebrei (ma non solo), fra i quali molti musicisti sia classici che yiddish, professionisti e amatoriali, componevano e/o suonavano musiche di ogni genere, spesso per il divertimento dei loro osceni aguzzini, che li usavano come bestie ammaestrate. Ma più spesso ancora per aggrapparsi ad un amore perduto, ad un ricordo, un luogo, un profumo o un volto che li aiutassero a tenersi in vita, magari ballando in un simulacro di festa, nella speranza di esistere ancora e di un mondo migliore. Di salvare quell’identità individuale che, prim’ancora della razziale, politica e culturale, più d’ogni altra cosa i nazisti volevano cancellare dalla faccia della terra.

La musica e l’arte degenerate. Gli esordi della Lemper risalgono ai primi ’80, quando faceva teatro, fra gli altri con Fassbinder, dopo gli studi alla leggendaria Max Reinhardt Seminary Drama School di Vienna. Inizia allora per la giovane artista, inferocita da storia e presente della sua terra, l’illuminante scavo in quella musica. Che i nazisti decretarono degenerata nel ’38, con una mostra – nefasta e meno nota gemella di quella che lo stesso anno cancellò Kandinski, Klee, Dix e tutti gli altri maestri della novissima arte europea – nella quale veniva marchiata d’infamia perché impura, in quanto scritta da non ariani, ovvero ebrei e “negri”. Ne fan parte tutte le migliori menti e fenomeni dell’epoca: il neonato jazz in blocco da Ellington e Armstrong in là; il titano Mahler, ebreo convertito bollato ancorché scomparso da quasi trent’anni; Schoenberg e la Scuola di Vienna al gran completo; Bartok, che considerò quell’orrore un onore, e Hindemith; il licenzioso, tragico, superbo cabaret berlinese anni Venti e quello agit-prop del primo Brecht (che ebreo non era ma comunista sì, eccome) con Hans Eisler, in seguito i suoi capolavori di teatro musicale – Opera da tre soldi e, di fatto musical perché inclusivi del balletto, Ascesa e caduta della città di Mahagonny e I sette peccati capitali – tutti scritti con l’immenso Weill. Furono una quantità quelli che all’alba dell’inferno in terra, a comode complicità e glorie pronta cassa perché faustianamente compromessi (una lista lunga e ancor’oggi traumatica: Richard Strauss, Furtwängler, Von Karajan, Bohm, Backhaus, la Schwarzkopf), anteposero la ricerca di musiche memori e però mai sentite, diverse, radicate nel tempo presente, lanciate verso quello a venire. Che rendessero conto anche di quanto, con la tipica divinazione dell’artista, percepivano ormai tragicamente prossimo.

Ute, da Brecht-Weill alla gloria dei musical. Parallelamente a quel songbook che subito la seduce, con la precoce, specialissima attenzione a Brecht-Weill che proseguirà nei decenni, Ute avvia una favolosa carriera nel musical: memorabili e premiati, fra tanti, i ruoli di Velma Kelly in Chicago, Lola-Marlene ne l’Angelo azzurro, Peter in Peter Pan e Sally Bowles in Cabaret, nell’acclamata versione parigina firmata Jerome Savary. Mentre al cinema la sua snella, elegante, seducente figura s’imporrà a Norman Jewison, al Greenaway di Prospero’s Book, nel quale interpreta le pagine apposta scritte da Nyman, e l’Altman di Pret-a-Porter, dove comparve, suscitando le solite ridicole prurigini piccolo borghesi, magnificamente nuda e incinta. Intanto la Germania non basta più alla sua sopranile, versatilissima voce, ora algida e severa, ora sussurro dolcissimo, ora spiegata ora raffinatamente recitativa. I suoi orizzonti di interprete, compositrice e direttrice artistica di se stessa, oltre che apprezzata pittrice, si allargano di molto, ma sempre nel segno di una sovrana, fulgida alterità, che ogni volta va dritta al cuore, alla mente ed alla qualità. E per una che ha messo in musica i versi strazianti e inarrivabili di Paul Celan, stupisce non poco il disco a breve in arrivo con sue canzoni su poesie del tutto sommato banalotto, e perciò osannato, blockbuster letterario Paulo Coelho.

In viaggio con Piaf, Brel, Nick Cave e Tom Waits. Così, nel tempo, il repertorio di Ute si fa meraviglioso caleidoscopio della miglior canzone novecentesca. Con dischi – circa quaranta ad oggi – e recital, ovunque osannati, nei quali, accanto agli amor fou cabaret berlinese e Brecht-Weill (ha preso parte anche alla Revue loro dedicata da Pina Bausch), esplora ogni volta con estrema, intelligente originalità, la magnificenza di Piaf, Prevert e il suo alter ego Kosma, il sublime Brel, Piazzolla e il suo nuevo tango, di Gainsbourg il profeta maudit, della grande musa della contemporanea – e di Luciano Berio – Cathy Berberian. Nel ’90 incrocia il suo destino anche con quello di Roger Waters, che la invita a The Wall-Live in Berlin, festa di note per il primo anno senza Muro. E dieci anni dopo ecco Punishing Kiss, altro progetto tutto suo nel quale, con l’aiuto del mago Neil Hannon (Divine Comedy), si tuffa, accanto agli originali di Hannon e alla sua “signature song” Tango Ballade (dall’Opera da tre soldi), nelle composizioni di Tom Waits, Nick Cave, Costello, Scott Walker e Philip Glass. Sempre e solo il meglio. Come aveva già saputo fare persino a Sanremo, 1991, scegliendosi Il fotografo del maestro Enzo Jannacci. Le abbiamo chiesto di parlarci di Songs for Eternity.

Come ha scoperto il lavoro e la fondazione di Francesco Lotoro?
“Sono stata invitata, il 26 gennaio 2015, da Viviana Kasam, che l’aveva organizzato con LastMusik, a “Tutto ciò che mi resta”, il concerto all’Auditorium per le manifestazioni romane dei settant’anni anni dell’Olocausto.  Accompagnata dal mio pianista di fiducia, Vana Gierig, cantai alcune canzoni fra quelle raccolte da Lotoro, che me le aveva già inviate, e altre ricevute da un amico israeliano, figlio di sopravvissuti allo sterminio, che svolge una missione simile a quella di Francesco, e me ne ha donate, una decina d’anni fa, alcune toccanti, provenienti anche dai poco noti ghetti della Lituania. Lotoro l’ho finalmente incontrato per il concerto di Roma: la sua missione, la sua dedizione, il suo progetto mi commossero profondamente”.

Da tedesca come ha reagito di fronte a quella ricerca sulle canzoni nate nei ghetti e nei lager? Di solito di quell’enorme repertorio si conoscono solo Brundibar di Krasa e Hoffmeister e L’imperatore di Atlantide di Ullman e Kien…
“Di quel tesoro conoscevo solo le quindici canzoni che mi aveva inviato Francesco, per il recital ne scelsi sei, quelle che più mi avevano toccato, e le misi insieme accostate a otto del mio amico israeliano. È stato un modo di proseguire il mio lavoro sulla ri-registrazione della musica degenerata dei grandi compositori, avviato anni fa. Che ora, con le canzoni dei deportati, si completa con l’altra faccia della storia. Quella degli autori che non ce la fecero ad uscire dai territori già occupati nel ’38. Come tedesca nata nella Germania post bellica, ho profondamente sofferto dell’identità nazionale e dell’inspiegabile passato dell’Olocausto. La sento come un’eredità insopportabile e perciò ho sempre voluto instaurare un dialogo complesso con quel passato. Di conseguenza ho sempre rivolto domande dolorose ai tedeschi, esprimendo loro pensieri forti sulla consapevolezza e la responsabilità collettive, sull’assenza di un personale lutto per quella tragedia. Ho sempre trovato incredibile che una così colta e sensibile nazione di poeti e compositori, architetti e filosofi, potesse esser consenziente col genocidio, perpetrato secondo un’accurata burocrazia e nel più crudele dei modi. Ancora oggi ne sono ogni giorno sdegnata e scioccata. Cerco anche di capire la mentalità tedesca e credo che la combinazione di fede nella burocrazia, nell’obbedienza e nel basilare fondamento dell’autorità siano tratti profondi del carattere germanico”.

Come è stata educata in famiglia e a scuola sulla eliminazione fisica, morale e intellettuale delle minoranze ebraica, gay e lesbica, rom, comunista, socialista, cristiana e di chiunque altro, come la Rosa Bianca, si sia opposto a Hitler e i suoi macellai?
“Di fatto mi sono autoeducata leggendo i libri necessari e quando ho realizzato il provincialissimo contesto e la limitata consapevolezza della Germania anni ’60 ho lasciato il paese. Ho vissuto per anni altrove, altra esperienza cruciale per riflettere sulla storia attraverso gli occhi di una vittima più che quelli di una tedesca. Ero furiosa e disgustata e questo ha alimentato la mia identità artistica e la necessità di esprimere dei contenuti. A sedici anni inorridivo al pensiero di essere nata in Germania e sentivo fortissimo il bisogno di fare i conti con quell’eredità in modo molto profondo, che è stato prima catartico e poi artistico. Ho avuto due mariti, entrambi ebrei. I miei ragazzi hanno avuto il loro barmitzvah. Non credo in una religione e non ho bisogno di una organizzata, ma mio marito scherza sempre sul fatto che sono molto più ebrea di lui!”.

C’è una o più delle canzoni di Songs for Eternity che ama o la commuove più delle altre?
“Spezzano tutte il cuore, ma A Zumer Tog è la quintessenza della storia degli ebrei condotti a forza fuori dalle loro città fin dentro i ghetti… file senza fine di gente, bambini, madri, anziani, che, come bestiame, camminano e muoiono nell’indifferenza generale. Ho quattro figli e, mi creda, il mio dispiacere vola fino in cielo quando penso a queste cose. È anche perciò che i miei ragazzi son stati cresciuti nella maturità, nella più ampia tolleranza, comprensione e amore per il genere umano. Si tratta per me di una ricerca personale e artistica al tempo stesso”.

Le composizioni e i testi hanno un mood e strutture comuni yiddish o sono invece varie e diverse?
“Ci sono canzoni dai tratti molto diversi: art song, altre sono impressionistiche e avventurose, altre nello stile di Kurt Weill, canzoni con atmosfere alla Klezmatics (il celebre gruppo newyorkese di klezmer guidato dal grande trombettista Frank London,ndr) o un forte sentimento ebraico, ninne nanne, pagine di ribellione e speranza, altre infine di irrimediabile disperazione. Il modo in cui cerco di renderle è semplice, sincero e diretto. In questo caso sono più una medium che altro e mi concentro su lacrime, energia e protesta verso il mondo”.

Guardando cosa sta accadendo in Macedonia, Ungheria, Austria, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia e Grecia assediate e lasciate sole, e persino nella civile Scandinavia, in pratica tutta Europa, pare che razzismo e nazismo non siano esattamente scomparsi e che politica ed economia facciano agio, ancora una volta al fine di sfruttarla, sulla tristemente nota e pericolosissima “guerra fra poveri”…
“È vero, certo, sono tramortita che ancora esistano genocidio e assassinio, crudeltà e disinteresse, innocenti nati in un terribile caos sociale e guerre. Mentre il mondo benestante guarda senza muovere un dito, SENZA (il maiuscolo è della Lemper, ndr) davvero aiutare quelle persone, ma solo egoisticamente preoccupato di proteggere i propri confini. Credo che, almeno per un periodo, ogni famiglia dovrebbe essere obbligata a invitarne a casa propria una in fuga dall’orrore per dargli riparo e cibo. Credo anche che le religioni strutturate debbano essere analizzate e corrette per evitare intolleranza, odio e guerre”.

Dopo Roma nel 2015, Songs for Eternity con lei, Lotoro e altri musicisti ha da poco debuttato a New York: com’è andata? Sono previste repliche in giro per il mondo?
“Il 6 aprile siamo stati al Center for Jewish Research, è stata una serata molto molto intensa. Certo, anche se non sempre con LastMusik sono in programma numerose repliche in tutto il mondo, specie nel circuito delle performance d’arte”.

Credo che le canzoni sarebbero una necessaria, ottima introduzione per i giovani a quella tremenda pagina della nostra storia: usciranno disco e/o dvd?
“Assolutamente necessario, certo, infatti LastMusik sta lavorando anche per far pubblicare cd e dvd, ma servono aiuti, sostegno finanziario soprattutto”.

Songs for Eternity non sarà il solo impegno italiano di Ute Lemper per il 2016 (www.utelemper.com). La si potrà ascoltare infatti il 30 aprile a Treviso e il 2 agosto a Cremona in Last Tango in Berlin; il 24 luglio alla Fenice (evento da confermare), con uno spettacolo per i cinque secoli del primo ghetto d’Europa, quello veneziano, fra brani da Songs for Eternity e altri composti per l’occasione, prevista la partecipazione di Frank London; il 4 agosto a Parma e il 5 a Sassuolo. Mentre a maggio 2017 Songs for Eternity sarà ospite del Piccolo di Milano, per i settanta anni dello storico teatro fondato nel 1947 da Giorgio Strehler, Paolo Grassi e Nina Vinchi.

Dischi e studi sulla musica dei lager. Per quanto interesse e studi su questa fondamentale pagina umana e culturale siano ormai da tempo a livelli di notevole profondità, non sarà mai abbastanza quel che si fa per ridare vita a quei sogni e visioni in forma di note. Fra gli esempi recenti vale almeno la pena citare il disco Terezin/Theresienstadt (Deutsche Grammophon), che una luminosa stella come il mezzosoprano svedese Anne Sofie von Otter e il basso-baritono tedesco Christian Gerhaler hanno inciso nel 2008 con canzoni fra gli altri di Ilse Weber, scrittrice per bambini ebrea praghese fra le più note autrici di canzoni dei lager. E la personale rilettura della musica degenerata informa di recital multimediale per voce, piano e video ideata e interpretata dal baritono inglese Peter Brathwaite. Fra i libri si segnalano lo splendido saggio del filologo e musicista piacentino Nicola Montenz, L’armonia delle tenebre, e l’avvincente romanzo Parsifal e l’incantatore, che invece scava a fondo in Wagner e nella sua decisiva amicizia con Ludwig di Baviera, mentre sullo sfondo s’allunga l’ombra di Hitler, che dell’autore dell’Anello del Nibelungo farà, com’è noto, il nume musicale del nazismo. Da non mancare il saggio Forbidden music: Jewish Composers Banned by the Nazis di Michael Haas. Celebre produttore di Sölti e Abbado, Haas è stato curatore musicale del Vienna’s Jewish Museum e, da metà Ottanta, l’insostituibile artefice della preziosa serie “Entartete Musik”, musica degenerata (Decca London). Quella stessa musica cioè che, insieme agli ultimi lampi di vita che illuminarono la prima ambigua e infine compromessa Repubblica di Weimar, ha attratto senza rimedio il prodigioso, multiforme talento di Ute Lemper.

 

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