un sunto scritto trovato / sull’attività di D’Alema ministro degli Esteri, quale esempio dell’attività tipica della diplomazia italiana come affermato da Bersani
Il 23 maggio 2025 esce con People “Il tango di Francesco“. Il libro di Mauro Biani ripercorre, attraverso le immagini, il pontificato di papa Francesco. «In queste opere, Biani adotta un linguaggio scarno, essenziale, fortemente espressivo. Il suo segno grafico è carico di tensione tra la satira etica e l’arte sacra contemporanea, capace di tenere insieme denuncia e compassione, cronaca e Vangelo. La figura del pontefice emerge come una coscienza incarnata, una presenza fragile e radicale, in ascolto del dolore altrui, vicina. Biani mette in scena un papa delle soglie, che si affaccia sui margini della storia, sulle ferite del mondo, sui luoghi dove la dignità umana è più minacciata.» Dalla prefazione di Antonio Spadaro
P.s. Ascolto la tv, leggo giornali. -Finalmente- alcuni possono “sparare” senza remore su papa Francesco. Ma l’incapacità, l’ignoranza, la malafede con cui parlano della sua “bandiera bianca” dimostrano il livello della riflessione e del dibattito. Peccato, non si cresce mai.
Mauro Biani (Roma 6 marzo 1967), è vignettista, illustratore, scultore. È stato per oltre 30 anni Educatore Professionale con ragazzi diversamente abili mentali, presso un Centro specializzato.
Da settembre 2023 collabora con “Il cavallo e la torre“, programma di Marco Damilano su Rai tre.
Da novembre 2020 a giugno 2023 ha collaborato con Atlantide, programma di Andrea Purgatori su La7.
Collabora inoltre con “Courrier International”, “Der Spiegel”, “Le Monde”.
E’ stato vignettista de “il manifesto” per 7 anni (2012-2019). E con L’Espresso cartaceo, con una striscia settimanale fino al 2022.
Ha disegnato per “Liberazione”, e ha collaborato con “L’Unità”, con “il Misfatto” de “Il Fatto Quotidiano”, con “Left”, con “il Male” di Vauro e Vincino, con “E” mensile di Emergency, con “Loop”, con il settimanale del terzo settore “Vita”, con “il Mucchio Selvaggio”, l’associazione “Libera”, il portale Polisblog e Peacelink. Molti suoi lavori appaiono nella rete Internet, ripresi da decine di siti.
Ha disegnato su “Pizzino” rivista satirica siciliana, è stato autore e coordinatore di “Paparazzin” inserto satirico di Liberazione e ha disegnato per “Emme” inserto satirico de L’Unità.
Liberiamo #AlbertoTrentini Domenica scorsa a #Venezia un corteo acqueo in solidarietà al cooperante detenuto a #Caracas da quasi 6 mesi, e senza notizie ufficiali. Oggi per
Fa parte del gruppo internazionale sotto l’alto patrocinio dell’Onu: Cartooning For Peace.
E’ uno dei fondatori ed autori di “Mamma!” rivista di satira giornalismo e fumetti http://www.mamma.am/ , portale che ha ricevuto il XXXVII° Premio di Satira Politica di Forte dei Marmi ‘09, Premio Pino Zac per la satira sul web.
Il 2 ottobre 2011 ha vinto il primo premio di “Una vignetta per l’Europa”, concorso organizzato dalla Rappresentanza in Italia della Commissione europea all’interno del Festival della rivista “Internazionale” svoltosi a Ferrara.
Ha pubblicato: “Come una specie di sorriso“. Stampa Alternativa 2009. I personaggi delle canzoni di Fabrizio De André rivivono nelle vignette di Mauro Biani che si misura con i temi più cari a De André per trasformarli in altrettante tavole.
Fotografie dell’umanità più sfortunata: c’è una bocca di rosa che precede la vergine in processione anziché seguirla, un Michè impiccato in un cpt, e poi Piero, Nina, Marinella, Andrea, Princesa e tanti altri personaggi che Fabrizio De André ha abbracciato nei suoi versi per farli poi abbracciare dal popolo dei suoi ammiratori.
Nel 2012 esce il libro “Chi semina racconta. Sussidiario di resistenza sociale” (Altrinformazione 2012). Finalmente in un unico volume, il meglio delle vignette, sculture e illustrazioni di Mauro Biani, tra i più noti e apprezzati autori di satira. Uno sguardo disincantato e libero che sa dare le spalle ai potenti, per toccare temi universali come la nonviolenza, i diritti umani, l’immigrazione, il cristianesimo anticlericale, la resistenza alla repressione e la lotta alle mafie. Nel volume di 240 pagine a colori anche i contributi di Antonella Marrone, Carlo Gubitosa, Cecilia Strada, Cinzia Bibolotti, Ellekappa, Franco A. Calotti, Gianpiero Caldarella, Makkox, Mao Valpiana, Massimo Bucchi, Nicola Cirillo, Pino Scaccia, Riccardo Orioles, Stefano Disegni, Vincino Gallo.
A gennaio 2016 esce il libro “Tracce migranti” (nato con il progetto di crowfunding “Satira migrante”), sempre edito da Altrinformazione.
Arricchito da una prefazione bella e importante del sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini e da un patrocino prestigioso, quello dell’Idos (Immigrazione Dossier Statistico) che ha contribuito con i dati statistici trasformati in infografiche e con un testo di Franco Pittau, che è stato tra i fondatori di IDOS e ora ne è il presidente onorario.
Su iniziativa de “il Manifesto”, “Tracce Migranti” è stato diffuso anche in edicola dal 16 dicembre 2015 in una edizione economica.
Nel 2019 gli viene assegnato il Premio di Articolo 21, liberi di… 2019 per la libertà di informazione con la seguente motivazione: «Mauro Biani con il suo segno, ogni giorno, illumina le oscurità e sostiene i diritti dei senza diritti. Nel suo recente libro “la banalità del ma” racconta con il suo linguaggio amaro e pungente la contemporaneità delle migrazioni, del razzismo, della paura, della violenza. Le sue vignette – che forse chiamarle vignette è riduttivo – raccontano con ironia e poetica il nostro tempo. Una satira affilata e intelligente in cui non fa sconti a nessuno, senza mai ergersi a giudice».#vinceilnoi Assegnati alla Fnsi i premi di Articolo21 per la libertà di informazione
2023
Il 7 febbraio 2019 è uscito per People “La banalità del ma“. “Come siamo diventati così miserabili? Come ha fatto un popolo di migranti, di persone costrette a fuggire a milioni dalla fame, dalla povertà, dalla guerra, o semplicemente di persone alla ricerca di migliori opportunità, a diventare così cinicamente insensibile, quando non apertamente ostile e rancoroso, nei confronti di chi sta subendo oggi un destino persino peggiore di quello dei nostri antenati? Le migrazioni, il razzismo, la paura, la violenza. Questi anni di grande transizione sembrano aver trasformato in normale, persino banale, ciò che solo pochi anni fa avremmo trovato folle, orrendo. La matita di Mauro Biani, affilata e poetica, amara e ironica, racconta questo mutamento in “La banalità del ma”, con la sua satira che, senza mai ergersi a giudice, non fa sconti a nessuno. Scorrendo la raccolta delle migliori vignette di Mauro Biani degli ultimi tre anni, impreziosita da inediti di grande impatto, si nota come non sia stato un cambiamento repentino, ma un lento e progressivo scivolamento verso la parte peggiore di noi”. Qui Civati.
A marzo 2020 esce il secondo libro per People: “10 storie per cambiare“. Nel centenario della nascita di Gianni Rodari, e nel cinquantenario di “Dieci storie per giocare”, uno dei suoi libri più celebri, un omaggio al grande scrittore piemontese, con uno sguardo al futuro. “Le dieci storie che troverete in questo volume, illustrate da Mauro Biani e scritte da Francesco Foti, descrivono il presente con l’espediente del racconto favolistico, usando alcuni dei più noti archetipi del mondo delle fiabe per raccontare l’attualità e le grandi trasformazioni che la attraversano. Un libro pensato per i grandi e i meno grandi, che chiede loro uno sforzo di immaginazione per tornare a guardare il futuro con speranza, e tornare a lavorare per costruirlo. Proprio come nelle dieci storie di questo volume, il finale è ancora aperto, e tutto da scrivere.”
Mauro Biani on X: “#Trump #Gaza #Ucraina etc. Avere tutto. Non avere vergogna, emozione adattiva. Oggi per @repubblica
2025
A gennaio 2021 esce il terzo libro per People: “ È questo il fiore ” che raccoglie le migliori vignette che Mauro Biani ha dedicato all’antifascismo, impreziosite da dieci inediti. Un viaggio che parte dalla testimonianza di Liliana Segre, dal dovere della memoria, e passa per il fuoco mai spento della Liberazione, che si riverbera nella Resistenza quotidiana di tante e tanti. Una Resistenza ancor più meritevole se messa a confronto con una politica che – quando non cavalca il ritorno dei nostri spiriti peggiori – si volta dall’altra parte, con un’internazionale sovranista che minaccia di dare nuovamente fuoco al mondo intero, con il fascismo che torna nelle periferie e nei palazzi – in maniera ora sottile e subdola, ora apertamente dichiarata -, con chi di tutto questo si cura poco, quasi nulla, perché sono “cose che capitano”. Un viaggio per chi di fronte a tutto questo non si arrende perché, come ci ricorda Giuseppe Civati, «fermare subito le “cose che capitano” è il primo compito di una persona che vuole essere compitamente antifascista.» «Ed ecco Biani, che ci racconta queste cose fra il tagliente e il sussurrato, con l’incanto di una penna che disegna e scrive e che nasconde – mi pare – un sogno mai rivelato. Lo stesso sogno di tutti noi. Perciò bisogna odiare l’indifferenza. E farsi partigiani. È questo il fiore.» dalla prefazione di Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi.
2019
A luglio 2021 esce: “Abbiamo ragione da vent’anni”. “A vent’anni dalla protesta del G8 di Genova, il movimento per la globalizzazione dei diritti può dimostrare dati alla mano di aver avuto ragione sulle stragi di migranti, i costi umani e ambientali del capitalismo, i danni della finanza transnazionale, la spesa militare, le guerre “umanitarie” e la repressione del dissenso. Per trasformare le ragioni del 2001 e la memoria del “movimento no global” in un’agenda sociale per il 2021, Carlo Gubitosa e Mauro Biani tracciano e disegnano la direzione che unisce le piazze di vent’anni fa alle iniziative di lotta che guardano al futuro. Un manuale di resistenza civile per chi a Genova c’era e non si è stancato di ribellarsi, o chi non c’era e vuole cominciare a farlo, recuperando proteste e proposte rimaste attuali oggi come allora. Perché un mondo diverso è ancora possibile, e sempre più necessario”. People.
Il 31 dicembre 2021 esce con La Repubblica “Ne usciremo migliori ma…” Un faro puntato sulle nostre contraddizioni. Le vignette che Mauro Biani ha realizzato per Repubblica dall’inizio della pandemia sono uno specchio formidabile di ciò che siamo diventati. Dopo averci messo di fronte alle nostre contraddizioni più odiose, attraverso una spietata denuncia, l’autore ci offre una via d’uscita: guardare ai diritti come unica possibile garanzia del vivere democratico.
vignetta per Atlantide per Navalny– video 1.00 min. ca
A giugno 2022 esce con People “Le cose non andarono bene” A poco più di due anni dall’inizio della pandemia, Mauro Biani ci invita a riflettere su quanto è avvenuto da quando il Covid è entrato nelle nostre vite. Dai canti ai balconi e dai messaggi di unità e di speranza, alla caccia all’untore e alla follia no-vax; dal governo Conte a quello Draghi; dal fallimento dei sovranismi alla crisi migratoria e umanitaria; dalle vittime sociali di questa pandemia, come i lavoratori più sfruttati e i bambini e adolescenti costretti a non andare a scuola, a nuove e vecchie povertà; fino a concludersi con il tragico ritorno della guerra in Europa, con l’invasione russa dell’Ucraina.
A febbraio 2023 esce con People “Afascisti” Il fascismo dei nostri tempi è riuscito a nascondersi dietro la rimozione e la normalizzazione dei suoi orrori, fino a insinuarsi nelle maglie della Repubblica. L’afasia dell’afascismo, si potrebbe dire, ha due colpe: l’indifferenza verso ciò che è stato, e il sospetto (quando non il dileggio) verso chi a quel passato tenta di ribellarsi con tutte le proprie forze. Mauro Biani, con la ultima raccolta, fa proprio questo, e invita tutte e tutti noi a radunarci attorno alle sue vignette, in un mai stanco segno di resistenza, contro questa marea nera che minaccia di travolgerci ogni giorno.
«Mauro Biani è uno dei non rassegnati di fronte al vecchio che rispunta, come ribadiscono i ripetuti allarmi raccolti in questo libro in forma di editoriali disegnati, che a chiamarli “vignette” si fa loro un grave torto: quell’etichetta fa pensare a un corredo marginale e spiritoso, e invece qui siamo davanti a quadri viventi e dolenti di denuncia.» Dalla prefazione di Carlo Verdelli
ù
2015
A maggio 2023 riceve il premio Premio Peppino Impastato “Musica e Cultura” 2023 con la seguente motivazione: “Mauro Biani nella sua attività artistica ha sempre messo in primo piano l’impegno antifascista e pacifista che da sempre ha espresso con le sue vignette. Negli anni, inoltre, il vignettista di Repubblica ha dimostrato un particolare affetto per la figura di Peppino Impastato.”
L’11 dicembre 2023 riceve la tessera onoraria di Articolo 21 con la seguente motivazione: “A Mauro Biani, che con i suoi disegni ogni giorno contrasta ingiustizie, sfruttamento, oscurità e onora la Costituzione antifascista“.
A marzo 2024 esce con People “Dove sono i pacifisti?” insieme a Roberto Vicaretti. Mai come in questi anni è difficile parlare di pace, eppure proprio ora che la guerra è tornata a bussare alle porte dell’Europa, proprio ora che il fuoco della violenza in Medio Oriente è riavvampato più distruttivo che mai, proprio ora che entrambi questi conflitti – solo i più vicini dei molti, troppi, che dilaniano il mondo – sembrano inarrestabili, ce ne sarebbe un gran bisogno. Mauro Biani e Roberto Vicaretti lo fanno da tempi non sospetti, il primo con le sue vignette – di cui qui abbiamo raccolto quelle più significative su questo tema -, il secondo tramite il suo lavoro giornalistico, spesso utilizzando le vignette di Biani nella sua rassegna stampa quotidiana per offrire a tutte e tutti il punto di vista di chi non vuole arrendersi all’idea che la pace è possibile. In questo libro, Biani e Vicaretti proseguono e approfondiscono il discorso che ogni giorno fanno dalle pagine di Repubblica e dagli studi di RaiNews, per dare voce alle vere protagoniste involontarie e inascoltate di ogni guerra: le vittime. «Mi chiedono di prendere parte? Io la parte l’ho presa: sto dalla parte delle vittime.» Mauro Biani
Il 5 gennaio 2025 riceve il premio I Siciliani. “A Mauro Biani, artista dei Siciliani. Vent’anni di bellezza e libertà. Dal Vangelo secondo Biani: “Non uccidete i bambini”. “Non affogate chi è in mare”. “Non distruggetevi a vicenda”. “Risparmiate la vostra unica casa”.”
A SEPULVEDA –2020
A maggio 2025 esce con People “Il tango di Francesco“. Il libro di Mauro Biani ripercorre, attraverso le immagini, il pontificato di papa Francesco. «In queste opere, Biani adotta un linguaggio scarno, essenziale, fortemente espressivo. Il suo segno grafico è carico di tensione tra la satira etica e l’arte sacra contemporanea, capace di tenere insieme denuncia e compassione, cronaca e Vangelo. La figura del pontefice emerge come una coscienza incarnata, una presenza fragile e radicale, in ascolto del dolore altrui, vicina. Biani mette in scena un papa delle soglie, che si affaccia sui margini della storia, sulle ferite del mondo, sui luoghi dove la dignità umana è più minacciata.» Dalla prefazione di Antonio Spadaro
Se volete nel link ne trovate tante altre e tutte, direi, belle- bellissime
“A molti individui o popoli – scriveva Levi nella Prefazione alla prima edizione del ’47 di ” Se questo è un uomo “ – può accadere di ritenere più o meno consapevolmente che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente”. E quando questa persuasione inespressa diventa pensiero lucido e convinzione determinata – concludeva il chimico ebreo – “allora, al termine della catena, sta il lager”.
Autore –Primo Levi Editore – De Silva Collana –Biblioteca Leone Ginzburg Anno di pubblicazione –1947
Nella Prefazione del ‘72, Levi ammoniva il lettore a non sentirsi troppo al sicuro per il fatto che “oggi queste cose ormai non accadono più”: “No, non esistono oggi in nessun luogo camere a gas né forni crematori, ma ci sono campi di concentramento in Grecia, in Unione Sovietica, in Vietnam, in Brasile. Esistono, quasi in ogni Paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza…”. E, citando Brecht, affermava dolorosamente: “La matrice che ha partorito questo mostro è ancora feconda”
Tra le personalità artistiche più rilevanti del secondo Ottocento europeo, Odilon Redon si rivela in questi scritti testimone lucido e appassionato della sua avventura creativa e delle tensioni più vive del suo tempo. Pensieri, ricordi, confessioni, cronache e divagazioni raccolte nell’arco di mezzo secolo vi compongono un itinerario che è insieme un’esplorazione dell’arte e una discesa nella sfera interiore, un diario e un taccuino di appunti, nei quali la polemica si fonde all’autobiografia e la riflessione sulla natura delle immagini incontra la meditazione poetica. A se stesso si propone come guida insostituibile per penetrare le ragioni più profonde di un’opera visionaria e fantastica e insieme come lascito prezioso di una personalità complessa, ricca di sfumature e contrasti, in grado di parlare ai nostri giorni con voce che il tempo non ha affievolito. «Come nessun altro» ha scritto Walter Benjamin «Odilon Redon afferrò lo sguardo delle cose nello specchio del nulla, e come nessun altro seppe penetrare nel patto tra le cose e il non-essere». (Stefano Chiodi)
“L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.” Paul Klee nel suo studio, 1924 — LINK DI ROMA ARTWEEK 21-26 OTTOBRE 2024
Nel periodo della sua formazione Klee esitò a lungo, come è noto, tra musica, pittura e poesia; e il fatto di avere infine scelto la pittura, dando così inizio a quella che è forse la più alta e feconda esperienza artistica del Novecento, non gli impedì mai di continuare a coltivare, in modo “disinteressato” e quasi segreto, la ricerca poetica. I sui versi non sono dunque il frutto di un’attività marginale; non si tratta di glosse esistenziali alla sua pittura, ma di oggetti espressivi autonomi e, per così dire, omologhi rispetto a quelli creati dalla sua fantasia figurativa. Come nella pittura, anche nella poesia Klee tende a impadronirsi dei meccanismi originari della genesi cosmica. Indipendentemente dal fatto che il processo sia affidato al linguaggio iconico o a quello verbale, Klee tende all’individuazione e alla messa in scena di codici archetipici. Ed è proprio a questa ricerca grandiosa e, per definizione, infinita che Klee doveva pensare quando scriveva di se stesso: “Nel mondo terreno non mi si può afferrare perché io abito altrettanto bene tra i morti come tra i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione e ancora troppo poco vicino”.
Per i dolori di molti e per i miei
io ti giudico,
per ciò che non hai fatto.
Ti giudica
il tuo figlio migliore,
il tuo spirito più audace,
a te affine eppure
tanto da te diverso.
Eveline è un sogno verde fra gli alberi, il
sogno di un bambino nudo nella campagna.
Poi mi fu negato di essere felice, quando
arrivai fra gli uomini per non lasciarli più
Una volta mi sono liberato dalla violenza del dolore
e sono fuggito nei campi assolati, abbandonato
al rovente declivio. E ritrovai Eveline, matura
ma non invecchiata. Solo spossata dall’estate
Adesso lo so. Ma lo intuivo solo quando cantavo.
Siate teneri con i miei doni. Non spaventate
la nudità che cerca sonno.
Paul Klee
(Poesie tratte da Poesie di Paul Klee, a cura di Giorgio Manacorda, traduzioni di Giorgio Manacorda e Ursula Bavaj; Abscondita; carte d’artisti)
paul klee
1915
Dal sottosuolo
sorge la mia stella
dove abita d’inverno la mia volpe?
dove dorme il mio serpente?
.
LINGUA IRRAZIONALE
-E la ragione se ne andò
nella corrente del vino-
1
Una buona pescata è una grande consolazione.
2
L’abiezione cerca anche quest’anno
di scivolarmi dentro.
3
Io devo essere salvato.
Attraverso il successo?
4
Ha occhi o cammina nel sonno
l’ispirazione?
5
Si piegano talvolta per pregare
le mie mani. Ma il ventre
poco sotto digerisce
e il rene filtra l’urina chiara.
6
Amare la musica soprattutto
significa essere infelici.
7
Dodici pesci,
dodici assassini.
(1901)
.
ASINO
il raglio risuona e mi strazia
udite udite che grazia!
Quando tacque l’usignolo
notevole fu il nulla solo.
Cresce sola e isolata
la pianta d’avorio abbandonata.
Pensieri e pensieri si scambia il mare
non c’è più nulla da afferrare.
C’era una volta una cosa
ha chiesto: cosa
contava qualcosa?
da no a niente
nessun ente
comunque oplà
il senso eccolo qua
entrò l’apparenza
dentro la verità
e divenne possibilità.
Paul Klee
UNA SIMILITUDINE
Il sole cova vapori;
i vapori si levano
e combattono contro di lui.
(1899)
AD EVELINE
Ti ho promesso di essere
un uomo onesto. Io voglio
sopportare il tuo sguardo. Devo
inginocchiarmi davanti a Dio.
Poi Eveline salvami tu!
Perché non ho nessuno!
Giocavo col veleno
e mi sono avvelenato,
perché ho voluto chiamarmi fuori?
Ma in fondo tenevo troppo
al bene. Maledetta
colpa, forse è maggiore
di quanto pensassi.
Dimenticare lei con te!
Ma prima, se puoi,
mi dovresti perdonare.
Ti saluto in lontananza.
.
ANEDDOTI VERI
Uno
cui nel più grande dolore
cresca una dentatura da belva.
Deve essere una sorta di naufragio,
quando da vecchi
ancora ci si arrabbia per qualcosa.
. (1905)
***
Ridurre!
Vogliamo dire qualcosa
in più della natura e si fa
l’incredibile errore di volerlo dire
con più mezzi invece
che con meno strumenti.
La luce e le forme razionali
sono in lotta, la luce
le mette in movimento,piega
angoli retti,
curva parallele,
costringe i cerchi dentro gli intervalli,
rende l’intervallo attivo.
Da tutto questo l’inesauribile
diversità.
. (1908)
Paul Klee Paesaggio
La creazione vive
come genesi
sotto la superficie visibile
dell’opera.
A ritroso la vedono
tutti gli intellettuali.
Avanti- nel futuro-
solamente gli artisti.
.
EPIGONO
In me scorre il sangue di un tempo migliore.
Sonnambulo del presente
dipendo da una vecchia patria,
dalla tomba della mia patria.
La terra inghiotte tutto
e il sole del sud non lenisce i miei dolori.
(1902)
Paul Klee, Blue Night 1937
QUASI UN PROMETEO
Eccomi davanti a te, Giove,
perché ne ho la forza.
Tu mi hai eletto e questo
mi obbliga a te. Sono
saggio abbastanza da pensarti
ovunque, e non cerco
il potente ma il dio buono.
Sento la tua voce dalle nubi:
tu ti tormenti, Prometeo.
Da sempre il tormento è il mio destino
perché sono nato per amare.
Spesso chiedendo e pregando
ho guardato a te: ma invano!
Batta dunque alla tua porta
La grandezza del mio scherno!
E se non basto io,
ti lascio con la tua superbia.
Tu sei grande, è grande
la tua opera. Ma
solo grande all’inizio,
incompiuta.
Un frammento.
Compila!
Allora griderò l’evviva!
Viva lo spazio, la legge
che lo attraversa e misura.
Ma non griderò l’evviva.
Approverò soltanto
l’uomo che lotta.
E il più grande sono io
che lotto con la divinità.
Per i dolori di molti e per i miei
io ti giudico,
per ciò che non hai fatto.
Ti giudica il tuo figlio migliore,
il tuo spirito più audace,
a te affine eppure
tanto da te diverso.
(1901)
.
GUARDANDO UN ALBERO
Gli uccellini sono da invidiare,
evitano
di pensare al tronco e alle radici
beati si dondolano tutto il giorno,
loro che sono leggeri
cantando sull’orlo dei rami.
(1902)
Paul Klee
Con fiori, io uomo bambino,
voglio incoronare il tuo pallido viso.
Sulle bianche pareti si legge
Che i crisantemi sono vicini.
Le tue fredde labbra hanno bisogno di una lieve febbre,
forse un bacio le difende dall’arsura.
Come sei bella ora, i tuoi colori,
sono solo apparenza di colori.
I miei occhi voraci volevano
raccogliere nuovi fantasmi.
Se morirò brilleranno molli
due fiori notturni nel crepuscolo.
Ai tuoi occhi dolcemente cerchiati
dirò ich glaube e crederò
quel che vedo morendo.
(1902)
FINESTRE SULL’ARTE.INFO/ ARTE-BASE
Paul Klee, vita, opere e stile del pittore astrattista
Erano i giorni dell’arcobaleno,
finito l’ inverno tornava il sereno
e tu con negli occhi la luna e le stelle
sentivi una mano sfiorar la tua pelle.
E mentre impazzivi al profumo dei fiori,
la notte si accese di mille colori.
distesa sull’erba come una che sogna,
giacesti bambina, ti alzasti già donna.
Tu adesso ti vedi grande di più,
sei diventata più forte e sicura,
è iniziata I’avventura.
Ormai sono bambine le amiche di prima
che si ritrovano in gruppo a giocare
e sognano ancora su un raggio di luna.
Vivi la vita di donna importante
perché a sedici anni hai già avuto I’amante;
ma un giorno saprai che ogni donna e matura
all’epoca giusta, con giusta misura
e in questa tua corsa incontro all’amore
ti lasci alle spalle il tempo migliore.
Erano i giorni dell’arcobaleno,
finito l’inverno tornava il sereno!
Il sesto vertice della Comunità Politica Europea si è aperto il 16 maggio 2025 a Tirana con un momento destinato a far discutere. All’arrivo della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni in piazza Skanderbeg, il primo ministro albanese Edi Rama si è platealmente inginocchiato, mani giunte e sorriso complice. «Edi, dai no!» ha esclamato Meloni, divertita…
Albania, Meloni arrivata a Tirana, Edi Rama si inginocchia – La Stampa / link sotto
Le strittuledde (stradine strette e tortuose), incrociandosi come una fitta rete da pescatore, indicano il percorso verso le affascinanti Corti e Cortili del borgo antico di Matino.
Dimostrazione di un passato dove le persone vivevano in piccole abitazioni con uno spazio in comune tra pile (vasche in pietra) per il bucato, pazzuli (sedili in pietra) per riposarsi, mignani per affacciarsi, granai e siloi per conservare gli alimenti e le fontane pubbliche sinonimo di incontro e condivisione.
Strategiche le terrazze perché permettono di godere degli spettacolari tramonti che si tuffano nello splendido mare di Gallipoli.
Tanti i luoghi che rendono unico il borgo, tra i più importanti: il palazzo Marchesale, residenza storica dei Marchesi del Tufo che si presenta imponente nel suo gusto neoclassico con tipicità barocche;
Palazzo dei Marchesi del Tufo
Il palazzo, sorto sul finire del XII secolo come fortilizio normanno ad opera dei De Persona è stato poi rimaneggiato più volte nel corso dei secoli con delle modifiche di una certa rilevanza in epoca aragonese
l’Arco della Pietà (l’ingresso all’antico borgo), con la sua volta a crociera ogivale che quasi protegge la chiesa adiacente… vero scrigno di bellezza. Non mancano le innumerevoli edicole votive, incastonate nelle murature, esempi di una forte devozione popolare.
città ipogea —
Una vera città sotterranea testimonia un grande insediamento rupestre rappresentato da diversi ambienti ipogei: cantine, ricoveri per animali con mangiatoie, frantoi che caratterizzavano la vivace attività olearia.
I frantoi ipogei di Matino testimoniano l’antica tradizione della produzione olearia, già presente in Terra d’Otranto in epoca romana e ulteriormente potenziata con grandi impianti olivicoli fra il ‘500 e il ‘700. Alcuni di essi, splendidamente conservati, rivelano l’ingegnosità delle tecniche di molitura e decantazione dell’olio attraverso sistemi di vasche a tracimazione. Rappresentano un notevole esempio di architettura industriale settecentesca.
Il visitatore trova sotto ai suoi piedi un altro tesoro di inestimabile importanza e il borgo diventa un luogo di arte, cultura e meraviglia rarissimi ( questa parte, mi pare, si veda nel secondo video ).
Infatti il FAI scrive dopo aver parlato dell’ attivita’ del Comitato:
Il Borgo Antico di Matino, sebbene ricco di fascino e storia, necessita di un significativo intervento di recupero e riqualificazione. Molti edifici storici, pur mantenendo intatta la loro bellezza architettonica, mostrano segni di degrado dovuti al tempo e alla mancanza di manutenzione. In particolare, alcune facciate di palazzi nobiliari e abitazioni storiche presentano crepe e intonaci usurati, mentre i vicoli lastricati, caratteristici del borgo, in alcuni tratti sono deteriorati,rendendo difficoltosa la fruizione. Uno dei principali bisogni del borgo riguarda la riqualificazione delle sue antiche strutture, affinché possano essere preservate e valorizzate. Alcuni edifici sono chiusi al pubblico o in stato di abbandono, rappresentando non solo una perdita dal punto di vista culturale, ma anche un potenziale pericolo per la sicurezza.
IMMAGINI DEL FAI :: **** non c’è in che anno sono state prese le fotografie, le case sembrano più sciupate che nei video. Forse il Comitato ha qualche risultato…?!
La canzone Cesare si trova nell’album Come Gli Aeroplani uscito nel 2000.
“Allora … ‘Cesare’ era un nome di battaglia di un partigiano, chiamato ‘Garibaldi’
Alto, bello, bruno, occhi azzurri, biondo …
E bruno …”
“Eeeh, va beh! Con le meches …”
“Ma che meches !! Un partigiano che agiva in Val Chiusella!”
“Eh?”
“Che agiva in Val Chiusella!!”
“Ah!”
Verso la fine della guerra dopo il tragico silenzio che ne seguì
quando lui scese dalla montagna
per andare in paese dove ballavano Boogie Woogie (io c’ero).
Lui arrivò lì e disse; lo guardarono; Cesare disse: ‘Allora cantiamo’
“Cantiamo; cosa?”
“Cantiamo Bandiera Rossa”
“Ah!”
“Oh!”
“Perché non va mica bene ‘Bandiera Rossa’?”
“No, no, no, va benissimo, per l’amor di Dio …”
“Aaaa … Comunque …! Bandiera Rossa …! L’è sempre un gran bel valzer”
Tutti mi chiaman Cesare, son Cesarino
Andavo per i monti da partigiano
Quando venni all’assalto con l’arma in mano per
dare alla mia patria la sua bella libertà
“Cesare …! Sei un coraggioso!”
“Grazie!”
Amavo una ragazza, che mi ha tradito
era una rondinella di primavera
Quando venni all’assalto, con la bandiera
per toglier la mia patria dalla triste schiavitù
“Cesare …! Sei sempre più coraggioso!”
“Ma va’ a caga’!”
Ma un giorno di missione io la incontrai
Ella si accompagnava ad un fascistino
Lei mi lancio’ uno sguardo tanto maligno
Che pareva mi dicesse di te non so che far
“Puttana!”
“No, aspetta, aspetta!”
Cesare, quel giovane da partigiano
Tolse la rivoltella dalla cintura
Lei mi gridò
“Cesaree!”
Mi fai paura
Le sparai un colpo al cuore
E per terra la lasciai
Mamma perdonami se t’ho fatto piangere
E’ stato il primo amore che mi ha tradito
Mamma perdonami se t’ho fatto piangere
Evviva l’Italia libera
E la Libertà!
Centro noto per l’antico castello situato sul Colle di San Michele ed affacciato sull’ampia ansa della Dora Baltea che scorre ai piedi della rupe.
Per quanto riguarda l’origine del nome, oggi la si sposterebbe all’ epoca celtica: infatti gli antichi abitanti del territorio prima dell’arrivo dei Romani erano di origine celto-ligureed il vocabolo celtico sarebbe stato Mattiacu. Giandomenico Serra, glottologo, confermerebbe questa teoria, facendo derivare il termine da Mattiaca, la divinità celtica della guerra e dell’oltretomba e signora dei guadi, nota in Irlanda con l’appellativo di Mórrígan (nome a noi noto nella traduzione di “Morgana”). A sostenere tale teoria vi è anche il fatto che a Mazzè vi era in antico l’unico guado praticabile sulla Dora Baltea verso la pianura vercellese, a meno di non voler transitare da Ivrea proseguendo poi verso il lago di Viverone.
I SALASSI –Popolazione dell’Italia antica, di origine forse ligure-gallica, che occupava la pianura ora detta Canavese e la valle montana della Dora Baltea. Vinti dai Romani nel 143 a.C., accolsero (100 a.C.) la colonia di Eporedia (Ivrea). Furono definitivamente sottomessi nel 25 a.C. e nel loro territorio venne stabilita la colonia di Augusta Praetoria (Aosta).
Il Borgo di Mazzè ha origini antichissime; ci sono tracce del passaggio di genti provenienti dalle rive del Mar Nero, addirittura all’inizio del III millennio a.C.
Dobbiamo attendere il I millennio a.C. per i primi insediamenti dei Liguri, che si fusero successivamente con popolazioni celtiche provenienti dal nord, dando origine alla popolazione celta-ligure dei Salassi.
I celti lavoravano il ferro e vantavano capacità notevoli quali l’uso dell’aratro, la bonifica delle paludi a fini agricoli (bonifica del grande lago – leggenda della regina Ypa) e la coltivazione dei giacimenti auriferi (sito delle Aurifodine di Mazzè). I primi insediamenti si trovavano lungo la Dora Baltea, presso i giacimenti auriferi.
Arrivarono in seguito i Romani, che sfruttarono a loro volta i giacimenti. Nel corso dei secoli, in seguito alle prime invasioni barbariche, la popolazione si rifugiò sul Monte San Michele (dove ora si trova il magnifico castello) e diede origine al primo borgo fortificato.
Alla fine del 1100 la famiglia Valperga ricevette il feudo di Mazzè, e governò su questo territorio fino alla morte del suo ultimo esponente, Francesco, avvenuta nel 1840 (Francesco Valperga è sepolto nella Chiesa Parrocchiale dei Santi Gervasio e Protasio).
Nel 1200 circa, considerato il notevole flusso di pellegrini sulla via francigena (Via Romea Canavesana), allo scopo di assistere senza eccessivi rischi i viaggiatori transitanti, sorsero fuori della cinta fortificatail Borgo di Santa Maria e l’omonima chiesa (chiamata anche Santa Maria Fuori le Mura, Madonna della Neve, Madonna delle Vigne Calve e affettuosamente “La Madonnina”).
Dopo la scomparsa dei Valperga ( ripeto, 1840) il Castello venne ceduto a Eugenio Brunetta d’Usseaux, che lo fece restaurare e realizzò delle modifiche che sono presenti ancora oggi. Una buona parte del ricetto ( = struttura medioevale fortificata) medioevale venne venduto e demolito, per lasciare il posto a 3 dimore nobiliari: villa Maria Luisa (attualmente chiamata anche Villa Occhetti), villa La Torretta e villa Mon Repos.
La storia è molto più lunga e avvincente, ricca di tanti avvenimenti e belle cose da vedere, venite a scoprirla! La Pro Loco di Mazzè organizza, da maggio a settembre, delle visite accompagnate del centro storico (la domenica pomeriggio, dalle 15 alle 18). In altri periodi sono possibili visite su prenotazione. Scrivere a scopri.mazze@prolocomazze.it
In Europa tutti si riarmano disordinatamente, ma per quale guerra e contro quale Nemico? L’America si preoccupa solo della Cina, mentre per molti, nel Vecchio Continente, il conflitto in Ucraina dimostra che la minaccia russa è incombente. La guerra, però, non è un destino.
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Dopo Melissa, nel giro di qualche anno, l’esercito dei contadini si trasformò in un esercito di emigranti. Morirono a centinaia nelle miniere del Belgio, nelle fonderie tedesche, sui cantieri di mezzo mondo. Delle rimesse spedite in Calabria dagli emigranti, le banche drenarono il 90% per finanziare il “miracolo economico”.
più volte sindaco di Caulonia, da sessant’anni è impegnato sul terreno della difesa dei diritti inalienabili di tutti e a favore dei migranti, degli esclusi e dei reclusi.
( https://volerelaluna.it/)
L’eccidio dei contadini che volevano solo lavorare
Era il 1949 quando la celere sparò contro i braccianti che avevano occupato il fondo Fragalà di proprietà di un barone. Al ministero degli Interni sedeva Mario Scelba e quella passò alla storia come una delle stragi, armate dallo Stato, contro chi rivendicava il diritto al lavoro
Il 29 ottobre del 1949 la celere apre il fuoco sui contadini di Melissa che avevano occupato il fondo detto Fragalà di proprietà del possidente del luogo, il barone Luigi Berlingeri. Tre persone rimangono uccise: Francesco Nigro, di 29 anni, Giovanni Zito, di 15 anni, e Angelina Mauro, di 23 anni, che morirà più tardi per le ferite riportate e che avrebbe dovuto sposarsi qualche giorno dopo. Molti saranno i feriti, anche gravi.
Melissa diventerà negli anni, per ragioni di solidarietà e di studio, meta di molti intellettuali. Ernesto Treccani, affascinato “dalle sue aride argille ineguali” tra il 1950 e il 1960 vi soggiornerà più volte. “Devo l’ispirazione più profonda al mio lavoro di pittore alla consuetudine di vita dei contadini della Calabria in particolare e di quel piccolo paese dell’antico marchesato di Crotone che ha il nome Melissa. In questo paese, voi ricordate, sono ormai quasi vent’anni, caddero sul feudo di Fragalà due contadini poveri e una giovane donna, in quel grande movimento di occupazione delle terre incolte, guidato dal Partito comunista, dal Partito socialista, dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori”, dirà nel 1973.
Il fatto è ricordato, tra gli altri, anche da Lucio Dalla in una strofa del brano Passato, presente, quarta traccia dell’album Il giorno aveva cinque teste, che recita: “Il passato di tanti anni fa, alla fine del quarantanove, è il massacro del feudo Fragalà sulle terre del Barone Breviglieri. Tre braccianti stroncati col fuoco di moschetto in difesa della proprietà. Sono fatti di ieri”.
Nell’ottobre del 1949 la notizia dell’eccidio si diffonde rapidamente e la Cgil proclama lo sciopero generale.L’Avanti! e l’Unità danno per primi la notizia ed anche la stampa internazionale registra l’avvenimento. La mattina del 2 novembre si svolgono solennemente i funerali di due delle vittime, sebbene i loro cadaveri si fossero dovuti seppellire il giorno dopo l’eccidio per lo stato in cui erano stati ridotti. Ai funerali partecipano alcuni parlamentari dell’opposizione, numerosissime rappresentanze dei contadini della zona, gli operai della Montecatini e della Tertusola,tutti gli abitanti di Melissa. Mancava il prete, al quale il vescovo aveva negato l’autorizzazione per i funerali religiosi.
“La terra di Melissa” 1954 di Ernesto Treccani-
commento al quadro
Il 30 novembre del ’49 tre braccianti furono uccisi dalla polizia durante l’occupazione di una terra. L’eccidio spinse il pittore a trasferirsi sulla costa ionica e a calarsi nella realtà contadina. Da qui nacquero quadri come «La conquista delle terre»
«I miei primi giorni a Melissa non furono facili. Avevo del mio lavoro un’idea precisa, dipingere i contadini e la loro realtà, per una società che doveva cambiare. In ogni caso le difficoltà mi sembravano tutte soggettive: l’incapacità a comprendere, e l’insufficienza del mestiere. Armato di coraggio cominciai a vivere quella vita: mi alzavo quando si alzavano loro. Andavo nei campi, mangiavo con loro. Partecipavo alle riunioni, alle lotte. Non zappavo, non tagliavo legna, invece disegnavo». Basterebbero solo queste poche righe di Ernesto Treccani, scomparso venerdì scorso all’età di 90 anni, per avere contezza del legame profondo che ha unito il pittore milanese a Melissa, alla sua terra, ai suoi braccianti.
Formatosi nella resistenza antifascista lombarda, Treccani, figlio del fondatore dell’omonima enciclopedia, arriva in Calabria sul finire degli anni Quaranta per sostenere le lotte dei braccianti agricoli contro i baroni latifondisti. Gli episodi di repressione, per mano dei celerini di Scelba, erano culminati tragicamente il 30 ottobre 1949 a Melissa, dove tre contadini, Giovanni Zito, Giuseppe Nigro e Angelina Mauro, mentre marciavano per occupare le terre incolte di un feudo, vennero uccisi dalla polizia.
La rabbia, lo sdegno, la commozione per quello che venne definito “l’eccidio di Melissa”, furono generali ed attraversarono tutta l’Italia sensibilizzando, oltre a Treccani, buona parte degli intellettuali dell’epoca tra cui Renato Guttuso, Carlo Levi, Leonida Repaci.
In tutte le lotte per la terra PCI, PSI e CGIL erano sempre alla testa del movimento, ma talvolta erano attivi anche militanti di destra: come, appunto, Francesco Nigro ( giovane missino, cadde per primo con la bandiera italiana in mano ); Angelina Mauro eera attivista dell ‘Azione cattolica– Per dire che non furono solo socialisti e comunisti a partecipare e a morire per la lotta per la terra, ma si conviene che i dirigenti erano loro
— percorse le strade di Melissa, si snodò attraverso i viottoli in una teoria lunga e triste. Le donne procedevano tutte insieme, vestite a lutto, silenziose. Mai ho visto una popolazione in preda a un dolore così profondo. Lungo il cammino fino al cimitero si univano al corteo altri gruppi di uomini e donne. Queste ultime gridavano: – Vogliamo vendetta. – E gli uomini correggevano: – Vogliamo giustizia – . L’aspetto più doloroso di quel corteo lo davano i bambini con i loro piccoli volti pallidi, emaciati, con i ventri gonfi, con i segni della denutrizione. Giunti al cimitero, deposti i fiori sulle tombe, commemorati i morti, i contadini vollero recarsi nella tenuta Fragalà, sul posto dell’eccidio.Due ore di cammino lungo viottoli e mulattiere, e vedemmo con i nostri occhi la terra contesa, ormai consacrata al lavoro dei braccianti dal loro sangue”.
*****
**** GIUDITTA LEVATO
Il dipinto di Migliazza, che raffigura il momento dell’uccisione della giovane e madre Giuditta Levato, presente nella sala consiliare del Comune di Sellia Marina
Giuditta era incinta, aveva già due figli, ma il giorno in cui fu uccisa era andata nei campi a difendere il suo lavoro e quello dei contadini che facevano parte della prima Cooperativa agricola di Calabricata. Non poteva permettersi di restare in silenzio davanti alla forza e al sopruso dei vecchi proprietari terrieri, che li accusavano di essere degli usurpatori.
Giuditta Levato, 31 anni (era nata il 18 agosto 1915 ad Albi, pr. Catanzaro), contadina, prima vittima della mafia del latifondo in Calabria, viene colpita da un colpo di fucile quando è incinta di sette mesi del suo terzo figlio. Il 28 novembre 1946-
Prima di morire riuscirà a lasciare il suo testamento spirituale al senatore Pasquale Poerio che si era precipitato al suo capezzale:
Compagno, dillo, dillo a tutti i capi, e agli altri compagni che io sono morta per loro, che io sono morta per tutti. Ho tutto dato io alla nostra causa, per i contadini, per la nostra idea; ho dato me stessa, la mia giovinezza; ho sacrificato la mia felicità di giovane sposa e di giovane mamma. Ai miei figli, essi sono piccoli e non capiscono ancora, dirai che io sono partita per un lungo viaggio, ma ritornerò certamente, sicuramente. A mio padre, a mia madre, ai miei fratelli, alle mie sorelle, dirai che non voglio che mi piangano, voglio che combattano, combattano con me, più di me per vendicarmi. A mio marito dirai che l’ho amato, e perciò muoio, perché volevo un libero cittadino e non un reduce umiliato e offeso da quegli stessi agrari per cui ha tanto combattuto e sofferto. Ma tu, o compagno vai al mio paesello e ai miei contadini, ai compagni, dì che tornerò al villaggio nel giorno in cui suoneranno le campane a stormo in tutta la vallata.
Dirà a sua volta Pasquale Poerio ( Casabona, 1º ottobre 1921 – Catanzaro, 29 novembre 2002) è stato un sindacalista e politico italiano, già deputato e senatore della Repubblica, partito PCI ) …durante un comizio tenuto qualche tempo dopo l’assassinio:
Forse o lavoratori, non avrei capito nella sua interezza il sacrificio di Giuditta Levato se non fossi venuto qui, a Calabricata. L’esser venuto qui, l’aver veduto le vostre case basse e affumicate, il vostro villaggio senza strade, i vostri bimbi senza niente sulla carne che li possa riparare dall’inverno, le vostre donne, i vostri uomini coperti solo di cenci, con su le facce i segni del lavoro e della fame, spettacolo terribile di miseria, mi ha fatto capire appieno il sacrificio della vostra compaesana che non appartiene più solo a voi, ma ai contadini di tutta la Calabria, a tutti i lavoratori della terra d’Italia. Lei, da quel mattino in cui esalava l’anima nello Ospedale civile di Catanzaro, apparteneva a tutto il movimento di redenzione della massa contadina della nostra provincia che, iniziatosi il 17 ottobre del 1944 nella zona dell’alto e medio Crotonese, doveva diventare il 17 settembre del 1946, un grande movimento al quale partecipavano 96 comuni con cinquantamila contadini. La prima vittima della nostra provincia, che doveva cadere sotto al piombo degli agrari, è nata qui in Calabricata, villaggio disperso nel basso Crotonese covo di duchi principi e baroni. E così accanto ad Argentina Altobelli, la figlia dei borghesi emiliani, combattente senza tregua per la causa della redenzione dei lavoratori della terra, siederà da oggi in poi Giuditta Levato, l’umile contadina calabrese che tutto sacrificò per la redenzione dei suoi fratelli, se stessa, la propria giovinezza, la propria famiglia. Di lei, della sua vita semplice poche cose si possono dire. Accade sempre così, quando si deve parlare dei martiri: modesti fuochi, che poi, inaspettatamente divampano, travolgendo se stessi ed altri e lasciandosi dietro una scia luminosa che segna il cammino da seguire (…) Ricordo, ricordo le tue parole: ‘Compagno, dillo, dillo a tutti i capi, e agli altri compagni che io sono morta per loro, che io sono morta per tutti (…)’. Ed io, o lavoratori di Calabricata, sono venuto. Ho mantenuto la promessa e sono con voi. Ho veduto le vostre case basse, affumicate e piene di miseria. Ho veduto i vostri bimbi scalzi e pieni di fame. Ho capito perché Giuditta Levato si è sacrificata. Ho veduto le vostre pagliaie, questo cumulo di catapecchie senza un cimitero e senza una fontana ed ho veramente compreso le ultime lacrime di Giuditta Levato, sul letto di morte. Ma la vendicheremo! E quando, nuovamente suoneranno a stormo le campane, per dire che l’ora della riscossa finalmente è venuta, questo piccolo borgo senza strade, diventerà il centro ideale di tutti i lavoratori d’Italia.
Un piccolo borgo senza strade come tanti ancora esistono nel nostro meridione, nella nostra Calabria. La Calabria di Giuditta Levato e Peppe Valarioti, di Tommaso Campanella e Rino Gaetano.
Ad esempio a me piace la strada
Col verde bruciato, magari sul tardi
Macchie più scure senza rugiada
Coi fichi d’India e le spine dei cardi
Ad esempio a me piace vedere
La donna nel nero, nel lutto di sempre
Sulla sua soglia tutte le sere
Che aspetta il marito che torna dai campi
Giuseppe Valarioti (Rosarno, 1º marzo 1950 – Nicotera, 11 giugno 1980) è stato un politico e attivista italiano. Dirigente del Partito Comunista Italiano fu ucciso dalla ‘Ndrangheta, e fu il primo politico vittima della mafia calabrese.
Aggiungerà Mario Alicata in un discorso da qualcuno definito “musicale”: “A nome (…) di tutto il Senato della Repubblica italiana, voli a quei tumuli lacrimati l’omaggio devoto e imperituro. Il sangue non è stato versato invano, se esso varrà a seppellire la vecchia storia ed a forgiarne una nuova”. Un augurio purtroppo non realizzatosi.
ECCIDIO DI MODENA – GENNAIO 1950 ( 1 )
Tre mesi più tardi, il 9 gennaio 1950, a Modena si protesta contro i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite.
Funerali delle vittime dell’eccidio, delle fonderie Riunite di Modena . 11 gennaio 1950.
Le forze dell’ordine sparano nuovamente sulla folla provocando la morte di sei lavoratori:
Angelo Appiani, ucciso proprio davanti alle Fonderie; Renzo Bersani, colpito a morte lontano dagli scontri mentre cerca di fuggire; Arturo Chiappelli, raggiunto dai proiettili della polizia vicino alla Fonderia; Ennio Garagnani, colpito a morte lontano dagli scontri; Roberto Rovatti, colpito con i calci dei fucili della celere, gettato in un fosso e finito con un colpo sparato a distanza ravvicinata ed Arturo Malagoli, colpito davanti al passaggio a livello della vicina ferrovia.
Ai funerali, l’11 gennaio, l’Unità invia il poeta e scrittore Gianni Rodari, allora giovane cronista. Scriverà Rodari nell’articolo 300.000 lavoratori ai funerali delle sei vittime: “La città gloriosa, ammutolita dal dolore e stretta intorno ai suoi assassinati del 9 gennaio si è riempita stamani di passi pesanti che popolavano le sue strade, le sue piazze … I sei avevano l’espressione contratta del dolore e dello spaventoso stupore in cui li sorprese la morte. Caduti allineati l’uno a fianco dell’altro nelle bare avvolte in bandiere. I tre ragazzi di 20 anni sembravano ancora vivi e la terribile espressione dei loro volti sembrava dovuta ad un sogno angoscioso e passeggero… Sulle fotografie i volti sembravano anche più giovani. Garagnani e Malagoli avevano una luce quasi infantile”.
“Le bare – prosegue Rodari – erano portate a spalla da operai, ferrovieri, tramvieri, braccianti. Su ognuna di esse un modesto cartello col nome e l’età del caduto: Appiani Angelo, anni 20; Bersani Renzo, anni 21; Garagnani Ennio, anni 21; Chiappelli Arturo, anni 43; Malagoli Arturo, anni 21; Rovatti Roberto, anni 36. Niente altro. Da tutti i muri della città le fotografie dei caduti rispondevano a quei cartelli. Dietro le bare camminavano i familiari composti nell’atroce dolore. Alcuni di loro, poche ore dopo la morte dei loro cari, sono intervenuti al comizio di protesta a cui ha partecipato tutta la città, e solo la parola «eroismo» può definire questa capacità di fondere un dolore personale alla grande voce di una protesta collettiva”.
“Si noti che tutti questi lavoratori (il riferimento è agli eccidi di Melissa, Torremaggiore e Montescaglioso oltre che di Modena) sono stati uccisi unicamente perché chiedevano di lavorare, gli uni sulla terra incolta, gli altri nella fabbrica serrata – tuonerà dalle colonne di Lavoro Giuseppe Di Vittorio dopo l’eccidio delle Fonderie Riunite – I lavoratori sono stanchi di piangere i loro morti e non sono affatto disposti a lasciar soffocare nel sangue i loro bisogni di lavoro o di vita. La Cgil con la sua forza e il suo prestigio è riuscita sinora a contenere in limiti normali la protesta popolare contro gli eccidi. Ma la storia insegna che, al di là di un tale limite, nessuna forza umana può garantire i confini entro i quali possa essere contenuta una collera popolare lungamente compressa”. Parole sulle quali, forse, sarebbe opportuno riflettere.
( 1 ) per chi volesse un approfondimento ” buono ” sui fatti di Modena, specialmente il primo pezzo ( dall’Ordine Nuovo, – 9 gennaio 2021 )
In copertina disegni originali di Lorenzo Mattotti
Sellerio, 23 marzo 2025
presentazione 1 ( 2025 )
Andrea Camilleri con il suo racconto amaramente umoristico, si addentra con queste due indagini in fatti della storia postunitaria d’Italia. E fa rivivere le stragi del 1848 in Sicilia oscurate dalle autorità e dimenticate dagli storici, e gli accordi, i compromessi fra amici, incoraggiati dal clero con l’assoluzione dei peccati in cambio di un obolo, dentro cui la mafia si fece spazio a danno dello stato.
Vengono qui riunite due opere di Andrea Camilleri: La strage dimenticata del 1984 e La bolla di componenda, del 1993, due saggi narrativi, due cronache che indagano tra le pieghe della storia e riaffermano il dovere della memoria.
Durante i moti di insurrezione del 1848 furono consumate due efferate stragi:
ANTICA RORRE :: CARCERE BORBONICO DI PORTO EMPEDOCLE
la prima avvenne nel carcere borbonico di Porto Empedocle, dove il comandante della prigione decise di uccidere 114 condannati per reati contro la proprietà in maniera che non potessero unirsi ai rivoltosi;
l’altra ebbe luogo a Pantelleria quando 15 contadini furono massacrati da notabili dell’isola dietro pretestuose accuse.
Melissa
L’eccidio dei contadini che volevano solo lavorare
Era il 1949 quando la celere sparò contro i braccianti che avevano occupato il fondo Fragalà di proprietà di un barone. Al ministero degli Interni sedeva Mario Scelba e quella passò alla storia come una delle stragi, armate dallo Stato, contro chi rivendicava il diritto al lavoro
Fra ricordi familiari e documenti ritrovati Camilleri ricostruisce quegli episodi per evitare un’altra strage, quella della memoria, e lo fa con accuratezza di cronista, ricchezza aneddotica e tenue umorismo. Della Bolla di componenda si trova traccia negli atti dell’Inchiesta parlamentare sulle condizioni della Sicilia del 1875.
Si tratta di una sorta di assoluzione scritta che si vendeva nei confessionali per peccati commessi o da commettere. Un compromesso, un accordo segreto tra poteri, pratica alla quale l’Italia postunitaria si adeguò con il brigantaggio e la mafia. Camilleri nella sua indagine sulla bolla alterna documentazione d’archivio con invenzione narrativa, talvolta abbandonandosi alla fantasia.
prima presentazione-.- 1997
La prima presentazionedel racconto da Sellerio, dove è pubblicato da solo– nel 1997
La metto perché mi sembra più esplicita della seconda ( sopra ) e fa capire meglio come ” LA PAROLA ” COMPONENDA ” siaentrada nel linguaggio comune: per es. Caraccio ne parla su un articolo di Limes ( vedi sotto )
“Componenda” significa accordo, compromesso, transazione intesa a sanare un contenzioso tra parti. Fa pensare all’accordo tra due privati o, quando non privati, a pattuizioni di poteri occulti, torbidi, segreti. Tutto il contrario della posizione di uno stato di diritto che non compone, ma garantisce imparzialmente contro i torti. E invece, in Sicilia almeno, non si è dato nella storia potere che non si ritenesse parte di una componenda, di fronte ad altri poteri, a danno di chi, per modestia, per debolezza, per isolamento, non riusciva a garantirsi con nessun potere. E lo Stato italiano si aggiusterà a questa pratica tradizionale, nei confronti del brigantaggio, della mafia e dei tanti prepotenti.
nell’intraduzione di Caracciolo: titolo::
” La Grande Componenda “
Editoriale del numero di Limes 1/25, ‘L’ordine del caos’.
CAMILLERI E CON LA MOGLIE ROSETTA DELLO SIESTO. Sessantadue anni di matrimonio, fino alla scomparsa di Camilleri, il 17 luglio 2019, ricoverato da diverse settimana all’Ospedale Santo Spirito di Roma dve era rivoverato da un mese per gravi crisi respirtorie: E’ mancato per arrestocardiaco.
Tre figlie, quattro nipoti e due pronipoti, Matilda (cui lo scrittore ha dedicato un libro autobiografico intitolato Ora dimmi di te. Lettera a Matilda, la pronipote con cui parla molto della moglie.)
Rosetta si è spenta a 97 anni il 1 maggio 2025:
“Se ne è andata la prima lettrice dei romanzi di Andrea Camilleri, Donna Rosetta, conforto e spalla del grande narratore, mamma e nonna di una famiglia che in lei aveva il proprio perno – si legge nella nota – compagna di una vita vissuta con l’autore del commissario Montalbano soprattutto a Roma, ma con incursioni continue nella ‘vera Vigata’ di Porto Empedoclee nel buen retiro toscano di Bagnoli, la frazione di Santa Fiora in provincia di Grosseto dove gli amici piu’ cari andavano a trovarli”.
al tempo del suo lavoro a ” Il Messaggero ” ( giugno 1997- e agosto-1999), se non sbaglio ha già compiuto 70 anni, ma non li dimostra affatto, non vi pare?
bografia / scritti
Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925-Roma, 2019), regista di teatro, dr , televisione, radio e sceneggiatore. Ha insegnato regia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Ha pubblicato numerosi saggi sullo spettacolo e il volume, I teatri stabili in Italia(1898-1918). Il suo primo romanzo, Il corso delle cose, del 1978, è stato trasmesso in tre puntate dalla TV col titolo La mano sugli occhi. Con questa casa editrice ha pubblicato: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca (1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005), Le pecore e il pastore (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), Il sonaglio (2009), La rizzagliata (2009), Il nipote del Negus (2010, anche in versione audiolibro), Gran Circo Taddei e altre storie di Vigàta (2011), La setta degli angeli (2011), La Regina di Pomerania e altre storie di Vigàta (2012), La rivoluzione della luna (2013), La banda Sacco (2013), Inseguendo un’ombra (2014), Il quadro delle meraviglie. Scritti per teatro, radio, musica, cinema (2015), Le vichinghe volanti e altre storie d’amore a Vigàta (2015), La cappella di famiglia e altre storie di Vigàta (2016), La mossa del cavallo (2017), La scomparsa di Patò (2018), Conversazione su Tiresia (2019), Autodifesa di Caino (2019), La Pensione Eva (2021), La guerra privata di Samuele e altre storie di Vigàta (2022), Il teatro certamente. Dialogo con Giuseppe Dipasquale (2023), Un sabato, con gli amici (2024); e inoltre i romanzi e racconti con protagonista il commissario Salvo Montalbano: La forma dell’acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L’odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d’agosto (2006), Le ali della sfinge (2006), La pista di sabbia (2007), Il campo del vasaio (2008), L’età del dubbio (2008), La danza del gabbiano (2009), La caccia al tesoro (2010), Il sorriso di Angelica (2010), Il gioco degli specchi (2011), Una lama di luce (2012), Una voce di notte (2012), Un covo di vipere (2013), La piramide di fango (2014), Morte in mare aperto e altre indagini del giovane Montalbano (2014), La giostra degli scambi (2015), L’altro capo del filo (2016), La rete di protezione (2017), Un mese con Montalbano (2017), Il metodo Catalanotti (2018), Gli arancini di Montalbano (2018), Il cuoco dell’Alcyon (2019), Riccardino (2020), La prima indagine di Montalbano (2021), La coscienza di Montalbano (2022), La paura di Montalbano (2023).
Premio Campiello 2011 alla Carriera, Premio Chandler 2011 alla Carriera, Premio Fregene Letteratura – Opera Complessiva 2013, Premio Pepe Carvalho 2014, Premio Gogol’ 2015.
Il wallaby delle paludi in una foresta di eucalipti ( Wallabia bicolor )
vedi sotto – la scritta
un wallaby coon il suo piccolo
un altro — il wallaby, se ho capito, è un piccolo canguro
Il wallaby delle paludi è l’ unico membro vivente del genere Wallabia- I nomi storici per il wallaby delle paludi includono il canguro Aroe.
E’ presente dalle aree più settentrionali della penisola di Capo York nel Queensland , lungo tutta la costa orientale e intorno al Victoria occidentale e al sud-est dell’Australia Meridionale, dove ha notevolmente ampliato la sua distribuzione negli ultimi quattro decenni.
Abita il fitto sottobosco nelle foreste e nei boschi , o si rifugia durante il giorno nell’erba folta o nelle felci , emergendo di notte per nutrirsi.
Areale IUCN del wallaby delle paludi Nrg800 – Opera propria *** IUCN =Unione Mondiale per la Conservazione della Natura, organizzazione non governativa con sede a Gland ( canton di Vaud, sul lago di Ginevra – tra G. e Lausanna ) in Svizzera. Dal 1999 le è stato riconosciuto lo status di osservatore dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Bellissimi questi posti. Il contrasto tra la loro tranquilla e curata bellezza con le tragedie che vi sono avvenute è incommensurabile. Ma chissà quanti orrori nascondono i muri, le piazze, le case delle città di tutto il mondo.
Donatellla
Chi ha rifornito i nazisti di forni crematori? La dinastia di industriali Topf che lucrò sull’Olocausto.
Quando i nazisti aprirono Auschwitz si affidarono ai Topf per la fornitura di forni crematori sempre più efficienti per la “soluzione finale”.
Un forno crematorio nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Shutterstock
Ambizioni, rivalità e guadagni dei Topf, la cui azienda di famiglia fornì ai nazisti i forni crematori per l’olocausto attraverso l’articolo
Bisogna recarsi a Erfurt, nella Germania centrale, per visitare un sito unico al mondo: si tratta infatti del solo monumento all’Olocausto all’interno della sede storica di un’azienda. Non un’azienda qualunque, ma quella che divenne il partner più affidabile per la produzione di forni crematori destinati ai campi di sterminio durante la Seconda guerra mondiale. Si tratta della J.A. Topf & Figli, la cui sede è stata dichiarata monumento storico protetto dallo Stato della Turingia nel 2003, e ora centro commemorativo e didattico.
da qui segue in ” AVVENIRE “- martedì 13 novembre 2018
Auschwitz. «Topf e figli»: la storia della fabbrica che inventò i forni crematori.
È l’azienda che progettò i forni utilizzati nei campi di sterminio e produsse i sistemi delle camere a gas. Una pagina nera ricostruita grazie all’aiuto di uno dei figli dei proprietari
Anna Foa
Gli architetti di Auschwitz. La vera storia della famiglia che progettò l’orrore dei campi di concentramento nazisti
Questa è la storia scioccante di come furono creati i forni crematori e perfezionate le camere a gas che permisero l’eliminazione di milioni di persone durante l’olocausto. Alla fine dell’Ottocento, la Topf & Figli era una piccola e rispettata azienda a conduzione familiare con sede a Erfurt, in Germania, che produceva sistemi di riscaldamento e impianti per la lavorazione di birra e malto. Negli anni Trenta del secolo scorso, tuttavia, la ditta divenne leader nella produzione di forni crematori e, con l’avvento della seconda guerra mondiale, si specializzò nella produzione di forni “speciali”, destinati ai campi di concentramento. Durante i terribili anni dell’Olocausto, la Topf & Figli progettò e costruì i forni crematori per i campi di Auschwitz-Birkenau, Buchenwald, Belzec, Dachau, Mauthausen e Gusen. Gli uomini che concepirono queste macchine di morte non furono ferventi nazisti mossi dall’ideologia: a guidare i proprietari e gli ingegneri della Topf & figli furono piuttosto l’ambizione personale e piccole rivalità, che li spinsero a competere per sviluppare la migliore tecnologia possibile. Il frutto del loro lavoro riuscì a superare in disumanità persino le richieste delle SS. Ed è per questa cieca dedizione al lavoro che i fratelli Topf passarono alla storia con infamia. Il loro nome è ancora impresso sulle fornaci di Auschwitz.
DA QUI:
ARTICOLO DI ANNA FOA CHE PARLA ANCHE DEL LIBRO SOPRA
i forni crematori di Auschwitz
Nel marzo 2017 si inaugura ad Auschwitz una mostra sulla “Topf e figli”, l’azienda che produsse e perfezionò i forni crematori e i sistemi di ventilazione per le camere a gas usati nel campo. Un solo membro della famiglia Topf è presente, Hartmut, ormai ottantatreenne. Da oltre trent’anni contribuisce a mettere in luce le responsabilità dell’azienda della sua famiglia nello sterminio di milioni di esseri umani. Responsabilità emerse già nel dopoguerra, quando i cinegiornali di tutto il mondo hanno ripreso il logo dell’azienda inciso sui forni crematori di Auschwitz e il giovanissimo Hartmut ha saputo che cosa producesse l’azienda della sua famiglia.
Una storia che Karen Bartlet racconta in Gli architetti di Auschwitz. La vera storia della famiglia che progettò l’orrore dei campi di concentramento nazisti (Newton Compton, pagine 320, euro 12,90). Bartlet è una giornalista e scrittrice inglese, già autrice, in collaborazione con Eva Schloss, di Sopravvissuta ad Auschwitz, un libro anch’esso tradotto in italiano da Newton Compton.
Con questo libro affronta non più una memoria, ma la ricostruzione dettagliata della storia dell’azienda tedesca ‘Topf e figli’, del passaggio di quest’azienda a conduzione famigliare dalla produzione di impianti per la lavorazione della birra a quella di forni crematori sempre più grandi e sofisticati per le necessità dei campi di sterminio e di impianti per la ventilazione delle camere a gas. Accanto ai membri della famiglia Topf anche gli ingegneri e i progettisti che si impegnarono in questa produzione, i loro rapporti stretti con i nazisti, in particolare col comandante del campo di Auschwitz, Höss, il loro destino successivo alla sconfitta. Le fonti su cui Karen Bartlett si è basata sono l’archivio della ‘Topf e Figli’, ospitato all’Archivio di Stato della Turingia a Weimar, i documenti e le foto contenuti nel ‘Sito commemorativo Topf e Figli’ a Erfurt e quelli presenti nel sito di Buchenwald ed Auschwitz, oltre all’archivio della famiglia. Un libro di storia, quindi, basato su fonti rigorosamente d’archivio, non un romanzo. E vale la pena di sottolinearlo, dal momento che in questo volume non si parla solo di forni crematori, destinati ai morti, ma anche di camere a gas, destinate invece a chi ancora non era morto.
Quelle stesse camere a gas accuratamente distrutte dai nazisti quando abbandonano i campi ed altrettanto accuratamente negate dai negazionisti, loro eredi.
La storia dell’azienda è una storia di uomini comuni e di come la normalità può diventare complicità nel genocidio. Le premesse di questa scelta sono nell’anno della presa del potere da parte di Hitler, il 1933, quando i fratelli Topf proprietari della ditta e i loro manager, in un momento di grave crisi, aderiscono al partito nazista. La vera e propria collaborazione con i nazisti dell’azienda, fino ad allora una fiorente fabbrica locale nata nel 1878 e impegnata nelle attrezzature per la produzione della birra, inizia nel 1939, quando l’ingegner Kurt Prüfer realizza un innovativo forno mobile di cremazione riscaldato a olio. Tre di questi forni sono destinati al campo di Buchenwald, per sopperire al crescente numero di cadaveri da incenerire. Nell’agosto 1940 fu installato il primo forno ad Auschwitz. Nel 1941, la ditta rifornisce già quattro campi: Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen, Dachau. Prüfer è orgoglioso della sua invenzione: «Questi forni sono davvero rivoluzionari – scrive al direttore Ernst Wolfgang Topf – e posso supporre che mi concederete un bonus per il lavoro che ho fatto».
Un motivo, questo dell’orgoglio per il proprio lavoro, che ritroviamo fino alla fine della guerra e oltre, anche nelle difese giudiziarie del dopoguerra, e che ci riporta alla mente la banalità del male di cui parla Hannah Arendt.
I rapporti con i nazisti e con i campi, in particolare con Auschwitz, sono stretti: operai della ditta sono presenti nei campi per l’installazione e la manutenzione dei forni, e con altri dirigenti dell’azienda Prüfer incontra più volte le Ss ad Auschwitz per pianificare gli ampliamenti dei forni. Inoltre nel 1943 l’azienda si impegna nel perfezionamento del sistema di ventilazione per le camere a gas di Auschwitz. Prüfer conferma in un interrogatorio a Mosca di essere stato informato «che in queste camere a gas venivano uccisi prigionieri utilizzando fumi di cianuro».
Mentre la sconfitta nazista si faceva sempre più vicina e prevedibile, la Topf non ridusse la sua partecipazione ai meccanismi dello sterminio. All’inizio del 1945, mentre Auschwitz veniva liberata, Prüfer lavorava infatti a un vasto progetto per l’installazione delle camere a gas e dei forni a Mauthausen, che la sconfitta nazista rese inutile.
Uno dei fratelli Topf, Ludwig, si suicidò, l’altro restò nella zona americana dove elaborò una difesa volta a giustificare l’operato suo e dell’azienda.
Intanto questa era posta sotto l’amministrazione sovietica. Prüfer con altri dirigenti fu condannato dai sovietici a venticinque anni di carcere. Morì mentre era detenuto nel 1952. Gli altri furono scarcerati in seguito ad un’amnistia nel 1955.
Ernst Wolfgang Topf fu arrestato dagli americani e poi rilasciato per mancanza di prove. Dal 1946 al 1950 fu sottoposto a un processo di denazificazione, che fu archiviato perché «non aveva mai ricoperto nessun incarico o grado nel partito». Morì libero nel 1970.
Solo dopo l’89 la riesumazione degli interrogatori fatti dai sovietici a Prüfer agli altri dirigenti avrebbero provato in modo inconfutabile la portata del coinvolgimento della ‘Topf e Figli’ nel processo di sterminio.
Ma uno di questi ‘figli’, Hartmut Topf, ha contribuito attivamente a far emergere la memoria di quel coinvolgimento: «Ho ereditato il nome. Fortunatamente non ho ereditato l’azienda. Ma sentii di avere un obbligo. Da bambino mi vantavo di essere un Topf, e ora sento che è mio dovere raccontare la storia orribile della loro infamia. Devo dare il mio contributo. Questa è la mia responsabilità».
LA TURINGIA , è uno dei sedici Stati federati (Bundesländer) della Germania. Si trova nel centro del paese ed è tra i più piccoli, con una superficie di 16 172,50 km² e quasi 2,2 milioni di abitanti (2014). La sua capitale è Erfurt.
La caratteristica geografica principale è la Selva di Turingia (Thüringer Wald), una catena montuosa nel sud-ovest dello stato. Nel nord-ovest la Turingia comprende una piccola parte delle montagne dell’Harz. La parte orientale è per lo più pianeggiante. Il fiume Saale scorre attraverso questa pianura da sud a nord. Al di là del Saale, a est, si estende il paesaggio leggermente collinoso che rappresenta il tratto precollinare della zona occidentale dei Monti Metalliferi, parte
Lo stato prende il nome dai Turingi, una popolazione di origine germanica che occupò l’area attorno al V secolo. Dopo circa un secolo di regno autonomo, nel VI secolo la Turingia cadde sotto la dominazione franca: Gregorio di Tours narra che i re franchi, Teodorico I e il fratellastro Clotario I, nel 531 la invasero, deposero il re Ermanafrido e annetterono il regno a quello dei Franchi.
Interessante notare che il re longobardo Agilulfo, eletto alla fine del VI secolo, era di origine turingia, mentre la regina in carica Teodolinda era bavara.
Krämerbrücke mit Ägidienkirche (Erfurt)-
(lett.: «ponte dei bottegai») è un ponte abitato sul fiume Gera che sorge nel centro della città di Erfurt, in Turingia, costruito nel 1325 sulle fondamenta di un ponte originario del XII secolo e contornato da edifici del XVII-XIX secolo, è uno dei principali monumenti medievali della città, nonché uno dei simboli della città stessa.
Dell’originario ponte in legno si hanno già notizie sin dal 1117; dato però che quel ponte era stato spesso colpito da incendi, due secoli dopo, nel 1325, venne deciso di sostituirlo dall’attuale ponte in pietra. Nel corso dei secoli, i 62 edifici originali furono ridotti agli attuali 32.
Pubblicato per la prima volta nel 1961, a pochi giorni dalla morte del suo autore, I dannati della Terraè diventato un classico, fonte di ispirazione e modello di riferimento ancora oggi attuale.
Nel libro prendeva corpo la straordinaria tensione tra l’urgenza di offrire una prospettiva politica alle lotte di liberazione del Terzo Mondo e l’approfondimento dell’analisi del sistema coloniale, di cui quest’opera rimane un eccezionale documento storico. Il libro getta le sue radici nell’esperienza drammatica della rivoluzione algerina, anche se la sua prospettiva ne trascende di gran lunga i confini. Di fronte agli straordinari problemi che la società europea oggi affronta, alle prese con nuovi cittadini immigrati dal Terzo Mondo e nel tentativo di realizzare una convivenza multiculturale, la lucidità dell’analisi di Fanon sulle derive del nazionalismo e sui paradossi del postcolonialismo rimangono di grande rilevanza.
video, 18.35
MASSIMO RAMAIOLIE C. DE BLASI–-FANON, I DANNATI DELLA TERRA
Massimo Ramaioli è Assistant Professor presso il Dipartimento di Scienze Sociali, Al-Akhawayn University in Ifrane (AUI), in Marocco. In precedenza, è stato Assistant Dean della School of Arts, Humanities and Social Sciences e Assistant Professor nel Social Development and Policy Program presso la Habib University (HU) di Karachi, in Pakistan. Si è laureato in Scienze Sociali per la Cooperazione e lo Sviluppo e ha conseguito un Master in Studi Afro-Asiatici all’Università di Pavia.
Ha poi ottenuto un Master in Studi Mediorientali alla School of Oriental and African Studies di Londra; e successivamente un dottorato di ricerca in Science Politiche presso la Syracuse University. La sua ricerca si concentra sull’Islam politico, studi Gramsciani, e teoria di relazioni internazionali. Vanta inoltre esperienze di ricerca e insegnamento presso il Center for International Exchange and Education di Amman, e ha studiato arabo a Tunisi, Damasco, Beirut e Fez.
In risposta alla repressione effettuata dalla polizia francese sui manifestanti durante una manifestazione nazionalista, scoppiarono una serie di disordini a Sétif che furono seguiti poi da una serie di attacchi ai coloni francesi nelle campagne circostanti che provocarono complessivamente 102 morti.
Le autorità coloniali francesi e i coloni europei scatenarono così un’ondata di massacri che costò la vita a 6 000-30 000 musulmani nella regione.
Sia lo scoppio che la natura indiscriminata della sua rappresaglia segnarono un punto di non ritorno nelle relazioni franco-algerine, dando il via al percorso che avrebbe portato allo scoppio della guerra d’Algeriadel 1954-1962.
IFRANE, MAROCCO — UN’IMMAGINE DELL’UNIVERSITA’ DI AL AKHAWAY, dove insegna MASSIMO RAMAIOLI, una persona da seguire per ” competenza e onestà ” ( così è parso a me, chiara, in questo primo video ascoltato )
L’Università Al Akhawayn di Ifrane è un’università marocchina indipendente, pubblica, senza scopo di lucro e coeducativa, impegnata a formare i futuri cittadini-leader del Marocco e del mondo attraverso un curriculum di studi umanistici in lingua inglese, orientato al mondo intero e basato sul sistema americano. L’Università valorizza il Marocco e coinvolge il mondo attraverso programmi di formazione e ricerca all’avanguardia, tra cui formazione continua e per dirigenti, che rispettano i più alti standard accademici ed etici e promuovono l’equità e la responsabilità sociale.
Ifrane, vista della città dalla cascata Zaouia D’Ifrane, il nome in berbero è: Ifran, ⵉⴼⵔⴰⵏ, che significa Caverne. La provincia è omonima, il distretto è nella regione di Fès-Meknès.
È soprannominata la “Piccola Svizzera” ed è considerata la città più pulita del mondo secondo MBC New.
Ifrane è stata fondata durante il protettorato francese nel 1929 proprio in ragione del suo clima alpino, con nevicate e freddo durante l’inverno e temperature fresche d’estate. La città era una sorta di colonia estiva, per le famiglie francesi, e inizialmente fu progettata, secondo il gusto dell’epoca, seguendo lo stile dei paesi alpini.
Fu costruito anche un palazzo reale per il sultano Muhammad ibn Yûsuf. I primi edifici pubblici costruiti in città furono una chiesa, un ufficio postale e in seguito, un penitenziario, utilizzato come campo di prigionia per i soldati nemici durante la seconda guerra mondiale.
Accanto alle abitazioni occupate dagli europei, presto furono costruite abitazioni destinate ai marocchini che lavoravano presso le abitazioni degli occupanti. Questa zona, chiamata Timdiqîn, era separata dall’altra parte della città da una profonda gola.
Dopo l’indipendenza le proprietà francesi vennero man mano acquistate da proprietari marocchini. La città si sviluppò e fu arricchita con la costruzione di una moschea, un mercato comunale e abitazioni di proprietà statale. Allo stesso tempo la zona di Timdiqîn venne ristrutturata.
Nel 1979 Ifrane divenne il capoluogo amministrativo dell’omonima provincia. Qui, nel 1995 ha aperto la Al Akhawayn University, un’università in lingua inglese, rilanciando la località come meta del turismo intero, non solo per il periodo invernale, ma anche per quello estivo.
Nel 1940 il governo di Vichy, sotto controllo nazista durante la Seconda guerra mondiale, emise molti decreti per escludere gli ebrei dalle funzioni pubbliche. Il sultano Mohammed V si rifiutò di far applicare le leggi antisemite in Marocco e, in segno di sfida, nel 1941 invitò tutti i rabbini del regno alle celebrazioni dell’anniversario della sua salita al trono.
Il 20 agosto 1953 la Francia obbligò Mohammed V e la sua famiglia all’esilio in Madagascar, a seguito dell’appoggio da lui dato agli indipendentisti dell’Istiqlāl che volevano l’indipendenza del Marocco. Un suo parente, Mohammed ben Arafa (nipote di Muhammad IV), fu posto sul trono.
Mohammed V e la sua famiglia furono trasferiti in Madagascar nel gennaio 1954. Mohammed V tornò dall’esilio il 16 novembre 1955, riconosciuto ancora come legittimo sultano dopo la sua opposizione attiva al Protettorato francese sul suo Paese.
Nel febbraio 1956 negoziò con la Francia e con la Spagna la piena indipendenza del Marocco. Tuttavia al Paese diventato indipendente mancavano alcuni territori (Tangeri, che gli verrà restituita a ottobre dello stesso anno, Sidi Ifni, Tarfaya e Sahara Occidentale), lasciando deluse le aspettative degli indipendentisti dell’Istiqlāl. Nell’agosto 1957 Mohammed V assunse il titolo di re, in sostituzione del titolo di sultano.
Sin dai primi anni Mohammed V si impegnò per dare al Paese istituzioni democratiche, redigendo una prima bozza di costituzione, allo scopo di migliorare lo Stato marocchino con un particolare riguardo alla modernizzazione del Paese ed alla diffusione dell’istruzione e della cultura.
Il Marocco aderì all’ONU e alla Lega Araba, dichiarandosi solidale e dando sostegno politico agli algerini in lotta per l’indipendenza, ma questo non significò una rottura dei legami con la Francia, mentre fin da subito furono solidi e cordiali i rapporti con gli Stati Uniti.
Il Marocco provò a riconquistare Sidi Ifni, sotto occupazione spagnola, nell’ottobre 1957 con le armi, ma il conflitto fallì nel giugno 1958 per la reazione spagnola, sostenuta anche dai francesi. Ma, nonostante la sconfitta dell’intervento armato a Sidi Ifni, la Spagna, sempre nel 1958, restituì al Marocco la città di Tarfaya.
Il Protettorato francese del Marocco venne stabilito col trattato di Fès. Esso esistette dal 1912 quando venne formalmente istituito il protettorato, sino all’indipendenza (7 aprile 1956), e consisteva essenzialmente nell’area centrale del Marocco.
conquista francese del Marocco LuzLuz31 – Opera propria
Palestina 70mila i bambini gravemente denutriti, 57 morti dall’inizio dell’offensiva israeliana. I valichi chiusi usati come arma contro i civili. «Mio figlio piange per la fame. Mento e gli dico che porterò della farina»
La piccola Rahaf Ayad, 12 anni, insieme alla madre Shurooq, a Gaza City – Getty Images/Khames Alrefi
Pubblichiamo il reportage della rivista israeliano-palestinese +972mag ( 1 )
La dodicenne Rahaf Ayad è così malnutrita che riesce a malapena a parlare. I capelli le stanno cadendo. Le sue costole sporgono. Riesce a malapena a muovere gli arti. Sbatte gli occhi lentamente, con le palpebre pesanti. Originaria di Al-Shuja’iya, nella parte orientale della città di Gaza, Rahaf vive ora con i suoi sette familiari in un’unica stanza nella casa di un parente nel quartiere Al-Rimal della città.
Shurooq, la madre di Rahaf, spiega che la salute della figlia ha iniziato a deteriorarsi rapidamente a causa della mancanza di cibo. «Se qualcuno la tocca o prova a muovere le braccia o le gambe, grida di dolore – racconta a +972 – Dice che le sembra che il suo corpo stia bruciando dall’interno. Chiede pollo, carne o uova, ma nei mercati non c’è nulla».
SHUROOQe suo marito Rani, 45 anni, sono andati da una clinica all’altra in cerca di cure, integratori o solo consigli, ma il sistema sanitario di Gaza, devastato, ha offerto poco aiuto. «I medici ci hanno detto che ci sono centinaia di bambini come Rahaf e che l’unica cosa che può salvarli è un’alimentazione adeguata. Le ho comprato delle vitamine in una farmacia, ma quando sono tornata a comprarne altre una settimana dopo, erano finite».
I fratelli di Rahaf aiutano a prendersi cura di lei: le danno da mangiare, le fanno il bagno, la portano in bagno e le cambiano i vestiti. Quando il cibo è disponibile, la famiglia mette al primo posto i suoi bisogni. «Mangiamo solo dopo che lei ha mangiato – dice Shurooq – Quando abbiamo soldi, compriamo tutto quello che chiede. Ma ora non c’è nulla e quando troviamo qualcosa, non possiamo permettercelo».
Anche quando Shurooq riesce a trovare e a preparare alcuni dei pochi prodotti di base ancora disponibili a Gaza, come riso, lenticchie o pasta, Rahaf chiede a gran voce pollo, carne o uova, qualsiasi cosa che contenga le proteine di cui il suo corpo ha disperatamente bisogno. Alla fine, la fame vince e lei mangia qualsiasi cosa sia disponibile. «Le dico che il confine si aprirà presto e le porterò tutto quello che vuole – dice Shurooq, trattenendo le lacrime – La salute di Rahaf crolla ogni giorno. Sta morendo davanti ai miei occhi e non possiamo fare nulla».
Rahaf ama la lingua inglese. Un tempo sognava di studiare inglese all’università e di diventare insegnante. Ma la sua vita, come quella di centinaia di migliaia di bambini di Gaza, è stata distrutta dalla guerra di Israele. «Vorrei che i miei capelli tornassero – sussurra Rahaf – Voglio camminare e giocare con i miei fratelli come facevo prima».
Da più di due mesi Israele impedisce l’ingresso nella Striscia di Gaza di cibo, beni e forniture mediche. Le conseguenze sono catastrofiche: secondo l’ufficio stampa del governo di Gaza, oltre 70mila bambini sono ricoverati in ospedale per malnutrizione acuta e 1,1 milioni non hanno il fabbisogno nutrizionale minimo giornaliero per la sopravvivenza.
IL MINISTERO della salute palestinese a Gaza ha riferito che, al 5 maggio, almeno 57 bambini sono morti per complicazioni sanitarie legate alla malnutrizione dall’inizio della guerra e altri 3.500 sotto i cinque anni rischiano di morire di fame.
«Nelle ultime due settimane, la carestia si è intensificata in modo significativo – dichiara a +972 il dottor Ahmed Al Faraa, direttore del dipartimento di maternità e pediatria dell’ospedale Nasser – In questo periodo, abbiamo curato circa 10 bambini affetti da malnutrizione molto grave».
La dottoressa Ahed Khalaf, specialista in pediatria al Nasser, ha detto recentemente ad Al Jazeera di non aver mai visto casi così gravi di malnutrizione nei bambini: «Soffrono di avvelenamento del sangue, insufficienza d’organo, danni al fegato e ai reni, infezioni batteriche e microbiche e indebolimento del sistema immunitario».
Poco dopo che il 16 aprile il ministro della difesa israeliano Israel Katz ha dichiarato che «al momento non è previsto l’ingresso di alcun aiuto umanitario a Gaza», i distributori di cibo locali e internazionali, un tempo un’ancora di salvezza per centinaia di migliaia di persone, hanno iniziato a chiudere uno dopo l’altro. Il 25 aprile il Programma alimentare mondiale ha annunciato di aver esaurito le scorte di cibo rimaste. Il 7 maggio la World Central Kitchen ha annunciato di «non avere più le scorte per cucinare i pasti o cuocere il pane a Gaza».
«L’assedio su Gaza è un assassino silenzioso di bambini e anziani – ha dichiarato Juliette Touma, portavoce dell’Unrwa, in un incontro con la stampa, il 29 aprile – Abbiamo poco più di 5mila camion con forniture salvavita che sono pronti ad arrivare. Questa decisione (di non farli entrare) minaccia la vita e la sopravvivenza dei civili di Gaza, che sono anche sottoposti a pesanti bombardamenti giorno dopo giorno».
Ibrahim Badawi, 38 anni, ha bisogno di almeno quattro chili di farina al giorno per sfamare la sua famiglia di nove persone. In questi giorni, fatica a trovarne anche un solo chilo: «Mi sento impotente quando i miei figli chiedono il pane e io non ho nulla da dare loro. A volte vorrei che io e i miei figli morissimo insieme in un attacco aereo, per non soffrire la fame e questa continua agonia».
BADAWI, sfollato da Beit Hanoun, nel nord di Gaza, vive in un rifugio di fortuna fatto di teloni e coperte sulla costa di Gaza City. Da quando Israele ha infranto il cessate il fuoco a marzo, Badawi non ha ricevuto un solo pacco di cibo. Lui e sua moglie, insieme al figlio maggiore Mustafa, 15 anni, si sono abituati ad andare a letto affamati per permettere ai bambini più piccoli di mangiare le piccole porzioni di riso o lenticchie che ricevono occasionalmente dalla cucina della comunità. «Il più piccolo, Abdullah, che ha quattro anni, piange per la fame, dicendo che gli fa male lo stomaco. Mento e gli dico che presto porterò della farina, così potrà dormire», si lamenta Badawi.
Ma anche se la farina fosse disponibile, Badawi non potrebbe permettersela. Fino alla fine di marzo, la maggior parte dei gazawi è sopravvissuta grazie a scorte di pane e prodotti in scatola, mentre i prezzi salivano. Ma poi la crisi si è aggravata: quando tutti i 26 panifici del Programma alimentare mondiale hanno chiuso per la carenza di farina e carburante, la farina bianca è diventata incredibilmente costosa. Un sacco da 25 chili, che prima della guerra costava 30 shekel (8,30 dollari), ora costa l’incredibile cifra di 1.500 (416 dollari).
«Ho preso in prestito denaro da vicini e amici molte volte per comprare la farina – dice Badawi – Ma ora tutti quelli che conosco sono al verde. I miei figli soffrono di coliche e indigestione. Se questa carestia continua, moriremo tutti di fame».
Hadia Radi, 42 anni, madre di sei figli, vive con la sua famiglia in una tenda di fortuna in Al-Wihda Street, a Gaza City. Come innumerevoli altre famiglie dell’enclave, da mesi affrontano fame e bombardamenti. Il 15 aprile un attacco aereo israeliano ha colpito a pochi metri dalla loro tenda, ferendo diversi membri della famiglia, tra cui Yamen, il figlio di 7 anni di Hadia, la cui gamba è stata rotta dalle schegge. Ora in cura nell’ospedale da campo Al-Saraya della Mezzaluna Rossa, il recupero di Yamen è complicato da una grave malnutrizione. «Ha perso 10 chili in due mesi – dice Radi a +972 – Dall’inizio del blocco non abbiamo mangiato altro che riso. Senza un’alimentazione adeguata, le nostre ferite non guariranno».
IL CIBO è ormai così scarso che anche i piccoli atti di gentilezza possono essere rischiosi. Di recente un vicino ha sentito Yamen piangere al telefono dalla tenda dell’ospedale, implorando la madre di avere del pane. La mattina dopo ha portato alla famiglia dieci pezzi di pane, nascosti in un sacchetto nero per non attirare occhi affamati. Radi ha nascosto il pane nella tenda come un tesoro: «Ogni giorno ne mandavo un pezzo a Yamen. Anche i suoi fratelli piangevano per averne un po’, ma io dicevo loro che i feriti dovevano venire prima».
Yamen continua a chiedere alla madre di fargli visita, ma Radi è bloccata dalle ferite riportate nell’esplosione: una gamba rotta che la lascia dipendente dalle stampelle. È altrettanto impotente nel raggiungere sua figlia Hannan, di 13 anni, curata nei reparti sovraffollati dell’ospedale Al-Shifa.
Hannan è stata colpita da schegge (ha perso un occhio) che l’hanno resa incapace di camminare. La mancanza di cibo ha reso estremamente difficile il recupero. «Ha bisogno di verdure, cibo sano e cure speciali per guarire – spiega Radi – Ma qui non c’è accesso a nulla di tutto ciò». Radi ritiene che Israele stia affamando Gaza per fare pressione su Hamas, ma dice che sono le famiglie normali a pagarne il prezzo: «Stiamo vedendo i nostri figli appassire e né Israele, né Hamas, né il mondo se ne preoccupano. Perché i miei figli dovrebbero morire di fame? Cosa abbiamo fatto per meritarci questo? Se non potete fermare la guerra, almeno aprite le frontiere. Non lasciateci morire di fame».
Anche Heba Malahi, 41 anni, vive in una tenda di fortuna in Al-Wihda Street a Gaza City da quando un attacco aereo israeliano ha distrutto la sua casa a Juhor ad-Dik nel 2023. Ora lei e suo marito Ribhi, 45 anni, saltano regolarmente i pasti per permettere ai loro sette figli di mangiare. Mahmoud, il figlio di sei anni della coppia, soffre di grave malnutrizione. «È sempre stanco. Non mangia, le ossa gli fanno male e i denti stanno iniziando a cadere – racconta Heba a +972 – La settimana scorsa ha chiesto l’elemosina per dei pomodori. Abbiamo venduto il nostro ultimo cibo in scatola solo per comprarne un chilo, lo abbiamo condiviso come unico pasto».
LA FIGLIARuba, 17 anni, desidera disperatamente cibi semplici come le patate, ma a 60 shekel al chilo sono praticamente irraggiungibili. «Netanyahu ci punisce solo per il fatto di esistere – dice Heba – Forse qualcuno come Trump potrebbe costringerlo ad aprire le frontiere prima che moriamo tutti di fame. Se la gente immaginasse i propri figli in questo stato, forse agirebbe.
Più a sud, a Khan Younis, Mona Al-Raqab è seduta con suo figlio Osama di cinque anni da oltre una settimana nel Nasser Medical Complex. Attualmente pesa solo nove chili. Sfollato più volte dall’inizio della guerra, con poco cibo e acqua pulita, il suo sistema digestivo ha quasi ceduto. «I medici cercano di nutrirlo – dice Al-Raqab – ma un bambino che cresce ha bisogno di cibo vero, di diversi tipi».
Qualche stanza più in là, Nagia Al-Najjar, 30 anni, veglia sul suo bambino Yousef, di cinque mesi, gravemente malnutrito, nella sua culla. Gli altri quattro figli sono rimasti con il padre nella loro tenda nel villaggio di Abasan, dopo che la loro casa nel quartiere Bani Suhaila di Khan Younis è stata distrutta. L’ospedale fatica a fornire latte artificiale in mezzo alla chiusura delle frontiere. «Non posso allattare perché mangio a malapena – dice Al-Najjar a +972 – Non riesco a trovare le parole per esprimere come mi sento come madre».
Il dottor Al Faraa ha spiegato che la mancanza di cibo ha causato aborti spontanei e neonati pericolosamente sottopeso con gravi deformazioni. Le famiglie ora macinano la pasta – o anche il riso e le lenticchie – per ottenere una farina di fortuna. «Non importa se io ho fame – dice Al-Najjar – Ma cosa hanno fatto i miei figli per meritarselo?».
NOTA SU IL MEDICO –
Ahmed Al-Farra capo-pediatra dell’Ospedale Nasser di Khan Younis
Dr. Ahmed Al-Farra, head of pediatrics and obstetrics at Nasser Hospital in Khan Younis, stated that the situation of children in the Gaza Strip is catastrophic, with an entire generation being targeted. Children are enduring alarming levels of starvation and malnutrition as a result of Israel’s complete siege and the ban on the entry of humanitarian aid, including food, baby formula, and essential supplies.
Il dottor Ahmed Al-Farra, primario di pediatria e ostetricia presso l’ospedale Nasser di Khan Younis, ha dichiarato che la situazione dei bambini nella Striscia di Gaza è catastrofica e che un’intera generazione è presa di mira. I bambini soffrono livelli allarmanti di fame e malnutrizione a causa dell’assedio totale da parte di Israele e del divieto di ingresso di aiuti umanitari, tra cui cibo, latte in polvere e beni di prima necessità. ( traduz. Google )
(1) NOTA:
OSSERVATORE ROMANO.VA/ IT
7 APRILE 2025
Il caso editoriale di successo del web-magazine “+972”
Un laboratorio di coesistenza tra israeliani e palestinesi
da Tel Aviv Roberto Cetera
Israeliani e palestinesi hanno in comune almeno una cosa: il prefisso telefonico, +972. È partendo da questa rara condivisione che un gruppo di giovani giornalisti israeliani e palestinesi decisero di intraprendere una nuova iniziativa editoriale all’insegna di una pacifica convivenza tra i due popoli e della denuncia della violenza connessa all’occupazione militare, chiamandola appunto “+972”.
Nato e cresciuto a Pune, Swapnil Jedhe è di professione Art Director in un’agenzia pubblicitaria. Nel tempo libero, concentra la sua creatività nell’esplorazione dell’arte nascosta nelle nostre vite quotidiane attraverso la fotografia, cercando di catturare quei momenti magici e invisibili di scene ordinarie e quotidiane. Ha un senso della composizione distintivo e la maggior parte delle sue immagini presenta forme grafiche semplici e pulite. È membro del collettivo indiano di street photography That’s Life.
Intervista con Swapnil Jedhe
Swapnil Jedhe è stato il vincitore dello scorso anno al Miami Street Photography Festival, tenutosi solo pochi mesi fa, nel dicembre 2015. Il suo street style è sicuramente unico ed è diventato un esperto nel trasformare il caos e la confusione della vita cittadina in India in arte.
Questo mese siamo orgogliosi di presentarvi la prospettiva scritta e visiva di Swapnil sulla street photography nella seguente intervista, abbinata a una selezione delle sue fotografie.
Ashley: Raccontaci un po’ di te. Dove sei cresciuta? Come hai iniziato ad appassionarti alla fotografia in generale e cosa ti ha spinto a dedicarti alla street photography?
Swapnil: Sono nato e cresciuto nella splendida città di Pune, in India, nota per la sua cultura rilassata e cosmopolita. Ho completato la mia formazione in arti applicate. Ho sempre amato creare, fare arte. Attualmente lavoro come Art Director in un’agenzia pubblicitaria. Grazie a questo background accademico e professionale, sono sempre stato vicino all’arte. Ho iniziato ad appassionarmi alla fotografia nel 2012, quando ho iniziato a scattare foto solo per rompere la routine e fare qualcosa di diverso. È stato allora che ho scoperto il mio amore per la fotografia, che col tempo si è trasformato nella mia passione. Un bel giorno, mi sono imbattuto per caso in “That’s Life”, un collettivo indiano di street photography. Ha entusiasmato il fotografo di strada in erba che è in me. Esplorare l’arte nascosta nella vita quotidiana ha alimentato la mia passione per la street photography. È stimolante e allo stesso tempo stimolante. L’idea di catturare quel “magico momento invisibile” da una scena dall’aspetto ordinario è una prospettiva entusiasmante per me. Andare a caccia di questi momenti è ciò che mi spinge ad andare avanti.
Ashley: Come descriveresti il tuo stile di fotografia di strada?
Swapnil: Ah! È una domanda difficile per me. Dicono che il mio lavoro sia poetico, umoristico e originale. Sebbene le mie immagini abbiano composizioni semplici, è possibile distinguere il mio lavoro in due tipologie. Alcune immagini hanno una composizione grafica forte e pulita, mentre altre hanno un “disordine organizzato”. Inoltre, in molte di queste immagini sono riuscito a catturare il momento decisivo, che vorrei trasformare nella mia firma.
Ashley: Una cosa che ammiro molto della tua fotografia di strada è la tua capacità di catturare una scena con decine di persone, oggetti, animali, ecc. in movimento e trovare la composizione perfetta al momento perfetto. La definirei una combinazione tra l’essere un maestro della composizione e un esperto del “momento decisivo”. Cosa ne pensi? La composizione è un’abilità naturale per te o è qualcosa su cui lavori?
Swapnil: Di solito scatto solo quando qualcosa mi piace di più, che sia una storia o una scena. Infatti, mentre la guardo, ogni scena lascia che la nostra immaginazione crei una storia dietro di sé. Voglio che chi guarda si soffermi a guardare l’immagine e la osservi a modo suo. Per questo, cerco di organizzare il disordine visivo (che è e sarà sempre parte integrante dell’India e del suo paesaggio) nelle mie composizioni, in modo che gli occhi scorrano rapidamente lungo tutto il fotogramma. Altre volte, scatto un momento speciale, che possa evocare l’immaginazione dell’osservatore. I risultati variano quindi a seconda degli elementi presenti nell’inquadratura. In definitiva, le mie composizioni non nascono da sforzi deliberati, ma da un istinto naturale. Non penso troppo alla composizione mentre scatto :), piuttosto vedo una storia o un momento e lo catturo così come lo vedo.
Ashley: A proposito di tutte queste parti in movimento nelle tue foto, qual è il tuo posto preferito per scattare? Dove vai per catturare le tue scene di caos perfettamente composte?
Swapnil: Fotografo da ormai 4 anni, ma quasi tutte le foto del mio portfolio sono state scattate nella mia città natale, Pune. Di solito passeggio nella zona del mercato o esploro le strette vie della città vecchia.
Oltre a questo, adoro fotografare un parco vicino a casa mia, dove andavo a giocare da bambino. Lo sto documentando da due anni. Fotografando, ho scoperto e catturato molte storie e ho stretto molte amicizie in questo periodo. Si possono vedere sorrisi e dolore, pettegolezzi e solitudine, volti, espressioni, bambini, genitori, anziani… in una parola, la vita, ecc. Questo posto non mi delude mai.
NOTA : L’intervista continua nel link sopra che ripeto per comodità : DOVE, INSIEME, TROVATE ALTRE FOTO DI QUEST’ARTISTA ECCEZIONALE, secondo me
Borrell, ‘da ministri di Netanyahu chiare intenzioni genocide’
L’ex alto rappresentante Ue: ‘Vendere meno armi a Israele’
MADRID – “Tutti abbiamo sentito da ministri di Netanyahu propositi che sono chiare dichiarazioni di intenzione genocida”: è quanto detto dall’ex alto rappresentante Ue Josep Borrell, in un discorso pronunciato nel ricevere il premio europeo Carlo V, in Spagna.
“Poche volte io ho sentito un responsabile statale esprimere apertamente un piano che si avvicina così alla definizione giuridica di genocidio”, ha aggiunto Borrell, secondo cui a Gaza è in corso “la maggior operazione di pulizia etnica dalla fine della Seconda Guerra mondiale”.
Nel suo intervento, pronunciato di fronte al re di Spagna Felipe VI e ad altre autorità, Borrell ha ribadito la sua condanna sia “all’orrore di Hamas” sia “alla risposta di Israele”. E ha sostenuto che “l’Europa ha capacità e mezzi non solo per protestare, ma per influire sulla condotta”, ma “non lo fa”. Inoltre, ha invitato i Paesi europei a “fornire meno armi allo Stato israeliano”. “Eliminare esseri umani per la loro appartenenza a un gruppo etnico è uno dei maggiori orrori che l’umanità ha potuto commettere. E in questo noi europei siamo stati eccellenti e gli ebrei hanno pagato un prezzo altissimo.
Ma non sono stati i palestinesi a uccidere gli ebrei, e noi non abbiamo il diritto di far ricadere su di loro le nostre responsabilità o far pagare loro per espiare il nostro senso di colpa”, ha detto in aggiunga Borrell, che ha anche invitato i “giovani europei” a ricordare che “la pace non è lo stato naturale delle cose”.
Foto Andrea Alfano / LaPresse Students demonstration against Italian minister Valditara and ReArm Europe plan. Turin, Italy – Thursday, April 4 2025 – News – Andrea Alfano / LaPresse
video, 2.39 — Roma– al Pantheon contro il riarmo — 10 maggio 2025
Di seguito l’appello della campagna Stop Rearm Europe, da condividere e far girare.
Organizziamo un movimento europeo contro ReArm Europe! Facciamolo insieme.
Ci opponiamo al piano dell’Ue di spendere 800 miliardi di euro in armi. Saranno 800 miliardi rubati. Rubati alle spese sociali, alla salute, all’educazione, al lavoro, alla costruzione della pace, alla cooperazione internazionale, alla transizione giusta e alla giustizia climatica. Saranno un beneficio solo per i produttori di armi in Europa, negli Usa e in altri Paesi.
Renderanno la guerra più probabile, e il futuro più insicuro per tutti e tutte. Genereranno più debito, più austerità, più confini. Approfondiranno il razzismo. Alimenteranno il cambiamento climatico.
Non abbiamo bisogno di più armi; non abbiamo bisogno di preparare altre guerre. Abbiamo bisogno di un piano totalmente differente: sicurezza reale, sociale, ecologica e comune per l’Europa e il mondo intero.
La manifestazione di OGGI nella Capitale è stata promossa da circa 60 realtà, che vanno da Arci a Sbilanciamoci, da Ferma il Riarmo a Rete dei Numeri Pari, Transform!Italia, Attac Italia, Il Coraggio della Pace, Peacelink, Fairwatch, Un Ponte Per, Rete Italiana Pace e Disarmo, Emergency Roma, Cgil Roma e Lazio, Giuristi Democratici, Unione Inquilini, Forum per il diritto alla Salute, Disability pride, CIPAX – Centro interconfessionale per la pace, Pax Christi-Punto Pace Roma. E ancora: le associazioni studentesche “Rete della Conoscenza”, UdS, UdU, Link; il Coordinamento per l’educazione alla pace nelle scuole, la Comunità Palestinese di Roma e del Lazio, la Casa Internazionale delle Donne e le sigle di giornalisti Rete #NoBavaglio e Info@Futuro.
Tra i partiti politici, invece, figurano, in alcuni casi anche con le loro sigle di giovani, M5S, Partito della Rifondazione Comunista, European Left, Alleanza Verdi Sinistra, Sinistra Italiana Lazio, Sinistra Anticapitalista Roma, Partito del Sud, Partito Socialista Roma, Sinistra Civica Ecologista.
Let’s organize a European movement against ReArm Europe! Join us!
We oppose the EU’s plans to spend an extra 800 billion euros on arms. This will be 800 billion euros stolen. Stolen from social services, health, education, labour, peace building, international cooperation, from a just transition and climate justice. It will only benefit arms manufacturers in Europe, in the Usa and elsewhere.
It will make war more likely, and future less safe for everyone. It will generate more debt, more austerity, more borders. It will deepen racism. It will fuel climate change.
We do not need more weapons; we do not need to prepare for more wars. What we need is a totally different plan: real, social, ecological and common security for Europe and for the world.
Stand up against war. Stop ReArm Europ
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Stop Rearm Europe, il 10 maggio a Roma la piazza contro il riarmo
Appuntamento alle ore 10 al Pantheon. Adesioni da oltre 900 sigle in 18 Paesi Ue
Sabato 10 maggio 2025, alle ore 10, una delegazione della Flai nazionale sarà a Roma in Piazza del Pantheon per dire No al Piano di Riarmo europeo da 800 miliardi di euro. La mobilitazione è organizzata nell’ambito della campagna Stop Rearm Europe, che al momento ha raccolto più di 900 adesioni in 18 Paesi dell’Unione europea, di cui oltre 250 in Italia, fra sindacati, associazioni, comitati, partiti, movimenti e altre realtà della società civile.
Una pluralità di soggetti uniti da un obiettivo comune: fermare le politiche bellicistiche dell’Italia e degli altri Stati Ue costruendo un percorso di partecipazione dal basso, dentro e fuori le sedi istituzionali a tutti i livelli e che, attraversando vari appuntamenti, avrà il suo primo momento di mobilitazione europea coordinata nella settimana del 21 giugno, in occasione del vertice Nato all’Aja, con manifestazioni e azioni in diversi Paesi.
«Torniamo in piazza contro la guerra, contro tutte le guerre che portano lutti e dolore, che distruggono la democrazia e cancellano il pensiero critico – si legge nella nota diramata dalle realtà aderenti -. Torniamo in piazza per la Pace, per fermare il genocidio a Gaza e permettere l’ingresso degli aiuti umanitari, per chiedere che si persegua la via diplomatica per la risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina. Chiediamo che l’Italia e l’Europa investano sulle grandi sfide del futuro, per una società aperta, senza muri, per abbattere tutte le disuguaglianze e le discriminazioni, razziste, di classe e di genere, per la libertà e i diritti delle donne e di tutti, per una sanità ed istruzione pubbliche, per la tutela ambientale, sicurezza sul lavoro, occupazione di qualità e conversione ecologica e che rinuncino al Piano di Riarmo, che invece finanzierà un ‘Sistema guerra’ che ci riporterà indietro nella Storia».
«Bisogna fermare l’economia bellica – prosegue il comunicato – che minaccia di trasformare filiere produttive locali in fabbriche di armi; la cultura della militarizzazione e un controllo dei programmi didattici sempre più pervasivi nella scuola; l’isteria bellicista che alimenta razzismo e patriarcato; la deriva autoritaria del dl Sicurezza, che erode diritti civili e libertà d’informazione».
«Ci appelliamo a tutte le forze politiche e della società civile, al mondo della scienza, dei media, della cultura e dello spettacolo affinché si schierino contro il riarmo, la guerra, il genocidio, la repressione, l’autoritarismo – chiosa la nota -. E che siano con noi in piazza per la Pace il prossimo 10 maggio a Roma e nei prossimi appuntamenti in Italia e in Europa».
L’arcipelago di Tinharé, situato nella parte sud dello stato di Salvador- Bahia, è composto da tre isole maggiori e 23 piccole isole disabitate. Le tre isole abitate sono chiamate Cairú ( 1), isola di Boipeba ( 2) e isola di Tinharé ( 3). Quest’ultimo, che porta lo stesso nome dell’arcipelago, ospita il suo centro turistico Morro de São Paulo, attualmente una mata di Turismo con la maiuscola.
fortezza di Tapirandu — Morro di San Paolo
Come si vede dalla cartina sotto, le spiagge di Morro de Sao Paulo non hanno nomi ma numeri : prima, seconda, terza, quarta.
nel quadro piccolo ( a sin. in basso ) si vede la capitale dello stato di Bahia – che è Salvador – in rapporto all’arcipelago di Tinharé; da Salvador conviene partire per Tilharé, perché a Salvador si arriva con l’aereo. Oltre a vedere la bellissima città. Adesso ho visto che da Salvador si può andare in aereo a Morro di Sao Paulo
Faro del Morro de Sao Paulo
Il Faro
Aperitivo con frutta tropicale- un nuovo tipo di batida o caipirinha
la frutta base e la cachaça ( grappa di canna da zucchero )– si chiama ” batida ”
La caipirinha è fatto con il limon galego a fettine molto schiacciato con un pestello, ghiaccio tritato, zucchero di canna e cachaça — C’è anche ( c’era ai miei tempi– fine ’70/’80 ) la caipiroska in cui si mette la vodka invece della cachaça.
E’ molto facile da fare in casa.
attualmente – che io sappia – le spiagge più belle sono attrezzate perché sono diventate molto alla moda
piccole aragoste
vista aerea del Morro de Sao Paulo
Bungalow sulla spiaggia
vestiti colorati per la spiaggia
LO STATO DI BAHIA– cartina sotto –
CHE CONFINA A NORD CON LO STATO DI PERNAMBUCO / PIAUI’ / MARANHAO – A OVEST CON TOCANTIS E GOIAS ; A SUD CON LO STATO DI SPIRITO SANTO E MINAIS GERAIS – A EST CON L’OCEANO ATLANTICO E GLI STATI DI SERGIPE E ALAGOAS.
Il Tocantins è uno Stato del Brasile fondato nel 1988. Mentre numerose altre città della zona risalgono al periodo del colonialismo portoghese, la capitale, Palmas, fu fondata solo nel 1989. Lo Stato, che ha lo 0,75% della popolazione brasiliana, è responsabile dello 0,5% del PIL brasiliano.
UN PAESAGGIO DELLO STATO DI TOCANTIS
LA VIA LATTEA VISTA DAL SUD DELLO STATO di TOCANTIS
foto di Leonardo Palermo Gentile – Opera propria
LA BANDIERA DELLO STATO DI TOCCANTIS= “dove il sole splende per tutti”.
Al centro spicca perciò un sole di color arancione, con lunghi raggi simmetrici che simboleggiano il futuro dello Stato. Il bianco su cui campeggia il sole rappresenta invece la pace. Il blu in alto a sinistra e l’arancione in basso a destra simboleggiano rispettivamente le acque e il suolo del Tocantins
E se i governi d’Europa, a partire dal nostro, tacciono – rendendosi così sempre più complici di una atrocità che ogni giorno appare sempre più un genocidio, una soluzione finale per il popolo palestinese –, noi cittadine e cittadini d’Europa dobbiamo prendere la parola in prima persona. Il silenzio di Ursula von der Leyen, il silenzio atroce di Giorgia Meloni e del suo governo risuonano come perentori atti di autoaccusa: complicità in genocidio, e complicità in nostro nome.
Allora, diciamolo forte:
semplicemente come umane e umani di fronte alla disumanità di un massacro senza fine.
no, non nel nostro nome!
Naturalmente è solo un sussurro, ma è l’inizio di un percorso dal basso per rompere il silenzio colpevole che ci fa complici di un governo criminale. A noi, cittadini di stati alleati con Israele, verrà chiesto conto di Gaza, della sua morte. E i nostri figli, i nostri nipoti, ci chiederanno: «ma voi dove eravate, cosa facevate, che dicevate, mentre Gaza si avviava alla soluzione finale?». Allora prendiamo la parola, in prima persona, prima che sia davvero troppo tardi.
#ultimogiornodigaza
Wafa, ‘106 morti a Gaza in 24 ore per i raid dell’Idf’
Agenzia palestinese: salito a 52.760 bilancio totale dei morti
Chi provasse a cercare Terramafiusa sulle mappe di oggi non la troverebbe. Fino a un po’ di anni fa era un piccolo principato nascosto tra le montagne dell’Europa centrale. Lì, circondato da una corte di modesti funzionari, viveva Oreste, il principe di Terramafiusa, che imparò a sorridere all’età di vent’anni e che da allora non ha più smesso. Questa è la storia del suo sorriso e di come l’ha ottenuto, aiutato dai saggi sotterfugi di Lucien, il centenario pappagallo della nonna Palmira, dalla goffaggine del corpulento primo ministro Camillo, amante di pasti sostanziosi e lunghe pennichelle, e dall’amore di Violante, la bella dama di compagnia.
Come nei suoi quadri, Domenico Gnoli riempie le tavole di dettagli minuziosi, spesso celati, a volte curiosi (che cosa ci fa il bassotto Marcantonio in questa storia?), che sembrano spingerci a guardare ancora e ancora, scoprendo sempre qualcosa di nuovo. In questo libro, l’unico che abbia scritto e illustrato, Gnoli racconta come, a volte, basti la diversa curvatura di un sorriso per cambiare il corso della storia e dare un nuovo senso al mondo.
Novalis, uno dei più importanti esponenti del romanticismo tedesco, considerava fosse essenziale dare alle cose un senso di solennità, alle realtà quotidiane una forma misteriosa. Questa sua lezione è stata magistralmente adottata da Domenico Gnoli.
Ho conosciuto l’opera di Gnoli nella prima casa editrice dove ho lavorato, che poco prima del mio ingresso aveva pubblicato una sontuosa monografia (testo di Vittorio Sgarbi) che recava in copertina un dettaglio di Chemisette verte, un quadro del 1967 che ritrae, appunto, il colletto rotondo e due bottoncini di madreperla di una camicetta di seta stampata ton sur ton a motivi floreali.
Niente di meno misterioso al mondo, vien da pensare, del dettaglio ingigantito di un capo d’abbigliamento. Ma – e non credo di essere io a dirlo, né da primo né da ultimo – quel che si deve guardare nella pittura di Gnoli non è quel che c’è, ma quel che manca.
[Un suo collezionista, Claude Spaak, drammaturgo e zio della più nota Catherine, lo disse con maestria nella postfazione al libro sopra citato: «Nella modesta stanza campeggiava sul cavalletto Letto bianco, coperta chiara, guanciale immacolato recante peraltro l’impronta di una testa, che mi sconvolse. Qualcuno ci aveva dormito senza turbare l’ordine delle lenzuola? Qualcuno aveva lasciato quel giaciglio per non tornarvi mai più? Qualcuno che forse si aggirava non lontano? Si pretendeva che Gnoli fosse il pittore dello sguardo e io scoprivo il pittore dell’assenza.»]
Roba seria. Molto seria. Talmente seria da far pensare sia quasi impossibile trovare in un artista tanto rigoroso un segnale di allegria, umorismo, ironia. L’ombra di un sorriso.
Ero rimasto sorpreso, alcuni anni fa, nel trovare in vendita a un prezzo ragionevole l’edizione originale di un bel libro di grande formato, intitolato Orestes or the Art of Smiling by Domenico Gnoli, pubblicato da Simon and Schuster nel 1961.
Lo ordinai a scatola chiusa, non sapendo bene che cosa fosse (catalogo di una mostra? Libro illustrato? Raccolta di tavole incise?) e che cosa aspettarmi. Certamente, la copertina non rimandava affatto a un’atmosfera gaia:
(L’ IMMAGINE DEL COMMENTO E’ SOTTO )
un bel disegno a penna, ritoccato all’acquerello, con una mongolfiera (uno dei topoi dell’opera grafica di Gnoli) identificata da un cartiglio che riporta il numero 611 che sorvola una città rinascimentale, trasportando un giovane uomo ben vestito che, invece di guardare il panorama, sembra assorto in pensieri tutt’altro che lieti. Un seppia per il segno, un cilestrino e qualche tocco di paglierino a riempire, e il bianco della carta. Un segno fatto – sorprendentemente – di volute e tratteggi incrociati, fra il tardo Cinquecento e il primo Seicento, direi.
Il pacco viaggiò parecchio, il libro arrivò e si rivelò essere sontuoso e sconcertante: sul piano materiale, la sovraccoperta in carta naturale pesante (descritta sopra) celava una legatura con piatti in carta goffrata a imitazione della tela di lino e dorso in seta, con impressioni pastello al piatto e al dorso e un interno stampato con ogni possibile cura da Amilcare Pizzi, una delle glorie della buona stampa italiana, su una carta uso mano marcata; su quello artistico, una invenzione spiritosa che rivela in Gnoli una prodigiosa fantasia di illustratore che Vittorio Sgarbi definì a suo tempo “ariostesca”. Un libro che, in fondo, rivela un’anima segreta – e segretamente lieve – di un pittore che raramente sembra toccato dall’ironia, tutto teso, come scrivevo sopra, a “dare alle realtà quotidiane una forma misteriosa”.
Ma dal reale Gnoli dimostra di poter fuggire nella favola, scrivendo e illustrando Oreste, dove tornano tutti i temi più cari alla sua opera grafica, dal letto con i dieci materassi della principessa sul pisello, alle fantastiche architetture, alle gabbie vuote (che sono tantissime e stanno dappertutto: in cima a una collina o dentro un armadio aperto). E poi ci sono palchi di teatro affollati come le navi degli emigranti; un cavaliere romantico in bicicletta nella notte rischiarata dalla luna; uno straordinario campionario dei sorrisi che tappezzano come manifesti un’intera stanza; i teatrini imprevedibili in cui scorrono stravaganti avventure da affrontare con un sorriso, a volte coraggioso, a volte misterioso.
IMMAGINE SOPRA La storia è ambientata a Terramafiusa, una città murata descritta in antiporta da un disegno “a volo d’uccello”, analogo alla monumentale Venezia incisa nel 1500 da Jacopo de’ Barbari.
L’IMMAGINE COMMENTATA E’ SOTTO
E a ricordarci la passione dell’artista per il teatro, nella pagina iniziale ci vengono presentati i personaggi principali, posti sui rami di una pianta a metà strada fra l’albero delle vanità del Barone Rampante e l’albero di Jesse, fra due muri che fanno da quinte;sopra quello di destra si affaccia un personaggio che guarda: è Domenico Gnoli stesso, nell’unico ritratto di sé che ci abbia lasciato nella sua opera grafica.
Da qui si comincia a dipanare la storia di Oreste, il principe malinconico, divenuto sovrano del regno alla morte della nonna Palmira, bisbetica, dispotica e litigiosa, protagonista di rumorosissimi battibecchi con il suo consigliere, il pappagallo Lucien, che spaventavano a morte il piccolo Oreste, il quale trovava consolazione e conforto fuggendo nella foresta e ascoltando il canto degli uccelli.
La prima decisione di Oreste da sovrano è promulgare una legge che impone il silenzio in tutto il regno. Terramafiusa si trasforma nel paradiso del viaggiatore ferroviario dei nostri tempi: tutti parlano a bassa voce, la musica diffusa è proibita e l’unico suono ammesso è, appunto, il canto degli uccelli. Il pappagallo Lucien, reo di avere una voce sgraziata e sonora, viene relegato in una gabbia e lasciato lì a vegetare.
Ma, come in ogni favola che si rispetti, le cose non vanno sempre per il verso giusto: per rimettere le cose al loro posto serviranno gli interventi di Lucien e di Violante, una dama di compagnia segretamente innamorata di Oreste, che aiuteranno il principe malinconico a trovare il suo sorriso. In quale modo e dopo quali avventure ci riuscirà, lo taccio. Ricordo solo l’aggettivo “ariostesco” attribuito all’opera grafica di Gnoli ma riferibile anche, senza alcun dubbio, alla sua scrittura.
Vale, però, la pena fare una riflessione su un momento molto importante della vicenda narrata da Gnoli: una situazione che, con il senno di poi, potrebbe essere definita “preveggente” quando, invece, sono convinto che si trattasse nelle intenzioni dell’autore solo del desiderio di creare una situazione surreale e allo stesso tempo ridicola e disperata.
Il pappagallo Lucien, privato del suo importante incarico di consigliere, allontanato da Terramafiusa e imprigionato, grazie all’aiuto di Violante scava un tunnel segreto, ma, invece di cercare la libertà, dopo l’immane sforzo di scavo
( IMMAGINE SOTTO )
finisce per scegliere di spendere tutte le proprie risorse – cioè, le penne della sua coda, desiderate da un custode che sogna di diventare un capo pellerossa – per avere accesso al Padiglione delle Gioie Speciali, nel quale un untuoso imbonitore di nome Gaston si dà da fare per appagare il suo desiderio di sentirsi gratificato, amato, festeggiato. Una grottesca e farlocca fiera delle vanità che ricorda molto da vicino qualcosa di quotidiano per tutti noi.
A ventitré anni dalla pubblicazione, esce l’edizione italiana di questo libro illustrato, per i tipi del Saggiatore. La traduzione del testo, di Maria Baiocchi, è impeccabile. Più discutibile quella della forma del libro. La scelta del formato ridotto è comprensibile, anche se per il prezzo di copertina di 35 euro non è difficile trovare in libreria albi illustrati di grande formato; quel che fatico a comprendere è la scelta di un formato di proporzioni diverse dall’originale, che ha obbligato l’impaginatore a tagli delle immagini un po’ troppo arditi, con mutilazione di piedi e di becchi, taglio di cartigli, riduzione degli spazi marginali, producendo una generale sensazione di “costrizione”. Le leggi dell’economia della produzione libraria sono ferree, ma non ineludibili al punto da imporre il sacrificio delle caratteristiche originali dell’opera: una progettazione tecnica più attenta avrebbe risparmiato un fastidio a quei pochi che hanno avuto per le mani l’edizione originale ed evitato quella che credo sia una certa mancanza di rispetto per l’autore e un aspetto fondamentale della sua opera, sacrificato sull’altare dell’economia produttiva e forse anche dell’uniformità di caratteristiche di una collana. Il libro rimane bello e godibile e di questo difetto si accorgeranno in pochi. Ma è comunque un peccato.
<confronto Terramafiusa.jpg>, L’ORIGINALE E L’ATTUALE
Paolo Canton è nato e vive a Milano. Studia teoria economica alla Bocconi e si laurea con una tesi sul settore dell’editoria periodica. Inizia a lavorare nel 1985, alla Franco Maria Ricci Editore.
Nel 1997, insieme Giovanna Zoboli, fonda Calamus, una società di comunicazione tuttora attiva. Per la propria clientela, Calamus sviluppa progetti che coinvolgono diversi illustratori e realizza, insieme a Guido Scarabottolo, una collana di piccole strenne natalizie:I libri a naso.
Da questa esperienza, nel 2004 nasce la casa editrice Topipittori che a oggi ha 200 titoli in catalogo, alcuni dei quali tradotti in decine di lingue, e ne pubblica circa 20 all’anno. Nel novembre 2011 è stato nominato Chevalier dans l’Order des Arts et des Lettres dal ministero della Cultura francese. Insegna progettazione del libro alla Scuola internazionale di Illustrazione “Stepan Zavrel”, Storia del libro e dell’illustrazione e Metodologie di progettazione per la comunicazione visiva allo IED di Torino; e tiene regolarmente workshop alla HAW di Amburgo e alla FILJI di Città del Messico.
NOTA — wokkshop — in senso proprio = laboratorio, traslato: un gruppo di persone che si riunisce per lavorare insieme su temi specifici
Morire di classe (1969) da tempo non era più reperibile nelle librerie. Abbiamo deciso di ripubblicarlo ora, nella sua integrità, perché possa testimoniare alle nuove generazioni quale fosse la condizione dei malati mentali prima della rivoluzione di Franco Basaglia, di Franca Ongaro Basaglia e di tutte le donne e gli uomini che insieme a loro hanno operato per scardinare quel sistema. Un lavoro collettivo che ha segnato una svolta epocale nella gestione della salute mentale e ha portato all’approvazione della legge 180. (Alberta Basaglia, Luca Formenton)
Ringraziamo Elena Ceratti e Gianni Berengo Gardin per la collaborazione alla nuova edizione di questo libro «simbolo».
Franco Basaglia (Venezia, 1924-1980) è stato uno psichiatra e neurologo italiano, principale promotore della riforma psichiatrica in Italia, divenuta legge nel 1978. Il Saggiatore ha pubblicatoScritti (2023) e Morire di classe (curato insieme a Franca Ongaro Basaglia, con le fotografie di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin; 2024).
Conferenze brasiliane raccoglie gli interventi tenuti da Franco Basaglia in Brasile l’anno prima della sua scomparsa. In questa sorta di testamento intellettuale, Basaglia riflette pubblicamente sul significato complessivo dell’impresa che ha attraversato la sua vita, discute le proprie idee e il proprio approccio alla malattia mentale e analizza retrospettivamente i passaggi che hanno portato alla riforma del sistema di cura psichiatrica.
Quando, tra il giugno e il novembre del 1979, Franco Basaglia si reca a San Paolo, Rio de Janeiro e Belo Horizonteper dialogare con studenti, professori, medici, psicoterapeuti e sindacalisti, la realtà che lo circonda è in una fase di grande mutamento: il mondo è ancora diviso in blocchi, ma l’onda degli anni sessanta ha già prodotto trasformazioni storiche significative, tra cui, in Italia, l’introduzione del divorzio, la regolamentazione dell’aborto, l’istituzione del Servizio sanitario nazionale e l’approvazione della «legge 180», che ha chiuso gli ospedali psichiatrici e istituito i servizi di salute mentale. In questi incontri il medico parla di una società che deve imparare a prendersi cura di ciascuna persona e di una psichiatria che deve uscire dagli ospedali ed entrare nella vita delle persone, per «essere nel mondo» concretamente. Nel confronto complice e critico con il pubblico, Basaglia illustra come il cambiamento debba iniziare da ognuno di noi: come sia necessario affrontare la contraddizione dei rapporti con l’altro, dare valenza positiva al conflitto, alla crisi, all’indebolirsi dei ruoli e delle identità; perché solo così le difficoltà potranno diventare occasioni di crescita per se stessi e per la società.
Le parole di Basaglia sono un appello che giunge intatto anche a noi. Questo libro non rappresenta infatti solo una testimonianza storica, ma è un invito a riscoprire un pensiero che sfida ancora oggi le convenzioni e i soprusi, spingendoci a costruire un mondo più giusto e inclusivo.
La testimonianza di Lee Mordecai è eroica. Non credo che sia facile testimoniare in questo modo la realtà del suo Paese, in mezzo ad un’opinione pubblica a maggioranza favorevole all’annientamento dei Palestinesi. Ha scelto di non stare in silenzio, atteggiamento che hanno invece le “nostre” democrazie occidentali, con i loro presunti valori. L’Europa, sorta dalle tragedie immani di due guerre mondiali, non osa dire una parola, agendo in modo totalmente opposto ai suoi famosi principi, che si possono riassumere in ” mi parli no”. Che vergogna!
DONATELLA ( Commento )
LEE MORDECHAI Professore associato presso @HebrewU; si occupa di storia bizantina, storia ambientale, la peste giustinianea e l’evento del 536. Le opinioni sono personali. ( traduz. Google)
nota: Hebrew University @HebrewUlink X
La principale istituzione accademica e di ricerca israeliana, al servizio di 25.000 studenti provenienti da 90 paesi ( traduz. google dal link X)
DAL SUO X —
*** IL DOCUM, IN INGLESE, SE AVETE LA TRADUZ. AUTOMATICA…
È possibile leggere il documento completo qui sopra (alcune parti sono aggiornate al periodo giugno 2024-marzo 2025) oppure concentrarsi su uno qualsiasi dei capitoli seguenti per approfondire argomenti specifici.
Io, Lee Mordechai, storico di professione e cittadino israeliano, testimonio in questo documento della situazione a Gaza mentre si stanno svolgendo gli eventi. L’enorme quantità di prove che ho visto, molte delle quali sono citate più avanti in questo documento, mi è stata sufficiente per credere che Israele stia commettendo un genocidio contro la popolazione palestinese a Gaza. Spiego di seguito perché ho scelto di usare questo termine. La campagna di Israele è apparentemente la sua reazione al massacro di Hamas del 7 ottobre 2023, in cui crimini di guerra e crimini contro l’umanità sono stati commessi nel contesto del lungo conflitto tra israeliani e palestinesi, risalente al 1917 o al 1948 (o ad altre date). In ogni caso, le lamentele e le atrocità storiche non giustificano ulteriori atrocità nel presente. Pertanto, considero la risposta di Israele alle azioni di Hamas del 7 ottobre del tutto sproporzionata e criminale.
I paragrafi di questo riassunto contengono il riassunto di sezioni molto più lunghe, un paragrafo per ciascuna sezione. Ogni sezione include da decine a centinaia di riferimenti che portano alle prove a supporto su cui baso la mia valutazione. Questa versione del documento amplia notevolmente la versione precedente del 18 giugno 2024 , aggiungendo molti contenuti e prove alle sezioni esistenti, aggiungendo nuove sezioni (un’appendice sulla metodologia e un focus sulla campagna di ottobre-novembre 2024 nel nord di Gaza) e rispondendo alla discussione da essa avviata. Data l’enorme quantità di materiale e l’espansione della guerra, in questa versione passo dall’aggiornamento dell’intero documento a un modello che aggiorna le sezioni separatamente, a partire dall’inizio.
Nell’ultimo anno, Israele ha ripetutamente massacrato i palestinesi a Gaza, uccidendone oltre 44.000 – di cui almeno il 60% donne, bambini e anziani – al momento in cui scrivo. Almeno centomila altri sono rimasti feriti e più di 10.000 risultano ancora dispersi. Esistono ampie prove degli attacchi indiscriminati e sproporzionati di Israele durante la guerra, così come numerosi esempi di massacri e altre uccisioni. Molte istituzioni internazionali hanno duramente criticato la condotta bellica di Israele.
Israele ha attivamente tentato di causare la morte della popolazione civile di Gaza. Israele ha creato la carestia a Gaza come politica di fatto e l’ha usata come arma di guerra, causando la morte accertata di decine di civili (principalmente bambini) per fame. Israele ha creato carenze di acqua, medicine ed elettricità. Israele ha anche smantellato il sistema sanitario e le infrastrutture civili di Gaza. Di conseguenza, un numero maggiore di persone muore per patologie curabili e procedure mediche difficili come amputazioni e cesarei vengono eseguite senza anestesia. Il tasso di mortalità complessivo a Gaza è sconosciuto, ma è quasi certamente molto più alto del bilancio ufficiale delle vittime.
Il discorso israeliano ha disumanizzato i palestinesi a tal punto che la stragrande maggioranza degli ebrei israeliani sostiene le misure sopra menzionate . La disumanizzazione è stata guidata dai più alti funzionari statali israeliani e continua a essere sostenuta attraverso le infrastrutture statali e l’esercito. La disumanizzazione è ampiamente diffusa anche nella società civile più ampia. Parlare dei palestinesi con un linguaggio genocida è legittimo nel discorso israeliano. La disumanizzazione si traduce in abusi e violenze diffuse nei confronti dei palestinesi detenuti e dei civili di Gaza e delle loro proprietà, il tutto con conseguenze pressoché nulle. La stragrande maggioranza dei contenuti disumanizzanti è condivisa dagli stessi israeliani ed è confermata dalle testimonianze palestinesi delle loro esperienze.
Le prove che ho visto e discusso indicano che uno degli obiettivi più probabili di Israele è la pulizia etnica della Striscia di Gaza, parziale o totale, allontanando il maggior numero possibile di palestinesi. Membri chiave del governo israeliano hanno rilasciato dichiarazioni a conferma di questa intenzione, e diversi ministeri israeliani hanno pianificato o lavorato per facilitare tale obiettivo, talvolta persuadendo o facendo pressione su altri stati. Israele ha già bonificato parti significative della Striscia di Gaza con demolizioni e sgomberi, tentando anche di distruggere il tessuto della società palestinese prendendo di mira deliberatamente istituzioni civili come università, biblioteche, archivi, edifici religiosi, siti storici, fattorie, scuole, cimiteri, musei e mercati. Finora oltre il 60% degli edifici nella Striscia di Gaza è stato distrutto o danneggiato.
Uno degli scopi della guerra, secondo il governo israeliano, è il rilascio degli ostaggi, circa 101 dei quali rimangono prigionieri di Hamas. Le prove dimostrano che, rispetto alla pulizia etnica, questa non è una priorità per il governo israeliano. Ad oggi Israele ha rilasciato sette ostaggi attraverso operazioni militari, uccidendone molti altri direttamente o indirettamente attraverso le sue azioni. Inoltre, ci sono numerose prove che Israele abbia bloccato i negoziati per il rilascio degli ostaggi o abbia tentato di ostacolarli in numerose occasioni. Membri del governo israeliano hanno anche attaccato le famiglie degli ostaggi e i loro collaboratori hanno tentato di impedire loro di esprimersi politicamente.
L’attenzione globale su Gaza, e talvolta su Libano, Iran e Siria, ha distolto l’attenzione dalla Cisgiordania. Lì, le operazioni israeliane, condotte attraverso i suoi militari o i suoi coloni dall’inizio della guerra, hanno portato all’uccisione di oltre 700 palestinesi, alla pulizia etnica di almeno 20 comunità locali, nonché a un forte aumento dei livelli di violenza, abusi e umiliazioni nei confronti dei palestinesi da parte sia dello Stato israeliano che dei coloni ebrei.
Tutto quanto sopra è stato reso possibile grazie al forte sostegno della maggior parte dei media mainstream in Israele e in Occidente, principalmente negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Germania. Fin dall’inizio della guerra, Israele ha condotto una campagna informativa che ha enfatizzato gli orrori degli attacchi del 7 ottobre con affermazioni fattuali sia affidabili che inaffidabili, flussi di informazioni limitati da Gaza, voci critiche screditate al di fuori di Israele e un dibattito interno limitato per mobilitare l’opinione pubblica israeliana intorno alla guerra. Di conseguenza, i media e il dibattito israeliani rimangono prevalentemente e acriticamente a favore della guerra, con molte istituzioni e individui che si autocensurano. I media mainstream negli Stati Uniti condividono gran parte di questo approccio. Indagini approfondite sulla campagna diffamatoria israeliana contro l’UNRWA e sui persistenti dubbi sul numero delle vittime palestinesi rivelano che entrambi i casi sono propaganda infondata. Tutto quanto sopra normalizza la violenza e le azioni israeliane presentandole come legittime, distoglie l’attenzione dalla realtà di Gaza e contribuisce alla disumanizzazione dei palestinesi.
Il sostegno pressoché totale degli Stati Uniti è stato fondamentale per la condotta della guerra da parte di Israele. Questo sostegno si è concretizzato in aiuti militari, dispiegamento di risorse militari e di altro tipo, supporto diplomatico ferreo, soprattutto presso le Nazioni Unite, e svincolando Israele dai meccanismi di controllo e di seria responsabilità statunitensi. Nonostante una retorica a volte critica, di fatto gli Stati Uniti hanno fornito a Israele un sostegno senza precedenti. I dissidenti negli Stati Uniti – sia dipendenti pubblici che gruppi consistenti della società americana – hanno avuto poca o nessuna influenza sulla politica statunitense.
Esamino eventi più specifici in tre sezioni approfondite come casi di studio di molti dei temi descritti sopra:
Il secondo raid all’ospedale al-Shifa a fine marzo 2024
Le proteste studentesche negli Stati Uniti nell’aprile e nel maggio 2024
L’operazione militare nella Striscia di Gaza settentrionale nell’ottobre e novembre 2024 (in corso)
Le prove che ho visto e che descrivo di seguito mi sono state sufficienti per credere che ciò che Israele sta attualmente facendo alla popolazione palestinese di Gaza sia coerente con la definizione di genocidio così come la intendo io. Nelle due appendici del documento, spiego le mie motivazioni per l’utilizzo di questo termine e discuto la mia metodologia.
Lee Mordechai: «Un archivio del genocidio contro l’oscuramento»
Israele-Palestina Intervista allo storico israeliano, autore di un resoconto dettagliato, a partire dal gennaio 2024, delle pratiche militari israeliane e dei loro effetti: «Molti oggi in Israele e nel mondo non vedono i palestinesi come esseri umani. Questo ha reso legittima l’idea che dalle parole si possa passare ai fatti»
Bambini palestinesi rincorrono un camion di aiuti a Gaza – Ap/Jehad Alshrafi
«Molti oggi in Israele e nel mondo, anche in Europa, non vedono i palestinesi come esseri umani a pieno titolo, con diritti, speranze, sogni, affetti. Questo pensiero diffuso incoraggia alcuni israeliani ad agire in modi profondamente immorali. Non so in che misura la disumanizzazione dei palestinesi si traduca in atti concreti, ma il punto chiave è che ha reso legittima l’idea che dalle parole si possa passare ai fatti».
A PARLARE COSÌ è Lee Mordechai, storico israeliano che insegna all’Università di Gerusalemme. Dal gennaio 2024, approfittando di un periodo sabbatico trascorso all’Università di Princeton, ha dedicato buona parte del suo lavoro a stendere un resoconto dettagliato e continuamente aggiornato dei metodi e degli effetti della guerra di Israele a Gaza. Bearing Witness to the Israel-Gaza War( Testimoninaza della guerra tra Israele e Gaza )– il titolo del documento – è un rapporto tecnico, quasi un “verbale” dell’orrore che si sta consumando nella Striscia.
Documenta, sulla base di un ricchissimo apparato di fonti – filmati, testimonianze dirette, resoconti di soggetti terzi come le agenzie umanitarie: «tutte fonti verificate», sottolinea Mordechai -, uccisioni, distruzioni, atti di crudeltà gratuita compiuti dalle forze militari israeliane a Gaza e anche in Cisgiordania,
e descrive la marea montante di «parole pubbliche» che nutre questa violenza dilagante:
dal gruppo di medici israeliani che inneggia ai bombardamenti sugli ospedali di Gaza a un drone che imita il pianto di un neonato per attirare persone da colpire, dai 127mila follower ( coloro che seguono un sito sui media ) che condividono l’immagine di un bambino di Gaza con paralisi cerebrale morto di fame rappresentata come sequel del film E.T., a un rabbino della città santa ebraica di Tsefat che indica nei gazawi la personificazione di Amalek, simbolo nella Torah di ogni malvagità, e ne invoca l’annientamento.
«Ho voluto raccontare i fatti da ‘cronista’ – così Mordechai – usando le mie competenze di storico e adottando un linguaggio non emotivo, ma questo lavoro nasce da una spinta civile e politica: è per me una forma d’impegno sul tema dei diritti umani ed è anche una dichiarazione di amore verso il mio paese».
Che nomi dare al modo in cui Israele sta conducendo la guerra a Gaza? Mordechai rinuncia al distacco da storico, per lui è un immane crimine di guerra: «Le azioni condotte da Israele nella Striscia – scrive nel rapporto – soddisfano le condizioni che in base alla Convenzione di Ginevra identificano i reati di genocidio, pulizia etnica, punizione collettiva».
ISRAELE, documentano le pagine di Bearing Witness, persegue nei fatti e nelle intenzioni un progetto di eliminazione dei palestinesi dalla Striscia in quanto gruppo etnico e usa sistematicamente come arma di punizione collettiva contro un intero popolo il controllo sui flussi di cibo, medicine, elettricità verso Gaza. In meno di un anno e mezzo di guerra le persone uccise a Gaza sono state almeno 50 mila: di queste, per ammissione anche di funzionari pubblici israeliani, almeno due terzi erano civili (7mila bambini).
Questa strage di civili non ha uguali nelle guerre di questo secolo. Particolarmente devastante è stata l’opera di smantellamento delle infrastrutture sanitarie, con centinaia di interventi chirurgici e parti cesarei avvenuti in condizioni del tutto disumane e di altissimo rischio senza elettricità né possibilità di anestesia.
Dialogando con Lee Mordechai e scorrendo il suo rapporto, si capisce che ha scelto di impegnarsi in questo lavoro perché ritiene che la copertura della guerra di Gaza da parte dei media israeliani e occidentali sia in buona misura parte inaffidabile e incompleta: «Vi sono eccezioni, ma in generale quasi tutti i media, anche quelli apparentemente critici nei confronti del governo Netanyahu, hanno offerto un racconto ‘normalizzato’ di questa guerra e dei modi criminali in cui viene condotta. In Israele i media hanno del tutto oscurato la tragica crisi umanitaria creatasi a Gaza».
MORDECHAI VEDE nella guerra di Israele a Gaza il segno di una degenerazione profonda dello Stato e della società israeliane:
«Israele non è mai stata un esempio di democrazia e società aperta, la popolazione ebraica gode da sempre di maggiori diritti rispetto agli israeliani palestinesi. Ma ora è molto peggio. Nel 2000 mi arruolai nell’Idf, l’esercito israeliano: si combatteva contro nemici palestinesi, erano gli anni della seconda Intifada, ma i comportamenti disumani di molti soldati nella guerra attuale allora sarebbero stati impensabili. Un’analoga incapacità di discernere tra bene e male contagia tutta la società israeliana: oggi oltre il 60% degli ebrei israeliani si oppone agli aiuti umanitari a Gaza».
Non ha o comunque non dà risposte su quali siano le radici storiche e culturali di questo processo di “imbarbarimento”: «So che alcuni vedono le premesse di quanto sta accadendo nella stessa idea sionista. Ma cos’è il sionismo? È un termine troppo vago e indefinito: quasi nulla collega il sionismo dei coloni della Cisgiordania con quello degli ebrei della diaspora o dei ‘liberal’ israeliani. Per questo nel mio rapporto non uso mai né questa né altre parole con significati controversi: sionismo, antisemitismo».
Sul futuro Mordechai non è ottimista. Chiediamo della soluzione dei due Stati o quella di un unico Stato binazionale: «Non so. Oggi sembrano più vicine altre prospettive: la cacciata dei palestinesi dal fiume Giordano al mar Mediterraneo o il consolidamento in Israele di un sistema di apartheid. Io vorrei che qualunque fosse l’esito di questi ottant’anni di guerra, si basi su valori di eguaglianza e giustizia. Ma è un traguardo lontanissimo, sia politicamente e sia perché nel mio paese è sempre più forte l’idea di supremazia ebraica».