Un disegno-murales dello storico artista Cagliaritano “Foiso Fois”, a cui è stato titolato il maggiore Liceo Artistico isolano dove ha insegnato, è inciso direttamente nel muro, si trova a Sinnai nella vecchia scuola elementare di via Eleonora d’Arborea. Attualmente il plesso ospita gli ambulatori dell’ASL.
In questo momento è transennato, i cornicioni e parte della struttura sono pericolanti ed il murales, in parte si sta rovinando.
Incredibilmente, sembra che nessuno si stia rendendo conto a Sinnai della gravità della situazione, una comunità determina la sua storia e la sua cultura se sa coltivare la sua specificità artistica, il murales/incisione nell’ambito della produzione artistica di Foiso Fois è unico nel suo genere.
Si tratta di un lavoro risalente al 1964, inno al lavoro nei campi e la sua convivenza “umanistica” con l’industrializzazione e l’urbanizzazione , il pezzo è titolato dallo stesso Fois “La Rinascita”, tre anni dopo sarebbe nato il Liceo Artistico e Musicale titolato a lui a Cagliari, non cancelliamo la Storia dell’Arte Isolana per non curanza, salviamo e preserviamo la memoria di un lavoro irripetibile del Maestro.
Io t’ho incontrata a Napoli è la versione italiana, della canzone Somewhere in via Roma, composta dal musicista statunitense Hoagy Carmichael con testo inglese di John Forte e le rime italiane di C. Deani e M. Rivi.
Composta a Napoli, dal compositore Hoagy Carmichael, durante la sua permanenza nella città al seguito delle truppe americane come organizzatore di spettacoli per i militari, con il testo in inglese di John Forte e il testo italiano di Deani e Rivi. La canzone venne lanciata grazie al film di Mario Mattoli “La vita ricomincia”: qui Alida Valli la canta in una famosa scena al ristorante e, poi, all’inizio del 1946 dal cantante Armando Broglia raggiungendo un grande successo anche attraverso la radio. Poco dopo venne prodotto il film omonimo diretto da Pietro Francisci.
L’incontro in via Roma a Napolidi un ufficiale americano e Angelina una aspirante attrice, i due si innamorano, poi il militare dovrà partire per la guerra, non ancora finita, ma tornerà e i due si sposeranno.
qualche foto di ::: VIA ROMA / VIA TOLEDO
«Dopo cena ho passeggiato per un’ora in via Toledo.
Folle di gente, si può a malapena distinguerla da Broadway»
Come molti viaggiatori del tempo, Melville scelse l’Italia, e tra il 18 e il 24 febbraio del 1857 fu a Napoli. In quei pochi giorni visitò tantissimo, compresi gli scavi di Pompei e il Vesuvio. Napoli gli fece una grande impressione, riportata poi nel suo diario di viaggio e riflessa in molte opere degli anni successivi.
POLIDORO ALESSANDRO EDITORE
Tra queste opere ce n’è una interamente dedicata alla città: Napoli al tempo di Re Bomba, un poema in versi in cui Jack Gentian, vecchio marinaio e alter ego dello scrittore, noleggia appunto un landò e, come aveva fatto Herman Melville stesso, si avventura fra i rumori, i lazzi, i saltimbanchi e la confusione delle vie napoletane.
Il 15 maggio 1848 la via fu teatro della repressione messa in atto da Ferdinando II contro i liberali napoletani che difendevano la costituzione da poco ottenuta; vi furono innalzate barricate espugnate dai reparti di mercenari svizzeri dell’esercito con numerosi morti e il successivo saccheggio di Palazzo Cirella.
Dal 18 ottobre del 1870 al 1980 la strada si è chiamata Via Roma ( Sindaco Imbriani ) In città si diffuse una strofetta che recitava: «Nu ritto antico, e ‘o proverbio se noma, rice: tutte ‘e vie menano a Roma; Imbriani, ‘a toja è molto diversa, non mena a Roma ma mena a Aversa» (ad Aversa si trovava infatti la prima struttura manicomiale in Italia, la Real Casa dei matti aperta nel 1813).
da Wikipedia
La linea in cui è stata tracciata questa strada corrisponde esattamente alla meridiana di Napoli, sicché a mezzogiorno si pone in perfetta congiunzione col sole, e risulta totalmente illuminata dai raggi solari.
PALAZZO CIRELLA — VIA TOLEDO 228 ( fine ‘700 )
Appartenne alla famiglia nobiliare dei Catalano Gonzaga, che possedeva il titolo nobiliare di Duchi di Cirella.
L’immobile ha importanza soprattutto dal punto di vista storico, in quanto davanti all’edificio i rivoltosi del 1848 vi eressero le barricate; gli stessi proprietari del palazzo dell’epoca, di idee liberali, presero parte ai moti ed il fratello delDuca Catalano Gonzaga venne condannato a morte in contumacia.
Il palazzo presenta un bel cortile con un fondale di ispirazione vanvitelliana, in cui trovano posto una nicchia ornata con una scultura di epoca tardo-manierista ed uno scalone
La Galleria Umberto I è stata, è lo è ancora tutt’oggi, uno dei centri del commercio napoletano più fiorenti. La sua costruzione, avvenuta tra il 1887 e il 1890, sorge su vicoletti che un tempo collegavano la via principale a Castel Nuovo: si trattava di vicoli malfamati e poco curati igienicamente; furono infatti le numerose epidemie napoletane, ben nove nella sola zona interessata, tra il 1835 e il 1884 a spingere i governati a realizzare un piano di risanamento che includeva appunto la realizzazione della Galleria. L’edificio, che ha il suo ingresso principale su via San Carlo, ha altri tre ingressi: da via Toledo, via Santa Brigida e via Verdi. Oltre alle meravigliose sculture e ai splendidi motivi architettonici che ne compongono le diverse facciate esterne e le altrettante strutture interne, quello che maggiormente cattura lo sguardo del visitatore è, senza dubbio alcuno, l’incanto della volta in ferro e vetro progettata da Paolo Boubée. La copertura in vetro è, però, stata completamente ricostruita in seguito alla totale distruzione dovuta alla Seconda Guerra Mondiale, così come anche il pavimento in mosaico raffigurante i venti e i segni dello zodiaco, ad opera della ditta Padoan di Venezia.
La Galleria, inaugurata nel novembre del 1890, nasconde però un edificio segreto: il Salone Margherita. Questo ambiente, per idea dei fratelli Marino di Napoli, sorse sulla scìa dei café chantant francesi, tant’è che i menù erano scritti in lingua francese, i camerieri si esprimevano in lingua francese, gli ospiti conversavano in lingua francese, i contratti degli artisti erano scritti in lingua francese. Il Salone Margherita, inaugurato il 15 Novembre 1890, chiuso poi nel 1982, è stato di recente riaperto per opsitare mostre, spettacoli, e serate di tango. Quello che è stato considerato a lungo simbolo della belle époque non era, però, l’unico salone presente sul territorio (Vi era un salone proprio nel Palazzo Berio di Toledo, per intenderci il palazzo accanto alla funicolare centrale, la cui realizzazione ha comportato la demolizione di parte del Palazzo Berio), ma era l’unico in Italia a presentare spettacoli con ballerine di Can Can. Tra gli ospiti Matilde Serao, Edoardo Scarfoglio, Gabriele D’Annunzio, Salvatore di Giacomo, Ferdinando Russo; e non sono pochi coloro i quali hanno consacrato qui la loro carriera, proprio come Raffaele Viviani. Teatro non solo di spettacoli di finzione, ma anche di scongiurate tragedie: Lucy Nanon scampata alla morte per mano del cammorrista Raffaele Di Pasquale, al quale la Chantheuse non si concesse.
Salone Margherita
Una sosta doverosa, in via Toledo, è al Palazzo Zevallos. Questo edificio fu costruito tra il 1637 e il 1639 da Cosimo Fanzago su commissione della famiglia fiamminga Zevallos. Successivamente il fabbricato divenne di proprietà della famiglia Colonna di Stigliano, e più stemmi ne testimoniano il passaggio. Intorno al 1850, a causa di dissidi interni alla famiglia, il palazzo venne smembrato e i diversi appartamenti fittati a famiglie nobili di origini diverse. Soltanto nel 1920 l’immobile tornò ad essere un unico palazzo di proprietà della Banca Commerciale Italiana.
La doverosa sosta, oltre che dalla storia del palazzo, è dettata soprattutto dalla presenza di opere di straordinario ingengo e sublime bellezza: Gaspar Van Wittel, Anton Sminck Van Pitloo, ma soprattutto l’ultimo Merisi “Martirio di Sant’Orsola” (1610).
Caravaggio – Martirio di Sant’Orsola (1610)
Sempre in via Toledo, ma all’altezza di piazza della Carità si trova il Palazzo della Porta, che conserva ancora lo stemma di famiglia, come fosse una chiave di volta. Il palazzo, voluto da Francesco della Porta su di un terreno cedutogli, per ventiquattro ducati, nel 1546 dai monaci di Monteoliveto, fu completato soltanto nel 1569, oramai di proprietà di Giambattista della Porta, figlio di Francesco.
Palazzo della Porta
La seconda interruzione alla principale via, quella di Toledo, è piazza Sette Settembre, già Largo dello Spirito Santo (ivi vi è l’omonima Chiesa). Il Bivio tra via Toledo e via Sant’Anna dei Lombardi è regolato dal Palazzo Doria D’Angri. Fu eretto su commissione di Marcantonio Doria demolendo i due edifici di sua proprietà preesistenti. I lavori cominciarono nel 1760, anno della sua scomparsa, e quindi sotto la guida del figlio, oramai erede, Giovanni Carlo. Egli commissionò l’opera all’architetto Luigi Vanvitelli, alla cui morte, seguirono il figlio Carlo, Ferdinando Fuga e Mario Gioffredo. Il portale principale è quello su via Sette Settembre; il portale laterale su via Toledo fu progettato (da Gaetano Buonocore) ma mai realizzato; piuttosto ci fu un secondo portale, sul lato posteriore, a confine con il Palazzo Carafa di Maddaloni. L’edificio (tra lo stile tardobarocco e neoclassico), in parte distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale (singolare è la distruzione della facciata anteriore: in particolare lo stemma di famiglia, di cui non è rimasto che un pezzo di ghirlanda, e due delle otto statue originarie), divenne ancor più illustre per il passaggio di Giuseppe Garibaldi proprio il 7 settembre 1860 (da cui prende nome la piazza). Il capo dei Mille, affacciandosi proprio dal balcone del palazzo Doria, annunciò l’annessione del regno delle due Sicilie a quello d’Italia.
Palazzo Doria d’Angri
Non si può concludere questa gradevole passeggiata senza, però, visitare quello che si nasconde dietro via Toledo: i caratteristici Quartieri Spagnoli, l’anima di Montecalvario. Questi quartieri, realizzati per ordine di Don Pedro de Toledo, si compongono di un preciso impianto geometrico di caseggiati (a contrario di quanto si crede i Quartieri sono una tra le poche zone di Napoli più ordinate urbanisticamente), i quali, intersecati ad angolo retto, erano adibiti a stanze per i soldati spagnoli, di ruolo nella città, per sedare le possibili rivolte del popolo, in continuo e strabiliante incremento, contro il Regno spagnolo.
Griglia dei Quartieri Spagnoli
Nessuno spazio è sprecato, per questa gente numerosa e povera; è così che è nato il basso, tipica abitazione napoletana, ed in particolare di questazona (uno dei primi a parlare dei bassi sarà il grande Boccaccio con la Novella di Andreuccio da Perugia). L’economia di questi vicoli è stata, nel tempo, piuttosto variopinta: il popolo napoletano è un popolo che si sveglia presto, per nulla ozioso, anzi non dorme mai. Anche Goethe nel suo Viaggio in Italia parla della laboriosità napoletana, in cui ognuno, per sopravvivere, s’inventa un mestiere, da quello più onesto a quello disonesto. E così in passato via Toledo e i suoi vicoli sono stati percorsi da acquavitari, spazzaturai, ma anche usuraie e malviventi, e ancora da acquaiuolo, mozzonaro (raccoglitore di cicche) e lustrascarpe (ne è rimasto ancora uno, proprio in via Toledo, il Signor Tony) a ladri e imbroglioni.
Il lustrascarpe Tony
In ognuno di questi vicoli si può trovare qualcosa di caratterstico come potrebbe esserlo una trattoria, ad esempio la famosissima Nennella, in cui si mangia bene spendendo poco, o ancora piccole chiese in cui si va per chiedere grazie.
Un caso particolarmente interessante è il Santuario di Santa Maria Francesca nel vicolo Tre Re a Toledo. La Santa, nata intorno al 1715, è detta anche delle cinque piaghe perché durante il periodo pasquale riportava gli stessi segni della Passione di Gesù. Si narrà che Santa Maria Francesca, monaca di casa, e non di convento, fosse protettrice delle partorienti(ancora oggi da ogni dove ivi si recano donne per chiederle sia possibilità alte di concepimento, sia buona salute e prosperità per i futuri nascituri: questo rituale prevede l’adagiarsi della donna sulla poltrona della Santa) poiché spesso aveva visioni, per lo più oniriche, di Gesù, sempre in forma di bambino.
Poltrona di Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe
A questo punto, dopo la presente lettura, non vi resta che scendere di casa, con i mezzi pubblici di cui la città dispone (di recente è stata inaugurata la fermata Via Toledo della Linea 1 della Metropolitana), per assaporare i colori di ogni vicolo, le sfumature di ogni angolo, gli odori di bar, pasticcerie e trattorie addentando, magari tra una sfogliatella di Pintauro e un cioccolatino di Gay-Odin, anche un po’ di energia e vivacità tipiche dell’anima partenopea. Ed ora buona passeggiata a tutti!
LA STAZIONE METROPOLITANA DI TOLEDO vince in Svizzera il premio internazionale ITA -22/ 11/ 2015
Alessandro Barbero descrive uno degli episodi per cui nel corso del tempo si è sviluppato un certo odio tra Ucraina e Russia: la memoria della carestia e oppressione di Stalin da una parte e la memoria del nazifascismo ucraino dall’altra.
Un nuovo inaspettato sviluppo militare torna a stravolgere i delicati equilibri del Medio Oriente in fiamme: forze jihadiste filo-turche sono entrate senza colpo ferire ad Aleppo, la metropoli nel nord della Siria, patrimonio mondiale Unesco, a lungo contesa nel contesto della guerra siriana ma per gli ultimi otto anni rimasta saldamente in mano alle forze governative, sostenute da Russia e Iran.
Proprio Mosca, accusata da più parti di non essere andata sufficientemente in soccorso del suo alleato siriano, ha condannato l’offensiva dei miliziani filo-turchi, definendola una “minaccia alla sovranità della Siria”. Le autorità di Damasco, ha detto il Cremlino, devono ristabilire l’ordine nell’area
l ministero degli Esteri iraniano ha ribadito il suo “continuo sostegno” alla Siria mentre è in corso l’offensiva contro Aleppo da parte delle forze che si oppongono al regime di Bashar Al Assad.
René Magritte, L’ami intime (1958; olio su tela, 72,6 x 64,9 cm)
L’ami intime, presentato in occasione del centenario del Manifesto surrealista di André Breton del 1924, venne messo all’asta per la prima volta nel 1980.
L’opera ritrae l’enigmatico uomo con il cappello a bombetta noto anche come “l’uomo qualunque”. Proveniente dalla Collezione Gilbert e Lena Kaplan, il dipinto è stato esposto per l’ultima volta a Bruxelles presso i Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique nel 1998. La figura dell’uomo con la bombetta fece la sua prima apparizione nel dipintoLes rêveries du promeneur solitaire del 1926, diventando simbolo del borghese, delle masse anonime e senza volto, del lavoratore quotidiano e del vagabondo solitario.
In L’ami intime, l’uomo con la bombetta è raffigurato di spalle, come una silhouette, mentre guarda fuori dalla finestra verso un sereno paesaggio montano e un cielo nuvoloso. La scena assume un risvolto surreale con la presenza di una baguette e un bicchiere di vino che fluttuano misteriosamente a mezz’aria dietro le spalle dell’uomo, che sembra ignorare la scena, aggiungendo un elemento di straniamento e incertezza al dipinto.
Olivier Camu, specialista di Christie’s, ha sottolineato l’importanza di questa opera, definendola “una delle più potenti e impressionanti tra le poche immagini iconiche rimaste in mani private“. Magritte, tra tutti gli artisti surrealisti, è uno dei più ricercati a livello internazionale e L’ami intime appartiene a una delle serie di dipinti più emblematiche dell’artista.
VENDITA A NOVEMBRE 2024 DI UN ALTRO QUADRO DI MAGRITTE :
” L’IMPERO DELLE LUCI “
” L’Impero delle Luci “, 1954 – René Magritte — ci sono varie versioni del dipinto
“L’impero delle luci” venduto alla cifra record di 121,2 milioni di dollari
René Magritte, celebre pittore belga e maestro del Surrealismo, ha raggiunto un traguardo storico. L’ opera “L’empire des lumières” (L’impero delle luci) del 1954 è stata venduta all’asta da Christie’s a New York per 121,2 milioni di dollari, stabilendo un nuovo record per l’artista e diventando la più costosa opera surrealista mai battuta all’asta. La vendita, avvenuta il 19 novembre, ha reso Magritte il 16° artista della storia a superare la soglia dei 100 milioni di dollari, secondo Artprice, società di analisi del mercato artistico. Il dipinto, un olio su tela di 146 x 114 cm, raffigura un paesaggio surreale con una strada deserta immersa nell’oscurità della notte sotto un cielo diurno.
L’opera proveniva dalla collezione privata di Mica Ertegun, interior designer americana scomparsa nel 2023, e aveva una stima iniziale di 95 milioni di dollari. Dopo un’intensa gara tra due offerenti telefonici, il martelletto è calato su un’offerta di 105 milioni di dollari, che con le commissioni ha raggiunto l’eccezionale cifra finale. La tela di Magritte supera il precedente record stabilito nel marzo 2022, quando una versione del 1961 di L’empire des lumières fu venduta da Sotheby’s a Londra per 79,8 milioni di dollari, circa 86,7 milioni di dollari al netto dell’inflazione. L’opera di Christie’s, più grande e complessa, apparteneva alla serie che Magritte sviluppò nel corso di 15 anni, esplorando variazioni sul tema del contrasto tra luce e oscurità.
Secondo Imogen Kerr, esperta di arte surrealista, “ogni iterazione della serie è unica. Alcune sono verticali, altre orizzontali; in alcune la casa è arretrata, in altre occupa il primo piano. Ma tutte condividono quella qualità di luce che rende questi dipinti straordinari.” L’empire des lumières fu creato da Magritte in occasione della Biennale di Venezia del 1954, dedicata al 30° anniversario del Surrealismo. La mostra celebrò il movimento con una retrospettiva delle opere di Magritte, che attirò più di 170.000 visitatori e consolidò la posizione dell’artista come figura di spicco del XX secolo. Alla Biennale, l’opera suscitò un enorme interesse, tanto che Magritte si trovò costretto a prometterla a più di un acquirente. Alla fine, PeggyGuggenheim acquistò il dipinto per 1.000.000 di lire. Per soddisfare gli altri collezionisti, l’artista realizzò ulteriori versioni, ognuna con caratteristiche distintive, tra cui quella venduta da Christie’s, creata per il collezionista belga Willy van Hove.
In corso lo sciopero generale. Landini: ‘Vogliamo rivoltare il Paese come un guanto’
‘La rivolta sociale significa non voltarsi dall’altra parte’. Cortei in molte città per protestare contro la Manovra
Sciopero generale, la manifestazione di Bologna
Napoli
Napoli
In corso lo sciopero generale di Cgil e Uil: ‘cambiare la manovra’
In corso lo sciopero generale, proclamato da Cgil e Uil, per chiedere di cambiare la manovra di bilancio, aumentare salari e pensioni, finanziare sanità, istruzione, servizi pubblici e investire nelle politiche industriali. Uno stop di 8 ore per tutti i settori privati e pubblici, ad eccezione dei trasporti dove è di 4 ore: per bus e metro dalle 9 alle 13, così come per il trasporto marittimo, per i voli dalle 10 alle 14. Esclusi dallo stop i treni. Una mobilitazione che si articolerà in 43 piazze su tutto il territorio nazionale, indetta per contrastare “le scelte ingiuste e sbagliate del governo”.
I segretari generali, Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri concluderanno rispettivamente le manifestazioni di Bologna (corteo ore 9.30, da Porta Lame a Piazza Maggiore) e Napoli (corteo ore 9.30, da Piazza Mancini a Piazza Matteotti). In contemporanea, in alcune città, i comizi saranno conclusi dai dirigenti sindacali delle segreterie nazionali di Cgil e Uil.
CALABRIA, COSENZA
Torino
PER CAMBIARE LA MANOVRA DI BILANCIO
MILANO
PARMA
BOMBARDIERI A NAPOLI – UIL + CGIL
SICILIA
TUTTE LE FOTO SOPRA DAL GIORNALE DELLA CGIL SULLO SCIOPERO GENERALE DI OGGI, 29 NOVEMBRE 2024
Sciopero generale di 8 ore, in tutti i settori pubblico e privato
Il Tar boccia il ricorso contro la precettazione. Salvini esulta. Cgil e Uil: ‘Abbia rispetto per la protesta’
di Barbara Marchegiani
Oggi lo sciopero generale di 8 ore proclamato da Cgil e Uil contro la manovra.
Si fermeranno i lavoratori di tutti i settori, pubblico e privato, ad eccezione delle ferrovie. Salvo i servizi minimi essenziali, a rischio stop per tutto il giorno fabbriche, scuole, sanità, poste, uffici pubblici, giustizia e negozi. Per i trasporti la protesta è stata ridotta a 4 ore.
Alla vigilia dello stop generale, il Tar ha respinto per ora il ricorso contro la precettazione per il settore dei trasporti presentato da due sindacati autonomi, che pure scendono in piazza. In attesa della risposta a Cgil e Uil, che anche si sono mosse per il ricorso, le modalità della protesta di domani non cambiano. Ma la battaglia va avanti, mentre il Garante difende il proprio intervento: “Applichiamo la legge”.
L’articolazione dello sciopero generale rimane, pertanto, l’ultima a cui si era giunti dopo l’ordinanza firmata dal ministro Matteo Salvini: stop di 8 ore per tutti i settori pubblici e privati (dalle fabbriche alla scuola e alla sanità), ad eccezione dei trasporti dove, proprio a seguito della precettazione, viene ridotto a 4 ore per il trasporto pubblico locale (bus e metro dalle 9 alle 13), il trasporto marittimo (anche dalle 9 alle 13) e aereo (dalle 10 alle 14). Restano esclusi dallo stop i treni.E’ il Mit che fa subito sapere della decisione del Tar di respingere il ricorso d’urgenza presentato da alcuni sindacati e Salvini coglie la palla al balzo per esprimere “grande soddisfazione”: “Difendo il diritto alla mobilità degli italiani”.
VIDEO, 1 minuto ca
“Abbia rispetto del diritto di sciopero”, ripete il segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri, che gli replica anche sul ricorso:
“Il Tar non si è ancora espresso su quello presentato da noi. Salvini la butta in caciara”,
dice ospite di “Tagadà” su La7, mentre viene mostrata l’immagine con il volto di Maurizio Landini, pubblicata sui social dal ministero dei Trasporti.
E mentre il leader della Cisl, Luigi Sbarra, torna a respingere una protesta “populista, dal sapore politico e partitico: un grande errore che pesa sui lavoratori”.
Intanto Landini a Bologna e Bombardieri a Napoli si preparano a scendere in piazza per chiedere di cambiare la manovra di bilancio, di aumentare i salari e le pensioni, di finanziare la sanità, la scuola, i servizi pubblici. Per ora si tratta, quindi, del ricorso presentato dai sindacati di base Cub e Sgb, che avevano già proclamato uno sciopero generale per domani. A cui si è aggiunto quello di Cgil e Uil, indetto dopo.
Da questo ordine temporale parte la premessa del Garante in audizione alle commissioni Trasporti e Lavoro della Camera, spesso chiamato in causa in questi giorni da Cgil e Uil, che lo hanno accusato anche di non essere imparziale. “Noi applichiamo le regole di legge, gli scioperi devono essere distanziati. E c’è una delibera che vieta la concentrazione nel settore dei trasporti. Cgil e Uil non si sono adeguate”, afferma la presidente della Commissione di garanzia sugli scioperi, Paola Bellocchi, sottolineando, appunto, che la giornata del 29 novembre “era già prenotata da un altro sciopero generale proclamato da due confederazioni sindacali di base Sgb e Cub, prima di quello di Cgil e Uil. C’era la possibilità di scegliere una data alternativa”.
Cgil e Uil, da parte loro, ripetono di aver rispettato le norme e di aver escluso il settore ferroviario, visto che già nello scorso fine settimana c’è stato un altro stop per i treni (la regola della rarefazione oggettiva richiede un intervallo di 10 giorni tra uno stop e l’altro), ma di non aver escluso l’intero settore dei trasporti non riconoscendo la delibera sulla concentrazione tra scioperi nei trasporti. Ma per l’Autorità, così si sarebbe “determinata una violazione del diritto alla mobilità degli utenti”. Quindi, spiega ancora il Garante, i sindacati di base “Sgb e Cub hanno impugnato l’ordinanza di precettazione, perché il loro sciopero non presentava irregolarità” ma “alla fine sono stati coinvolti nella riduzione a 4 ore”. E, aggiunge, “se ci fosse stato solo il loro sciopero, i trasporti non sarebbero stati compromessi più di tanto, il problema è la forza delle grandi confederazioni”.
Il territorio della Tracia, per la sua posizione geografica, è stato percorso, occupato, soggiogato da numerosissime popolazioni provenienti da oriente e da nord. La storia della battaglia di Adrianopoli, che anticipò di cento anni la dissoluzione dell’impero romano, è raccontata con un ritmo direi cinematografico e insieme rigorosissimo sul piano storico. Vengono immediati i riferimenti alla nostra realtà di grandi immigrazioni e spostamenti di popoli, rendendo attuale una realtà così lontana nel tempo.
La Tracia romana attorno al 400 ( d. C. ), anno della ” Notitia Dignitatum Vadomarius,
un breve scritto, che si potrebbe chiamare il “ruolo organico” dell’amministrazione civile e militare del tardo impero romano, un quadro prezioso dell’ordinamento dell’Impero, che dà notizie sulla dislocazione delle truppe, le aziende di stato, fa conoscere numerosi nomi di luogo, ecc. – SEGUE IN TRECCANI
Notitia Dignitatum Vadomarius
comincia il libro:
«Era un’estate torrida, il terreno era secco, le truppe marciando sollevavano un’immensa nuvola di polvere. La marcia durò tutta la mattina. Nel pomeriggio, sotto un sole ancora a picco, i reparti erano allineati intorno ai loro stendardi, e alle urla di sfida dei barbari rispondevano col muggito profondo del barritus, battendo ritmicamente le lance contro gli scudi. Un fragore tetro si spandeva per tutta la pianura. E poi, all’improvviso, la situazione precipitò.»
ALESSANDRO BARBERO CI RACCONTA A VOCE LA BATTAGLIA DI ADRIANOPOLI–
Bacheca
–per chi preferisse-– si può sentire a pezzi — dura 5h 20 minuti
00:00 1. La fine di un’epoca 15:52 2. Quali sono i confini dell’Impero Romano 32:00 3. Chi sono i Goti 47:39 4. L’imperatore Valente 1:03:14 5. Gli Unni, un popolo nuovo 1:19:21 6. I profughi si ammassano sul Danubio 1:35:50 7. Succede un gran pasticcio 1:51:38 8. Alleati inaspettati e nemici incompetenti 2:07:27 9. La Battaglia dei Salici 2:23:41 10. I Goti bloccati a nord 2:39:43 11. L’azione di Frigerido 2:56:18 12. Il ritorno di Sebastiano 3:11:51 13. Valente si muove 3:27:30 14. I due eserciti di fronte 3:43:46 15. La Battaglia di Adrianopoli 3:59:52 16. Le reazioni del mondo 4:15:34 17. Il giorno dopo 4:31:03 18. I rimedi di Teodosio 4:46:40 19. L’assorbimento dei barbari 5:01:51 20. Le conseguenze
“Questo libro racconta di una battaglia che ha cambiato la storia del mondo ma non è famosa come Waterloo o Stalingrado: anzi, molti non l’hanno mai sentita nominare. Eppure secondo qualcuno segnò addirittura la fine dell’Antichità e l’inizio del Medioevo, perché mise in moto la catena di eventi che più di un secolo dopo avrebbe portato alla caduta dell’impero romano d’Occidente. Parleremo di Antichità e Medioevo, di Romani e barbari, di un mondo multietnico e di un impero in trasformazione e di molte altre cose ancora. Ma il cuore del nostro racconto sarà quel che accadde lì, ad Adrianopoli, nei Balcani, in un lungo pomeriggio d’estate.”
ALESSANDRO BARBERO ( Torino, 1959 )
Scrittore e storico italiano. Laureato in Storia Medioevale con Giovanni Tabacco, nel 1981, ha poi perfezionato i suoi studi alla Scuola Normale di Pisa sino al 1984. Ricercatore universitario dal 1984, diventa professore associato all’Università del Piemonte Orientale a Vercelli nel 1998, dove insegna Storia Medievale. Ha pubblicato romanzi e molti saggi di storia non solo medievale. Con il romanzo d’esordio, Bella vitae guerre altrui di Mr. Pyle gentiluomo, ha vinto il Premio Strega nel 1996.
Collabora con La Stampa e Tuttolibri, con la rivista “Medioevo”, e con i programmi televisivi (“Superquark”) e radiofonici (“Alle otto della sera”) della RAI. Tra i suoi impegni si conta anche la direzione della “Storia d’Europa e del Mediterraneo” della Salerno Editrice. Tra i suoi titoli più recenti ricordiamo: Lepanto. La battaglia dei tre imperi (Laterza 2010), Il divano di Istanbul (Sellerio 2011), I prigionieri dei Savoia (Laterza 2012), Le ateniesi (Mondadori 2015), Costantino il vincitore (Salerno 2016), Dante (Laterza 2020), Alabama (Sellerio 2021), Brick for stone (Sellerio 2023), All’arme! All’arme! I priori fanno carne! (Laterza, 2023), Romanzo russo (Sellerio, 2024).
Come spesso accade per le penisole, incerta è la definizione del suo confine sulla terraferma, aggravato dal fatto che si tratta di uno dei suoi confini più estesi. Non aiuta inoltre la definizione di questa linea di demarcazione il fatto che il territorio presenta al suo interno grandi differenze e frammentazioni per storia, nazionalità, lingua, cultura e religione delle popolazioni che vi abitano.
Solitamente se ne stabilisce il confine sul Danubio e sul suo affluente Sava. In questo modo si include in tale area anche parte della Slovenia e della Romania (paese di lingua romanza orientale), che però storicamente hanno avuto a che fare con i Balcani solo dopo la dissoluzione dell’Impero asburgico.
La definizione politica di Balcani venne in uso nel XIX secolo per designare i paesi europei interessati dall’espansione e dalla successiva dissoluzione dell’Impero ottomano.
La penisola balcanica è percorsa da varie catene e massicci montuosi.
Per la sua posizione strategica, a metà strada tra Europa ed Asia, Edirne fu uno dei principali campi di battaglia della storia. Nelle sue vicinanze si combatterono, nell’arco di più di mille anni di storia, sedici battaglie.
L’area sulla quale sorge l’odierna città di Edirne era abitata prima della conquista romana dalle tribù trace dei Bessi e degli Odrisi i quali fondarono un piccolo insediamento.
La città fu rifondata nel 125 dall’imperatore romano Adriano che non solo la ribattezzò con il proprio nome, ma la arricchì di monumenti ed infrastrutture. Fu il più importante centro della provincia romana della Tracia e sotto Diocleziano fu capitale della provincia dell’Emimonto.
Di grande importanza strategica e massicciamente fortificata, la città divenne un centro cruciale per il destino dell’Impero romano nel IV secolo. Nel 324 le armate di Costantino sconfissero quelle di Licinio in uno degli ultimi scontri della guerra civile che aveva insanguinato l’impero nei primi due decenni del IV secolo. Nel 378 l’esercito romano, guidato dall’imperatore Valente, fu annientato dai Visigoti di Fritigerno in quella che fu una delle più gravi sconfitte della storia di Roma. Lo stesso imperatore Valente perì nello scontro, mentre la Tracia fu temporaneamente in balia delle tribù barbare.
*** La specialità gastronomica di Edirne è il ciğer tava, ovvero sia fettine di fegato o di vitello fritte[6]. Viene solitamente accompagnato da peperoncini fritti e ayran.
L’ayran è una bevanda a base di yogurt, acqua e sale originaria delle genti turco-altaiche. Attualmente la Turchia è il primo produttore al mondo di questa bevanda. Si ritiene comunemente che la pratica di aggiungere sale allo yogurt abbia avuto origine in tempi antichi e aveva la funzione di prolungare il tempo di conservazione. Attualmente la bevanda è molto popolare in Vicino Oriente, Medio Oriente, Asia Centrale e in Europa sud-orientale.
QUALCHE IMMAGINE DELLA CITTA’ .. COME E’ OGGI
LA GRANDE SINAGOFA DI EDIRNE
LA MOSCHEA DI SELIMIYE / INTERNO– LA PRIMA FOTO SU EDIRNE E’ DI QUESTA MOSCHEA ( L’ESTERNO..)
NEL LINK, PER CHI VOLESSE, CI SONO MOLTISSIME ALTRE FOTO DELLA CITTA’
“Il lonfo” fa parte di una raccolta di poesie, volutamente senza senso, scritto da Maraini, il padre di Dacia Maraini. Letta da Proietti, diventa irresistibile.
( Donatella )
chiara :all’epoca Barbara aveva ( credo io ) una bimba, una nipotina, figlia di suo figlio, spigliata e simpatica forse come questa, ma molto più bella.. a vederla cresciuta- e penso che ce l’abbia mandato per una sua ” qualche ” immedesimazione con questa meravgliosa bambina…Per Gigi Proietti non avrebbe nessuna ragione ( neanche nella mia zucca..) , forse per il piacere di farci ridere ? quizàs
In seguito alla fusione del PDS e del WASG, che ha portato alla nascita del Partito della Sinistra (Die Linke), ha preso in considerazione la possibilità di intraprendere una campagna per la carica di vicepresidente del partito. Tuttavia, alcuni leader del partito come Lothar Bisky e Gregor Gysi si erano opposti all’idea, principalmente a causa della vicinanza di Wagenknecht alle politiche dell’ex Repubblica Democratica Tedesca (RDT). Aveva così rinunciato alla candidatura. Ha poi conquistato un seggio alle elezioni federali del 2009 nella Renania Settentrionale-Vestfalia. È diventata la portavoce della Linke per la politica economica nel Bundestag. Il 15 maggio 2010 è stata eletta vicepresidente del partito con il 75,3% dei voti.
È stata una delle principali forze trainanti nella formazione di Aufstehen, un movimento populista di sinistra fondato nel 2018, che esiste al di fuori delle tradizionali strutture dei partiti politici ed è stato paragonato al movimento francese La France Insoumise.
È stata rieletta al Bundestag alle elezioni federali del 2021, ma ha affermato che i risultati rappresentavano una “amara sconfitta” per il suo partito.
A causa dei crescenti conflitti all’interno di Die Linke, Wagenknecht ha preso in considerazione la possibilità di formare un proprio partito. Dal 2021 si ipotizzava che la sua fazione e altri gruppi che la pensano allo stesso modo all’interno di Die Linke, come la Sinistra socialista o i circoli di Karl Liebknecht, si sarebbero staccati per formare un partito distinto.
Alla fine di settembre 2023 alcuni esponenti del circolo di Wagenknecht hanno fondato l’associazione “BSW – Per la ragione e la giustizia“. Il sito dell’associazione chiarisce che l’abbreviazione BSW sta per “Bündnis Sahra Wagenknecht” (“Coalizione Sahra Wagenknecht”). L’associazione è destinata a fungere da precursore per un futuro partito,fondato e presentato ufficialmente in data 8 gennaio 2024.
Ong, oltre 100 morti in scontri nel nord-ovest della Siria
La città siriana di Saraqeb ( (al-Nahar, giornale libanese ), nella provincia nord-occidentale di Idlib, situata in una posizione strategica nel nord-ovest del paese, è stata presa d’assalto dall’avanzata di forze locali cooptate dalla Turchia in funzione anti-russa.
Lo riferiscono media siriani secondo cui gruppi di combattenti di Hay’at Tahrir ash Sham (Hts) hanno fatto il loro ingresso nella parte nord-occidentale della città e si apprestano ad avanzare nei quartieri centrali.
Saraqeb è uno degli snodi lungo l’autostrada M5 che collega Damasco ad Aleppo. Sale a 153 uccisi il bilancio degli scontri in corso da ieri nel nord-ovest della Siria tra forze locali filo-turche e loro rivali governativi sostenuti dalla Russia.
Lo riferisce l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, secondo cui le forze cooptate da Ankara proseguono l’offensiva sul terreno cominciata ieri all’alba nelle zone a ovest di Aleppo nonostante i raid aerei governativi e russi.
Dettaglio di una carta di Laura Canali. Localizzazione delle notizie sulla mappa a cura di Caterina Pinto]
1- NOTA :
Hay’at Tahrir al-Sham (HTS); ( “Comitato di liberazione del Levante”), comunemente Tahrir al-Sham e conosciuta anche come al-Qaeda in Siria, è una formazione militante salafita attualmente attiva e coinvolta nella guerra civile siriana.
Il gruppo è stato formato il 28 gennaio 2017 dall’unione di Jabhat Fateh al-Sham – organizzazione nata il 28 luglio 2016 dalla separazione consensuale del Fronte al-Nusra dal network di al-Qaeda –
La formazione a inizio 2019 è entrata in conflitto aperto contro le altre formazioni supportate dalla Turchia all’interno del governatorato di Idlib, la principale area di azione del gruppo, tra le quali quelle facenti parte del Fronte di Liberazione Nazionale e lo stesso gruppo Nour al-Din al-Zenki.
In copertina un graffito di Sarakeb che recita “Amatela, è la Siria”
A raccontare la sua storia è il sito web ‘Idlib Wall’, un progetto lanciato da un gruppo di attivisti col sostegno della Fondazione Friedrich-Ebert-Stiftung e altre istituzioni internazionali. La piattaforma raccoglie le immagini dei graffiti realizzati dagli abitanti di Saraqeb sin dal 2011 con l’obiettivo di “tramandare la memoria della storia contemporanea al popolo siriano”, “migliorare l’impatto della resistenza artistica siriana, per rafforzare il suo posto nella rivoluzione” e favorire “i contatti tra i diversi attori” di questo movimento dal basso..
“Col passare degli anni – proseguono gli attivisti – quei murales sono diventati fonte d’ispirazione per i siriani, ovunque si trovassero”. “Il Sole sorgerà domani”, “la rivoluzione continua”, “la storia più bella è quella del futuro”, “i vostri aerei non potranno bombardare i nostri sogni”, si legge su alcune delle decine di foto di murales condivisi sul portale.
Si va dalle semplici scritte a messaggi colorati e complessi, fino a disegni dal forte impatto visivo. Come la bambina che porta sulle spalle un cuore, che è al contempo la chioma di un albero sradicato a causa di un missile, oppure una raffigurazione dell’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Il testo, in cui si ribadisce il diritto di tutti a vivere in libertà e sicurezza, è “bollato” da un timbro rosso con su scritto “tranne ad Idlib”.
L’assedio della provincia di Idlib ha già causato centinaia di morti e sta costringendo centinaia di migliaia di civili a lasciare le proprie case per rifugiarsi in Turchia. Ieri, il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è riunito d’urgenza e ha chiesto a Siria e Russia una tregua “della carneficina” e l’apertura di corridoi umanitari per portare aiuti alle popolazioni assediate di Idlib. A unirsi all’appello anche l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell.
Esponenti del salafismo, movimento riformista islamico nato a metà del 19° secolo con l’obiettivo di scuotere l’islam, vittima della spinta colonizzatrice dell’occidente, dalla decadenza politica, economica e culturale. Il movimento postulava un richiamo fedele ai principi morali e giuridici del Corano e un ritorno all’esempio di purezza della prima generazione di musulmani, contemporanei o di poco posteriori a Maometto, i cosiddettial-Salaf al-Ṣāliḥ («antenati devoti»), da cui il nome del movimento. Questo richiamo dei s. all’aderenza al messaggio religioso originario dell’islam e al modello di Stato retto dai califfi (7° sec.), ha conosciuto poi diverse rielaborazioni, sistematizzazioni e convergenze con altri movimenti fondamentalisti (per esempio il wahhabismo di origine saudita), ma ha costituito da allora il punto di riferimento imprescindibile dell’islam politico nella sua tensione a plasmare la società in senso islamico e a realizzare uno stato informato, con maggiore o minore intransigenza, ai principi religiosi.
La destabilizzazione provocata nei paesi arabi dalle rivolte popolari del 2010-11 ha riportato alla ribalta queste forze fondamentaliste islamiche, a lungo represse dai regimi abbattuti, e capaci di riguadagnare spazi e visibilità (e consensi maggioritari nelle urne), a spese delle forze laiche e spontanee protagoniste nelle piazze della rivolta.
Accanto ai salafiti, che rappresentano una forza aggressiva arroccata su posizioni ultraconservatrici e rigoriste, di chiusura totale verso il mondo laico, i Fratelli musulmani (v. Fratellanza musulmana), al governo in Tunisia, Egitto e Marocco, mostrano di avere accettato le regole del sistema democratico, pur se soffrono la pressione dei salafiti che cercano di accreditarsi come gli unici autentici interpreti del messaggio religioso. Galassia composita e difficilmente catalogabile, con un’organizzazione meno gerarchica e centralizzata dei Fratelli musulmani e capace di plasmarsi alle diverse esigenze delle realtà in cui opera, i salafiti esercitano una grande forza di attrazione anche in Europa e rappresentano sicuramente nel mondo contemporaneo una delle espressioni più radicali, e anche violente, del fondamentalismo islamico: dall’Algeria degli ultimi decenni del 20° secolo all’Egitto, dalla Striscia di Gaza all’Iraq post Saddam Hussein dove hanno combattuto le truppe degli Stati Uniti.
Penso che il suicidio di Israele consista nell’avere distrutto la sua immagine, non solo di stato democratico, ma di vittima storica dell’antisemitismo. La cacciata dei palestinesi avvenuta nel 1948 per fare spazio al nuovo stato vittima dell’olocausto, proseguita poi con la volontà di espandersi in continuazione a danno delle popolazioni arabe che stavano lì da millenni, ha cancellato l’idea che l’umanità potesse imparare dalle atrocità compiute dalla storia. Si è spenta una grande speranza mentre si è ingrandito l’orrore per le atrocità che può commettere l’uomo. Insomma, ha vinto Caino e anche Abele la pensa come lui.
manifestazioni in Israele con il governo Netanyiu – luglio 2024
da Askanews
Nella maggior parte dei casi di genocidio, dalla Bosnia alla Namibia, dal Ruanda all’Armenia, gli autori hanno affermato di aver agito per legittima difesa. Il fatto che ciò che sta accadendo a Gaza non assomigli all’Olocausto, scrive il ricercatore sull’Olocausto Amos Goldberg, non significa che non si tratti di un genocidio.
Sì, è un genocidio. Sebbene sia così difficile e doloroso ammetterlo e nonostante tutti gli sforzi per pensarla diversamente, dopo sei mesi di guerra brutale non è più possibile sfuggire a questa conclusione. La storia ebraica sarà ormai macchiata del segno di Caino del “crimine dei crimini”, che non potrà più essere cancellato dalla sua fronte. In quanto tale resisterà alla prova del tempo.
Dal punto di vista giuridico non è ancora noto cosa deciderà la Corte internazionale di giustizia dell’Aia, anche se alla luce delle sue sentenze provvisorie finora e alla luce del crescente numero di relazioni di giuristi, organizzazioni internazionali e giornalisti. investigatori, sembra che la direzione sia abbastanza chiara.
Già il 26 gennaio la corte ha stabilito con una schiacciante maggioranza (14 a 2) che Israele potrebbe commettere un genocidio a Gaza. Il 28 marzo, in seguito alla deliberata fame che Israele impone a Gaza, la corte ha emesso ulteriori ordinanze (e questa volta con una maggioranza di 15 a 1, il giudice Aharon Barak) invitando Israele a non negare ai palestinesi i loro diritti protetti dalla Convenzione sul genocidio. .
Il rapporto dettagliato e ragionato della Missione Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, firmato “Francesca Albanese “, è giunto a una conclusione leggermente più decisiva e rappresenta un altro passo avanti verso la consapevolezza che Israele sta effettivamente commettendo un genocidio.
Alla stessa conclusione giunge il rapporto dettagliato e aggiornato del dottor Lee Mordechai,che raccoglie informazioni sul livello di violenza israeliana a Gaza. Accademici molto esperti comeJeffrey Sachs, professore di economia alla Columbia University (ed ebreo con un atteggiamento affettuoso nei confronti del sionismo tradizionale), regolarmente consultato dai capi di stato di tutto il mondo su questioni internazionali, parla del genocidio israeliano come di una questione ovviamente.
Eccellenti inchieste come quelle diYuval Avraham in “Tasha Mekimim”, e soprattutto la sua recente indagine sui sistemi di intelligenza artificiale utilizzati dall’esercito per selezionare e danneggiare coloro destinati all’eliminazione, approfondiscono ulteriormente questa accusa. Il fatto che l’esercito abbia consentito, ad esempio, l’uccisione di 300 persone innocenti e la distruzione di un intero quartiere residenziale per colpire un generale di Hamas, dimostra che gli obiettivi militari sono obiettivi quasi accessori per l’uccisione dei civili e che la mentalità palestinese in Gaza è in realtà il figlio della morte. Questa è la logica del genocidio.
Non dobbiamo aspettare la sentenza dell’Aia per guardare alla realtà. Palestinesi su un camion a Beit Lahia il 7 dicembre (foto: utilizzo ai sensi della sezione 27a della legge sul diritto d’autore)
SÌ. Lo so, sono tutti ebrei antisemiti o che odiano se stessi. Solo noi, israeliani, che ci nutriamo dei messaggi del portavoce dell’IDF e siamo esposti solo alle immagini che i media israeliani filtrano per noi, vediamo la realtà presente come se non fosse stata scritta un’infinita letteratura sui meccanismi di negazione sociale e culturale di società che commettono gravi crimini di guerra. Israele è davvero un caso paradigmatico di tali società, un caso che sarà studiato in ogni seminario universitario nel mondo che si occupi dell’argomento.
Ci vorranno alcuni anni prima che il tribunale dell’Aja emetta il suo verdetto, ma non dovremmo guardare alla catastrofica realtà solo attraverso lenti legali. Ciò che sta accadendo a Gaza è un genocidio perché il livello e il ritmo degli omicidi indiscriminati, della distruzione, delle deportazioni di massa, degli sfollamenti, della fame, delle esecuzioni , dell’eliminazione delle istituzioni culturali e religiose, dello schiacciamento delle élite (compresi gli omicidi) dei giornalisti) e la totale disumanizzazione dei palestinesi – creano un quadro complessivo di genocidio, di schiacciamento intenzionale e consapevole dell’esistenza palestinese a Gaza.
Per certi versi, la Gaza palestinese come complesso geografico-politico-culturale-umano non esiste più. Il genocidio è la distruzione deliberata di un collettivo o di una parte di esso, non di tutti i suoi individui. E questo è ciò che sta accadendo a Gaza. Il risultato è senza dubbio genocida. Le numerose dichiarazioni di sterminio da parte di alti funzionari del governo israeliano e l’atmosfera generale distruttiva nell’opinione pubblica, come ha giustamente sottolineato Carolina Landesman , dimostrano che anche l’intenzione era questa.
Gli israeliani sbagliano nel pensare che il genocidio debba somigliare all’Olocausto. Immaginano treni, camere a gas, inceneritori, fosse di sterminio, campi di concentramento e di sterminio e una persecuzione sistematica di tutti i membri del gruppo delle vittime fino all’ultimo. A Gaza un evento del genere non avviene. Similmente a quanto accaduto durante l’Olocausto, la maggior parte degli israeliani immagina che il gruppo delle vittime non sia coinvolto in attività violente o in un conflitto reale e che gli assassini li stiano distruggendo a causa di un’ideologia folle e irrazionale. Questo non è nemmeno il caso di Gaza.
Il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre è stato un crimine atroce e terribile. Durante questo periodo furono uccise o assassinate circa 1.200 persone, di cui più di 850 erano cittadini israeliani (e stranieri), tra cui molti bambini e anziani, circa 240 israeliani viventi furono rapiti a Gaza e furono persino commesse atrocità come lo stupro. Si tratta di un evento con effetti traumatici catastrofici, profondi e duraturi, per molti anni, certamente per le vittime dirette e il loro ambiente immediato, ma anche per la società israeliana nel suo insieme. L’attacco ha costretto Israele a rispondere per legittima difesa.
I serbi in Bosnia si sentivano minacciati. Donne bosniache sul luogo della commemorazione del massacro di Srebrenica (Foto: Adam Jones CC BY SA 3.0)
Tuttavia, sebbene ogni caso di genocidio abbia un carattere diverso, in termini di portata dell’omicidio e delle sue caratteristiche, il denominatore comune della maggior parte di essi è che sono stati commessi per un autentico senso di legittima difesa. Dal punto di vista giuridico un evento non può essere allo stesso tempo un evento di legittima difesa e un evento di genocidio. Queste due categorie giuridiche si escludono a vicenda. Ma storicamente l’autodifesa non è in contrasto con il genocidio, ma di solito ne è uno dei fattori centrali, se non il principale.
A Srebrenica – di cui il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha accertato in due casi che è avvenuto un genocidio nel luglio 1995 – sono stati assassinati “solo” circa 8.000 ragazzi e uomini bosniaci musulmani, di età superiore ai 16 anni deportato in precedenza.
L’attacco delle forze serbo-bosniache, responsabili dell’omicidio, è avvenuto nel mezzo di una sanguinosa guerra civile, durante la quale entrambe le parti hanno commesso crimini di guerra (anche se i serbi in misura maggiore) e che è scoppiata in seguito ad una decisione unilaterale delle forze musulmane in cui Croati e bosniaci si separarono dalla Jugoslavia e fondarono uno stato bosniaco indipendente, in cui i serbi erano una minoranza.
I serbi bosniaci, con dolorosi ricordi passati di persecuzioni e omicidi durante la Seconda Guerra Mondiale, si sentivano minacciati. La complessità del conflitto, in cui nessuna delle due parti era innocente, non ha impedito al tribunale di riconoscere il massacro di Srebrenica come un atto di genocidio, che è andato oltre gli altri crimini di guerra commessi dalle parti, poiché questi crimini non possono giustificare il genocidio.
La Corte ha motivato ciò con il fatto che le forze serbe hanno deliberatamente distrutto, attraverso l’omicidio, la deportazione e la distruzione, l’esistenza bosniaco-musulmana a Srebrenica. Oggi, tra l’altro, i musulmani bosniaci vivono di nuovo lì e alcune delle moschee distrutte sono state restaurate. Ma il genocidio continua a tormentare sia i discendenti degli assassini che le vittime.
Il caso del Ruanda è abbastanza diverso. Lì, per lungo tempo, come parte del meccanismo di controllo coloniale belga, basato su una politica di divide et impera, ha governato la minoranza tutsi e ha oppresso il gruppo maggioritario hutu. Tuttavia, negli anni ’60 ebbe luogo una rivoluzione e, dopo aver ottenuto l’indipendenza dal Belgio nel 1962, gli Hutu presero il controllo del paese e adottarono una politica oppressiva e discriminatoria contro i Tutsi, anche questa volta con il sostegno delle potenze coloniali.
Gli Hutu vedevano i Tutsi come un nemico interno che minacciava di far loro del male. Sito commemorativo a Nyameta per il genocidio in Ruanda (Foto: Wikimedia CC BY SA 3.0
A poco a poco, questa politica divenne intollerabile e, di conseguenza, nel 1990 scoppiò una guerra civile brutale e sanguinosa, iniziata con l’invasione di un esercito tutsi, il Fronte Patriottico Ruandese, composto principalmente da tutsi fuggiti dal Ruanda dopo la caduta del il governo coloniale. Di conseguenza, agli occhi del regime hutu, i tutsi furono identificati collettivamente con un vero nemico militare.
Durante la guerra, entrambe le parti hanno commesso gravi crimini sul territorio del Ruanda, ma anche sul territorio di altri paesi nei quali la guerra si è estesa. Non esistevano giusti assoluti e malvagi assoluti. La guerra civile si è conclusa con gli Accordi di Arusha, firmati nel 1993, che avrebbero dovuto portare alla partecipazione dei Tutsi alle istituzioni governative, all’esercito e ai meccanismi dello Stato.
Ma questi accordi fallirono e nell’aprile 1994: l’aereo del presidente del Ruanda, membro della tribù Hutu, fu abbattuto. Fino ad oggi non si sa chi abbia abbattuto l’aereo e si ritiene che siano stati combattenti hutu. Tuttavia, gli Hutu erano convinti che il crimine fosse stato commesso da combattenti clandestini tutsi, e questo veniva percepito come una vera minaccia per lo Stato. Il genocidio dei tutsi era in corso. La motivazione ufficiale dell’atto di genocidio era la necessità di rimuovere una volta per tutte la minaccia esistenziale dei tutsi.
Il caso dei Rohingya, che l’amministrazione Biden ha recentemente riconosciuto come genocidio, è molto diverso.
Inizialmente, dopo l’indipendenza del Myanmar (l’ex Birmania) nel 1948, i musulmani Rohingya erano visti come cittadini alla pari e parte del corpo nazionale, in maggioranza buddista. Ma nel corso degli anni, e soprattutto dopo l’instaurazione della dittatura militare nel 1962, il nazionalismo birmano è stato identificato con diversi gruppi etnici dominanti, principalmente buddisti, che non includevano i Rohingya.
Nel 1982 e successivamente furono emanate leggi sulla cittadinanza che privarono la maggior parte dei Rohingya della cittadinanza e dei diritti. Erano percepiti come stranieri e come una minaccia all’esistenza dello Stato. I Rohingya, che in passato annoveravano tra loro piccoli gruppi ribelli, si sono sforzati di non lasciarsi coinvolgere nella resistenza violenta, ma nel 2016 molti di loro hanno ritenuto che con mezzi pacifici non sarebbero stati in grado di impedire la negazione dei loro diritti, l’oppressione, la violenza dello Stato e della mafia nei loro confronti e la deportazione graduale e clandestina dei loro figli. I Rohingya hanno attaccato le stazioni di polizia del Myanmar.
È bastato il massacro di 9.000 Rohingya perché gli Stati Uniti lo dichiarassero un genocidio. I Rohingya fuggiti dal Myanmar (Foto: Tessanim News Agency CC BY SA 4.0).
La reazione è stata brutale. Nei raid delle forze di sicurezza del Myanmar, la maggior parte dei Rohingya sono stati espulsi dai loro villaggi, molti di loro sono stati massacrati e i villaggi sono stati completamente distrutti. Quando il ministro degli Esteri Anthony Blinken ha letto l’annuncio al Museo dell’Olocausto di Washington nel marzo 2022 riconoscendo che ciò che è stato fatto ai Rohingya era un genocidio, ha affermato che nel 2016 e nel 2017 sono stati deportati circa 850.000 Rohingya in Bangladesh e circa 9.000 di loro furono assassinati. Ciò è stato sufficiente per riconoscere quello che è stato fatto ai Rohingya come l’ottavo genocidio riconosciuto dagli Stati Uniti, oltre all’Olocausto. Il caso dei Rohingya ci ricorda ciò che molti ricercatori sul genocidio hanno stabilito in termini di ricerca, ed è molto rilevante per questo il caso di Gaza: il collegamento tra pulizia etnica e genocidio.
Il collegamento tra i due fenomeni è duplice, ed entrambi riguardano Gaza, dove la stragrande maggioranza della popolazione è stata espulsa dai luoghi di residenza, e solo il rifiuto dell’Egitto di accogliere masse di palestinesi nel proprio territorio ha impedito la loro partenza dalla Striscia. Da un lato, la pulizia etnica significa la volontà di eliminare il gruppo nemico ad ogni costo e senza compromessi, e per questo motivo scivola facilmente nel genocidio o ne fa parte. D’altro canto, la pulizia etnica crea solitamente condizioni che consentono o causano (ad esempio malattie e fame) la distruzione parziale o completa del gruppo di vittime.
Il senso di minaccia nella piccola comunità di coloni della Namibia, che contava solo poche migliaia, era reale e la Germania temeva di aver perso il suo potere deterrente contro i nativi.
Nel caso di Gaza, le “zone sicure” si sono spesso trasformate in trappole mortali e zone di sterminio intenzionale, e in queste aree di rifugio Israele sta deliberatamente affamando la popolazione. Per questo motivo, non pochi commentatori ritengono che l’ obiettivo dei combattimenti a Gaza sia la pulizia etnica.
Anche il genocidio degli armeni durante la prima guerra mondiale aveva un nesso.
Durante il declino dell’Impero Ottomano, gli armeni svilupparono la propria identità nazionale e chiesero l’autodeterminazione. La loro diversità religiosa ed etnica, nonché la loro posizione strategica al confine tra l’impero ottomano e quello russo, li rendevano una popolazione pericolosa agli occhi del governo ottomano.
I turchi sospettavano che gli armeni collaborassero con i loro nemici russi. Armeni prima della loro espulsione dalla Turchia (Foto: Wikimedia)
Già alla fine del XIX secolo si verificarono terribili scoppi di violenza contro gli armeni e per questo alcuni armeni simpatizzarono con i russi e li videro come potenziali liberatori.
Piccoli gruppi armeno-russi collaborarono addirittura con l’esercito russo contro i turchi, invitando i loro fratelli d’oltre confine ad unirsi a loro, il che portò ad un’intensificazione sproporzionata del senso di minaccia esistenziale agli occhi del governo ottomano. Questo senso di minaccia, sviluppatosi durante una profonda crisi dell’impero, fu un fattore centrale nello sviluppo del genocidio armeno, iniziato anche durante il processo di deportazione.
Anche il primo genocidio del XX secolo fu compiuto per un concetto di autodifesa da parte dei coloni tedeschi contro le popolazioni Herero e Nama nell’Africa sudoccidentale (l’odierna Namibia). Come risultato della dura oppressione dei coloni tedeschi, la gente del posto si ribellò e in un brutale attacco uccise circa 123 (forse più) uomini tedeschi disarmati. Il senso di minaccia nella piccola comunità di coloni, che contava solo poche migliaia, era reale e la Germania temeva di aver perso il suo potere di deterrenza contro i nativi.
La risposta è stata di conseguenza. La Germania inviò un esercito guidato da un comandante disinibito e anche lì, per un senso di autodifesa, la maggior parte dei membri di queste tribù furono assassinati tra il 1904 e il 1908 – alcuni direttamente, altri per le condizioni di fame e di povertà. sete che i tedeschi hanno imposto loro (sempre con la deportazione, questa volta nel deserto di Omaka) e alcuni nei campi di prigionia e lavoro brutale. Processi simili si verificarono anche durante la deportazione e lo sterminio delle popolazioni indigene nel Nord America, soprattutto nel corso del XIX secolo.
In tutti questi casi, gli autori del genocidio hanno avvertito una minaccia esistenziale, più o meno giustificata, e il genocidio è arrivato come risposta.La distruzione collettiva delle vittime non si opponeva ad un atto di legittima difesa, ma per un autentico motivo di legittima difesa.
Nel 2011 ho pubblicato sul quotidiano Haaretz un breve articolo sul genocidio nell’Africa sudoccidentale e concludevo con le seguenti parole: “Dal genocidio degli Herero e dei Nama possiamo imparare come il controllo coloniale, basato su un senso di superiorità culturale e razziale, potrebbero scivolare, di fronte alla ribellione degli abitanti locali, in crimini e altre cose orribili come deportazioni di massa, pulizia etnica e genocidio; il caso della ribellione degli Herero dovrebbe anche servire da orribile segnale di allarme per noi qui in Israele, che ha già conosciuto una Nakba nella sua storia.”
Amos Goldberg è un ricercatore sull’olocausto e sul genocidio presso l’Università Ebraica, il suo libro Va Zecharet: Five Critical Readings in the Israeli Holocaust Remembrance sarà pubblicato da Reslanig Publishing nelle prossine settimane
È autore, tra gli altri, di Negoziazione e Potere in Medio Oriente. Alle radici dei conflitti in Siria e dintorni, Mondadori Education, 2022.
27 novembre 2024
L’analisi sul cessate-il-fuoco raggiunto in Libano tra Israele e Hezbollah. Le molte incognite che rendono l’accordo tra le parti temporaneo. Il termine di due mesi coincide con l’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump. Successi e sconfitte di entrambe le parti: si torna alla risoluzione Onu del 2006.
e, insieme a Lorenzo Kamel ( Roma, 1980 ), prof. di storia contemporanea a Torino
autore di:
Sciismo e potere: il peso della storia tra Iran, Libano e Iraq
editore:Istituto per l’Oriente Carlo Alfonso Nallino
nota sull’Editore::
L’Istituto per l’Oriente Carlo Alfonso Nallino è la più antica ( fondata a Roma nel 1921 ) e tra le più autorevoli istituzioni italiane dedicata allo studio e alla ricerca delle problematiche connesse in special modo al Vicino Orienteislamico in età moderna e contemporanea.
GUSTAVE CAILLEBOTTE ( 1848 -1894, muore a 46 anni…)
Gustave Caillebotte nacque a Parigi nel 1848 da una ricca famiglia di industriali tessili. Si avvicinò all’Ecole des Beaux-Arts negli anni ’70. Alla morte del padre ereditò un notevole patrimonio che gli permise di dedicarsi a tempo pieno alla pittura. Conobbe Degas e Monet, che lo presentarono agli altri impressionisti e nel 1876, su invito di Renoir, partecipò alla seconda mostra degli impressionisti.Egli aderisce al realismo nel proporre soprattutto paesaggi urbani e ruralie scene di vita operaia. In lui al senso vivo del colore e della luce tipico dell’impressionismo, si affianca una cura attenta del disegno, portando ad effetti di resa quasi fotografica.
Caillebotte è ricordato non solo come artista, ma anche come mecenate: la sua ricchezza personale gli permise infatti di acquistare opere di impressionisti e difinanziarne la terza esposizione nel 1877.
Dopo il 1882, di fronte alla crisi del gruppo impressionista, abbandonò momentaneamente la pittura. Si stabilì in una località presso Argenteuil, dove acquistò una casa in riva alla Senna; e qui rinacque il suo amore per la pittura.
Sul finire degli anni ’80 recepì in parte le nuove tendenze neoimpressioniste. Caillebotte morì nel febbraio del 1894, a soli 46 anni. Nel testamento donò la sua intera collezione, sessantacinque dipinti suoi e dei più grandi impressionisti, alla stato francese, a condizione che fossero esposti prima al Museo del Luxembourg di Parigi, il museo d’arte moderna di allora, e poi al Louvre. Il fratello Martial e Renoir, esecutori testamentari, riuscirono in parte a superare l’opposizione dei pittori ufficiali dell’Accademia, che ottusamente pretesero di scegliere solo alcune opere scartandone altre.
I genitori di Umberto erano Raffaele Boccioni e Cecilia Forlani, originari di Morciano di Romagna (25 km da Rimini). Il padre, che lavorava come usciere di prefettura, fu costretto a spostarsi in varie città d’Italia in base alle esigenze di servizio. Umberto nacque il 19 ottobre 1882 a Reggio Calabria; qui frequentò le prime classi delle elementari, successivamente la famiglia si trasferì a Forlì, poi a Genova
e a Padova. Nel 1897 giunse l’ordine di un nuovo trasferimento a Catania. Questa volta la famiglia si separò: Umberto e il padre andarono in Sicilia; la madre con la sorella maggiore Amelia, nata a Roma, restarono in Veneto. A Catania Umberto frequentò l’istituto tecnico fino a ottenere il diploma. Collaborò con alcuni giornali locali e scrisse il suo primo romanzo: Pene dell’anima che reca la data 6 luglio 1900.
A Parigi ( (aprile-agosto 1906), conosce Augusta Popoff: dalla loro relazione nascerà nell’aprile 1907 un figlio, Pëtr (Pietro).
Nell’autunno del 1907 per la prima volta andò a Milano, dove da alcuni mesi abitavano la madre e la sorella.
Incontro con i Futuristi
Nella scultura di Boccioni, per la quale spesso l’artista trascurò i materiali nobili come marmo e bronzo, preferendo il legno, il ferro e il vetro. Ciò che gli interessava era illustrare l’interazione di un oggetto in movimento con lo spazio circostante. Pochissime sue sculture sono sopravvissute.
Nonostante la presenza di elementi realistici come il cantiere o la costruzione, ed ancora la resa dello spazio in maniera prospettica, il dipinto viene considerato la prima opera veramente futurista del pittore reggino, pur non discostandosi molto dai quadri analoghi degli anni precedenti, nei quali le periferie urbane erano il soggetto principale. In questo dipinto viene parzialmente abbandonata la visione naturalistica dei quadri precedenti, per lasciare il posto ad una visione più movimentata e dinamica.
Si coglie la visione di palazzi in costruzione in una periferia urbana, mentre compaiono ciminiere e impalcature solo nella parte superiore. Gran parte dello spazio è invece occupato da uomini e da cavalli, fusi esasperatamente insieme in uno sforzo dinamico. In tal modo Boccioni mette in risalto alcuni tra gli elementi più tipici del futurismo, quali l’esaltazione del lavoro dell’uomo e l’importanza della città moderna plasmata sulle esigenze del nuovo concetto di uomo del futuro.
l’intento dell’artista è di dipingere il frutto del nostro tempo industriale.
C’è un altro BOZZETTO DELLA COLLEZIONE MATTIOLI Umberto Boccioni – Fotografia autoprodotta
IL BOZZETTO DI BRERA, IN PICCOLO, LASCIA SCORGERE I CAVALLI..
nel grande mi ci ero persa nelle luci e colori
La composizione può essere divisa in tre fasce orizzontali che corrispondono ad altrettanti piani:
in basso Boccioni colloca le figure umane realizzate secondo linee oblique che ne evidenziano lo sforzo dinamico.
al centro dominano delle figure di cavalli, tra le quali ne risaltano quattro, gli ultimi tre hanno una colorazione rossa e dei profili di colore blu che rappresentano i cavalieri sulla groppa:
uno bianco a sinistra che rivolge lo sguardo verso destra,
uno al centro che domina il centro del quadro,
uno sulla sinistra, poco più su di quello bianco, col muso verso l’alto e la bocca aperta.
uno sulla destra che volge il muso verso il centro del quadro.
l’ultimo sempre sulla destra, sopra il quarto, indirizzato verso l’esterno dell’opera.
nel terzo piano appare lo sfondo di una periferia urbana, che probabilmente andrebbe identificata con un quartiere di Milano in costruzione.
Il nome di Ada Colleoni apparentemente non dovrebbe ricordarci nulla eppure se al suo cognome natio si affianca quello del marito, ossia Enrico Mainardi ecco che nella memoria collettiva la si associa a una lunga e burrascosa relazione con Arturo Toscanini. Facile quindi evocare la figura del grande direttore d’orchestra, difficile invece scrivere di una pianista che in un periodo molto difficile della vita europea, provò a portare avanti la sua carriera di musicista, fra non pochi ostacoli, fra cui proprio Arturo Toscanini.
Ada Colleoni nasce a Bergamo nel 1897 e la sua discendenza è molto antica poiché suo lontano avo fu Colleoni Bartolomeo condottiero che rimase famoso nella storia. Ada invece rimase famosa, suo malgrado proprio per quella relazione extraconiugale con Arturo Toscanini che vezzosamente si firmava «Artù». E tutto questo è diventato di dominio pubblico quando Harvey Sachs pubblicò nel suo sontuoso Nel mio cuore troppo d’assoluto (Garzanti, 2005 riedito come Lettere Saggiatore, 2017) gran parte di quel rapporto che Toscanini soleva vergare e poi spedire alla sua amata. Questo potrebbe bastare per capire quale fosse il livello d’intensità di un rapporto amoroso, ma come è spesso successo, l’ombra sulla Colleoni è stata così oscurante che della sua carriera come pianista si sa poco o niente. E questo per una donna del suo tempo è importante, poiché la sua professionalità in un campo assolutamente maschile, è stata quindi oscurata proprio dalla relazione con Toscanini.
NESSUNA TRACCIA
In verità Colleoni ebbe una sua intensa vita da pianista con il marito violoncellista Enrico Mainardi e da solista. La difficoltà però sta nel reperire le fonti poiché su di lei poche o scarse notizie abbiamo rinvenuto, addirittura sul luogo del suo decesso avvenuto nel 1979 sembra che ci sia qualche dubbio. Ma procediamo con ordine. Ada Colleoni nasce a Bergamo e frequenta una delle classi di pianoforte presso il Conservatorio «G. Verdi» di Milano. Purtroppo nessuna notizia è giunta dal Conservatorio milanese sul curriculum della Colleoni e questo conferma l’idea della ricerca ossia che di questa pianista si siano perse le tracce e su di lei solo poche notizie. Quello che conferma la sua esistenza come pianista è proprio la fortuita raccolta di lettere scritte da Arturo Toscani nel corso degli anni.
Si conobbero nel 1917 grazie all’unione della Colleoni con il violoncellista Enrico Mainardi. Di quest’ultima sappiamo, anche grazie ai riferimenti di Toscanini che ebbe una intensa attività concertistica prevalentemente in duo con il marito. Toscanini intrattenne con la Colleoni una corrispondenza che iniziò nel 1933 e terminò nel 1940.
Questo corpus di 600 lettere e di 300 telegrammi fu venduto ad un’asta della Casa Stargardt di Berlino per una cifra pari a settanta milioni di lire versate da parte di un collezionista tedesco che a sua volta le cedette a dei privati. Poi dopo una serie di traversie il corpus è stato recepito dalla Società del Quartetto e quindi depositato a Milano grazie alla mediazione di Harvey Sachs, autore della monumentale raccolta precedentemente citata.
È evidente come la figura di una donna in un periodo nel quale la supremazia maschile era massificante, soprattutto nel campo della musica, abbia un ruolo importante e interessante. A parte le qualità pianistiche della Colleoni ciò che sorprende è la sua estrema freschezza nel gestire un rapporto difficile con uno degli artisti più geniali dello scorso secolo. Sicuramente il suo spirito e il suo essere musicista aiutò non poco a rendere la vita artistica e sentimentale di Toscanini migliore.
In molte missive infatti il direttore esprime giudizi, pareri, critiche relative proprio al campo di appartenenza e sovente vi è la richiesta di un parere, di una risposta. Rammarica però il fatto che della Colleoni, una delle non molte pianiste della sua generazione, rimanga, come detto, poca memoria. Non esistono sue incisioni, quelle del marito Mainardi (e anch’esse non sono molte) sono realizzate con altri pianisti. Di lei, della sua carriera sappiamo qualche cosa grazie alle indicazioni forniteci dallo stesso Toscanini che le scrive fra una sua tournée e l’altra. Poi ad un certo punto la Colleoni decide di interrompere la sua attività pianistica e non sappiamo se continuò insegnando. È noto che la relazione con Mainardi non fu mai interrotta, ma è possibile che fra i due si creò un distacco sia professionale che affettivo. La loro collaborazione è testimoniata da un unico programma di sala rinvenuto, relativo ad un concerto tenuto dal duo il 24 novembre 1939 a Velika Dvorana nella allora Cecoslovacchia; nel programma presentato il duo eseguì un Adagio di Tartini, una Sonata in La diesis di Boccherini, la Fantasia op. 73 di Schumann, la Melodia di Renzo Rossellini e la Tarantella di Casella. Un repertorio quindi molto particolare specie per la presenza delle due composizioni di Rossellini e di Casella, autori dalla scrittura non facile. Sappiamo anche che a fine novembre del 1933 ella fu in tournée con il marito e certamente si esibirono a Berlino, città nella quale si trasferirono.
IL «SOGNO»
Toscanini che aveva deciso di rompere ogni indugio con la Germania nazista non accettava che la coppia Mainardi vi si recasse e suonasse per i tedeschi così come scrive in una lettera del 12 agosto 1937: «Mi hai dato un grande dispiacere… Potevi risparmiartelo… Perché sei andata a Bayreuth? Non avevi l’obbligo. Chi ti ha invitata? Furtwangler? Tu e tuo marito avete stomaco sano!». Ma Toscanini ha anche la volontà di parlare alla Colleoni come pianista e lo fa spesso, quando la incita e scrive: «Studia il pianoforte. Suona musica di Brahms (…) Studia i due concerti»(lettera del 7 marzo 1937). E ancora: «Sai che oggi mi era passato per la mente di trascriverti a memoria quella bella melodia per piano di Catalani Sogno perché tu la impari e la suoni mentre ti sono lontano? Lo farò uno di questi giorni… Voglio che tu abbia avanti gli occhi una cosa che amo tanto e che ho quasi visto nascere. Dobbiamo avere qualche cosa che ci unisca spiritualmente anche nella musica… Quella melodia non passa – non dico giorno – ma settimana che non la suoni. È un riavvicinamento a quel caro spirito che mi adorava e che devo a lui se incominciai in Italia la mia carriera direttoriale… A Torino coll’Edmea… Novembre 1886. E ti piacerà – sono certo – non può mancare di piacerti… Sono veramente delle note di sogno… Chi sa – forse un giorno la suoneremo vicendevolmente… Faremo una sfida.. Tu sei più pianista, io non ho mai potuto fare una scala con la stessa digitazione, ero la disperazione del mio maestro… Amavo il pianoforte solo perché mi dava il mezzo di conoscere della musica. Quante volte Catalani me la faceva suonare, non so dirti… Concludeva sempre – pare musica tua – io che l’ho scritta non la rendo come la rendi tu».
È commovente ciò che scrive Toscanini e soprattutto è interessante la stima che avesse per la pianista Colleoni. Non hanno mai suonato assieme ma ella non era famosa mentre Toscanini lo era molto e com’è ovvio i suoi esecutori dovevano godere di una fama analoga. È certo però che della Colleoni dobbiamo comprendere come fosse difficile imporsi anche con la presenza di Toscanini al quale, probabilmente non si è mai rivolta per avere raccomandazioni o per diventare «famosa». Una sua dignità certamente, un rapporto d’amore intellettuale, una storia di rara bellezza e intelligenza. In buona memoria di una donna dimenticata.
Alla riscoperta di Chandigarh, l’utopia di Le Corbusier.
Poetica e razionalista, colorata e anche grigia, di cemento e di natura. Un libro ci invita a guardare la città indiana con occhi diversi
Di Sebastiano Brandolini —
Manuel Bougot/Photofoyer
L’ALTA CORTE DI GIUSTIZIA
Ogni tanto esce un nuovo libro con nuove immagini di Chandigarh, la città disegnata da Le Corbusier nel Punjab indiano, e allora si sente un brivido correre lungo la schiena, poi viene l’acquolina in bocca e infine si resta commossi. Costa fatica girare ciascuna pagina e passare alla successiva, perché davanti a ciascuna immagine (il fotografo questa volta è Manuel Bougot) i nostri occhi si fermano per incanto, e richiedono un po’ di tempo per guardare e capire.
La nuova Chandigarh
Restiamo commossi per due motivi. Il primo è che la città di fondazione, circa un milione di abitanti (il doppio dell’originariamente previsto), rivela di non essere affatto un progetto utopico o una città ideale, che dir si voglia, come continuano a sostenere ancora oggi molti detrattori del modernismo. Il secondo motivo è che nei dettagli, nei materiali, nei colori, nella luce, negli arredi e nella ricchezza ideativa e nell’invenzione che permeano tutta questa città, c’è qualcosa di incredibile.
Il Palazzo dell’Assemblea Legislativa.
L’Alta Corte di Giustizia. (sopra )
I due edifici pubblici fanno parte del Campidoglio monumentale di Chandigarh, separato dai quartieri residenzialie circondato da giardini. Lunghe rampe tra un piano e l’altro, pilastri giganti dai colori accesi accanto al calcestruzzo grigio e ruvido, aperture senza serramenti. A quasi settant’anni dalla loro realizzazione (subito dopo la drammatica divisione del Punjab tra India e Pakistan. 1947 – nota 1- ), gli edifici si sono arricchiti dei segni del tempo.
L’umanità nell’opera di Le Corbusier
Da sola Chandigarh giustificherebbe un lungo viaggio. Diversi colleghi architetti pensano che la principale differenza tra l’architettura di Le Corbusier e l’architettura degli altri sia data dalla sua plasticità al chiaroscuro, dalla sua verve artistica, scultorea e pittorica.
Ma queste immagini, che si tratti di quelle dei grandi edifici/monumenti del potere (il Segretariato Generale, il Palazzo dell’Assemblea) o che siano quelle di un disordinato angolo dimenticato nella stanza di un piccolo burocrate indiano, ci fanno sospettare che non si tratti soltanto di questo.
Manuel Bougot/Photofoyer
A settant’anni circa dal concepimento di Chandigarh da parte di LC, ci accorgiamo che è stata l’umanità piuttosto che l’artisticità a dare profondità ai suoi progetti. La professione indicata sul suo passaporto era ‘homme de lettres’, che potremmo tradurre con umanista. Col senno del poi (e le avvincenti fotografie che presentiamo lo dimostrano in modo inequivocabile), ci accorgiamo che meglio di chiunque altro LC capì ciò verso cui l’uomo del XX secolo poteva aspirare e di cui aveva bisogno, per contrastare l’inarrestabile avanzata della fredda tecnica (che peraltro egli riveriva).
Manuel Bougot/Photofoyer
Manuel Bougot/Photofoyer
Una selezione di dettagli architettonici di Chandigarh. Le facciate e gli interni modernisti dei settori residenziali che formano una città giardino; i ‘pilotis’ liberi delle strutture che si alternano a setti con aperture biomorfe; i giochi di ombre e penombre filtrate da vivaci schermi in calcestruzzo. Tutti segnali di un’attenzione diffusa ed empatica nei confronti dell’ambiente abitato dall’uomo.
Tutte le immagini di questo servizio sono tratte da Voyage à Chandigarh di Manuel Bougot, Edition du patrimoine Centre des monuments nationaux, Fondation Le Corbusier.
I tanti suoi progetti che tutti insieme fanno la città di Chandigarh – pubblici, residenziali, scolastici, urbanistici, interni, esterni, urbanistici – sono zeppi di imprevisti, di improvvisazioni, di fantastiche sorprese, di occasioni e sbagli, di gioielli incastonati nei luoghi più inaspettati, di difetti che sono stati magicamente trasformati in virtù, di ombre che creano spazi e di spazi che creano ombre. Straordinarie anche le opere più piccole di tutte, cioè i mobili e gli arredi, non certo subalterne rispetto agli spazi che le ospitano. Queste sottendono uno stile di vita moderno, francescano e poetico: lo scaffale accanto alla finestra ovaleggiante, il corrimano di metallo che si fa scultura, la nicchia colorata, la lampada di lamiera sul tavolo, la canna fumaria organica, il raggio di luce tropicale che taglia l’aria.
Manuel Bougot/Photofoyer
Il Neelam Cinema, progettato da Aditya Prakash sotto la supervisione di Le Corbusier e di suo cugino Pierre Jeanneret, si trova nel Settore 17, principalmente a destinazione industriale. Offre quasi 1.000 posti a sedere. Come molti altri edifici di Chandigarh (un milione di abitanti), combina forme tipicamente occidentali degli Anni 50 con motivi decorativi e cromatici assolutamente indiani. Il suo futuro è oggi a rischio.
Come può un umanista-architetto, seppur in compagnia dei suoi collaboratori dislocati in Francia e in India (non va dimenticato il ruolo importante svolto dalla coppia inglese di Edwin Maxwell Fry e Jane Drew), concepire un’intera città con tanta lungimiranza? Come si può progettare qualcosa di così vasto, polifonico, sfaccettato, a momenti così aulico e monumentale e a momenti invece così prosaico e intimista, se non partendo dall’uomo stesso, dal Modulor?
Tante – mi piace pensarlo – devono essere state le decisioni e altrettanti i disegni scarabocchiati sui muri di cemento, in loco. Tanti i dubbi, i ripensamenti, i prestiti presi dalla cultura vernacolare del Punjab, i lampi di ispirazione, le idee rubate ad altri progetti. Tutto il lavoro di progettazione dev’essere stato accompagnato da un immane sforzo parallelo di immaginazione, nello spazio e nel tempo, rispetto a come sarebbe stata oggi, nel 2020, Chandigarh, in quanto città-capitale e insieme città- giardino. Chi sarebbe venuto a viverci? Come sarebbe stata usata? Come sarebbe invecchiata? All’ombra di che cosa si sarebbero voluti sedere i suoi cittadini? Le vacche sacre si sarebbero trovate bene? La città avrebbe resistito all’usura e al disfacimento che in India sembrano trasformare tutto in rovine? Le Corbusier fu, in questo caso, sia demiurgo che veggente. Sono queste le domande a cui probabilmente ha cercato di dare risposte anche l’ottimo fotografo francese Manuel Bougot.
Una sala di lettura, nell’Università del Punjab, Settore 14. Progettata da Pierre Jeanneret sotto la guida di Le Corbusier, lascia intuire l’importanza degli arredi e dei mobili, considerati essi stessi delle piccole architetture. I tavoli di legno massiccio, esemplari da collezione,sono un tutt’uno con le lampade da lettura in metallo.
Tramite l’architettura egli ha ritratto la vita stessa che permea la città nel suo insieme, senza privilegiare l’ordine al disordine, oppure il bello al meno bello. In un certo senso, il suo occhio laico ha declassato i monumenti impressionanti del Campidoglio di Chandigarh, facendoli diventare parti viventi della città stessa. Scrive Bougot: “Ho voluto rappresentare l’appropriazione da parte degli indiani di questa architettura occidentale e, a seguire, il confronto tra queste due culture, solo apparentemente contrapposte l’una all’altra”.
Editions du Patrimoine Voyage à Chandigarh
nota 1.
IL PUNJAB ( qualcosina )
La regione del PUNJAB nel 1947 fu spartita tra gli Stati successóri dell’India britannica, India e Pakistan. La città capitale del Punjab indiviso eraLahore, che sorge ora accanto alla linea di spartizione come capitale del Punjab occidentale ( pakistano) .Il Punjab indiano ha come sua capitale la città di Chandigarh. A seguito della spartizione, il Punjab indiano ora usa la scrittura gurmukhi, mentre il Punjab pakistano mantiene la scrittura shahmukhī.
STORIA
Nei tempi preistorici, nel Punjab fu localizzata una delle prime culture conosciute dell’Asia meridionale, la civiltà harappa.
Il periodo vedico ed epico fu socialmente e culturalmente prolifico nel Punjab. Durante questo periodo, ad esempio, nel Punjab furono composte le scritture sacre indù, i Rig Veda e le Upanishad. La tradizione sostiene che il saggio Vālmīki compose il Rāmāyaṇa vicino all’attuale località di Amritsar. Nella leggenda, Krishna diffuse il divino messaggio della Bhagavad Gita a Kurukshetra. Diciotto Purāṇa principali furono scritti nella regione. Gli autori del Vishnu Purana e dello Shiva Purana provenivano dal Punjab centrale.
Le battaglie epiche descritte nel Mahābhārata furono combattute nel Punjab.
Durante l’istituzione e il consolidamento del governo mogol, nel Punjab sorse la figura di Guru Nanak (1469-1538), il fondatore di un potente movimento popolare che ha lasciato un’impronta duratura sulla storia e sulla cultura del Punjab. Nato nel distretto di Sheikhupura, egli rifiutava la divisione del genere umano in compartimenti rigidi di religioni e di caste ortodosse e predicò l’unicità dell’umanità e quella di Dio, mirando così a creare un nuovo ordine che abbracciasse tutto lo spirito pervasivo nell’uomo. Questa nuova filosofia sarebbe servita di base per la fondazione della fede sikh.
All’epoca della spartizione nel 1947, la provincia fu divisa nel Punjab orientale e in quello occidentale. Il Punjab orientale divenne parte dell’India, mentre il Punjab occidentale fu assorbito dal Pakistan.
La parte pakistana della regione copre un’area di 205.344 km², mentre lo Stato indiano del Punjab è di 50.362 km². La popolazione della regione è divisa in modo simile, in quanto 86 084 000 persone (dati 2005) vivono nel Punjab occidentale (Pakistan) e 24 289 296 (dati 2000) nell’attuale Stato del Punjab orientale (India). https://it.wikipedia.org/wiki/Punjab_(regione)#Cronologia
Al Punjab toccò poi subire l’urto delle cruente agitazioni successive alla fine del Raj Britannico, che produssero un numero di vittime stimato nell’ordine delle centinaia di migliaia, o addirittura superiore.
Dopo il 1947:
1966: Punjab indiano diviso in tre parti: Punjab, Haryana e Himachal Pradesh
1973 – 1995: insurrezione del Punjab.
Dopo la divisione tra Pakistan e India, i sikh del Pakistan ( predominanza islamica ) furono costretti ad emigrare in INDIA. Il contrasto fra il movimento separatista dei SIKH. e il governo di Nuova Delhi si aggravò a partire dai primi anni 1980, dando luogo fino alla metà degli anni 1990 a ripetuti e gravi episodi di violenza.
“L’assedio. La fame. I bambini innocenti prime vittime della guerra. […] Perché Dio consente che venga fatto del male ai bambini? […] Fa il paio con l’altra domanda insolvibile: come ha potuto Dio permettere l’Olocausto? Erano i bambini i primi a finire nelle camere a gas. La sola cosa che dovrebbe essere chiara a tutti è che un bambino palestinese vale esattamente quanto un bambino ebreo”.
Dalle stragi bibliche di innocenti alla guerra a Gaza. Esordisce così Macellerie – Guerre atroci e paci ambigue (Feltrinelli, 2024) di Siegmund Ginzberg, un libro che traccia i profili di un’umanità violenta attraverso conflitti e atrocità della storia, dalla Cina degli Stati combattenti alle guerre di oggi.
Ginzberg, giornalista e saggista nato in Turchia da una famiglia ebrea, non è il solo ad aver preso posizione nell’ultimo mese.
Il suicidio di Israele
Anna Foa
Laterza, 2024
È dallo “stesso dolore per gli uni e per gli altri” – le vittime del 7 ottobre, gli ostaggi israeliani e i civili morti a Gaza – che nasce
Il suicidio di Israele ( Laterza, 2024 ) della storicaAnna Foa, “un’ebrea della diaspora”.
Un pamphlet di 91 pagine che riflette sul processo di costruzione nazionale israeliano e chiede un cambio di rotta: “Quando e se le armi smetteranno infine di sparare, dovremo rivedere molti dei nostri schemi interpretativi, ripensare il nostro rapporto con la nostra storia – riporta la premessa – Rileggere i percorsi di una memoria che ci ha accompagnato per ottant’anni ma che non è bastata a mettere in salvo né i civili ebrei né i civili palestinesi nei mesi di guerra”.
Pur con approcci diversi – puramente storico quello di Foa, ricco di analogie quello di Ginzberg – entrambi scelgono di esporsi. “Una volta mi è stato chiesto in cosa consiste il mio essere ebreo. Ho risposto: far parte di un popolo discriminato, affamato, perseguitato. L’essenza del mio ebraismo è identificarmi con chi ha subito l’Olocausto.Non mi piace far parte di un popolo di persecutori”, sottolinea Ginzberg.
Nel suo libro intreccia episodi caratterizzati dalla “stessa reiterazione di dettagli truculenti, orripilanti, di macelleria”, come egli stesso specifica, i cui protagonisti sono spesso ebrei. Assedi, come quello di Gerusalemme; massacri e deportazioni, attraverso cui via via si è perpetrata la diaspora. “Il libro è diretto a chi incita Israele alla vendetta,” spiega Ginzberg a Reset,“non credo però che convincerà i lettori ebrei che ritengono che chi sostiene che quello che fa Israele non va bene sia un traditore dell’ebraismo”.
“È il trauma del 7 ottobre, una mattanza fatta da Hamas proprio per suscitare la reazione militare di Tel Aviv e spingerla agli estremi sconvolgendo il quadro di tanti anni di riflessioni intorno a una soluzione di pace”, dice Foa a Reset. E in molti “nelle comunità ebraiche” sostengono “che Israele è a rischio di un altro pogrom”, prosegue, cosa che porta a “una difesa a oltranza del suo operato, che arriva a impedire qualunque dialogo”. Per alcuni ciò si traduce in un’incapacità di provare “empatia”, come la definisce Foa, una reazione già individuata da Gideon Levy anche nella sinistra israeliana verso i morti a Gaza.
Mentre le critiche al governo di Benjamin Netanyahu vengono bollate come antisemitismo. “Non è che a forza di estendere a dismisura questa nozione finiremo per perderne la natura e specificità?” si interroga Foa, che esprime dubbi nel suo libro sull’equivalenza tra gli attacchi alla politica israeliana (antisionismo) e l’antisemitismo a partire da due definizioni “ufficiali”: quella dell’International Holocaust Remembrance Alliance – adottata anche dall’Italia – che li associa, e quella più recente di Gerusalemme, “più prudente”. “Netanyahu accusa ogni opposizione di essere antisemita, all’interno come all’esterno”, esplicita.
Parlare di genocidio intanto “resta un tabù”. “Molte voci da Israele dicono che se non si tratta di un genocidio, ci si sta avvicinando. Questo è un punto su cui devono decidere le Corti internazionali, ma bisogna comunque discuterne”, rimarca Foa. “La parola ‘genocidio’ ha un’eco emotiva, politica, propagandistica. Non mi sembra questo però il modo in cui ne parlano il Papa, le opposizioni in Israele, quelle interne al mondo ebraico o certe esterne, in Europa e negli Stati Uniti”. Intanto, “il 70 per cento delle vittime confermate sono civili, questo è un dato di fatto”, continua Foa, “siamo comunque di fronte a crimini contro l’umanità, crimini di guerra”.
Nei due volumi, la guerra a Gaza rappresenta una svolta esistenziale per Tel Aviv. “Israele non può permettersi standard morali simili, speculari a quelli di Hamas. […] Né per vendetta, né per scoraggiare i malintenzionati, né per dimostrare che non è debole. Ne va, temo, della sua stessa sopravvivenza futura”, scrive Ginzberg in uno dei rari passaggi di riflessione diretta. “La trasformazione di Israele in un Paese autoritario avanza, la polizia attacca ogni manifestazione di dissenso, le prigioni sono piene di cittadini arabo-israeliani e dei Territori detenuti senza processo, le dichiarazioni razziste dei ministri si moltiplicano, non senza conseguenze per la società tutta”, elabora invece Foa. Che si spinge a chiamarlo “suicidio”.
“Non sono convinta che si fermi un suicidio”, afferma la storica, “perché viene dall’interno. Un suicidio non lo si ferma con le armi o con i muri e i fili spinati. Lo si ferma guardandosi dentro”. Per Foa è necessario un ripensamento sul piano etico e morale: “Forse si prova orrore di fronte all’arresto dei soccorsi, all’assenza di latte per i bambini, di acqua per i civili. Però la distruzione viene in qualche modo giustificata. Gli israeliani dovrebbero reagire a questa secchezza introdotta nella loro anima dalle violenze esterne. Pensare che quello che sta succedendo non è solo rivolto contro i palestinesi, ma riguarda anche gli ebrei israeliani”.
Una messa in discussione anche sociale e politica. “Non è ormai giunto il momento di guardare a costruire una società civile democratica, di cittadini liberi e uguali nelle loro diversità? – scrive, ricalcando le posizioni della storiografia post-sionista – E come può uno Stato ebraico, necessariamente fondato sulla supremazia degli ebrei sugli altri cittadini garantirla? È questa una contraddizione di fondo tra Stato ebraico e Stato democratico, che si perpetua dall’inizio e che è ora necessario sciogliere se si vuole uscire da questa situazione di guerra, ma anche dallo stallo che l’ha preceduta”.
“Sono allibito per come si sia gettato alle ortiche il capitale di solidarietà a Israele per l’aggressione subita il 7 ottobre”, dice con amarezza Ginzberg. “Come pensa Israele di vivere in pace circondato da Paesi o anche solo popolazioni ostili, soprattutto se si mette contro la Turchia, l’Egitto, l’Iran, ma anche le Nazioni Unite, il Papa, l’Europa?” Tra le principali minacce per il Paese, per il giornalista c’è l’isolamento. “Israele sta distruggendo un prestigio indiscusso: essere l’unica democrazia del Medio Oriente”, sottolinea Ginzberg, che aggiunge, “per restare al potere Netanyahu ha imbarcato nel suo governo l’estrema destra di chi ha incoraggiato e difeso gli assassini di Rabin”. “Guai a chi si isola, perde consensi per fanatismo”, ammonisce in Macellerie.
L’israeliana e la palestinese: due memorie, due identità contrapposte, ma molto simili. “Identità nazionali in cui la dimensione della catastrofe e del trauma svolgono un ruolo centrale e dove la narrazione nazionale ruota in gran parte attorno a motivi legati all’essere vittime e alla perdita subita”, scrive Foa. “È possibile conciliare la memoria con la giustizia nel momento in cui una delle due vittime è anche vittima dell’altra?”.
Adolescenti in Italia: cosa pensano gli under 18 e cosa dicono gli adulti
Foto di Eliana Giaccheri
Presentati i dati dell’indagine demoscopica promossa da Con i Bambini e condotta dall’Istituto Demopolis, all’interno dell’evento finale dell’iniziativa “Con i bambini cresce l’Italia”, con protagonisti assoluti ragazzi e ragazze. Dai conduttori adolescenti ai desideri condivisi tramite una cartolina speciale inviata a loro stessi da grandi, per riempire la realtà con i loro sogni. “Ne abbiamo bisogno noi, ne avete bisogno, e tanto, anche voi adulti”. I ragazzi hanno lanciato l’idea nata all’interno della campagna “Non sono emergenza” di istituire una panchina verde come simbolo del contrasto al disagio degli adolescenti.
Rossi-Doria: “Investire sui ragazzi vuol dire fare crescere e sviluppare questo Paese”.
Gli adulti continuano a non capire i ragazzi. È la sintesi dell’indagine demoscopica “Adolescenti in Italia: che cosa pensano gli under 18 e cosa dicono gli adulti” promossa da Con i bambini e condotta dall’Istituto Demopolis. Lo scorso anno il 54% dei ragazzi riteneva che gli adulti non comprendono i giovani, quest’anno la percentuale è cresciuta: ne è convinto infatti il 58% degli adolescenti tra i 14 e i 17 anni. Una tendenza che emerge anche dagli altri temi indagati dallo studio: scuola, violenza, dipendenza da internet, rapporti personali e che viene confermata anche dai riscontri emersi nel percorso di “Non Sono Emergenza”, campagna di sensibilizzazione sul tema del disagio degli adolescenti promossa da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. L’obiettivo della campagna è favorire una conoscenza più approfondita sul fenomeno ascoltando direttamente i ragazzi e contestualmente promuovendo il loro protagonismo. Ed è proprio l’ascolto degli adolescenti che ha caratterizzato anche l’indagine demoscopica e la sua divulgazione. Lo studio è stato presentato oggi a Roma presso la Biblioteca nazionale centrale nell’incontro finale dell’iniziativa “Con i bambini cresce l’Italia”, condotto da un gruppo di ragazzi e ragazze tra i 16 e i 18 anni di età, davanti a una platea di coetanei delle scuole e di componenti della “comunità educante”: educatori, docenti, operatori, amministratori locali, rappresentanti delle fondazioni e del terzo settore, di istituzioni pubbliche e private, dei media e della società civile. L’iniziativa è stata promossa dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e organizzata da Con i Bambini per celebrare il 20 novembre, Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
L’indagine “a specchio” promossa da Con i Bambini e condotta da Demopolis, mettendo a confronto adolescenti con adulti e genitori, fa emergere un’Italia a due velocità. Il rapporto intergenerazionale è complicato da sempre, ma nell’ascolto di genitori ed adolescenti di oggi si scopre qualcosa di diverso rispetto ai divari che caratterizzavano le passate generazioni. Sono tanti gli aspetti non compresi dagli adulti secondo i ragazzi. In particolare, non capiscono che vivono in un periodo diverso dal loro (49%), non capiscono quello che pensano e le loro idee (46%), le loro priorità (43%), il rapporto con la rete (41%). Di certo, la variabile “Internet e Social” è misteriosa per i non “nativi digitali” e dilata le distanze di pensiero fra le generazioni: per l’84% dei genitori, quella da “web, smartphone e tablet” è una pericolosa dipendenza. Di segno contrario il giudizio degli adolescenti: solo il 22% dei ragazzi ravvede un rischio. La maggioranza assoluta dei genitori sostiene di sapere che cosa facciano i figli online, ma vengono smentiti dal 70% degli adolescenti, secondo i quali – inoltre – appena un quarto dei genitori è informato sul loro eventuale consumo di alcol fuori casa. Tre adolescenti su 10 trascorrono online più di 10 ore al giorno (mentre secondo i genitori il tempo trascorso on line sarebbe meno della metà, quasi il 40% dichiara fra 5 e 10 ore) ma il 62% degli adolescenti prediligerebbe le relazioni in presenza nei rapporti con i coetanei. A patto, però, di poterle praticare. Infatti, oggi l’eventualità che i 14-17enni facciano attività extrascolastiche, che sono anche il motore fondamentale delle relazioni con i pari, non è scontata e risulta talora residuale: 4 su 10 non praticano affatto attività fisiche o sportive; addirittura meno di un quinto svolge attività musicali (19%),artistiche o teatrali (16%).
Dall’ascolto diretto degli under 18 e delle famiglie emergono molte dimensioni inattese. A partire dallo sguardo sul futuro, con lo schiacciante pessimismo dei genitori(73%) rispetto al futuro dei ragazzi cui fa da controcanto l’ottimismo dei giovani, prevalente ma non plebiscitario: oggi, si dichiara ottimista il 45%, dato in calo di 8 punti rispetto al 2023.
Non a caso, il primo desiderio degli adolescenti per il futuro (65%) è in assoluto star bene con loro stessi; ancor prima della realizzazione economica e lavorativa.
Nelle risultanze dell’indagine Demopolis – Con i Bambini, in termini generali, il futuro è ragione di preoccupazione per il 56%. Tra i timori degli under 18, oltre un terzo cita oggi la solitudine(36%) e la salute fisica o mentale(35%), percentuale in forte crescita dopo l’emergenza Covid.
Una ulteriore conferma emerge anche dal dato relativo alle figure di riferimento. Alla domanda “Con chi condivideresti un tuo problema personale?” il 13% degli adolescenti ha risposto lo psicologo o il medico, una percentuale di gran lunga superiore ad altre figure di riferimento quali l’insegnante (5%), l’educatore o allenatore (4%).
Richieste di ascolto, di attenzione e rispetto che affiorano anche dal documentario “Non sono emergenza” di Arianna Massimi e dalle immagini di Riccardo Venturi che hanno attraversato l’Italia per due anni incontrando e ascoltando ragazzi e ragazze. E dalle migliaia di interazioni e commenti di ragazzi su Tik Tok e Instagram, e dalle centinaia di messaggi condivisi tramite una cartolina speciale da inviare a loro stessi da grandi, per riempire la realtà con i loro sogni. “Ne abbiamo bisogno noi, ne avete bisogno, e tanto, anche voi adulti” hanno sottolineato dal palco della Biblioteca nazionale da Asia, Gabriele, Cristina, Jacopo e gli altri ragazzi che hanno condotto l’evento. Una idea nata proprio dal confronto con gli adolescenti, insieme alla richiesta di lanciare l’idea di realizzare una panchina verde come simbolo del contrasto al disagio degli adolescenti, sperimentata con grande successo lo scorso luglio al Giffoni Film Festival, partner della campagna insieme ad altri 400 enti tra comuni, scuole, associazioni, fondazioni e altri enti di terzo settore, istituzioni culturali, mondo dell’informazione e imprese.
“Con la campagna Non Sono Emergenza abbiamo voluto fare emergere il fenomeno del disagio degli adolescenti in ottica propositiva: per comprendere dobbiamo conoscere e leggere i dati reali, elaborati dall’Osservatorio #conibambini e ascoltare ragazzi e ragazze, come abbiamo fatto attraverso la campagna e anche con l’indagine condotta da Demopolis – spiega Marco Rossi-Doria presidente di Con i Bambini. Per i tre giorni di incontri con la comunità educante, compresi i giovani, abbiamo scelto il titolo “Con i bambini cresce l’Italia”. Non è solo uno slogan, ma deve essere un impegno e un obiettivo condiviso I ragazzi non possono essere un’emergenza, ma sono una preziosa risorsa. È necessario muoversi come comunità educante e rendere realmente protagonisti i ragazzi, il futuro è loro. Solo investendo su bambini e ragazzi si può pensare di fare crescere l’Italia, ed è quello che il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile fa già e che intende far conoscere, condividendo esperienze e buone pratiche, con relative valutazioni di impatto, a beneficio di policy pubbliche orientate al benessere di tutti e di ciascuno. Migliaia di nostri ragazzi fanno cose straordinarie, studiano in modi nuovi e con impegno. Aiutano gli altri, puliscono l’ambiente, si interessano del mondo in modo creativo, inventano soluzioni per problemi. Tutto questo va mostrato di più”.
Secondo i dati dell’indagine promossa da Con i Bambini e realizzata da Demopolis sono ridotti ilivelli di soddisfazione degli adolescenti italiani sulle variabili del vivere: la maggioranza assoluta, ma non plebiscitaria, esprime soddisfazione per il rapporto con gli amici (61%), il 51% per le relazioni familiari. Meno della metà è invece soddisfatta della vita scolastica (48%) e del tempo libero (45%). Inoltre, solo il 38% si dice soddisfatto del rapporto con sé stesso.
Lo studio ha focalizzato le differenti prospettive su quotidianità e futuro di adolescenti e genitori, in una ricerca su duplice target che muove dall’ascolto diretto di ragazze e ragazzi tra i 14 e i 17 anni.
Il quadro cambia se si chiede ai ragazzi di indicare i timori che provano durante il tempo libero fuori casa. Il 38% racconta la paura di essere vittima di episodi di violenza o bullismo, dato che fra le ragazze supera la maggioranza assoluta di citazioni (55%). Lo stesso timore è espresso dai genitori di figli adolescenti, ma con dati assai più marcati: è del 73% la percentuale di quanti temono che i figli possano subire violenza; il 64% degli adulti esprime paura per possibili incidenti stradali, ma fra i ragazzi questa preoccupazione riguarda il 27% del campione.
Non stupisce dunque che del mondo giovanile gli adulti sappiano poco, mentre si illudono di saperne la gran parte.
Mentre il dialogo che gli adulti propongono si concentra nella maggioranza assoluta dei casi sulla vita scolastica (98%) e sulla cronaca locale, gli adolescenti trovano nella rete dei pari l’habitat relazionale in cui sperimentare e dirimere le dinamiche emotive ed il paracadute per i problemi personali. Se l’86% dei genitori si illude che in famiglia i figli siano compresi meglio che da chiunque altro, i ragazzi citano invece i propri amici e coetanei. Inoltre, gli adolescenti condividerebbero un problema personale in prima istanza proprio con gli amici (58%). Meno di 1 su 2, il 43% con i genitori.
Fuori dalle mura domestiche, nelle città d’Italia, l’ascolto delle istanze delle nuove generazioni non è migliore e le dimensioni urbane non sono affatto a misura di minori.
Secondo le risultanze dell’indagine Con i Bambini – Demopolis sulla povertà educativa minorile, condotta sull’intera popolazione italiana, oggi sono inadeguati i servizi sociali (81%), i luoghi e le occasioni di apprendimento extrascolastico (80%), le strutture sportive e le palestre (64%), ma anche la scuola (59%). Inoltre, gli italiani restano convinti che le opportunità dell’istruzione non siano oggi garantite equamente per tutti nel nostro Paese: per il 54% lo sono, ma con livelli di qualità differenti, e con forti divari. Il 33% dichiara non siano affatto garantiti. Appena il 9% crede che la scuola italiana garantisca oggi uguaglianza di opportunità per tutti.
In questo contesto, a fronte di un’istituzione scolastica che meriterebbe un’azione di rilancio, cresce la convinzione diffusa che servano più interlocutori adulti in ascolto degli adolescenti e che la scuola non può avere l’esclusiva in tema di crescita delle nuove generazioni: oggi, l’83% degli italiani sostiene che la responsabilità della crescita dei minori appartiene a tutta la comunità, con un dato che nel 2019, in tempi pre-Covid, era del 46%.
Nota informativa sull’indagine Demopolis-Con i Bambini: metodologia e campioni di ricerca demoscopica
L’indagine è stata condotta dall’Istituto Demopolis, diretto da Pietro Vento, per l’impresa sociale Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, su un campione nazionale stratificato di 4.080 intervistati, statisticamente rappresentativo dell’universo della popolazione italiana maggiorenne, integrato da un focus sui genitori con figli minorenni. Le rilevazioni quantitative, precedute da un’ampia fase di colloqui aperti qualitativi, sono state realizzate con modalità integrate cawi-cati-cami dal 21 ottobre al 4 novembre 2024.
Coordinamento della ricerca a cura di Pietro Vento, con la collaborazione di Giusy Montalbano e Maria Sabrina Titone. Supervisione della rilevazione di Marco E. Tabacchi.
L’Istituto Demopolis ha analizzato anche, con 2 indagini demoscopiche mirate, alcuni target particolarmente significativi, con l’ascolto diretto di ragazze e ragazzi tra i 14 ed i 17 anni (1.008 interviste)e lo studio di un campione mirato di genitori italiani con figli adolescenti tra i 14 ed i 17 anni (502 interviste).
Un breve estratto dalla lecito magistralis “La religione e la guerra” pubblicato su questo canale (link del video completo alla fine del video) il prof. Cacciari illustra i 3 criteri sui quali Tommaso d’Aquino argomenta la possibilità di una guerra legittima. Primo fra tutti la Recta Intentio: la finalità della guerra deve essere orientata alla pace, a un patto. Se viene meno la Recta Intentio la guerra diventa “assoluta” in quanto mira non più a un patto, ma alla sola distruzione dell’altro.
Massimo Cacciari prosegue esponendo anche il concetto di terzietà: in guerra fra gli Stati, diversamente da come avviene nelle liti fra cittadini, non vi sono tribunali predisposti a giudicare l’offesa, non vi è un terzo, riconosciuto e imparziale (super partes), capace di risolvere le loro contese. Per questo ciascun contendente è “giusto”, Iusti Hostes concluderà Alberico Gentili.
“Pace” procede dal sanscrito pak, o pag, il cui significato è fissare, pattuire, legare, unire, saldare.
Da questa radice derivano il latino pax e altre parole di uso comune in italiano, come patto e pagare.
La sua etimologia, quindi, contiene l’idea di negoziazione, e accordo, fra due o più parti antagoniste, individui, gruppi o nazioni, in una situazione di contrasto.
Nella storia militare degli Stati Uniti il termine coincide con l’assenza di conflitto. Di fatto, per ottenere la pace sono state combattute numerose guerre, finanche in maniera preventiva, ed è poi stato fatto uso estensivo della forza per mantenerla. Secondo tale paradigma, la pace non è considerata l’obiettivo ultimo, ma un mezzo per un fine.
Baruch Spinoza (1632-1677), grande filosofo della seconda metà del XVII secolo, definisce la pace una virtù, una disposizione della mente verso la benevolenza e la fiducia.
Per Albert Einstein (1879-1955), prevede la realizzazione dello stato di diritto e il buon funzionamento di istituzioni democratiche in una società.
Nella visione di Martin Luther King Jr. (1929-1968), deve contemplare la giustizia e non solo mirare alla dissoluzione delle tensioni esistenti.
Il pensiero del Dalai Lama (1935) vi include la libertà e il rispetto dei diritti umani.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (Unesco), si è fatta promotrice della creazione di una cultura per la pace, a partire dal congresso che ebbe luogo, nel 1989, in Costa d’Avorio.
La dichiarazione finale di Yamoussoukroconcepisce la pace come un modello di comportamento e un impegno radicato nei principi di libertà, giustizia, uguaglianza e solidarietà. Nello stesso statuto dell’Unesco, si afferma che se la guerra ha inizio nella mente degli esseri umani, è in questa stessa che la pace deve essere costruita.
Il medesimo concetto era stato formulato dal filosofo cinese del VI secolo a.C.,
Lao Tzu:
Per esserci pace nel mondo, deve esserci pace nelle nazioni
Per esserci pace nelle nazioni deve esserci pace nelle città
Per esserci pace nelle città, deve esserci pace tra vicini
Per esserci pace tra vicini, deve esserci pace in casa
Per esserci pace in casa, deve esserci pace nel cuore.
PER LE DONNE CHE NON PARTECIPANO ALLE MANIFESTAZIONE ” PERCHE’ SIAMO TUTTE DONNE ” — mi pare che qualche maschietto si vede…certo le ragazze sono di più..
FOTO SOPRA–
MANIFESTAZIONE DEL 23 NOVEMBRE 2024
25 novembre
In mezzo al corteo romano di ieri pomeriggio spiccava anche un cartello sul quale era stato scritto, con garbata ironia, ‘Valditara scegliti un insulto’
Un momento della manifestazione di” Non una di meno a Roma ” – Patrizia Cortellessa
In decine e decine di migliaia, tante giovanissime, insieme anche a molti loro coetanei e pure a parecchi maschi più avanti con l’età. Sfilano nei cortei contro la violenza sulle donne e di genere e per «disarmare il patriarcato», come reclama lo striscione di apertura nelle piazze convocate da Non Una di meno che a Roma e a Palermo anticipano la ricorrenza del 25 novembre. Un bellissimo colpo d’occhio, un flusso continuo di consapevolezza e determinazione, di libertà allegra e di rabbia urlata.
E intanto ancora donne uccise, circa cento quest’anno, soprattutto «in ambito famigliare e affettivo», secondo la terminologia burocratica che supporta la compilazione di tristi bollettini di morte, dove la mano armata il più delle volte è quella di mariti o ex fidanzati.
Eppure la notizia,per la destra ma non solo, perché nel mondo alla rovescia del vannaccismo contemporaneo a forza di gridare al lupo alla fine tutti o quasi accorrono impauriti, è un’altra: «Bruciata una foto di Valditara».
Et voilà. Ve la siete presa tanto con il ministro dell’Istruzione perché ha negato la persistenza del patriarcato (secondo lui sarebbe stato abolito per legge) e puntato l’indice contro gli «immigrati irregolari», riuscendo a essere (lo ha fatto alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin) particolarmente fuori luogo anche per i suoi standard? Ecco il risultato. Un «atto di violenza» contro il ministro, il governo, la premier (durante la manifestazione sono stati addirittura scanditi cori anti-Meloni), «azioni indegne», tuonano dalle file della maggioranza.
Manca solo che il ministro della giustizia Carlo Nordio rilanci il suo allarme terrorismo, ma è in ogni caso un coro d’indignazione accompagnato dalla consueta richiesta all’opposizione di «prendere le distanze», «condannare», «stigmatizzare».
Eppure in mezzo al corteo romano di ieri pomeriggio spiccava anche un cartello sul quale era stato scritto, con garbata ironia, «Valditara scegliti un insulto». Insieme a tanti altri inviti rivolti alla premier Meloni e ai ministri a partire proprio da quello dell’Istruzione, gettonatissimo dopo la sua ultima sortita. Inviti seri o canzonatori, ma comunque sempre puntuali e meritevoli (a proposito di ministero del Merito) di una risposta.
Invece la destra al governo, seguendo il solco della presidente del consiglio, pardon, del presidente, preferisce approfittare del cerino per alzare cortine fumogene. Nel tentativo di oscurare (ma difficile che stavolta ci riesca) una giornata che al di là del solito rituale dei palazzi istituzionali illuminati di rosso e domani si ricomincia promettendo bonus mamme e minacciando nuovi decreti sicurezza, queste piazze riescono a riempire di senso con lo sguardo ogni volta sempre un po’ più in avanti.
Difficile del resto aspettarsi qualcosa di diverso da questa compagine che condanna a ripetizione la «violenza» di chi dissente ma dove, solo per fare qualche esempio, un ministro dell’Istruzione decanta il valore educativo dell’«umiliazione» e passa il suo tempo a inventare nuove forme di punizione, un vicepresidente del consiglio chiama i manifestanti «zecche rosse», un sottosegretario alla giustizia sogna detenuti che non respirano più mentre la premier dirige fieramente l’orchestra.
Un governo che oltretutto ha una particolare attenzione sadica nei confronti di chi è più giovane e addirittura spera che valga la pena lottare per l’ambiente, l’istruzione pubblica accessibile a tutti, combattere il razzismo e rivendicare la libertà e l’autodeterminazione femminile invece di rassegnarsi alle smanie nucleariste di un Pichetto Fratin, al familismo reazionario di una Roccella, al mood penitenziale di un Valditara e in definitiva a questa destra a tinte fosche.
“Beppe Grillo ha appena avviato un estremo tentativo di sabotaggio: ha chiesto di rivotare, invocando una clausola feudale che si trascinava dal vecchio statuto.
Insomma, è passato dalla democrazia diretta al ‘qui comando io’ e se anche la maggioranza vota contro di me non conta niente”.
Lo scrive sui social il presidente del M5s, Giuseppe Conte. “Dateci qualche giorno, e torneremo a votare sulla rete i quesiti sullo Statuto impugnati da Grillo. Avanti, ancora, insieme”.
L’ex ministro Danilo Toninelli, tuttora nel collegio dei probiviri e grillino della prima ora, lo aveva anticipato su Radio Cusano Campus: “Beppe Grillo chiederà di rivotare le modifiche statutarie”. E il Fatto, dopo aver sentito fonti di peso, può confermare che l’istanza del fondatore è già arrivata. Grillo, come gli permette proprio lo statuto, ha chiesto una seconda votazione su tutte le modifiche, compresa quella che ha cancellato il suo ruolo di garante. E sarà ancora il quorum a fare la differenza, perché nel secondo turno le modifiche potranno essere ratificate solo dopo il voto della maggioranza assoluta della base (la metà più uno degli iscritti).
Non ha aspettato il termine massimo di cinque giorni dalla pubblicazione dei risultati, Grillo. Troppo forte la voglia di rivalsa, dopo quell’applauso che ieri in assemblea a Roma aveva salutato il sì alla sua cacciata dai vertici. Una scena che non era piaciuta neanche a diversi veterani del Movimento, come Chiara Appendino e Roberto Fico. E che potrebbe aver inciso sulla richiesta del fondatore di un nuovo voto. Una nuova sfida che si fa scivolosa, perché ora Giuseppe Conte e i suoi dovranno riportare alle urne sul web oltre la metà degli89mila iscritti, in un clima intossicato dalla minoranza grillina, che protesta da settimane anche per il taglio di oltre 70mila iscritti (ufficialmente perché inattivi). Per questo ieri Toninelli ha esortato i filo-grillini a non disicriversi per protesta dopo la prima votazione. Spera nella rivincita, sulla spinta delle polemiche, e magari nel calo di attenzione della base contiana. Perché l’ultima battaglia di Grillo e dei suoi si giocherà sul filo dei numeri.
Mentre sempre Toninelli ha rilanciato le voci – forti già domenica sera, come scriveva oggi il Fatto – di un’azione legale del fondatore per contestare all’ex premier l’uso del simbolo del Movimento. E sarebbe lo scontro a colpi di carte bollate. Anche se nei 5Stelle restano scettici sul fatto che il garante possa portare lo scontro con Conte in tribunale. Un processo civile costerebbe molto, forse troppo al Grillo che già nelle settimane scorse aveva ventilato di muoversi per vie legali, ma solo sostenendo una causa con una raccolfa fondi, da lanciare sul wb. La certezza è che la sua sfida rusticana con l’ex premier non è ancora conclusa.
La Corte penale internazionale ha emesso mandati di arresto per il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant (poi cacciato dallo stesso primo ministro), nonché il capo militare di Hamas, Deif, che però Israele ritiene di aver ucciso in un raid a Gaza. L’accusa è di crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella Striscia e in Israele dopo il 7 ottobre 2023. Sono 124 i paesi parte della Cpi che hanno aderito allo Statuto di Roma. Stati Uniti, Russia, Cina e Israle non hanno aderito.
per chi volesse sentire la puntata intera :
IL MONDO IN FIAMME E L’EUROPA SEMPRE PIU’ A DESTRA
video, 32 minuti ca
Ospiti di Lilli Gruber: Lucio Caracciolo, Emiliano Fittipaldi ( direttore quotid. Domani ), Giovanni Floris ( conduttore ” Di Martedì, la7 ), Brunella Bolloli ( Libero )
La stanchezza rende aggressivi perché addormenta il cervello.
Il nuovo fenomeno si chiama ‘sonno locale’
di Enrica Battifoglia
La stanchezza rende aggressivi perché addormenta il cervello (fonte: PicKPik) –
Se essere stanchi mentalmente rende irascibili e fa perdere il controllo, questo accade perchè le aree del cervello responsabili dell’autocontrollo a un certo punto si addormentano.
Lo stato nel quale scivolano, lasciando libero sfogo all’aggressività, è infatti dominato da un aumento delle onde cerebrali tipiche del sonno.
Lo indica la ricerca pubblicata sulla rivista dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti e condotta in Italia, dalla Scuola Imt di Lucca in collaborazione l’Università di Firenze. Lo studio è stato progettato nel Molecular Mind Lab della Scuola Imt diretto da Pietro Pietrini e la prima autrice è Erica Ordali.
“Questi risultati forniscono una base scientifica alla saggezza popolare che suggerisce di ‘dormirci sopra‘ prima di prendere una decisione, dimostrando che l’esaurimento metabolico all’interno di alcune aree cerebrali influisce effettivamente sui nostri processi decisionali“, osserva Pietrini. “Nel complesso – aggiunge – questi risultati hanno importanti implicazioni per molteplici situazioni della vita quotidiana, tra cui le transazioni economiche e gli accordi legali, poiché dimostrano che quando il cervello è ‘stanco’ possiamo fare scelte che vanno anche contro i nostri interessi“.
Finora era noto che l’affaticamento mentale prolungato può logorare le aree cerebrali cruciali per la capacità di autocontrollo, lasciando spazio a comportamenti aggressivi. Si riteneva inoltre che questa perdita di controllo fosse dovuta al fenomeno psicologico chiamato ‘esaurimento dell’ego‘, teorizzato fin dall’inizio degli anni 2000, ma che recentemente non si è dimostrato convincente.
Di qui l’idea dei ricercatori italiani di trovare una dimostrazione basata sulle neuroscienze. Il punto di partenza è stato il fenomeno chiamato ‘sonno locale‘, che si verifica quando alcune aree cerebrali in un individuo sveglio iniziano a mostrare sull’elettroencefalogramma l’attività neurale tipica del sonno, ossia le onde delta. “La nostra ipotesi di partenza era che il sonno locale fosse la manifestazione neuronale del fenomeno dell’esaurimento“, osserva Ordali.
Per verificarla i ricercatori hanno sottoposto un gruppo di 44 volontari ad alcuni compiti di fatica della durata di un’ora e subito dopo, quindi in condizioni di affaticamento mentale, i volontari hanno dovuto eseguire giochi che richiedevano diversi gradi di aggressività e cooperazione mentre erano sottoposti all’elettroencefalogramma.
E’ emerso così che nel cervello degli individui più affaticati alcune aree della corteccia frontale mostravano le onde tipiche del sonno. “Il nostro studio – osserva Ordali – dimostra che la stanchezza mentale ha un effetto misurabile sul comportamento e che, quando si manifesta un certo grado di stanchezza, le persone sono più propense a comportarsi in modo ostile“.