Franco D’Imporzano ( Sanremo, 1940 – aprile 2019 ), illustre poeta, commediografo, eccellente conferenziere, bellissima voce per cantare ” Mamma li Turchi ” ( disco e cassetta che non si trovano più ) e altre canzoni, fedelissimo dell’Anpi di Sanremo, tempo fa abbiamo pubblicato il suo ultimo discorso pubblico proprio per la manifestazione del 25 aprile, sarà stato nel 2018, anche noi eravamo lì.
Non ultimo: è stato ed è il fratello della nostra Donatella che se, ogni tanto comparite qui, saprete tutto di lei.. anche la taglia delle sua mutandine !
A FESTA DA BEFANA
Prefümu de couse amìghe
e de foure antìghe
ch’i parla di Remàgi, arrecampài (giunti, poet.)
cun òuru, incènsu e mirra remurcài (portati)
pe’ rende umàgiu au Bambin Gesü:
pe’ puréri incuntrà,
tantu da sentì ascàixi mancà u cö
e nu scurdàri ciü,
u basta andà in sc’i-uu mö
aa mezanöte de sta nöte strana
avendu in còlu noma
che a camìixa bagnà
e int’e mae in cana.
Lolì u besögna fà
pe’ viéri arrivà cun l’anze e a soma
e u camélu, dae sò terre luntane
dunde u sciròcu u mes-cia essense strane…
A Befana a l’è invece in po’ ciü aa man:
brava vejéta ch’a vèn tüti i agni,
sensa sciaràti, lüssu o ramadàn,
cun demùre (giochi) e cun dursci int’i cavagni!
A infìra dréntu aa capa du camìn
u sò regalu p’ii fiöi pecìn,
pöi a sàuta a cavàlu da spassùira (scopa)
svuratandu p’ii téiti sensa pùira.
e lì: büràte a brétiu (bambole in gran numero), balunéti,
trumbe, trumbéte, ùrsci e surdatìn,
ciculàte, turrùi, ciculatìn
a sporte, a tumbarèli (carretti), a vagunéti!
P’ii fiöi bravi a l’ha in regalu e ascì
p’ii grami e tüti chéli lì cuscì.
E a mi, fiurìn cresciüu,
ch’a l’ho apéisu a l’agüu (chiodo)
ina càussa sarzìa (rammendata)
cu-u fì da nustalgia,
au postu du turrun, di sparuchéti,
a vejéta, grandiùusa, a m’ha purtàu
sti catru vèrsci ch’a l’ho arrecamàu:
ranghezanti, ma s-ciéti. (zoppicanti ma sinceri)
FRANDO D’IMPORZANO
video, 2.54 minuti– oltre ad Andrea D’Imporzano si vede un po’ Sanremo
prof. associato in Politica Economica alla Sapienza di Roma, è affiliato a Scuola Superiore Sant’Anna, Istituto di Economia (Pisa). L’intervista a Dario Guarasco sulle aziende tecnologiche e Trump, dura 15 min. Seguono poi altri temi scritti sotto.
video, 28 min. ca
Alla cerimonia di insediamento del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump saranno presenti i capi delle principali aziende tecnologiche statunitensi. Con Dario Guarascio, professore associato di economia e politiche dell’innovazione all’università Sapienza di Roma.
GLI ALTRI TEMI:
A Malta si concentra l’allevamento del tonno rosso del Mediterraneo, che viene poi esportato in Asia, dove viene venduto un prezzo esorbitante. Con Marzio Mian, giornalista.
Oggi parliamo anche di: Scienza • “Il vaccino contro il cancro è più vicino“, The Economist https://www.internazionale.it/magazin… Libro • A quattro zampe di Miranda July (Feltrinelli)
I Paperoni sono sempre più ricchi, accelera il gap con i poveri.
L’allarme di Oxfam al World Economic Forum di Davos : ‘È l’ora più buia’ per l’eguaglianza
Domenico Conti
Musk e Bezos –
” Paperoni ‘ sempre più ricchi, con un’accelerazione nel 2024, mentre i poveri restano al palo con il numero assoluto di chi vive sotto la soglia di povertà che è rimasto lo stesso del 1990.
A dirlo è “Disuguaglianza: povertà ingiusta e ricchezza immeritata”, il nuovo rapporto pubblicato oggi da Oxfam in occasione dell’apertura dei lavori del World Economic Forum di Davos e in concomitanza con l’insediamento alla Casa Bianca del miliardario Donald Trump, sostenuto dall’uomo più ricco del mondo, Elon Musk.
Nel 2024 – secondo i calcoli di Oxfam – la ricchezza dei miliardari è cresciuta, in termini reali, di 2.000 miliardi di dollari, pari a circa 5,7 miliardi di dollari al giorno, a un ritmo tre volte superiore rispetto all’anno precedente.
Allo stesso tempo il numero assoluto di individui che vivono sotto la soglia di povertà, che Oxfam indica in 6,85 dollari al giorno,è oggi lo stesso del 1990, poco più di 3,5 miliardi di persone.
Alle tendenze attuali – stima l’organizzazione non governativa – ci vorrebbe più di un secolo per portare l’intera popolazione mondiale sopra tale soglia.
Anche il rallentamento del tasso di riduzione della povertà estrema (condizione in cui versa chi non dispone di risorse superiori a 2,15 dollari al giorno) tende a consolidarsi, allontanando l’obiettivo di eliminare la povertà globale entro il 2030.
Sempre nel 2024 – si legge in un comunicato di Oxfam – il numero di miliardari è salito a 2.769 rispetto ai 2.565 del 2023 ( + 204 ).
Il valore dei loro patrimoni è aumentato da 13.000 a 15.000 miliardi di dollari in soli 12 mesi, il secondo maggior incremento annuo di ricchezza riscontrato da quando i patrimoni miliardari sono monitorati.
Un trend che potrebbe riflettere la crescente accumulazione di ricchezza dei colossi tecnologici, con economie di scala, una concentrazione della ricchezza e una capacità di influenza politica difficile da trovare nei settori tradizionali.
Il trend è così veloce che se l’anno scorso Oxfam prevedeva la comparsa del primo ‘trilionario’ (patrimonio da almeno 1.000 miliardi) entro un decennio, “al tasso attuale di crescita della ricchezza estrema di trilionari ne avremmo cinque”.
La ricchezza globale non solo è fortemente concentrata al vertice, ma in gran parte deriva anche da rendite di posizione.
Secondo Oxfam oltre un terzo delle fortune dei miliardari deriva da eredità.
“L’incapacità di contenere la concentrazione di ricchezza tende a consolidare il potere nelle mani di pochi e generare paperoni trilionari – dice Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia –
Dirige Oxfam Italia dal 2024, dopo averne diretto per sette anni il Dipartimento Cooperazione Internazionale. Da alcuni anni insegna all’Università di Firenze.
È stato programme officer in UNICEF nel Centro America, ha coordinato il lavoro di pianificazione sociale ed educativa presso i comuni della Provincia di Arezzo, ha lavorato in alcune società di consulenza in ambito internazionale sui temi della cooperazione.
Un’inversione di tendenza è necessaria, ma il contesto politico la complica. La precarizzazione economica e la marginalizzazione culturale di ampie fasce della popolazione favoriscono proposte politiche identitarie – come quelle che si vanno radicando negli Stati Uniti, con la rielezione di Donald Trump, e nel vecchio continente – che mirano a creare artificiose contrapposizioni tra gli emarginati. Una strategia che permette di tenere in secondo piano il mancato raggiungimento di risultati economico-sociali a beneficio dei più vulnerabili, mentre persegue politiche che avvantaggiano chi è già in posizione di privilegio. Così, l’obiettivo di un’economia più inclusiva e una società più dinamica ed equa si allontana”.
Mikhail Maslennikov @MasloMisha, è policy advisor di Oxfam Italia sulla giustizia economica – Ha scritto un rapporto sulla giustizia economica in Italia. Lo cercheremo
PUBBLICAZIONE DI OFXAM ITALIA
ALCUNE COSE IMPORTANTI DEL RAPPORTO: (al fondo link per scaricarlo )
L’ITALIA: UN PAESE DALLE DISPARITÀ ACCENTUATE
A fine 2022, l’1% più ricco, sotto il profilo patrimoniale, deteneva una ricchezza84 volte superiore a quella del 20% più povero della popolazione.
Il nostro Paese occupa inoltre da tempo le ultime posizioninell’UE per il profilo meno egalitario della distribuzione dei redditi.
Il lascito delle crisi è riflesso nell’aumento delle persone in condizione di fragilità. Il fenomeno della povertà assoluta mostra in Italia una diffusione sempre più ampia, l’aumento della sua incidenza nel biennio 2021-22 è attribuibile in larga parte, e malgrado il buon andamento dell’economia italiana nel 2022, all’impennata dell’inflazione e ai suoi impatti più incisivi sulle famiglie che hanno minore capacità di spesa e non possono fare affidamento sui propri risparmi.
Una dinamica destinata ad aggravarsi in virtù del rallentamento dell’economia nazionale nel 2023, della riduzione delle misure compensative contro il caro-vita e della portata degli strumenti che hanno sostituito il reddito di cittadinanza (RDC).
Le nuove misure di inclusione lavorativa e sociale del Governo Melonideterminano infatti un’iniqua selezione tra poveri. Non basterà più essere indigenti per ottenere un supporto continuativo al reddito e si stima che, rispetto al bacino dei potenziali beneficiari del RDC, 500.000 famiglie in meno potranno beneficiare di una delle nuove misure approntate, ampliando le disuguaglianze e aumentando povertà ed esclusione sociale.
IL MERCATO DEL LAVORO: DEBOLEZZE STRUTTURALI E MARCATE DISUGUAGLIANZE
Particolare attenzione è rivolta nelle nostre analisi al mercato del lavoro. Nonostante alcuni segnali positivi nel 2023, come il tasso di occupazione record al 61,3%, restano irrisolte questioni di carattere strutturale come la perdurante stagnazione salariale e la contenuta produttività del lavoro, la bassa qualità lavorativa di giovani e donne e il diffuso ricorso a forme di lavoro atipico che determina marcate disuguaglianze retributive e amplia le fila dei lavoratori poveri(ben 1 lavoratore su 8).
POLITICHE FISCALI ALL’INSEGNA DELL’INIQUITÀ
Se le politiche fiscali rappresentano un importante strumento di politica pubblica per aumentare l’efficienza del sistema economico e l’equità distributiva, la riforma fiscale del Governo Meloni si presenta all’insegna dell’iniquità. Puntando ad individuare categorie di contribuenti da privilegiare, non interviene su questioni sistemiche come la ricomposizione complessiva del prelievo con lo spostamento della tassazione dai redditi da lavoro ad altre basi imponibili in un contesto, come quello italiano, in cui la quota dei redditi da lavoro sul Pil è in calo da anni e il prelievo sul lavoro supera ditre voltequello su profitti, rendite ed interessi.
La riforma svilisce la progressività del sistema impositivo, esaspera i trattamenti fiscali differenziati di contribuenti in condizioni economiche simili, ma che derivano reddito da fonti diverse, ed è preclusiva verso la tassazione patrimoniale.
Italia, il Paese delle fortune invertite: chi è in cima alla piramide si arricchisce, la metà che ha meno sta sempre peggio. “E le misure del governo peggiorano il quadro”
Il nuovo rapporto Disuguitalia di Oxfam mette in fila dati e analisi sugli squilibri di reddito, ricchezza e opportunità di lavoro che spaccano l’Italia. Mentre l’autonomia differenziata minaccia di dare il colpo di grazia al Ssn
Sono un ottimista. Ma in questi tempi molto bui, l’ottimismo sembra sempre più fragile. Avendo trascorso l’intera carriera lavorando con organizzazioni della società civile, attivisti e promotori, ci siamo spesso confrontati con una domanda fondamentale: “Cosa sta affliggendo il nostro mondo?” Sono convinto, ora più che mai, che la causa principale risieda nella grottesca disuguaglianza del nostro sistema economico truccato, un sistema deliberatamente progettato per arricchire un’élite benestante, a spese della gente comune.
Mentre il tempo stringe sulla promessa degli Obiettivi di sviluppo sostenibile di offrire un futuro migliore e più sostenibile per tutti, il nostro mondo rimane nettamente diviso. Il divario tra l’1% più ricco e il resto di noi si è allargato fino a diventare un abisso.
Il nuovo rapporto di Oxfam, Takers Not Makers: The unjust poor and unearned wealth of colonial inheritance , pubblicato oggi, mostra che nel 2024 la ricchezza dei miliardari è salita alle stelle, aumentando tre volte più velocemente rispetto al 2023. Nell’ultimo anno, la ricchezza totale dei miliardari è aumentata di 2 trilioni di dollari e sono stati creati 204 nuovi miliardari, in media quasi quattro nuovi miliardari a settimana.
Smascherare la ricchezza non guadagnata: le vere origini della ricchezza dei miliardari
Il rapporto infrange l’illusione che una ricchezza straordinaria sia una ricompensa per un talento straordinario, o che enormi fortune siano costruite sul duro lavoro, la comoda convinzione che viviamo in una meritocrazia. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Il nostro rapporto fa luce su due aree principali di ricchezza non guadagnata.
Il primo è l’ascesa di una nuova oligarchia alimentata da eredità, clientelismo e potere monopolistico. Stiamo assistendo a un accumulo di ricchezza e potere, che consolida ulteriormente un sistema economico che funziona solo per pochi eletti. La nostra analisi mostra che il 60% della ricchezza dei miliardari proviene da fonti clientelari o corrotte, dal potere monopolistico o è ereditato.
Nel 2024, per la prima volta, ci sono stati più miliardari coniati tramite eredità che imprenditorialità. Ogni miliardario sotto i 30 anni ha ereditato la propria ricchezza. Nel prossimo decennio, trilioni saranno tramandati agli eredi, molti dei quali in gran parte non tassati, creando una nuova era di Downton Abbey per il 21 ° secolo. Ciò non è positivo per la nostra economia, la democrazia o per il nostro futuro collettivo.
Oltre all’eredità, il potere monopolistico e i legami clientelari con i governi sono cruciali nel perpetuare la disuguaglianza. Le società monopolistiche controllano i mercati, dettano le condizioni e stabiliscono i prezzi impunemente, arricchendo ulteriormente i loro proprietari miliardari. Clientelismo e corruzione consentono ai super-ricchi di garantire che il governo lavori per loro, e non per la gente comune.
Oltre a questo problema di ricchezza non guadagnata, il nostro rapporto si addentra in una dolorosa storia di colonialismo, che getta una lunga ombra che continua a lacerare il nostro mondo. Sappiamo che il colonialismo ha beneficiato i paesi ricchi del Nord globale, rispetto al Sud globale. Ma oltre a questo, il colonialismo ha beneficiato principalmente i più ricchi tra le nazioni ricche.
L’impero ha coinciso con un’enorme disuguaglianza nelle potenze colonizzatrici. Per usare un esempio, il 10% più ricco ha estratto il 50% di tutto il reddito nel Regno Unito durante l’apice dell’Impero britannico.
Il colonialismo e la schiavitù imposero ai popoli colonizzati sfruttamento, violenza, razzismo e dominio. Gli effetti della tratta degli schiavi, che fu cruciale per la costruzione delle economie delle colonie europee, si fanno sentire ancora oggi. Ad esempio, dopo l’abolizione della schiavitù e la sua indipendenza dalla Francia, Haiti fu costretta a contrarre prestiti per rimborsare i proprietari di schiavi 150 milioni di franchi, l’equivalente di 21 miliardi di dollari, di cui l’80% andò ai proprietari di schiavi più ricchi. Ciò diede inizio al ciclo di debiti e disastri che continua ancora oggi.
E per coloro che credono che il colonialismo, per quanto terribile, sia stato un crimine storico, direi che c’è così tanto nel nostro mondo moderno che è coloniale. Un sistema che continua a estrarre ricchezza e potere dai lavoratori comuni del Sud del mondo alle persone ricche del Nord del mondo, un fenomeno che chiamiamo “colonialismo miliardario”.
Per fare un esempio, le nazioni ricche usano le loro valute forti e la loro posizione privilegiata nel sistema economico per estrarre una rendita costante dal Sud del mondo, che è costretto a prendere in prestito valute estere a tassi esorbitanti. Utilizzando una nuova ricerca del World Inequality Lab dimostriamo che il Sud del mondo paga 30 milioni di dollari all’ora all’1% più ricco nei paesi più ricchi.
Di volta in volta scopriamo che il flusso di denaro, di risorse, va dal Sud al Nord, dalle nazioni più povere a quelle più ricche, quando dovrebbe essere il contrario. Per ogni dollaro dato in aiuti dalle nazioni più ricche, 4 dollari vengono restituiti ai paesi ricchi in questo modo. Sappiamo che queste risorse non fluiscono a tutti nelle nazioni ricche in modo equo, ma invece avvantaggiano in modo schiacciante i già ricchi. Coloro che hanno difficoltà a pagare le bollette o a riscaldare le loro case nelle nazioni ricche non sono i responsabili di questo nuovo, moderno colonialismo economico, anche loro sono le vittime.
Un invito all’azione: realizzare un futuro giusto e sostenibile per tutti
Dobbiamo cambiare rotta e farlo in fretta. Affrontare l’estrema disuguaglianza richiederà cambiamenti fondamentali nel modo in cui gestiamo le nostre economie e possiamo adottare diversi approcci per raggiungere questo obiettivo. È nell’interesse di tutti colmare il divario, sia tra il Nord del mondo che tra il Sud del mondo, e anche all’interno dei paesi. È la chiave per un mondo pacifico, progressista e prospero, che è qualcosa per cui dovremmo tutti impegnarci.
In primo luogo, tutti i governi devono stabilire obiettivi globali e nazionali per ridurre radicalmente la disuguaglianza. Devono impegnarsi a puntare a far sì che il reddito totale del 10% più ricco non sia superiore al reddito totale del 40% più povero.
In secondo luogo, le ex potenze coloniali dovrebbero riconoscere e scusarsi formalmente per le ingiustizie commesse sotto il colonialismo. Affrontare le profonde ferite del colonialismo è essenziale per andare avanti. Offrire riparazioni alle vittime può aiutare a garantire la restituzione, fornire soddisfazione, compensare i danni, consentire la riabilitazione e guidare la costruzione della fiducia.
Scoprire
Cosa sta facendo il World Economic Forum in materia di diversità, equità e inclusione?
La pandemia di COVID-19 e i recenti disordini sociali e politici hanno creato un profondo senso di urgenza nelle aziende affinché si impegnino attivamente per contrastare le disuguaglianze.
Il lavoro del Forum su Diversità, Uguaglianza, Inclusione e Giustizia Sociale è guidato dalla New Economy and Society Platform, che si concentra sulla costruzione di economie e società prospere, inclusive e giuste. Oltre al suo lavoro su crescita economica, rinascita e trasformazione, lavoro, salari e creazione di posti di lavoro, istruzione, competenze e apprendimento, la Piattaforma adotta un approccio integrato e olistico alla diversità, equità, inclusione e giustizia sociale e mira ad affrontare l’esclusione, i pregiudizi e la discriminazione correlati a razza, genere, capacità, orientamento sessuale e tutte le altre forme di diversità umana.
In terzo luogo, i governi dovrebbero impegnarsi per porre fine ai sistemi obsoleti che creano divisione e non sono più rilevanti per i nostri tempi attuali. Ciò include la collaborazione con istituzioni globali come il FMI, la Banca Mondiale e l’ONU per riformare i loro modelli di governance per garantire una rappresentanza equa a livello globale e ridurre il predominio degli interessi delle élite e delle corporazioni più ricche. Abbiamo bisogno di nuovi sistemi che promuovano la sovranità economica per tutti i governi e salari e pratiche lavorative equi per tutti i lavoratori. Le politiche e gli accordi di libero scambio ineguali devono essere abrogati. La politica fiscale globale dovrebbe rientrare in una nuova Convenzione fiscale delle Nazioni Unite e facilitare il pagamento di tasse più elevate da parte delle persone e delle corporazioni più ricche.
In quarto luogo, i governi del Sud del mondo dovrebbero formare alleanze e accordi regionali che diano priorità a scambi equi e reciprocamente vantaggiosi, promuovendo l’indipendenza economica e riducendo la dipendenza dalle ex potenze coloniali o dalle economie del Nord del mondo.
Infine, ogni forma di colonialismo esistente deve cessare e le popolazioni dei restanti territori non autonomi devono essere aiutate a realizzare il loro diritto all’uguaglianza dei diritti e all’autodeterminazione.
È giunto il momento di cambiare il corso della storia e scrivere una nuova storia più equa che prometta un mondo migliore in cui tutti abbiano l’opportunità di prosperare. Questo è a vantaggio di tutti noi. La nostra attenzione non deve vacillare mentre marciamo per garantire che tutte le persone possano vivere libere, uguali e con dignità.
Cosa possiamo aspettarci da Donald Trump nel suo secondo mandato. Il rapporto con gli europei e in particolare con l’Italia. Elon Musk e Starlink. Il caso Cecilia Sala. Groenlandia e Ucraina. Le aree dove l’Italia può collaborare con gli Stati Uniti: Libia, Balcani e Medio Oriente.
Caracciolo a Otto e mezzo: “Tentativo di accordo una vittoria di Trump e una sconfitta di Netanyahu”
Løten è un comune norvegese della contea di Innlandet. Il nome Løten deriva da un’antica fattoria (norreno: Lautvin) dove fu costruita la Chiesa nel 1220, intorno a cui si sviluppò il paese.
Nel XVI secolo re Cristiano IV di Danimarca proibì l’importazione di birra dalla Germania, e Løten e altre zone della contea divennero famose per le proprie distillerie. Tra queste, ancora oggi, vi è la Løiten Brænderi.
Edvard Munch, la vita e le opere del genio scandinavo
Edvard Munch (Løten, 1863 – Oslo, 1944) è stato uno dei più importanti artisti attivi tra Otto e Novecento perché assieme ad altri pittori suoi coetanei ha segnato un punto di svolta nella storia dell’arte. Ogni qual volta incrociamo il suo nome in un libro o in una mostra è sempre affiancato da altri due artisti: Paul Gauguin (Parigi, 1848 – Hiva Oa, 1903) e Vincent van Gogh (Zundert, 1853 – Auvers-sur-Oise, 1890). Si potrebbe pensare che questi tre maestri siano accomunati, in prima istanza, dallo scarso successo in vita e dalla fama postuma, ma in realtà si tratta di un’opinione errata. Infatti, nonostante sia un pensiero comune associare le opere più cupe e la triste vicenda biografica di Edvard Munch a una scarsa popolarità in vita, il norvegese ottenne un grandesuccesso nella seconda parte della sua carriera. In realtà, ciò che accomuna i tre artisti è la carica soggettiva che caratterizza le loro opere, capace di andare oltre quello studio scientifico e oggettivo della realtà, portato avanti dalle correnti contemporanee degli impressionisti e dei puntinisti. Non a caso Munch, Gauguin e Van Gogh sono considerati anticipatori dell’espressionismo, quella corrente artistica che mira a esaltare il lato emotivo della realtà che ci circonda.
I più grandi capolavori di Munch sono il risultato di una vita tormentata e dolorosa, segnata da perdite familiari, insuccessi, alcolismo, nevrosi e solitudine. Come si vedrà più avanti, la vita di Munch fu piena di alti e bassi, che non hanno permesso all’artista di raggiungere quella stabilità mentale ed emotiva che la sua condizione economica e sociale gli avrebbe permesso. Infatti, nonostante la vita tormentata e solitaria, Munch riscosse grande successo presso la critica e il pubblico europeo, al punto che molti artisti, per esempio le avanguardie del DieBrücke e deiFauves, riconobbero in lui un padre e un maestro della loro arte. Tuttavia, provare a etichettare l’arte del genio norvegese è un’operazione impossibile per la sua singolarità e anche perché Munch stesso rifiutò di farsi accostare a qualunque gruppo di artisti.
Edvard Munch
La vita di Edvard Munch
Edvard Munch nacque il 12 dicembre 1863 a Løten, una piccola cittadina norvegese nei pressi di Christiania (nome originario di Oslo capitale della Norvegia), secondo di cinque figli di Christian e Laura Catherine Bjolstad. Nel 1864 la famiglia si trasferì a Christiania, dove il pittore ebbe l’opportunità di entrare in contatto con un panorama culturale più ampio rispetto al piccolo comune di origine. Purtroppo, l’infanzia di Edvard fu segnata da vari lutti, a partire dalle morti della madre nel 1868 e della sorella maggiore Johanne Sophie nel 1877, entrambe causate dalla tubercolosi. Inoltre, la perdita prematura della madre portò il padre di Edvard a un crollo mentale che lo allontanò dai figli. Ciò incise profondamente sul rapporto tra il giovane Munch e il padre, il quale sognava per lui una carriera da ingegnere, ma alla quale Edvard preferì quella artistica, tanto che iniziò a seguire i corsi della Scuola Reale di Disegno.
Nel 1882 Edvard Munch e altri pittori affittarono insieme un atelier e affidarono la loro formazioni a due illustri pittori: il naturalista Christian Krihg e l’impressionista Frits Thaulow. Le opere di quest’ultimo ispirarono alcuni dei dipinti esposti nel 1883 al Salone delle Arti Decorative di Christiania, la prima mostra a cui partecipò il giovane pittore norvegese.
Nel 1885 Edvard Munch si trasferì a Parigi, dove lesse per la prima volta le opere del filosofo Søren Kierkegaard. Quest’ultimo teorizzò diversi modi di concepire l’esistenza; tra questi figurava la “vita estetica”, che si basava sul connubio tra arte e vita, che Munch reinterpretò in chiave personale come arte e dolore. Questo periodo parigino fu fondamentale sotto vari punti di vista: nel 1889 Munch organizzò la sua prima mostra personale e anche se fu un fallimento, ottenne una borsa di studio che gli permise di rimanere a vivere nella capitale. Il soggiorno francese fu anche un’occasione per farsi conoscere tramite alcune esposizioni, ma soprattutto per entrare in contatto con le opere di numerosissimi artisti, in particolare quelle di Vincent Van Gogh e di Paul Gauguin, che lo spinsero a ricercare uno stile personale che lo contraddistinguesse. Tuttavia, questi anni furono segnati anche dalla perdita del padre, evento che tormentò l’artista fino alla fine dei suoi giorni, dato che non era stato in grado di risanare i rapporti con lui. Proprio questa situazione segnò un punto di svolta nelle sue opere, che per qualche anno continuarono a essere esposte, ma senza riuscire a lasciare il segno nel panorama artistico.
Il 1892 fu un anno estremamente rilevante per la vita e la carriera di Edvard Munch. Il pittore norvegese fu invitato dall’Associazione Artisti Berlinesi a esporre alla loro mostra annuale. Tuttavia, l’esposizione durò soltanto una settimana perché le opere di Munch furono ritenute dalle autorità scandalose e oscene. Il provvedimento causò largo dissenso, al punto che un gruppo di artisti del sodalizio, capitanato dall’artista Max Liebermann, decise di scindersi dall’Associazione Artisti Berlinesi nel 1898, dando vita alla celebre Secessione di Berlino.
La censura non costituì comunque un colpo di arresto nella carriera di Edvard Munch. L’artista, infatti, fu capace di comprendere l’importanza dell’episodio e decise così di stabilirsi a Berlino. Nella capitale tedesca il norvegese fu riconosciuto come un grande pittore per il carattere unico delle sue opere, che gli permise di esporre in tutta Europa e perfino negli Stati Uniti. Il 1893 fu uno degli anni più importanti della sua carriera, per la produzione di alcuni dei suoi più grandi capolavori, come l’Urlo (leggi qui un breve approfondimento di carattere letterario e filosofico sul dipinto), caratterizzati da tinte fosche e fosforescenti e da soggetti macabri e inquietanti. Durante un’esposizione Munch decise di raggruppare sei opere in una serie intitolata Amore, il nucleo originale alla base del Fregio della vita: un ciclo unitario di dipinti che fu ampliato negli anni a seguire fino alla forma definitiva del 1902. Sebbene da una parte nel 1893 Munch raggiunse l’apice della sua carriera, dall’altra la sua tormentata relazione con la fidanzata Tulla Larsen si concluse tragicamente. Sempre nello stesso anno iniziò a dedicarsi alla realizzazione di opere grafiche e fotografiche, che ebbero un largo successo.
Negli anni a seguire, Munch viaggiò molto e riscosse una certa fama, al punto che vari gruppi di artisti gli proposero di unirsi a loro. Tuttavia, Edvard declinò sempre gli inviti preferendo vivere da solo, sprofondando in uno stato mentale instabile ed esasperato, aggravato dall’abuso di alcolici. Nonostante la terribile situazione, l’artista comprese da solo che non era più possibile continuare a vivere in questo stato e decise di ricoverarsi, seppur con la possibilità di continuare a dipingere. Dopo il ricovero, Edvard riuscì a condurre uno stile di vita più sano, ma sempre in solitudine. Infatti, il pittore decise di isolarsi quasi completamente dal resto della società. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati dal tentativo di farsi apprezzare dalla sua madrepatria che lo aveva sempre ignorato, impegnandosi nella realizzazione di commissioni pubbliche e lasciando in eredità al sindaco di Oslo la maggior parte delle sue opere. Subito dopo aver raggiunto l’accordo con il sindaco, Edvard Munch morì nel 1944, a causa di una broncopolmonite.
Le opere, lo stile, il tormento di Edvard Munch
Le opere del primo periodo di Edvard Munch sono molto diverse da quelle della sua maturità: le tinte sono tenui e controllate, i personaggi sono calmi e rilassati e risentono ancora dell’arte di Edvard Degas che fu un artista per lui importante nei primi anni della sua carriera. Un momento di svolta è chiaramente percepibile nell’opera La bambina malata (1885-1886). Questo dipinto fu esposto per la prima volta con il titolo Studio e suscitò molte polemiche da parte della critica per il carattere di non finito e di incompiutezza della materia pittorica. L’opera riflette un evento personale, ovvero quello del decesso della sorella, che sembra raffigurata sul letto di morte accanto alla zia Karen che all’epoca si prese cura dei bambini dopo la scomparsa della madre. Sebbene il dipinto sia soltanto del 1885, il pennello di Munch sembra affrancarsi dallo stile impressionista e avvicinarsi a un tipo di pittura più soggettivo e carico di emozioni.
Come detto precedentemente, il 1892 fu l’anno della svolta nella carriera artistica di Edvard Munch. Ciò è intuibile in alcune opere di questi anni, come Malinconia. L’opera raffigura un paesaggio marino al tramonto, con un pontile sullo sfondo, dove sono rappresentate alcune figure e una barca in mezzo al mare. Nella parte inferiore della tela, sulla destra, compare un uomo identificabile come Munch, con l’orecchio poggiato sulla mano sinistra: la posa tipica della malinconia. Il dipinto trae ispirazione dalla delusione amorosa provata da un amico per una pittrice da lui amata. A partire da questa dolorosa esperienza, il maestro norvegese trae ispirazione per dar vita a un’opera che rappresenti l’angoscia e il dolore provato da ogni persona almeno una volta nella vita. Inoltre, è possibile notare come i toni siano incupiti e il sentimento della malinconia sia trasmesso tramite delle ampie e frettolose campiture di colore.
La stessa tecnica è riscontrabile in un’altra opera dello stesso anno: Sera sul viale Karl Johan. Il dipinto rappresenta il tipico rituale borghese della passeggiata serale nella città di Christiania. Munch non si sofferma sulla raffigurazione dei dettagli anatomici dei singoli passanti, ma li rappresenta come un unico blocco di automi dallo sguardo vuoto, che procede nella stessa direzione. L’unico a separarsi da questa massa informe è un uomo col cilindro che cammina lungo la strada nella direzione opposta: si tratta dello stesso Munch, che si sentì sempre emarginato e lontano dalla società.
Con il passare degli anni le opere dell’artista norvegese si semplificarono maggiormente e i colori diventarono più accesi e vibranti, con lo scopo di illuminare la tela e suggerire i sentimenti provati dal pittore al momento dell’esecuzione. Si tratta di emozioni forti e terrificanti: la gelosia, l’angoscia, la malinconia, la disperazione e la libido, che stanno alla base di numerose opere cariche di significati simbolici che alludono a sentimenti e vicende personali. A partire dal 1893, Munch decise di raccogliere diversi dipinti all’interno di un’unica raccolta organica che prese il nome di Fregio della vita, una narrazione della sua vicenda spirituale e affettiva. Inizialmente il Fregio fu composto da cinque dipinti, con il titolo di Amore. Successivamente Munch aggiunse altre opere a questa raccolta fino ad arrivare a ventidue dipinti in occasione della quinta edizione della Berliner Secession. Per l’esposizione, Munch suddivise il fregio della vita in quattro tappe: il Seme dell’amore, Sviluppo e dissoluzione dell’amore, Angoscia e Morte.
Tra le opere del Fregio della vita compare anche il dipinto più celebre di tutto il corpus di Edvard Munch: l’Urlo. L’opera nota in tutto il mondo è ancora una volta la trasposizione in pittura di un’esperienza vissuta in prima persona dall’artista, di cui è possibile leggerne una testimonianza scritta: “mi fermai a guardare al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando. Questo è diventato L’urlo”. Nel dipinto viene raffigurato il fiordo di Ekeberg, meta per le passeggiate domenicali e tipico scenario da cartolina. Ancora una volta Munch rompe con la tradizione e trasforma un luogo familiare in un inferno terrestre: il cielo si tinge di rosso sangue e l’uomo in primo piano, lontano dalle altre due figure sulla sinistra, si dimena in un urlo doloroso e terrificante, in risposta alla distorsione della natura intorno a lui. L’opera non può che creare ansia e un senso di turbamento nell’animo dello spettatore, che rimane pietrificato dinanzi al grido dell’autore che denuncia un’ansia sociale che lo accompagnò per tutto il corso della sua esistenza.
Un tema ricorrente del Fregio della vita è la donna, che nell’immaginario di Munch ha sempre rappresentato un ruolo sinistro e ambiguo. Tra le opere più celebri si menzionano Il Vampiro (1893-94) e Madonna (1894), che rappresentano due visioni personali distinte della figura femminile. Inizialmente il dipinto il Vampiro venne chiamato da Munch Amore e dolore, e l’artista stesso dichiarò che si trattasse “soltanto di una donna che bacia un uomo sul collo”. Solo in un secondo momento il suo amico e biografo Stanislaw Przybyszewski ribattezzò l’opera con il titolo odierno, in riferimento alla visione demoniaca e assoggettante della donna nei confronti dell’uomo. Infatti, nel dipinto l’uomo sacrifica la sua stessa vita abbandonandosi al bacio mortale perché assetato dal desiderio amoroso, che soltanto la figura femminile può soddisfare. Il secondo dipinto è sicuramente uno dei più scandalosi di tutta la storia dell’arte. Infatti, Munch raffigura una Madonna tutt’altro che vergine e distante dalla classica rappresentazione di questo soggetto. La donna è ritratta in una posa sensuale e provocatoria. L’artista realizzò cinque versioni dell’opera, tra le quali spicca l’esemplare in cui la cornice è decorata con degli spermatozoi, mentre in basso a sinistra compare la figura di un feto abortivo, a richiamare il mistero della nascita e il dogma della verginità. L’opera suscitò grandissimo clamore e fu accolta con aspre critiche da parte del pubblico benpensante dell’epoca.
Nonostante gli scandali e le tensioni suscitate dalle opere di Munch, il suo contributo fu fondamentale per il movimento espressionista: come ricordato anche sopra, il testimone della sua esperienza sarebbe stato in seguito raccolto dalla Secessione di Berlino. Su tutti occorre menzionare i nomi di Lovis Corinth, Max Liebermann e Käthe Kollwitz, che guardarono a Munch con convinzione e in certi casi riuscirono anche a suscitare scandalo esattamente come aveva fatto il loro precursore.
Dove vedere le opere di Edvard Munch
Per conoscere le opere di Edvard Munch è necessario pianificare un viaggio in Norvegia, dove sono raccolte quasi tutte le sue opere. Buona parte di esse sono raccolte all’interno del Munchmuseet di Oslo. Anche la Nasjonalgalleriet di Oslo, la prima istituzione pubblica ad acquistare opere di Munch, possiede un’intera sala a lui dedicata, al cui interno è custodita la versione più celebre dell’Urlo. Infine, nell’aula magna dell’Università di Oslo sono custoditi undici dipinti a olio di Munch, frutto di un concorso vinto dal pittore. Tuttavia, è possibile ammirare alcune opere anche al di fuori dei confini norvegese: per esempio alla Tate Modern di Londra è conservata una delle versioni della celebre opera La bambina malata.
lo saprai: puoi aprire la musica e vedere il seguito
L’OPERA PIU’ IMPOTANTE DELLA MOSTRA SCART AD AGRIGENTO E’ SENZ’ALTRO IL TEMPIO DELLA CONCORDIA REALIZZATO CON RESTI DELLE IMBARCAZIONI DEI MIGRANTI CHE GIUNGONO A LAMPEDUSA E ANCHE CON LE CIME E LE PLASTICHE DELLE BAMBOLE CHE I BAMBINI TENGONO IN BRACCIO
RITRATTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA — SI E’ RECATO AD AGRIGENTO PER CELEBRARE LA CITTA’ CAPITALE DELLA CULTURA 2025
QUESTA MOSTRA ERA GIA’ STATA PORTATA DALLA DITTA HERA A PIACENZA NEL NOVEMBRE 2024
PALAZZO GOTICO DI PIACENZA / ANCHE PALAZZO COMUNALE
Il recupero non solo come buona pratica di riuso, ma come modo per rendere immortale la materia, attraverso l’arte. E’ questo il senso della mostra SCART, il lato bello e utile del rifiuto, inaugurata oggi presso il Palazzo Gotico di Piacenza. L’esposizione, organizzata da Gruppo Hera e TRS Ecology (recentemente entrata nel Gruppo stesso, attraverso Herambiente), in collaborazione con Comune di Piacenza e Confindustria Piacenza.
All’interno della splendida cornice medievale, nel cuore del centro cittadino, sono ospitate 48 fra statue e oggetti d’arredo e design. Tutto rigorosamente realizzato con rifiuti industriali che nei laboratori SCART del Gruppo Hera hanno preso nuova vita anche grazie al talento di trash artist e allievi e docenti di alcune fra le più prestigiose accademie di Belle Arti e design Italiane, fra cui Bologna, Milano Brera e Firenze. A questa dotazione, si aggiunge la grande installazione dello scultore Davide Dall’Osso, dedicata alle donne vittime di violenza.
Gli oggetti di arredo e design esposti attraversano un arco temporale di oltre 20 anni. Alcune sono state realizzate negli ultimi anni, mentre altre sono nate in momenti diversi del percorso di SCART, che ha già festeggiato i 25 anni dalla nascita. Si tratta, dunque, di oggetti molto diversi per tipologia, materiali utilizzati e prospettiva artistica.
Ad esempio, di Firenze Santa Maria Novella, un divano ricavato da pancali e braccioli di carrozze ferroviarie e, soprattutto, da decine di cappelli del personale FS. Quei berretti facevano parte di un grosso lotto di abbigliamento dismesso di personale dei vagoni letto.
Quasi come veri avventori della mostra, le statue della collezione di Donne e uomini business,accolgono i visitatori. Si tratta di figure professional, in posture dinamiche, ognuna realizzata con materiali diversi. Ad esempio, una donna con ventiquattrore nasce dagli scarti di decine di cinture di sicurezza di automobili rottamate. Un’altra professionista prende forma invece da centinaia di coloratissimi triangoli di panno assorbente.
Al centro del salone, cuore della mostra, è alloggiata l’installazione di Davide Dall’Osso In un mondo perfetto: decine di tutù realizzati con i pannelli divisori in policarbonato, dismessi dopo essere stati usati nel periodo Covid nelle mense del Gruppo Hera.
DAVIDE DALL’OSSO
” In un mondo perfetto ”
video, 12 min. ( si può stoppare quando vuoi ), fa vedere l’installazione dell’autore al castello Maniace, nella sala Ipostila, a SIRACUSA, in SICILIA NEL GIUGNO 2022–( VEDI NOTA AL FONDO )
Nella visione dell’artista ogni singolo tutù corrisponde a un personaggio femminile della letteratura, della drammaturgia o della musica, che ha subito violenza da parte di un uomo. La potenza immaginifica del tutù, con il suo portato di leggerezza e determinazione, porta quindi una visione postuma della violenza stessa, dove le donne che l’hanno subita possano raccontare di una possibilità di cambiamento, per fermare quel male che ha segnato la storia di ognuna di loro e, purtroppo, di molte donne di oggi.
video, 5 min. ca BEL VIDEO ***Parla uno/ poi altri del Gruppo Hera ma si vedono anche gli oggetti– più di tutto si vedo il gruppo Hera, poi anche…
Il Palazzo Gotico di Piacenza è il Palazzo Comunale di Piacenza chiamato dai Piacentini il Gotico, a causa della presenza di archi a sesto acuto.
Il palazzo venne edificato in stile gotico lombardo a partire dal 1281 su un’area dove prima sorgevano il convento di San Bartolomeo e la chiesa di Santa Maria de Bigulis. I lavori furono condotti da quattro architetti piacentini: Pietro da Cagnano, Negro de Negri, Gherardo Campanaro e Pietro da Borghetto.
Secondo il progetto iniziale, avrebbe dovuto essere a pianta quadrangolare, ma l’opera rimase incompiuta per lo scoppio di una grave pestilenza. A causa della depressione economica scaturita dall’evento, il progetto fu interrotto e di esso venne realizzato solo il lato settentrionale, quello immediatamente funzionale alle esigenze del Comune, che necessitava specialmente di una grande sala atta a ospitare le riunioni dei rappresentanti del proprio governo. Nel 1287 vennero acquistate le travi per il tetto, nel 1289 il Comune destinò una quota degli introiti della gabella del sale per sostenere gli imponenti lavori, i quali furono sicuramente ultimati nel 1290, quando nel nuovo salone si tenne un consiglio comunale. Riguardo al resto del progetto, alcune testimonianze riferiscono che si decise di fermare la costruzione in corso d’opera di due scalinate larghe più di 5 m, e di distruggere il già fatto, al fine di permettere l’accesso ai saloni nel minor tempo possibile.
La fortezza è un palinsesto di stili architettonici di varie epoche e con la sua molte domina l’ingresso al porto grande di Siracusa. Ubicato all’estremità di Ortigia, per la sua storia e la sua suggestiva posizione sul mare, dovrebbe essere tappa obbligata di chiunque visiti il centro storico di Siracusa.
Dopo un lungo periodo di lavori di restauro e di parziale chiusura al pubblico, da sabato 21 luglio 2018, il castello Maniace di Siracusa, sulla punta dell’isola di Ortigia, è nuovamente aperto ai visitatori. Negli ultimi anni, a fronte di un biglietto di ingresso ridotto, era possibile visitare soltanto la parte esterna della fortezza e la casamatta borbonica. Con la riapertura della suggestiva sala ipostila ed il restauro del raffinato portale svevo, il castello Maniace, voluto dall’imperatore Federico II di Hohenstaufen, si ripropone ai turisti nel migliore dei modi.
I recenti restauri hanno permesso di rinforzare la sala ipostila e rimuovere le pesanti impalcature che mettevano in sicurezza la struttura. Adesso è di nuovo possibile ammirare questa grandiosa sala caratterizzata da una volta in pietra pomice e calcarea e da grandiosi costoloni. Come tante strutture volute dall’imperatore Federico II, si tratta di una struttura interessantissima sia da un punto di vista artistico che simbolico.
I Passi di Alfredo Pirri al Castello Maniace di Siracusa ( ART.SG )
Samantha De Martin
17/05/2021
Siracusa – Un enorme tappeto di specchi frantumati, sul quale galleggiano antichi reperti, apre un dialogo affascinante tra passato e presente, in uno sfarfallio di immagini, riflessi, distorsioni e sdoppiamenti tra volte e colonne in pietra luminosa, assumendo i contorni di un incantesimo
Nei primi anni Sessanta aderì al Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros, un’organizzazione di guerriglia urbana di ispirazione marxista-leninista, nato sulla spinta della rivoluzione cubana. Le sue azioni da guerrigliero gli costarono il carcere, dove fu rinchiuso per 12 anni dopo il colpo di stato militare del 1973. Alle elezioni del 1994 fu eletto deputato, cinque anni dopo senatore e, tra il 2005 e il 2008, fu ministro dell’Allevamento, dell’Agricoltura e della Pesca. Fu leader del Movimento di Partecipazione Popolare, raggruppamento maggioritario del Fronte Ampio. Il 30 novembre 2009 vinse le elezioni presidenziali, governando il Paese fino a marzo del 2015.
Fu definito “il presidente più povero del mondo” perché, dello stipendio che riceveva dallo Stato, José ‘Pepe’ Mujica ne donava circa il 90% a organizzazioni non governative e a persone bisognose, trattenendo per sé l’equivalente di 800euro al mese. Durante il suo mandato alla guida dell’Uruguay, dal 2010 al 2015, aveva anche rinunciato a vivere nel palazzo presidenziale, continuando ad abitare in una piccola fattoria a Rincón del Cerro, nella periferia di Montevideo.
Quando era Presidente dell’Uruguay la sua chàcara ( casa di campagna ) fu trasformata nella sede del Governo.
Mujica con la moglie, Lùcia Topolansky e Lula, Presidente del Brasile- maggio 2024
Il 27 settembre 2020, dopo aver votato alle elezioni amministrative, Mujica ha comunicato ai giornalisti che lascerà la politica il prossimo ottobre. La ragione sono le sue condizioni di salute, ha spiegato il senatore 85enne. “Lascerò il mio seggio al Senato perché non manca molto alla fine dei miei giorni – ha detto il ‘presidente senza cravatta’ – Amo la politica ma amo ancora di più la vita. E devo gestire bene i minuti che mi rimangono”. Anche il coronavirus, spiega, ha influito nella sua scelta: “Pensavo si trattasse di una febbricola che sarebbe passata presto, ma non è così. E se non posso andare dove è necessario per svolgere la mia attività, sarei davvero un cattivo senatore”.
sembrano due persone normali..
Dice lui: ” Non è cosa buona per un uomo stare da solo” – Lùcia è sua moglie da oltre dieci anni, ma è sua compagna da più di trenta. Il nome di Lùcia da guerrigliera era Ana. ( Anna ). ” L’amore alla mia età è una dolce abitudine “, dice Pepe
Mujica fu un capo della guerriglia Tupamara, con il nome di Facundo, passò 15 anni in prigione fino all’amnistia del 1985.
MOLTE NOTIZIE SONO PRESE DA QUESTO LINK: XLSemanal
Gli ex guerriglieri del Movimento di liberazione nazionale José Mujica ( FACUNDO ), Adolfo Wassen Junior e Mauricio Rossencof il giorno della loro liberazione dal carcere come prigionieri politici a Montevideo, 14 marzo 1985. (AGENCIA CAMARATRES/AFP/Getty Images)
Quando, nell’inverno 2011, cinque senzatetto morirono di freddo, Mujica stabilì che la residenza presidenziale e altri edifici pubblici venissero impiegati come rifugi.
ALCUNE FRASI CITATE NEI LINK CONSULTATI::
“Appartengo a una generazione che ha voluto cambiare il mondo, ma che ha commesso il terribile errore di non volere cambiare prima se stessa”.
“Essere anziano è un vantaggio, perché da giovane uno può montarsi la testa con tutti questi elogi. Però non sono né un filosofo né un intellettuale. Lo sono stato fino ai 25 anni. Fino a quell’età leggevo di tutto, dalla guida telefonica a Seneca.”
«In prigione ho pensato che le cose hanno un inizio e una fine. Ciò che ha un inizio e una fine è semplicemente la vita. Il resto è solo di passaggio. La vita è questo, un minuto e se ne va. Abbiamo a disposizione l’eternità per non essere e solo un minuto per essere. Per questo, ciò che più mi offende oggi è la poca importanza che diamo al fatto di essere vivi».
«Mi stupisce che un militante sociale di un piccolo Paese sudamericano susciti tanta attenzione in Occidente. Il movimento sindacale, le idee socialiste, anarchiche e comuniste, ancor più tutte le idee di progresso, hanno le loro radici in Europa. È nel vostro continente che sono nati i primi grandi movimenti popolari, i principali propositi di cambiamento sociale. […]
Perché diventa un personaggio interessante uno come me, che non è altro che un vecchio militante, che ha commesso molti errori e patito molte sconfitte, al di là di quello che è sempre stato l’obiettivo principale: conquistare una vita migliore per i suoi compatrioti? Perché suscita tanta attenzione il fatto che qualcuno difenda la politica come una passione superiore e pretenda che i governanti diano ai loro popoli un esempio di vita sobria e vicina a quella della maggioranza? […]
In realtà credo che tutto questo susciti attenzione non tanto per il merito di chi propone questi temi, quanto per l’assenza di altre idee, di altre proposte e di altri esempi. Già da molti anni, ormai, noi che cerchiamo ispirazione per la nostra azione sociale e politica, che vorremmo nutrirci dell’esperienza di coloro che sono già passati per i nostri drammi, non troviamo in Europa quel che sempre vi avevamo trovato in passato.»
José Mujica è nato il 20 maggio 1935 a Montevideo. La madre era originaria della Liguria, il padre aveva antenati baschi. Una famiglia impegnata in politica, tanto che anche Pepe (come viene chiamato dagli amici) si appassiona, diventando segretario generale del settore giovanile del Partito Nazionale. Nel 1962, si sposta nell’Unione Popolare. Successivamente aderisce al neonato movimento di liberazione nazionale Tupamaros. Viene ferito sei volte e arrestato in più occasioni.
Dopo il colpo di stato militare del 1973 viene trasferito in un carcere militare, dove passa dodici anni in completo isolamento in un pozzo sotterraneo. È uno dei nove dirigenti tupamaros che la dittatura chiama rehenes (ostaggi), ossia persone che verranno fucilate all’istante in caso di azioni militari dei tupamaros in libertà. A causa dell’isolamento accusa gravi problemi di salute, arrivando ad avere allucinazioni uditive e paranoia.
Nel 1985, allorché viene ristabilita la democrazia costituzionale, beneficia dell’amnistia che condona gli atti dal 1962 in poi
Con la caduta di Assad e i vuoti di potere lasciati da Iran e Russia, l’alleanza israelo-americana consolida la sua supremazia nella regione. La rete di basi statunitensi e gli avamposti israeliani in Libano. Gli Stati Uniti e lo Stato ebraico tratteranno la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita da una posizione di forza.
Dettaglio di una carta di Laura Canali. La versione integrale si trova nel corpo dell’articolo.
Dal Corno d’Africa al Kurdistan iracheno, dall’Oman al Libano e dal triangolo frontaliero siro-giordano-iracheno a quello turco-siro-iracheno,il sistema militare e politico americano in Medio Oriente appare quanto mai rafforzato sia dalla guerra israeliana alle forze arabe filo-iraniane, Hamas e Hezbollah in primis, sia dalla dissoluzione in Siria del regime degli Assad, al potere a Damasco da oltre mezzo secolo.
Nel rapido susseguirsi degli eventi siriani, con l’accelerazione della guerra turca alle forze curdo-siriane nel Nord della Siria, gli Stati Uniti hanno esteso la loro presenza militare nel distretto di ‘Ayn ‘Arab (Kobane), in quella che ormai assomiglia a un’enclave curdo-americana che interrompe la “fascia di sicurezza” creata dal 2018 a oggi da Ankara in pieno territorio siriano lungo la frontiera tra i due paesi. Sul versante opposto della regione, sulle acque del Mediterraneo, l’aeroporto internazionale di Beirut è sempre più nelle mani di Israele e America dopo essere stato a lungo un avamposto della proiezione iraniana nell’intera area.
Da quando il presidente siriano Bashar al-Asad è fuggito a Mosca l’8 dicembre scorso e da quando le forze siriane cooptate da Ankara hanno esteso il loro controllo a est di Aleppo, sfruttando lo smantellamento delle forze militari russe e minacciando così gli avamposti curdi a ovest di Raqqa, attorno alla diga Tishrin, il Comando centrale statunitense ha disposto un massiccio rinforzo delle sue posizioni in Siria, ampliando il proprio controllo sulle aree precedentemente presidiate da Mosca.
Hanno fatto il giro del mondo le immagini dei lavori per la costruzione della base militare Usa a Kobane. Ma tale sviluppo è solo la punta dell’iceberg di una dinamica più corposa. Soltanto nella prima settimana del nuovo anno, gli Stati Uniti hanno fatto atterrare nelle strutture militari del Nord-Est siriano dieci aerei cargo contenenti mezzi di trasporto, munizioni e attrezzature. E dal vicino Kurdistan iracheno sono entrati in Siria più di 150 camion con altrettanti materiali militari e logistici.
Dati che valgono assai più delle contraddittorie dichiarazioni del presidente eletto Donald Trump. Dopo aver dichiarato il 7 dicembre che gli Stati Uniti non vorranno avere a che fare con la guerra in Siria e che sarebbe meglio non essere coinvolti nel ginepraio (“mess”) siriano, nei giorni scorsi Trump appare essere tornato sui suoi passi l’8 gennaio, affermando di non voler rivelare i dettagli della strategia americana in Siria.
A intervenire sull’argomento ci ha pensato l’attuale segretario alla Difesa, il generale Lloyd Austin, che ha confermato l’aumento del numero di militari presenti nel martoriato paese arabo – da 900 a 2 mila unità– ribadendo la motivazione ufficiale dello stazionamento delle truppe americane in Siria: combattere “il terrorismo” dello Stato islamico (Is).
La missione militare Usa in Siria ha avuto inizio nel 2014, avviatadall’allora presidente Barack Obama, lo stesso che aveva ritirato nel 2011 le truppe dall’Iraq dopo otto anni di occupazione seguiti all’invasione del 2003. Da più di un decennio Washington ha dunque consolidato la propria presenza nel quadrante siro-iracheno.
Dal punto di vista statunitense tra l’Ovest iracheno e l’Est siriano si gioca la stessa partita. Che poi è quella che i britannici hanno provato a lungo a giocare a scapito dei francesi nei convulsi anni a ridosso e dopo la Grande guerra, quando parte dell’attuale Badiya siriana e la valle dell’Eufrate sarebbero potute rientrare in quello che sarebbe diventato l’Iraq britannico invece di essere assegnate alla futura Siria francese.
Il rafforzamento militare Usa in Siria fa il paio con quello israelo-americano in Libano. Nel paese travolto dall’escalation israeliana di quest’autunno Hezbollah è stato fortemente indebolito, aprendo nuovi spazi fisici e politici nei quali Washington e Gerusalemme potranno far valere più di prima gli interessi della propria alleanza.
Analogamente a quanto accade con la base statunitense a Kobane, il controllo di fatto da parte di Israele e Stati Uniti sullo scalo aereo di Beirut non è altro che il simbolo più evidente di un mutamento più profondo. L’articolazione israelo-americana è ora dominante in tutta la regione.
L’elezione a Beirut del nuovo capo di Stato – dopo 28 mesi di vacuum istituzionale – il generale Joseph Aoun, gradito allo Stato ebraico, agli Stati Uniti e ai paesi arabi alleati di Washington, è un segnale forte in tal senso.
Su scala regionale, il Medio Oriente allargato è avvolto da una ragnatela di installazioni militari americane: in Arabia Saudita, Oman, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrain e Kuwait nel Golfo; in Iraq e Siria nel cuore della Mesopotamia, con la base di Tanf al confine tra Giordania, Siria e Iraq, a lungo avamposto occidentale (Usa, Regno Unito e Israele) contro l’influenza russa e iraniana. Proseguendo verso ovest si arriva alla base Usa nel Sinai, sul Mar Rosso, mentre a sud si arriva a quella di Gibuti, nel Corno d’Africa.
A tale rete si aggiunge la presenza navale americana nel Mediterraneo orientale, chiamata più volte a sostegno di Israele a partire dal 7 ottobre 2023.
Il rafforzamento militare Usa in Siria fa il paio con quello israelo-americano in Libano. Nel paese travolto dall’escalation israeliana di quest’autunno Hezbollah è stato fortemente indebolito, aprendo nuovi spazi fisici e politici nei quali Washington e Gerusalemme potranno far valere più di prima gli interessi della propria alleanza.
Analogamente a quanto accade con la base statunitense a Kobane, il controllo di fatto da parte di Israele e Stati Uniti sullo scalo aereo di Beirut non è altro che il simbolo più evidente di un mutamento più profondo. L’articolazione israelo-americana è ora dominante in tutta la regione.
L’elezione a Beirut del nuovo capo di Stato – dopo 28 mesi di vacuum istituzionale – il generale Joseph Aoun, gradito allo Stato ebraico, agli Stati Uniti e ai paesi arabi alleati di Washington, è un segnale forte in tal senso.
Su scala regionale, il Medio Oriente allargato è avvolto da una ragnatela di installazioni militari americane: in Arabia Saudita, Oman, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrain e Kuwait nel Golfo; in Iraq e Siria nel cuore della Mesopotamia, con la base di Tanf al confine tra Giordania, Siria e Iraq, a lungo avamposto occidentale (Usa, Regno Unito e Israele) contro l’influenza russa e iraniana. Proseguendo verso ovest si arriva alla base Usa nel Sinai, sul Mar Rosso, mentre a sud si arriva a quella di Gibuti, nel Corno d’Africa.
A tale rete si aggiunge la presenza navale americana nel Mediterraneo orientale, chiamata più volte a sostegno di Israele a partire dal 7 ottobre 2023.
Oltre alle necessità energetiche – in Siria diverse basi Usa sono state erette in prossimità di installazioni petrolifere e di gas naturale, nonché dei principali corsi d’acqua della regione– la presenza militare americana serve obiettivi strategici: mettere pressione costante a rivali e alleati per assicurarsi il controllo sulla placca terrestre che collega gli oceani Atlantico e Indiano passando per il Medioceano mediterraneo.
Significa che le trattative bilaterali con l’Arabia Saudita proseguiranno, con la possibilità che Washington farà valere le proprie carte negoziali con Riyad, finora riluttante a formalizzare il processo di normalizzazione con Israele.
Nel nuovo Medio Oriente postsconfitta iraniana non è però escluso che la dirigenza saudita si convinca a trovare una formula apparentemente onorevole di fronte all’opinione pubblica araba e islamica per legittimare un accordo di pace storico con lo Stato ebraico.
In questo scenario sarà però difficile che la Siria dopo-Assad ritrovi presto la sua ambita unità e sovranità territoriali: oltre agli Stati Uniti, rimarranno come forze occupanti anche gli eserciti di Israele e di Turchia.Quanto avverrà col placet di Washington, che attraverso il suo inviato speciale Amos Hochstein sembra voler legittimare il mantenimento da parte dell’esercito israeliano di avamposti in pieno territorio libanese anche dopo il 27 gennaio, quando si concluderanno i due mesi di cessate-il-fuoco, cominciato il 27 novembre scorso.
nota :
Amos J. Hochstein
Amos J. Hochstein ( Gerusalemme, Israele, 1973 ),
uomo d’affari, diplomatico ed ex lobbista americano
Santa Lucia, per tutti quelli che hanno occhi
e gli occhi e un cuore che non basta agli occhi
e per la tranquillità di chi va per mare
e per ogni lacrima sul tuo vestito,
per chi non ha capito.
Santa Lucia per chi beve di notte
e di notte muore e di notte legge
e cade sul suo ultimo metro,
per gli amici che vanno e ritornano indietro
e hanno perduto l’anima e le ali.
Per chi vive all’incrocio dei venti
ed è bruciato vivo,
per le persone facili che non hanno dubbi mai,
per la nostra corona di stelle e di spine,
per la nostra paura del buio e della fantasia.
Santa Lucia, il violino dei poveri è una barca sfondata
e un ragazzino al secondo piano che canta,
ride e stona perchè vada lontano,
fa che gli sia dolce anche la pioggia delle scarpe
“‘Piazza Grande’ è un nome comune del nord. Rappresenta il luogo d’incontro. C’è a Pavia, come a Modena come a Bologna. È un posto che appartiene a tutti, anche ai vagabondi, e questo lo avevamo ben presente quando ne scrivemmo le liriche”. ( Sergio Bardotti )
Tosca, Silvia Pérez Cruz – Piazza grande (Official Video)
Dipinto a mano da Andrea Spinelli
I dipinti sono stati realizzati Con Acquerelli Van Gogh di Royal Talens
Il 9 gennaio di 75 anni fa la polizia spara sui manifestanti che scioperano contro i licenziamenti alle Fonderie Riunite. Sei morti, centinaia di feriti. E in tutta Italia scoppia la protesta
Modena, i funerali degli operai delle Fonderie Riunite uccisi il 9 gennaio 1950
Ilaria Romeo * Responsabile archivio storico Cgil nazionale
Il 9 gennaio del 1950 a Modena si protesta contro i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite. Una vertenza sindacale. Come tante nella storia del nostro Paese. In questo caso, però, restano uccisi sei scioperanti, tutti per colpi d’arma da fuoco esplosi dalle forze dell’ordine:
Angelo Appiani (meccanico ed ex-partigiano di 30 anni), Renzo Bersani (operaio metallurgico di 21 anni), Arturo Chiappelli (spazzino disoccupato di 43 anni), Ennio Garagnani (carrettiere nelle campagne di Gaggio di 21 anni), Roberto Rovatti (fonditore di 36 anni) e Arturo Malagoli (operaio ed ex-partigiano di 21 anni).
SEI MORTI e centinaia di feriti. La città è sconvolta, ma nel pomeriggio le organizzazioni sindacali e i partiti della sinistra tengono ugualmente il loro comizio. In una Piazza Roma circondata dalla forza pubblica parlano il senatore socialista Alcide Malagugini, Sergio Rossi per la Camera del lavoro e Attilio Trebbi per la Fiom.
In tutto il Paese vengono organizzate proteste e scioperi generali e la contestazione arriva anche in parlamento dove, il 31 gennaio, la deputata modenese Gina Borellini – Medaglia d’oro al valor militare, una delle 19 donne italiane decorate (quasi tutte alla memoria) con la massima ricompensa militare per la loro attività durante la lotta di Liberazione – esprime la sua indignazione con un gesto plateale: con molta difficoltà, in quanto amputata ad una gamba, si alza dal suo scranno e affermando «in quel banco siedono degli assassini» raggiunge i banchi del governo per lanciare le foto degli operai morti in faccia al presidente del consiglio Alcide De Gasperi e al ministro Scelba.
La Cgil, al termine della riunione straordinaria del suo esecutivo del 10 gennaio, dirama un veemente comunicato di protesta. Esplode la rabbia popolare.
«Tutta l’Italia si leva contro il nuovo eccidio!», titolerà l’Unità fotografando quanto accaduto nelle ore precedenti.
«Affoga nel sangue il governo», chioseràl’Avanti!.
«Il mitra facile e la poltrona comoda» è il titolo del Giornale della Sera;
«Ai vivi in nome dei morti» il fondo di Pietro Nenni su l’Avanti! del 10 gennaio.
E non sono soltanto i giornali della sinistra a condannare.
In città accorrono insieme a Palmiro Togliatti e Giuseppe Di Vittorio (al suo fianco un giovanissimo Luciano Lama) i vertici nazionali del Pci, del Psi, della Cgil.
IL GIORNO DEI FUNERALI, l’11 gennaio, la risposta è ferma, la partecipazione popolare imponente ma composta, rigorosamente diretta dalle organizzazioni politiche e sindacali.
Togliatti «mostra in pubblico un turbamento autentico e inusitato» che viene notato da molti che gli sono vicino (diversi dicono di averlo visto piangere).
Gianni Rodari, più o meno neli anni ’50, lavorava alla redazione dell’Unità di Milano, fu inviato a Modena per il reportage. ( AL FONDO, NOTA 1 )
Per l’Unità scrive un cronista d’eccezione: Gianni Rodari. «Le bare – dirà – erano portate a spalla da operai, ferrovieri tranvieri, braccianti. Su ognuna di esse un modesto cartello col nome e l’età del caduto. Niente altro. Da tutti i muri della città le fotografie dei caduti rispondevano a quei cartelli».
Dal palco parlano il sindaco di Modena, Alfeo Corassori, e il segretario della Camera del lavoro, Arturo Galavotti, poi Giuseppe Di Vittorio, Pietro Nenni e infine Palmiro Togliatti.
«L’eccidio di Modena pesa – tornerà a dire una settimana più tardi dalle colonne di Lavoro il segretario della Cgil – e continuerà a pesare per lungo tempo sulla vita italiana. Se De Gasperi e Scelba credono che si tratti d’un semplice “incidente”, d’un fatto di cronaca che sarà presto dimenticato, si ingannano. Il raccapriccio per questo orrendo massacro, diviene più acuto ed implacabile quando si pensa che non si tratta d’un fatto isolato, accidentale. Il numero dei lavoratori uccisi, in soli due mesi, è salito a quattordici! È un primato, un ben triste primato Non un incidente, quindi, ma un sistema, un metodo, una politica».
UN SISTEMA, un metodo, una politica. Una pagina tristissima della nostra storia che però si chiude con una nota di speranza.
Togliatti deciderà infatti, insieme alla compagna Nilde Iotti di adottare – in realtà un affidamento per motivi di studio – una bambina di sei anni e mezzo, Marisa Malagoli, sorella di Arturo.
«Il giorno in cui venne ucciso ricordo che io tornavo a piedi da scuola con mia sorella Renata – dirà – Era un giorno bello ma freddo. Da lontano cominciammo a renderci conto che era successo qualcosa, c’era la polizia e quando fummo vicine alla casa sentimmo le urla e il pianto di mia madre. Il giorno dopo, c’era una nebbia terribile, fummo tutti portati in auto (e quello era già un evento, all’epoca le macchine erano una rarità) all’obitorio dell’ospedale di Modena. La scena mi è rimasta impressa: il corpo di mio fratello, il sangue dappertutto, per terra e sul lenzuolo, gli altri morti».
Il processo – intentato peraltro solo contro alcuni operai che avevano partecipato alla manifestazione – dimostrerà in modo inequivocabile «l’uso frettoloso delle armi da fuoco» da parte della polizia, la mancanza di giustificazioni per un intervento armato e pesanti responsabilità del prefetto e di altri funzionari di polizia. La magistratura – fatto mai successo in precedenza in Italia – ordinerà un risarcimento alle famiglie dei caduti.
“Una lapide in piazza Grande. Tutti devono ricordare l’eccidio”
Arturo Ghinelli, nipote di una delle vittime: “Ci riproviamo con la nuova amministrazione” “Un monumento anche in centro storico visibile a giovani e turisti. Teniamo alta l’attenzione” .
«IO NON C’ERO – scriveva qualche tempo fa Arturo Ghinelli – per il semplice motivo che ero ancora nella pancia di mia madre. Infatti sono nato sei mesi dopo, l’undici luglio. Ma quello che successe quella mattina di gennaio influenzò non poco la mia vita. Il mio stesso nome viene da lì. Io mi chiamo Arturo perché tra i sei operai uccisi dalla polizia davanti alle Fonderie c’era mio zio Arturo Malagoli, fratello di mia madre. Arturo aveva 21 anni, mia madre 23.Per molti anni della mia vita io non sono stato altro che “il figlio della Malagoli”. Anche perché la cosa non si è fermata lì. In conseguenza di quella tragedia famigliare, Togliatti e la Iotti decisero di adottare mia zia Marisa. Così fino a quando abitammo nella vecchia casa popolare di via Como, sul mio letto non c’era la Madonna ma il quadro con il ritratto di mio zio, a cui aggiunsi la foto di Togliatti quando morì nel ’64.
Riflettendo penso di aver capito perché mi è sempre piaciuto studiare e poi insegnare storia. Tuttavia non ho mai insegnato ai miei ragazzi gli avvenimenti del 9 gennaio 1950, perché mi sento troppo coinvolto emotivamente. Una sola volta mi è scappato detto: “Un mio zio è stato ucciso dalla polizia”. Perché era un ladro?, mi hanno chiesto. No, mio zio non era un ladro. Mio zio era un lavoratore che lottava per ottenere il diritto al lavoro per tutti come dice l’articolo 1 della Costituzione».
Come dice l’Articolo 1 della nostra Costituzione. Repubblicana, democratica e antifascista. Figlia della Resistenza e della Liberazione.
Gianni Rodari, inviato per L’Unità per fare il reportage, qualche giorno dopo i funerali, pubblicherà una poesia, dal titolo “Bambino di Modena”
Perché in silenzio
bambino di Modena,
e il gioco di ieri
non hai continuato?
Non è più ieri:
ho visto la Celere
quando sui nostri babbi ha sparato.
Non è più ieri, non è più lo stesso: ho visto, e so tante cose, adesso. So che si muore una mattina sui cancelli dell’officina, e sulla macchina di chi muore gli operai stendono il tricolore.
L’occidente costringe i figli dell’Africa
a scegliere tra tre viaggi.
Il più veloce e sicuro.
Quello provocato dalle pallottole micidiali
e dalle bombe fabbricate da mani straniere.
Poi quello lento ed asfissiante
della fame e della malattia.
Che lascia la pelle sulle ossa.
E rende anche i raggi del sole
un peso sulle spalle.
Infine c’é il deserto e il mare.
Dove le probabilità,
un poco
sono più alte.
La forza, quella vera, si dimostra con la compassione e l’equità, non nel piegare la schiena dei più deboli.
“Salvini ha ragione”.
Così dicono e si fanno forza,
sulla pelle dei più disadattati.
Una ragione senza vere ragioni,
che nasce dalla parte oscura dell’uomo, che è parte della bestia in noi.
Non c’è gloria nel privare gli altri,
ancor di meno nell’ucciderli o costringerli.
Ci sono ragioni che diventano pallottole e ci sono vittime che derivano da quelle ragioni.
SOUMAILA DIAWARA è uno scrittore e attivista politico maliano rifugiato in Italia. Nato a Bamako nel 1988, è laureato in Scienze Giuridiche e specializzato in Diritto privato internazionale. Costretto nel 2012 a scappare dal Mali in seguito all’accusa ingiusta di aggressione nei confronti del Presidente dell’Assemblea Legislativa, giunge in Libia e nel 2014 attraversa il Mar Mediterraneo a bordo di un gommone. Vive a Roma dove ha ottenuto la protezione internazionale.
Soumaila Diawara, Sogni di un uomo. Raccolta di poesie. Prefazione di Roberta Parravano. Youcanprint, Tricase 2018
Il male, una componente naturale?
Dicono che il male
sia una componente naturale
che porti all’equilibrio del tutto.
Insieme al bene.
Sono come il sole e la luna.
Lo Ying e Yang, il cielo e la terra.
In poche parole, in noi tutti,
senza eccezione, il male esiste.
In quanto etichetta di vita
in un mondo accogliente,
ma ostile al contempo,
poiché attizzato da credi e da valori
insensati per l’era che viviamo.
Alimentato da questa società autodistruttiva.
Perciò, prendetene coscienza
ed esagerate nel bene.
Soumaila Diawara al Villaggio Cultura Pentatonic il 15 luglio 2018., in occasione di “Porti diVersi”, incontro organizzato da Libera, Roma IX
Sono io
Sono quello che dovrei essere?
Sono quello che vorrei essere?
Sono quello che potrei essere?
I libri hanno aperto finestre nella mia anima,
ma altrettante voragini.
Le domande si sovrappongono a domande,
le cui risposte sono altrettante domande.
Alla moltitudine, l’ovvia risposta.
È la solitudine.
O meglio.
La ragione di vita come ricerca
sfrenata dell’equilibrio.
Ricerca della pietra filosofale.
Poiché la ricerca stessa,
non è ragione di vita.
Non perché siamo vivi, la vita è vivibile.
Gli slogan condizionano l’esistenza.
Non c’è dubbio.
Le mancanze, troppo spesso, sono tali
agli occhi degli altri e non ai nostri.
Qual è la ragion di vita?
Da dove vengo?
A cosa posso o devo aspirare?
Dove mi porta l’obbligo della società?
Dove mi porta il peso della mia anima?
Ci hanno insegnato che una vita
improduttiva non è una vita.
Ci hanno convinto che non lasciare il segno
ci rende inferiori.
E tali insegnamenti
non sono altro che la coda
dell’evoluzione dell’animale.
Quell’animale che eravamo
e che stiamo riprendendo ad essere.
Proteggere è un verbo
che fin quando sarà usato
genererà verbi di morte.
Chi protegge, possiede di più.
Chi ha di più, toglie ad altri.
Ma quegli stessi altri,
sono coloro che temiamo.
Coloro che toglierebbero a noi,
nel caso avessero la possibilità di farlo.
La fiducia disperde la fede
degli uni sugli altri.
Per riporla in un’entità
che non può deludere.
Dio.
Ma Dio, funziona a doppio senso;
dona e prende.
Laddove placa le ansie e le angosce,
rimane placido dinnanzi alle opere
del diavolo dando libero arbitrio all’Uomo.
Voliamo al di là di quelle considerazioni
quando siamo noi
il punto focale, cruciale.
Il resto è come il grido di orrore
che percuote la folla
quando il boia cala la scure
e fa rotolare la testa.
Rimane un grido, un momento.
Lo stesso che per certi uomini,
sarà come impresso a fuoco
nello spirito e nella memoria.
Per altri, sarà dimenticato all’angolo.
Il tempo di un panino e di una birra.
Chi siamo noi, non lo decide nessuno.
Forse, in tanti, lo provocano.
Ma quel mosaico intimo
che non siamo in grado di ricostruire,
nessuno potrà mai.
Mio nonno
Ricordo un insegnamento di mio nonno.
“Tutti lotteranno contro tutti.
Come i maialini per il cibo,
così gli uomini per il potere.
Chiunque veda negli altri un nemico,
non è altro che un uomo
inconscio di esserlo.
Privo di logica e desideroso
di essere veduto.
È per questo che bisogna opporre
il mare alla bombe,
l’aria alle pallottole,
il cielo all’odio.
E per farlo, è necessario essere coscienti.
Consapevoli della stessa valenza
che hanno gli altri.
Del loro stesso sangue rosso.
Delle loro differenze.
Dei loro usi e valori,
derivati da una nascita
non da loro programmata.
Da’ vita a loro ed avrai esistenza.
Poiché il fiato, senz’acqua,
è mera illusione.”
Una replica a “Soumaila Diawara, Sogni di un uomo”
Oggi su “Il Foglio” Andrea Marcenaro nella sua rubrica si è dispiaciuto che Sigfrido Ranucci non sia morto ai tempi in cui era inviato a Sumatra nel 2005. Gli ha risposto, meravigliosamente, il figlio di Ranucci, Emanuele, con parole posate ma fermissime, in quella che è a tutti gli effetti una grande lezione di stile e di giornalismo.
“Caro Andrea, fortunatamente mi sono imbattuto così poche volte nelle pagine del “giornale” in cui scrivi da non sapere né il tuo cognome né se tu – spero vivamente per la categoria di no – sia un giornalista professionista o un comico satirico, sono il figlio di Sigfrido Ranucci e nonostante alcune volte me ne sorprenda anche io, non sono ancora orfano di padre. Vivo da sempre con il pensiero, il timore che ogni volta che saluto mio padre possa essere l’ultima, del resto credo sia inevitabile quando vivi per decenni sotto scorta, quando hai sette anni e ci sono i proiettili nella cassetta della posta di casa tua, quando vai a mangiare al ristorante e ti consigliano di cambiare aria perché non sei ben gradito nella regione, quando ti svegli una mattina e trovi scientifica, polizia, carabinieri e DIGOS in giardino perché casualmente sono stati lasciati dei bossoli, quando ricevi giornalmente minacce, pacchi contenenti polvere da sparo e lettere minatorie, o semplicemente quando ti abitui a non poter salire in macchina con tuo padre. Ricordo perfettamente il periodo dello Tsunami e dell’isola di Sumatra, che giusto per precisione si trova in Indonesia e non India, quando papà con il parere contrario del suo Direttore Roberto Morrione decise di raccontare la vicenda in uno dei luoghi più martoriati dalle inondazioni, lontano dalle comodità e dai luoghi privilegiati dai quali tutti i media scrivevano. È uno dei primi ricordi di cui ho contezza, avevo 5 anni, mia sorella 6, mio fratello forse 8, eravamo in macchina, erano circa 40 ore che nessuno riuscisse ad avere contatti con papà, mamma tratteneva le lacrime a fatica, sola con noi tre, faceva finta che andasse tutto bene, forse è stata la prima volta che ho avuto la sensazione che dovessi percepire la vita con papà come se fosse a tempo, con una data di scadenza. Ebbene sì, è tornato sano e salvo e a distanza di 20 anni purtroppo per te, Andrea, per fortuna per noi e credo di poter dire per il paese è ancora qui, a svolgere il suo lavoro come sempre, vivo e vegeto anche se in tanti lo vorrebbero morto. Il morto del giorno è il giornalismo italiano, ancora una volta, e chi è l’assassino è evidente a tutti.” Non serve, credo, aggiungere altro. Tosa
—-quando sono nelle tue braccia Sinto o mundo bocejar
—–sento il mondo che sbadiglia
Quando estás nos braços meus
—–quando stai nelle mie braccia
Sinto a vida descansar
—–sento che la vita si riposa. No calor do teu carinho —–nel calore della tua tenerezza Sou menino passarinho —sono un passerottino Com vontade de voar —–con la voglia di volare
Manifestazione per Marielle Franco, Rio de Janeiro, 15 marzo 2018 (AP Photo/Leo Correa)–DA : IL POST
ANDREA BARDELLI –LA MIA QUASI POESIA PER MARIELLE
Quem matou Marielle? Por que mataram Marielle?
Prenderam dois que se declararam inocentes.
Somente uma incerta tatuagem acusa um deles
Um tal de Ferreirinha acusou o vereador Siciliano e o Curicica, chefe de susposto escritório do crime.
Mas Ferreirinha e sua advogada Camila foram acusados de falso testemunho.
Mas por que a mataram então? Qual a verdade?
Por pura maldade ?
Ser ou não ser eis a questão.
Ser morta por nada ou por um palavrão.
Ser morta para ajudar a salvação
das favelas da Cidade Maravilhosa
cantada em verso e prosa
onde se morre por um tostão.
Virá a chuva e se esquecerá de Marielle
Virá o vendaval e levará Marielle atrás de si;
Mas quero lembrar quando a vi
Mulher de pele sedosa e cheirosa, de cabelo
revolto, envolto num turbante, alvo sorriso e olhar flamejante.
Fique com seu povo, fique com os seus
Adeus Marielle Adeus
Fique com Deus..
TRADUZIONE DELL’AUTORE
Chi ha ucciso Marielle? Perché hanno ucciso Marielle? Hanno arrestato due che si sono dichiarati innocenti. Solo un tatuaggio incerto accusa uno di loro. Un tale di Ferreirinha ha accusato il consigliere Siciliano e il Curicica, capo d’ufficio del crimine. Ma Ferreirinha e il suo avvocato Camila sono stati accusati di falsa testimonianza. Ma perché l’hanno uccisa allora? Qual è la verità? Per pura cattiveria? Essere o non essere questo è il punto. Essere uccisa per niente o per una parolaccia. Essere uccisa per aiutare la salvezza Delle favelas della città meravigliosa Cantata in verso e in prosa Dove si muore per un centesimo. Verrà la pioggia e si dimenticherà di Marielle Verrà la tempesta e porterà Marielle dietro di sé; Ma voglio ricordare quando l’ho vista Donna di pelle setosa e profumata, di capelli Tempestosi, avvolti in un turbante, luminoso sorriso e sguardo fiammeggiante. Resta con il tuo popolo, prendi i tuoi Addii Marielle addio Resta con Dio…
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Manifestazione per Marielle Franco, Rio de Janeiro, 15 marzo 2018 (AP Photo/Leo Correa da : IL POST
Brasile: inizia il processo agli autori dell’omicidio di Marielle Franco e Anderson Gomez
A oltre sei anni dall’omicidio di Marielle Franco, difensora dei diritti umani e consigliera municipale di Rio de Janeiro, e del suo autista Anderson Gomez, è iniziato il processo nei confronti dei due ex agenti della polizia militare rei confessi Ronnie Lessa ed Elcio Queiroz.
Questo processo è una tappa importante del percorso verso la giustizia iniziato il 14 marzo 2018, giorno del duplice assassinio, cui Amnesty International ha contribuito con oltre un milione di firme. Ma il percorso potrà dirsi completato solo quando tutti i responsabili, compresi gli ideatori e coloro che hanno ostacolato e depistato le indagini, finiranno davanti a un tribunale.
Il Brasile è uno degli stati più pericolosi al mondo per coloro che difendono i diritti umani. Negli ultimi anni, Amnesty International Brasile ha denunciato almeno 12 casi di omicidi di difensore e difensori dei diritti umani che restano impuniti. Dal 2012 al 2023 il totale è stato di 401 omicidi.
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2019 CARNEVALE DI RIO
“História pra ninar gente grande “_ Storia per cullare persone adulte –
«Mio caro/nero Brasile lascia che ti racconti / La storia che la storia non racconta / Il rovescio dello stesso luogo / È nella lotta che ci troviamo».
Comincia con queste parole il nuovo samba vincitore del titolo di campione del Carnevale di Rio 2019 e che già metà ottobre dell’anno scorso ( 2018 ) la Estação Primeira de Mangueira aveva deciso che avrebbe presentato a febbraio e marzo 2019 nel Sambódromo “Marquês de Sapucaí“ di Rio de Janeiro.
Manifestazione per Marielle Franco, Rio de Janeiro, 15 marzo 2018 (Diego Herculano- AP Images) – da IL POST
Il titolo è significativo: “História pra ninar gente grande”, ossia “Storia per cullare persone grandi” ed ha visto la collaborazione di sei autori: Danilo Firmino, Deivid Domênico, Mamá, Márcio Bola, Ronie Oliveira, Tomaz Miranda. Quest’ultimo aveva presentato il samba con queste parole:
Manifestazione per Marielle Franco, Rio de Janeiro, 15 marzo 2018 (AP Photo/Leo Correa)– da : IL POST
«Siamo stati scelti a Mangueira per onorare la memoria di Marielle Franco e dell’autista Anderson Gomes e per cantare tutta la lotta che deve ancora venire».
La notte del 14 marzo 2018, Marielle Franco e Anderson Gomes erano stati assassinati da uomini armati che avevano assaltato l’auto della consigliera comunale di Rio incaricata proprio dal Consiglio comunale di relazionare sulle violenze nelle zone più povere di Rio.
Fondatrice e partecipante di un gruppo di samba, Se Benze que Dá, con ritrovo nel Bar Lilás (Maré), Marielle Franco era molto conosciuta per il suo attivismo in difesa dei più poveri e dei diritti delle donne, della popolazione nera e LGBTQ, Marielle è anche l’esempio di chi, nata nella favela Maré, è riuscita, nel 2014, a completare una laurea magistrale presso l’Università Federale Fluminense e a lavorare in modo coraggioso e costruttivo per le comunità discriminate di Rio.
Manifestazione per Marielle Franco, Rio de Janeiro, 15 marzo 2018 (AP Photo/Leo Correa)--DA: IL POST
La sua tesi affronta proprio l’impatto delle cosiddette “unità di pacificazione” sulle “favelas” di Rio: “UPP a redução da favela a três letras: uma análise da política de segurança pública do Estado do Rio de Janeiro”, scaricabile gratuitamente da uno dei più prestigiosi portali delle scienze sociali latinoamericane, oggi pubblicato in italiano.
UPP ( = Unidades de Polícia Pacificadora )
IL LIBRO IN ITALIANO
Laboratorio favela. Violenza e politica a Rio de Janeiro
Questo libro è un atto di omaggio, un racconto a cui ispirarsi, e allo stesso tempo una fotografia, ricca di speranze e di amarezze, del mondo visto con gli occhi di chi lotta per cambiarlo
Manifestazione per Marielle Franco, Rio de Janeiro, 15 marzo 2018 (AP Photo/Leo Correa)-DA: – IL POST
L’ASSASSINIO DI MARIELLE E DI ANDERSON GOMES
Il fatto che i quattro colpi di mitragliatrice HK MP5 che l’hanno assassinata indichino armi in dotazione alle forze speciali di Polizia e che, a quasi un anno di distanza, l’inchiesta ufficiale non abbia identificato né mandanti né esecutori.
Ben venga, quindi, il samba, allegro nella musica e di chiara denuncia nel testo, da Mangueira porta a Sapucaíe all’attenzione generale questi omicidi e più in generale il clima di repressione che sta vivendo Rio de Janeiro con il sindaco evangelico Marcelo Crivella e il Brasile con il governo a guida militarista, razzista ed omofobica di Jaír Bolsonaro.
Anche la vedova di Marielle Franco, Mônica Benício ha partecipato al lancio del brano. Nell’occasione, una delle ballerine della scuola di samba, Claudiene Esteves ha così riassunto un sentire comune: “Per la prima volta scegliamo di essere rappresentate da un bel samba che parla di donne che lottano e narra una storia che non viene narrata nei libri di storia del Brasile”.
video, 4,32 IL SAMBA CHE HA VINTO IL CARNEVALE DI RIO 2019
TEXTO
Mangueira, tira a poeira dos porões
Ô abre alas pros teus heróis de barracões
Dos Brasis que se faz um país de Lecis, Jamelões
São verde e rosa, as multidões
Brasil, meu nego
Deixa eu te contar
A história que a História não conta
O avesso do mesmo lugar
Na luta é que a gente se encontra
Brasil, meu dengo
A Mangueira chegou
Com versos que o livro apagou
Desde 1500 tem mais invasão do que descobrimento
Tem sangue retinto pisado
Atrás do herói emoldurado
Mulheres, tamoios, mulatos
Eu quero um país que não está no retrato.
Brasil, o teu nome é Dandara
E a tua cara é de Cariri
Não veio do céu
Nem das mãos de Isabel
A liberdade é um dragão no mar de Aracati
Salve os caboclos de julho
Quem foi de aço nos anos de chumbo
Brasil, chegou a vez
De ouvir as Marias, Mahins, Marielles, malês
Manifestazione per Marielle Franco, Rio de Janeiro, 15 marzo 2018 (AP Photo/Leo Correa)– DAIL POST
NINNA NANNA PER ADULTI
traduzione di RICCARDO VENTURI : dice di averlo trovato un testo difficilissimo da tradurre soprattutto per i riferimenti a tutta la storia del Brasile – che ha voluto parteciparci con delle note assai accurate- Ha fatto un magnifico lavoro ! Grazie.
Mangueira, spolvera gli scantinati
Oh, apri i porticati dei templi ai tuoi eroi da baraccone
Del multiforme Brasile [8] che diventa un paese di Leci [9], di Jamelão [10],
Sono verdi e rosa, le folle.
Brasile, tesoro mio,
Lascia che ti racconti
La storia che la Storia non racconta
L’opposto dello stesso posto
È nella lotta che ci si trova
Brasile, dolcezza mia
È arrivata la Mangueira
Con versi cancellati dai libri
Fin dal 1500
C’è più invasione che scoperta
C’è sangue negro calpestato
Dietro l’eroe incorniciato
Donne, tamoios[1], mulatti
Voglio un paese non da cartolina
Brasile, il tuo nome è Dandara [2]
Hai la faccia da cariri[3]
Non è venuta dal cielo
E né dalle mani di Isabel [4]
La libertà è un drago nel mare di Aracati [5]
Salve, Meticci di Luglio [6]
Ecco chi fu d’acciaio in quegli anni plumbei
Brasile, stavolta è ora
Di Ascoltare le Marie, le Mahin, le Marielle, i Malês[7]
Manifestazione per Marielle Franco, Rio de Janeiro, 15 marzo 2018 (Diego Herculano- AP Images)– IL POST
Manifestazione per Marielle Franco, Rio de Janeiro, 15 marzo 2018 (AP Photo/Leo Correa)- da: IL POST
note:
[1] I Tamoios erano la tribù indigena che abitava la costa da Santos a Espírito Santo (ci andarono giù pesi i colonizzatori portoghesi con la nuova toponomastica cattolica…) al tempo della “scoperta”, nell’esatto anno 1500. I Tamoios erano una tribù di etnia Tupi: tutte le tribù (Tupiniquim, Tupinambá, Potiguara, Tabajara, Caetés, Temiminó, Tamoios…) parlavano la medesima lingua, ma non risulta che si riconoscessero in un’identità comune. Praticavano tutte un’agricoltura piuttosto avanzata. Tra tutte le tribù, i Tamoios si facevano notare per il loro spirito bellicoso e per il valore in guerra.
[2] Dandara è stata una guerriera afro-brasiliana del periodo coloniale del Brasile. Faceva parte del Quilombo dos Palmares, un insediamento di afro-brasiliani liberatisi da soli dalla schiavitù nell’attuale stato di Alagoas, dopo una rivolta e una dura lotta. Dandara fu catturata il 6 febbraio 1694, e si suicidò piuttosto che tornare ad essere schiava. Rimane una figura misteriosa: non molto si sa della sua vita, nonostante si siano formate su di lei leggende che narrano tutto e il contrario di tutto. Era la sposa di Zumbi dos Palmares, l’ultimo re del Quilombo, da cui aveva avuto tre figli. La lotta di liberazione del gruppo di schiavi venne condotta da uomini e donne per difendere Palmares, il luogo dove si erano rifugiati e stabiliti nella Serra da Barriga (un’area quasi inaccessibile a causa della vegetazione impenetrabile). Padrona delle tecniche della Capoeira, combatté in parecchie battaglie; si ignora se fosse nata in Brasile o in Africa.
[3] Il riferimento è agli indios della famiglia linguistica cariri (diversa da quella Tupi), formata da diverse etnie che occupavano una grossa area del Nordest brasiliano. Il testo si riferisce più in particolare alla Confederação dos Cariris, nota anche come “Guerra dei Barbari” (Guerra dos Bárbaros), un movimento di resistenza indigena al dominio portoghese a cavallo tra il XVI e il XVII secolo. Furono coinvolte soprattutto etnie cariri dell’attuale stato del Ceará, ma anche del Rio Grande do Norte, del Pernambuco e del Paraíba.
Lo storico Luiz Antônio Simas li ha descritti come “valorosi combattenti contro la presenza portoghese. Furono decimati in una guerra condotta dai bandeirantes comandati da Domingo Jorge il vecchio, lo stesso che combatté a Quilombo dos Palmares” (v. nota 2). Secondo Leandro Vieira, l’autore di questo testo, “I cariri erano talmente coraggiosi e ben organizzati, che lo stato coloniale dovette richiamare le truppe che combattevano a Quilombo dos Palmares per contenere l’avanzata degli indios”.
In ultimo, da segnalare la curiosa evoluzione del termine cariri nei dialetti del Brasile settentrionale: significa “sforzo, fatica”. Un’evoluzione nata probabilmente dalle fatiche durate per sconfiggere i cariri secoli prima.
[4] Nel 1888, l’anno prima della fine dell’Impero Brasiliano (l’imperatore Pedro II fu deposto nel 1889, se ne andò in esilio a Parigi e fu instaurata la Repubblica), la principessa Isabel firmò la cosiddetta Lei Áurea (Legge Aurea) con la quale si aboliva la schiavitù in tutto il Brasile. Ma già quattro anni prima, nel 1884, lo stato del Ceará la aveva abolita motu proprio; rimando a questo punto alla successiva nota 5.
[5] Francisco José do Nascimento, noto come “Chico da Matilde”, di mestiere faceva il pilota di zatteroni ( sono dei velivoli ). Vissuto tra il 1839 e il 1914 nello stato del Ceará (v. nota 4), fu un combattente per l’abolizione della schiavitù. Si guadagnò l’appellativo di “Drago del Mare” (Dragão do Mar), cui si fa preciso riferimento nel testo, dopo aver guidato una rivolta di piloti di zattere per impedire che i porti del Ceará fossero utilizzati per l’imbarco e lo sbarco degli schiavi. La sua frase più celebre fu: “Nei porti del Ceará non si imbarcano più schiavi”. Era nato a Canoa Quebrada, nel distretto di Aracati (il “Mare di Aracati” nel testo); oltre a guidare la rivolta degli zatteristi, accolse schiavi in casa sua e agì per la diffusione del movimento abolizionista nel Ceará, facendogli acquistare una grande forza e rendendolo una figura mitica. E’ grazie a lui, e non alle “mani di Isabel” (v. sempre la nota 4) che la schiavitù fu abolita in Brasile e, primo di tutti (1884) proprio nel Ceará. Chico da Matilde è ancora oggi un simbolo di resistenza popolare. A Fortaleza, il centro artistico e culturale della città è stato chiamato Centro Dragão do Mar in suo onore.
[6] Con “Meticci di Luglio” si fa riferimento agli indigeni che lottarono nella guerra di indipendenza brasiliana nello stato di Bahia. Tuttora, in questo stato, il “caboclo” (propriamente: “bruno, abbronzato”, dal tupi caaboc) è il simbolo dell’indipendenza dalla corona portoghese. Il Brasile la ottenne il 2 luglio 1823 (per questo i meticci, o indigeni, sono “di Luglio”), anche se era stata proclamata un anno prima, nel 1822, da Dom Pedro I che assunse poi nientepopodimeno che il titolo di Imperatore. In quell’anno si svolsero battaglie sanguinose contro i portoghesi che non accettavano la secessione della colonia.
La storica Heloisa Starling ha affermato che “nel Bahia si trattò di un movimento molto interessante, perché ebbe una chiara partecipazione popolare. Il Bahia è orgoglioso di avere riunito indios, schiavi liberati, bianchi e vari settori della società brasiliana nella lotta che portò al 2 luglio. Il meticcio è una rappresentazione simbolica della presenza degli indios in questa lotta.”
[7] Prima di ogni altra cosa, è in questo verso (quasi interamente dedicato a figure femminili) che si fa l’unico reale riferimento a Marielle Franco.
Non ho reperito purtroppo nessun dato certo su “Maria”. Si tratta comunque quasi sicuramente di una schiava.
“Mahin” è Luiza Mahin, considerata come un’importante leader nei movimenti contro la schiavitù nello stato di Bahia all’inizio del XVIII secolo, e combattente nella rivolta dei Malês (v. infra), un’insurrezione di schiavi che scoppiò a Salvador de Bahia nel 1835.“Mahin” non è un cognome, ma un appellativo etnico: si riferisce ai Mahi, popolazione africana del Benin, dalla quale Luiza discendeva. Non si sa se fosse nata in Brasile o nella Costa da Mina, la regione africana sul Golfo di Guinea dalla quale proveniva la maggior parte degli schiavi deportati in Brasile e nel resto dell’America Latina.
La biografia di Luiza Mahin si confonde tra storia e leggenda. Sarebbe stata comunque una schiava che era riuscita a comprarsi la libertà pagandola con il suo commercio di specialità gastronomiche a Salvador, che lei stessa preparava con sapienza culinaria. Luiza Mahin è ritratta nel romanzo storico Um defeito de cor di Ana Maria Gonçalves, e oggetto di studi storici da parte di João José Reis, l’autore del saggio Rebelião escrava no Brasil. Il fatto è che Reis, il maggiore studioso della rivolta dei Malês, non ha reperito alcun riferimento certo su di lei, intendendo un riferimento documentale; a suo parere, Luiza Mahin può essere “un misto tra una figura realmente esistita, fantasia narrativa e mito libertario”.
Il poeta abolizionista Luiz Gama tentò di farla passare per sua madre in una lettera in cui la descriveva come una donna “dalla pelle nerissima e secca” e con “denti bianchissimi come la neve”, “superba, geniale, insofferente e vendicativa”. Ma secondo la storica Heloisa Starling, si tratterebbe di una pura invenzione di Luiz Gama. Luiza Mahin resta comunque una figura simbolica e importante per il movimento abolizionista. Con Malês (termine derivato dalla lingua hausa málami “professore; signore”, o dallo yoruba imale “musulmano”) si indicavano, nel Brasile del XIX secolo, i negri musulmani che conoscevano la lingua araba e la sapevano scrivere. Quasi sempre erano assai più istruiti e colti dei loro padroni e, nonostante la loro condizione di schiavi, non erano affatto sottomessi. Nella storia brasiliana, sono stati i protagonisti della “Rivolta dei Malês” che ebbe luogo nel 1835 nel Bahia, dove viveva la loro maggior parte.
Tra il XVI e il XIX secolo non esistette alcuna libertà religiosa in Brasile. Chi non era cattolico, doveva convertirsi; la repressione fu durissima. In un primo momento, i Malês resistettero alla conversione forzata, cercando di mantenere la loro fede e la loro cultura. Si servivano principalmente di una resistenza spirituale (dissimulazione religiosa), già utilizzata dai musulmani sciiti: l’al’ tagiyya (“guardarsi” in arabo), così chiamata dai teologi islamici.
I Malês erano stati deportati in Brasile a cominciare dalla fine del XVIII secolo, venduti dai vincitori di guerre locali. Una gran quantità arrivò in seguito alla guerra dichiarata nel 1804 dallo sceicco Usman Dan Fodio (1754-1817), leader islamico dei Ful (fulani, fulƂe nella lingua locale) contro gli Hausa. Quasi tutti erano originari del Sudan, ed appartenenti a vari gruppi etnoculturali. In Brasile furono conosciuti, oltre che come Malês, anche come Mussurumim. Si convertirono fintamente al cattolicesimo, continuando a praticare in segreto la loro fede ancestrale.
La rivolta del 1835 scoppiò durante il Ramadan. Sconfitti e massacrati per le strade di Salvador, dovettero lottare in diversi casi anche contro l’ostilità di altri schiavi. Tra i superstiti, molti riuscirono a tornare in Africa, stabilendosi nel Benin. Tra chi rimase in Brasile, alcuni se ne andarono a Rio de Janeiro, e altri rimasero a Salvador dove persero gradualmente la loro identità culturale e religiosa, e la conoscenza dell’arabo.
[8] Così ho reso l’originale dos Brasis, letteralmente “dei Brasili”, che però presenta un verbo al singolare (que se faz um país). E’ un Brasile veramente multiforme quello che si presenta qui davanti agli occhi; multiforme ma che è un tutt’uno inestricabile.
[10] Qui il riferimento è invece a Jamelão, vale a dire José Bispo Clementino dos Santos (1913-2008), un altro importantissimo e tradizionale interprete di sambas-enredo della scuola Mangueira. Ne fu interprete dal 1949 al 2006, e dal 1952 interprete principale. E’ morto all’età di 95 anni pur essendo diabetico grave e iperteso. In queste due figure, Leci e Jamelão, Leandro Vieira riassume il “multiforme Brasile”, la sua storia cancellata e le sue lotte, e contemporaneamente fa un omaggio al samba di scuola Mangueira visto come espressione e fabbrica di resistenza sociale e memoria storica. Non è un caso che a Jaír Bolsonaro il samba piaccia molto poco.
fine delle note
REPUBBLICA 12 MARZO 2019
Omicidio di Marielle Franco, arrestati in Brasile due ex poliziotti
Daniele Mastrogiacomo
L’attivista, consigliera comunale di Rio, era nota per le sue battaglie in difesa dei diritti civili. I magistrati: “Omicidio premeditato, Franco giustiziata sommariamente a causa delle sue azioni politiche”. Il killer viveva nello stesso condominio del presidente Jair Bolsonaro, ma è un caso
Media ebraici: “Netanyahu riprenderà la guerra dopo la prima fase dell’accordo”
Le richieste del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich al primo ministro Benjamin Netanyahu, che Israele continui la guerra contro Hamas a Gaza una volta conclusa la prima fase dell’accordo e abbia il controllo sulla distribuzione degli aiuti umanitari, sono state accettate. Lo riferiscono Channel 12 e il portale Walla, citati da Times of Israel, aggiungendo che Smotrich e il suo partito, il Sionismo religioso, voteranno contro l’accordo, ma rimarranno al governo. Ieri sera, Itamar Ben Gvir, membro della coalizione di estrema destra di Smotrich, ha dichiarato che il suo partito Otzma Yehudit abbandonerà il governo se l’accordo verrà approvato.
10:35
Katz annulla la detenzione per i coloni come parte dell’accordo
Il ministro della Difesa israeliano Israel Kazt ha annullato tutti gli ordini di detenzione amministrativa nei confronti dei coloni israeliani “alla luce del previsto rilascio di terroristi in Cisgiordania” come parte dell’accordo di cessate il fuoco di Gaza. Secondo Katz, la decisione intende “inviare un chiaro messaggio di sostegno e incoraggiamento al progetto di insediamento, che è in prima linea nella lotta contro il terrorismopalestinese e le crescenti sfide alla sicurezza”.“È meglio che le famiglie dei coloni ebrei siano felici piuttosto che quelle dei terroristi rilasciati”, ha aggiunto Katz.
Medio Oriente. Israele e Hamas hanno firmato l’accordo. Cosa succede adesso.
Nella notte raggiunto a Doha il cessate il fuoco di sei settimane a partire da domenica. Ma il governo israeliano resta diviso e sulla striscia continuano a piovere bombe
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu – Ansa
Nella notte è stato siglato l’accordo tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi detenuti nella Striscia di Gaza. Dopo ore di negoziati a Doha, mediati da Qatar e Stati Uniti, è stata annunciata una tregua iniziale di sei settimane. In questa prima fase, verranno liberati 33 ostaggi israeliani in cambio di centinaia di prigionieri palestinesi detenuti in Israele. L’accordo include anche la promessa di negoziare la fine definitiva del conflitto.
Secondo l’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, “i dettagli finali dell’accordo sono stati completati e il gabinetto politico e di sicurezza si riunirà oggi per approvare l’intesa”. Le famiglie degli ostaggi sono state informate e sono già iniziati i preparativi per accoglierli. Tuttavia, alcuni ministri di estrema destra, tra cui il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, hanno annunciato la loro opposizione, definendo l’accordo “irresponsabile”.
La tregua, annunciata mercoledì, dovrebbe entrare in vigore domenica, a condizione che venga approvata dal governo israeliano, che appare però spaccato al proprio interno.
Nel frattempo, la situazione nella Striscia di Gaza rimane critica: nelle ultime 24 ore, gli attacchi israeliani hanno provocato almeno 81 morti, secondo il ministero della Sanità di Hamas. La Protezione Civile ha parlato di una “forte intensificazione” dei bombardamenti, mentre l’esercito israeliano ha dichiarato di aver colpito circa 50 obiettivi.
La comunità internazionale ha accolto con favore l’accordo. I leader del G7 hanno definito la tregua “uno sviluppo significativo”, esortando Israele e Hamas a rispettarne i termini. Hanno inoltre sottolineato l’urgenza di affrontare la crisi umanitaria a Gaza, dove le condizioni continuano a peggiorare. “Esortiamo tutte le parti a garantire il passaggio sicuro degli aiuti umanitari e la protezione dei civili”, si legge nella dichiarazione.
Il segretario di Stato americano Antony Blinken si è detto fiducioso sull’attuazione dell’accordo. “Mi aspetto che tutto abbia inizio domenica”, ha dichiarato in una conferenza stampa. Anche l’Egitto, che ha contribuito alla mediazione, ha chiesto che l’accordo venga implementato “senza indugio”.
L’intesa rappresenta un passo cruciale dopo mesi di intensi combattimenti, iniziati il 7 ottobre 2023, quando Hamas ha attaccato le comunità israeliane vicino al confine, provocando oltre 1.200 vittime e rapendo più di 250 persone. Da allora, gli scontri hanno causato oltre 46.000 morti e lo sfollamento della maggior parte dei 2,3 milioni di abitanti della Striscia di Gaza.
La tregua potrebbe aprire la strada a un miglioramento delle condizioni umanitarie nella regione, consentendo l’ingresso di aiuti essenziali e garantendo una pausa dai bombardamenti. Tuttavia, restano molte sfide: il rischio di nuove violenze, le divisioni interne al governo israeliano e la necessità di un dialogo costruttivo tra le parti. La comunità internazionale continua a monitorare la situazione, auspicando che questa tregua possa rappresentare l’inizio di un processo di pace duraturo.
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AVVENIRE — MERCOLEDI’ 15 GENNAIO 2025 —
Analisi. Il testo dell’accordo è lo stesso naufragato 8 mesi fa. Cosa è cambiato?
Nello Scavo
Lo scenario internazionale, i sabotaggi interni, i retroscena: ecco come e perché si è arrivati finalmente a una tregua
I festeggiamenti per la tregua a Gaza – Reuters
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A cominciare dall’imminente arrivo di Trump alla Casa Bianca. Nel frattempo si era aperta la crisi militare con il Libano, ci sono stati almeno due scontri militari a distanza con l’Iran, le operazioni dell’intelligence israeliana contro Hezbollah, Hamas e Iran, infine la caduta di Assad in Siria.
Oltre a questo, c’è la voce del ministro della Sicurezza nazionale Ben Gvir, esponente dell’estrema destra israeliana. «Nell’ultimo anno, attraverso il nostro potere politico, siamo riusciti a impedire, ripetutamente, che questo accordo venisse portato a termine».
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In queste ore all’Aja, al Tribunale, guardino anche a quello che succede in Italia. Dove il ministro degli esteri israeliano Gideon Sa’ar, che tra gli altri ha incontrato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, sarebbe venuto a chiedere un salvacondotto per Netanyahu, ricercato in campo internazionale, nel caso in cui si recasse nella città che ha dato il nome all’atto costitutivo del tribunale internazionale: lo “Statuto di Roma”.
Charlie Hebdo, ‘santa Meloni’ col braccio teso e Musk in braccio.
La vignetta pubblicata dal settimanale satirico francese
Charlie Hebdo, ‘santa Meloni ‘ – con il braccio teso mentre allatta l’infante Muskchaòl
Il settimanale satirico francese Charlie Hebdo pubblica questa settimana una vignetta che presenta una Giorgia Meloni “santa” ma con il braccio teso nel saluto romano.
La “Santa Meloni con l’infante Musk” viene ritratta mentre allatta al seno un bambino dalla fattezze di Elon Musk.
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L’ATTENTATO CONTRO CHARLIE HEBDO E’ AVVENUTO IL 7 GENNAIO 2015::
Nell’attentato, rivendicato dalla branca yemenita di Al-Qāʿida (o Ansar al-Sharia), sono state assassinate dodici persone, mentre undici sono rimaste ferite.
video, 10 min. — MARCO DAMILANO — 15 GENNAIO 2025 . IL C AVALLO E LA TORRE —
INTERVISTA A LUIGI MANCONI
Marco Damilano dialoga con Luigi Manconi, sociologo ed ex parlamentare, dall’accordo per Il cessate il fuoco a Gaza, allo stato di salute dei diritti in Italia oggi. Nell’ultimo rapporto dell’associazione “A buon diritto” si analizza la situazione negli ultimi dieci anni. C’è una continuità di politiche? O forse una continuità di distrazione dell’opinione pubblica? In chiusura il pensiero di Mauro Biani.
Chi parla di Dio nel senso di Gesù deve accettare che le proprie preconcette certezze siano intaccate dalla sventura degli altri»
La Teologia politica di cui parla non è mai stata una teologia «che si occupa in modo particolare dell’ambito della politica, ma piuttosto di una teologia che ha compreso che le persone, nei loro sforzi di vivere e di credere, sono sempre inserite in contesti sociali e storici»
Metz forse all’inizio non poteva prevedere che sarebbe diventato un punto di riferimento e un punto di partenza per la Teologia della liberazione latinoamericana. Ma che ne diventasse l’ispiratore e l’interlocutore è in definitiva una conseguenza logica, dal momento che egli ha insistito sull’«autorità dei sofferenti» e rivendicato la continua responsabilità della Chiesa e del mondo nel preservare la memoria passionis, senza dimenticare o livellare le tante storie di sofferenza nel mondo attraverso la storia della sofferenza di Gesù.
In un’intervista rilasciata nel 2008, alla domanda se la questione della giustizia dovesse essere approfondita nella costituzione della Chiesa secondo il diritto pubblico, cioè nel diritto canonico, Metz rispose: «Si potrebbe dire così, anche se i cristiani sono certamente non soltanto praticanti ma anche mistici di tale giustizia: ma mistici con “gli occhi aperti”, mistici di una compassione, di una capacità di compatire che, secondo me, ancora oggi è una parola chiave importante nella sequela di Gesù. Questa mistica della giustizia non è una mistica della sofferenza senza volto, come nelle forme principali della mistica nell’Asia orientale: invece, è una “mistica alla ricerca di un volto” (Benedetto XVI), porta all’incontro con i volti di chi soffre»
Il principio fondamentale della teologia della liberazione si impernia intorno alla considerazione del ruolo centrale della Chiesa nella società umana contemporanea e tende a porre in evidenza i valori di emancipazionesociale e politica presenti nel messaggio cristiano, in particolare l’opzione fondamentale per i poveri così come essa si evince all’interno del dato biblico.
Tra i protagonisti che diedero inizio a questa corrente di pensiero vi furono il teologo Gustavo Gutiérrez (peruviano), docente della Pontificia Università del Perù, l’arcivescovo Hélder Câmara, il teologo Leonardo Boff (brasiliani) e Camilo Torres Restrepo (colombiano). Il termine venne coniato dallo stesso Gutiérrez nel 1973 con la pubblicazione del libro Teologia della Liberazione (titolo originale spagnolo: Historia, Política y Salvación de una Teología de Liberación).
I principi ispiratori possono essere fatti risalire alla regola francescana della Chiesa povera per i poveri di san Francesco d’Assisi applicata al contesto storico moderno e contemporaneo e contestualizzata come forma di risposta della Chiesa al diffondersi delle dittature militari e dei regimirepressivi, che spronarono l’elaborazione di proposte più incisive per far fronte all’aggravarsi della crisi sociale.
Per numerosi presuli che aderirono poi alla teologia della liberazione era infatti inaccettabile il silenzio e, in alcuni casi, la complicità di numerosi vescovi e cardinali cattolici dell’America Latina alle politiche di repressione del regime militare brasiliano. Durante la CELAM del 1968 alcuni vescovi sudamericani presero posizione in favore delle popolazioni più diseredate e delle loro lotte, pronunciandosi per una chiesa popolare e socialmente attiva.
Durante la CELAM del 1968 si evidenziò l’emergere di una forte opposizione da parte di teologi cattolici alle tesi della teologia della liberazione, che andò rafforzandosi negli anni ottanta con il papato di Giovanni Paolo II in cui gli ideologi e i protagonisti della teologia della liberazione furono progressivamente invitati a prendere in considerazione il Magistero della Chiesa cattolica, come avvenne per Leonardo Boff che dopo numerosi tentativi di dialogo teologicosubì diversi processi ecclesiastici per poi abbandonare, nel 1992, l’ordine francescano.
Florianópolis presenta il tipico clima del litorale sud-brasiliano, il periodo più caldo ( dicembre ) la temperatura media è di 25 °C e in quello più freddo (agosto) di 16 °C.
Sull’isola sono presenti rilievi montuosi che arrivano fino ai 532 m del Morro do Ribeirão e alcune lagune, la più grande delle quali è la Lagoa da Conceição. La costa orientale, che si affaccia sull’Atlantico, è molto esposta al vento, per questo è ricca di dune e rinomata dai surfisti.
La città è comunemente conosciuta con il nomignolo di Floripa e vanta il riconoscimento statistico di capitale brasiliana con la migliore qualità della vita e indice di sviluppo umano (0,955 nel 2001.)
L’isola sulla quale sorge vanta circa cento spiagge di vario tipo.
Il comune di Florianópolis, oltre a Santa Catarina, comprende altre 39 isole.
Florianópolis si trova all’interno della Foresta Atlantica che ha un mix estremamente diversificato e unico di vegetazione e tipi di foresta.
La popolazione di Florianópolis nel 2020 è stata stimata in circa 508.826 persone nella città vera e propria e 1.111.702 persone nell’area metropolitana.
Il territorio del comune comprende, oltre all’isola di Santa Catarina, una parte continentale.
L’isola è collegata al continente da tre ponti.
storia– epoca précolombiana
Le tracce più antiche della presenza umana riguardano il cosiddetto Uomo di Sambaquì, di cui si hanno ritrovamenti risalenti al 4800 a.C. Numerose sono le incisioni rupestri e sono state ritrovate cave per la costruzione di strumenti in pietra.
Il termine sambaquì viene dalla parola tupitãba’ki.Cernambi e sarnambi sono ugualmente vocaboli originari della lingua tupi-
( *** non ho trovato notizia dell’Uomo di Sambanquì — da wikipedia in italiano- )
Gli abitanti della regione, all’epoca dello sbarco degli esploratori europei (i Portoghesi, 1514 ), erano gli indioscarijós, di origine tupi-guaraní, che praticavano l’agricoltura, la pesca e la raccolta di molluschi. Essi chiamavano l’isola Meiembipe “la montagna lungo il mare”, mentre lo stretto che la separa dal continente era chiamato Y-Jurerê-Mirim, “piccola bocca d’acqua”.
cultura
Il tratto culturale dominante è quello portato dagli immigrati dalle Azzorre nel XVIII, osservabile negli edifici, nell’artigianato, nel folclore, nella cucina e nelle tradizioni religiose.
GOLETTE NELLA SPIAGGIA DI CASNAVIEIRAS NELL’ISOLA DI FLORIANOPOLIS
( fanno turismo nautico )- Sono anche chiamate ” Escunas Pirata ” Amanda Likes – Own work
La Piaf stessa ne scrisse il testo nel 1945, con il titolo Les choses en rose, e chiese a Robert Chauvigny, suo direttore d’orchestra e arrangiatore, di musicarlo; questi però si rifiutò, ritenendolo indegno della sua firma. Fu dunque il pianista Louiguy (Louis Gugliemi) a dare una musica a quei versi che, con un nuovo titolo, divennero un successo mondiale e la canzone dell’amore romantico per eccellenza.
DONATELLA : ” Non si può sentire questa canzone senza sentirla dentro di noi. ”
Édith Piaf — Edith Giovanna Gasson – (Parigi, 19 dicembre 1915 – Grasse, 10 ottobre 1963)
TESTO E TRADUZIONE
La Vie En Rose
La Vita In Rosa
Des yeux qui font baisser les miens
Un rire qui se perd sur sa bouche
Voilà le portrait, sans retouche
De l’homme auquel j’appartiensQuand il me prend dans ses bras
Il me parle tout bas
Je vois la vie en roseIl me dit des mots d’amour
Des mots de tous les jours
Et ça me fait quelque choseIl est entré dans mon cœur
Une part de bonheur
Dont je connais la causeC’est lui pour moi, moi pour lui dans la vie
Il me l’a dit, l’a juré pour la vieEt dès que je l’aperçois
Alors je sens en moi
Mon cœur qui batDes nuits d’amour ne plus en finir
Un grand bonheur qui prend sa place
Des ennuis, des chagrins s’effacent
Heureux, heureux à en mourir{Couplets 2-4}C’est toi pour moi, moi pour toi dans la vie
Tu me l’as dit, l’as juré pour la vie{Couplet 6}
Occhi che fanno abbassare i miei
Un ridere che si perde sulla sua bocca
Ecco il ritratto senza ritocchi
Dell’uomo al quale appartengoQuando mi prende fra le braccia
Mi parla a bassa voce
Vedo la vita in rosaMi dice parole d’amore
Parole di tutti i giorni
E quello mi fa sentire qualcosaLui è entrato nel mio cuore
[È] una parte di felicità
Di cui conosco la causaÈ lui per me, io per lui
nella vita
Me l’ha detto, l’ha giurato per la vitaE fin dal momento in cui lo scorgo
Allora sento in me
Il mio cuore che batteNotti d’amore da non finire più
Una gran felicità che arriva
I guai, i dolori si cancellano
Felice, felice da morirne{Strofe 2-4}È tu per me, io per te nella vita
Me l’hai detto, l’hai giurato a vita{Strofa 6}
Escono in contemporanea da Castelvecchi (che è un marchio di Lit Edizioni) due biografie di Édith Piaf, mito della canzone non solo francese, scomparsa a quarantotto anni nel 1963. La prima è propriamente un’autobiografia, scritta con il giornalista Louis-René Dauven, con prefazione di Jean Cocteau, pubblicata in Francia nel 1958: conserva in italiano il titolo originale, Au bal de la chance (Al ballo della fortuna, pp. 192, euro 17,50) e riproduce, con nuova copertina, l’edizione Castelvecchi del 2011. Nell’introduzione, Marc Robine, che aveva curato per L’Archipel l’edizione del 2003, ridimensiona alcuni aspetti della «leggenda» Piaf, che non sarebbe stata partorita sul marciapiede e non si sarebbe prostituita per raggranellare i soldi per i funerali della figlia Marcelle, avuta quando aveva diciassette anni da un giovane fattorino, Louis Dupont, e stroncata dalla meningite a soli diciotto mesi: in realtà pare che Édith sia nata regolarmente in ospedale, e i soldi per il funerale della piccola furono trovati meno drammaticamente.
L’altra biografia, di ben 480 pagine (euro 25), è firmata da Simone Berteaut, e si intitola Édith mia sorella (una prima edizione Rizzoli è del 1970). La Berteaut si è sempre proclamata sorellastra della Piaf, asserendo di avere lo stesso padre, il contorsionista di strada Louis Gassion, a cui peraltro sono attribuiti diciannove figli.
Di fatto, anche se il libro della «sorella» fu contestato da altri famigliari, Simone Berteaut, soprannominata Momone, più giovane di due anni rispetto a Édith, accompagnò l’adolescenza della futura star sui marciapiedi di Parigi e nelle caserme, quand’erano entrambe cantanti di strada, e la frequentò per tutta la vita. Nell’autobiografia, la Piaf ricorda con simpatia l’«amica» Momone. Aveva vent’anni, la Piaf, quando l’impresario Louis Leplée, notò la voce straordinaria di quella ragazza da marciapiede: le fece un’audizione, la presentò nei cabaret, e da lì ebbe inizio la straordinaria carriera di Édith il cui cognome, Gassion, fu mutato da Leplée in Piaf (passerotto) per la sua corporatura minuta e fragile.
Canzoni come L’Hymne à l’amour, La vie en rose, Milord, L’étranger, Ne me quitte pas, hanno fatto il giro del globo, cantate da quella voce straziata e vibrante che scava nel cuore. Della sua arte ha detto la parola definitiva Jean Cocteau: «Édith Piaf ha la bellezza dell’ombra che si esprime alla luce. Ogni volta che canta sembra che strappi la sua anima per l’ultima volta».
La cantante, che diverrà vittima dell’alcol e della morfina che aveva incominciato ad assumere durante il ricovero ospedaliero per un incidente automobilistico, ebbe molti amori, anche fra i compositori e i cantanti di cui favorì la carriera, e la «sorella» è prodiga di complicità e di particolari. Comunque, Yves Montand, Gilbert Bécaud, Charles Aznavour, Leo Ferré, Eddie Constantine devono molto o quasi tutto alla Piaf. Celebre è rimasta la storia d’amore di lei con Marcel Cerdan, il campione mondiale dei pesi medi, conosciuto nel 1948 e che l’anno dopo morirà in un incidente aereo.
Negli ultimissimi anni, la cantante, che da 1952 al 1956 era stata sposata con il compositore Jacques Pills, si legò al cantante greco Theophanis Lamboukas, da lei scoperto e ribattezzato Théo Sarapo.La «sorella» raccolse questa confidenza: «Con Marcel (Cerdan) ci volevamo molto bene, ma io so benissimo che se non fosse morto mi avrebbe abbandonato. Non perché sarebbe diminuito l’amore, ma perché lui era onesto, e anch’io. Aveva moglie e tre figli e sarebbe ritornato con loro. Se non avessi incontrato Théo, sarebbe mancato qualcosa nella mia vita».
Sposò Théo con rito civile e poi con rito religioso ortodosso nel 1962, lei di 47 anni, lui di 26. La canzone Non je ne regrette rien (Non rimpiango nulla, ricomincio da te), che è del 1960, prelude in qualche modo all’amore per Théo, intensamente corrisposto.
Édith Piaf, devotissima di santa Teresa di Lisieux a cui attribuiva il «miracolo» della guarigione da una grave malattia agli occhi quando aveva quattro anni, morì l’11 ottobre 1963. Jean Cocteau, che doveva leggerne l’elogio alla radio, morì il giorno dopo.
I termini dell’accordo annunciato, ma non ancora concluso, su scambio di ostaggi-prigionieri e cessate il fuoco a Gaza tra Israele e Hamas. L’arrivo di Trump e le tempistiche dell’accordo. Il quadro regionale. La ‘vittoria’ militare israeliana sull’asse della resistenza iraniana (Iran, Siria, Hezbollah, Hamas). Sarà possibile ritornare a parlare di Accordi di Abram e pace tra Israele e Arabia Saudita, con il via libera a tutti i progetti economici e geopolitici connessi? Le incognite sulla politica interna israeliana e il futuro di Netanyahu.
NOTA :
LORENZO TROMBETTA ( Roma, 1976 )
Studioso di Siria contemporanea e autore diSiria. Dagli ottomani agli Asad. E oltre, Mondadori Università. Da Beirut è corrispondente per l’Ansa e collabora con numerose testate nazionali e straniere.
Resti della Chiesa Bizantina e del Tempio di Giove Gianfranco Gazzetti / GAR
Grande Moschea, casa delle campane. Fu in questo periodo che venne edificata la grande moschea trasformando la cattedrale cristiana di san Giovanni Battista. Marina Milella / DecArch
La Grande Moschea degli Omayyadi.
La Grande Moschea degli Omayyadi è il principale edificio di culto di Damasco, in Siria. L’edificio fu completamente rivestito di marmi e mosaici in pasta vitrea con conchiglie e madreperle inserite sul fondo oro, di cui si occuparono maestranze bizantine.
Da più di settant’anni, l’impero americano è in declino. A ogni sconfitta militare o crisi economica, i profeti del tramonto predicono l’ineluttabile fine degli USA. Il problema è che a ogni sconfitta, gli Stati Uniti diventano sempre più forti, e sembra che la catastrofe annunciata non arrivi mai. Marco D’Eramo, scrittore e sociologo, ci spiega come l’impero statunitense continui, imperterrito, a sopravvivere.
Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” e “Mondoperaio”, e collabora con “il manifesto”. Tra le sue pubblicazioni: I nuovi filosofi (Lerici, 1978), L’immaginazione senza potere, mito e realtà del ’68 (Mondoperaio, 1978), la cura di La crisi del concetto di crisi (Lerici, 1980), Gli ordini del caos (manifestolibri, 1991), Via dal vento. Viaggio nel profondo sud degli Stati Uniti (manifestolibri, 2004) e, con Feltrinelli, Il maiale e il grattacielo (1995) e Lo sciamano in elicottero. Per una storia del presente (1999).
Anche gli Stati Uniti d’America hanno i loro «terroni», e Marco D’Eramo li incontra a sud, dove l’America profonda e ostinata trova ancora la sua verità indicibile; un’esplorazione antropologica che non nasconde il suo cuore di tenebra, un luogo in cui le strutture mentali, i riflessi sociali, i comportamenti restano costanti e descrivono il razzismo più spietato e il bigottismo più fondamentalista di una nazione fondata sull’integralismo. Di autostrada in autostrada, incontrando un’umanità allegra, sofferente, sbruffona, malinconica, nel profondo delle campagne come ai piedi dei grattacieli, in improbabili parchi a tema o tra le vestigia archeologiche di un futuro spaziale, D’Eramo racconta “I terroni dell’Impero” con la sua penna sagace e caustica, in un reportage scritto agli inizi degli anni Duemila e oggi completamente aggiornato.
se vi interessa qualche tema, potete fare clic sui minuti in blu e si apre
00:00 Intro 01:33 Le specificità dell’impero americano 05:35 Il controllo totale dello spazio 08:20 Il controllo del flusso delle merci 11:17 Il sogno americano 13:58 La sottovalutazione della classe dirigente USA 16:27 Crisi e conseguenze della globalizzazione 20:03 L’ascesa del modello capitalistico cinese 23:49 La fuga delle élite 25:52 Gli USA sono i peggiori nemici di se stessi
Aprendimos a quererte
desde la historica altura
donde el sol de tu bravura
le puso cerco a la muerte.
Aqui se queda la clara,
la entrañable transparencia
de tu querida presencia,
comandante Che Guevara.
Tu mano gloriosa y fuerte
sobre la historia dispara,
cuando todo Santa Clara
se despierta para verte.
Aqui …
Vienes quemando la brisa
con soles de primavera
para plantar la bandera
con la luz de tu sonrisa.
Aqui …
Tu amor revolucionario
te conduce a nueva empresa,
donde esperan la firmeza
de tu brazo libertario.
Aqui …
Seguiremos adelante
como junto a ti seguimos
y con Fidel te decimos:
“Hasta siempre, Comandante!”
Aqui …
HASTA SIEMPRE COMANDANTE CHE GUEVARA — + GUANTANAMERA —
El pueblo unido jamas sera vencido,
El pueblo unido jamas sera vencido!
De pie, marchar que vamos a triunfar.
Avanzan ya banderas de unidad,
Y tu vendras marchando junto a mi
Y asi veras tu canto y tu bandera
Al florecer la luz de un rojo amanecer
Anuncia ya la vida que vendra
De pie, luchar,
Que el pueblo va a triunfar.
Sera mejor la vida que vendra
A conquistar nuestra felicidad
Y en un clamor mil voces de combate
Se alzaran, diran,
Cancion de libertad,
Con decision la patria vencera
Y ahora el pueblo que se alza en la lucha
Con voz de gigante gritando: Adelante!
El pueblo unido jamas sera vencido,
El pueblo unido jamas sera vencido!
La patria esta forjando la unidad
De norte a sur se movilizara,
Desde el salar ardiente y mineral
Al bosque austral,
Unidos en la lucha y el trabajo iran
La patria cubriran.
Su paso ya anuncia el porvenir.
De pie cantar que el pueblo va a triunfar
Millones ya imponen la verdad.
De acero son, ardiente batallon.
Sus manos van, llevando la justicia
Y la razon, mujer,
Con fuego y con valor,
Ya estas aqui junto al trabajador.
Y ahora el pueblo que se alza en la lucha
Con voz de gigante gritando: Adelante!
El pueblo unido jamas sera vencido,
El pueblo unido jamas sera vencido!
Traduzione a cura di Ermanno Tassi
Il Popolo Unito Non Sarà Mai Vinto
Il popolo unido non sarò mai vinto
Il popolo unito non sarà mai vinto!
In marcia a piedi verso il trionfo
Gia avanzano le bandiere dell’unità
E tu verrai marciando con me
E così vedrai il tuo canto e la tua bandiera
Fiorire la luce di un’alba rossa
Annuncia già la vita che verrà
A piedi, combattere
Perché il popolo trionfi
La vita che verrà sarà migliore
Per conquistare la nostra felicità
E nel clamore di mille voci di combattimento
Si solleveranno, diranno,
Conzoni di libertà
Con fermezza la patria vincerà
E ora il popolo che si solleva nella lotta
Con voce da gigante al grido di: Avanti!
Il popolo unito non sarà mai vinto
Il popolo unito non sarà mai vinto!
La patria sta forgiando l’unità
Dal nord al sud si mobiliterà
Dal salar (1) ardente e minerale
Alla foresta australe
Uniti nella lotta ed il lavoro andranno
La patria percorreranno
Il loro passo già annuncia il futuro
A piedi a cantare che il popolo trionferà
Milioni adesso impongono la verità
Sono di acciaio gli ardenti battglioni
Le loro mani vanno, a portar la giustizia
E la ragione, donna
Con fuoco e valore già sei qui a fianco al lavoratore.
E ora il popolo che si solleva nella lotta
Con voce da gigante al grido di: Avanti!
Il popolo unito non sarà mai vinto
Il popolo unito non sarà mai vinto!
‘” E spingule francese ” è una canzone in lingua napoletana, ripresa da Salvatore Di Giacomo ed Enrico De Levada un brano popolare pomiglianese, e pubblicata nel 1888. È considerato uno dei brani più importanti di Di Giacomo.
Salvatore Di Giacomo non scrisse il testo di suo completo pugno bensì riadattò una canzone popolare di Pomigliano d’Arco, già presente nel secondo volume dei Canti popolari delle provincie meridionali di Antonio Casetti e Vittorio Imbriani, pubblicato nel 1872 per Loescher.
Di Giacomo inserisce anche alcune immagini che rendono la sua versione più poetica. Nel testo viene inoltre menzionato più volte il tornese, moneta di rame coniata dalla metà del XV secolo fino alla fine del Regno delle Due Sicilie (1861). Il termine tornese, nel napoletano dell’epoca, significava tuttavia anche “bacio” e su questa ambivalenza è incentrata parte della canzone
Canti Popolari Delle Provincie Meridionali, Volume 2 Copertina flessibile – 31 agosto 2012
Nu juorno mme ne jètte da la casa Jènno vennenno spíngule francese Nu juorno mme ne jètte da la casa Jènno vennnenno spíngule francese
Mme chiamma na figliola: “Trase, trase Quanta spíngule daje pe’ nu turnese?” Mme chiamma na figliola: “Trase, trase Quanta spíngule daje pe’ nu turnese? Quanta spíngule daje pe’ nu turnese?” Io, che sóngo nu poco veziuso Sùbbeto mme ‘mmuccaje dint’a ‘sta casa
“Ah, chi vò belli spingule francese! Ah, chi vò belli spingule, ah, chi vò?! Ah, chi vò belli spingule francese! Ah, chi vò belli spingule ah, chi vò!?”
Dich’io: “Si tu mme daje tre o quatto vase Te dóngo tutt”e spíngule francese Dich’io: “Si tu mme daje tre o quatto vase Te dóngo tutt”e spíngule francese
Pízzeche e vase nun fanno purtóse E puo’ ghiénchere ‘e spíngule ‘o paese Pízzeche e vase nun fanno purtóse E puo’ ghiénchere ‘e spíngule ‘o paese E puó ghiénchere ‘e spíngule ‘o paese
Sentite a me ca, pure ‘nParaviso ‘E vase vanno a cinche nu turnese! “Ah, Chi vò’ belli spíngule francese! Ah, Chi vò’ belli spíngule, ah, chi vò?! Ah, chi vò belli spíngule francese! Ah, chi vò belli spíngule, ah, chi vò?!”
Dicette: “Bellu mio, chist’è ‘o paese Ca, si te prore ‘o naso, muore acciso!” Dicette: “Bellu mio, chist’è ‘o paese Ca, si te prore ‘o naso, muore acciso!”
E i rispunnette: “Agge pacienza, scusa ‘A tengo ‘a ‘nnammurata e sta ô paese” E i rispunnette: “Agge pacienza, scusa ‘A tengo ‘a ‘nnammurata e sta ô paese ‘A tengo ‘a ‘nnammurata e sta ô paese
E tene ‘a faccia comm”e ffronne ‘e rosa E tene ‘a vocca comm’a na cerasa Ah, chi vò belli spîngule francese! Ah, chi vò belli spíngule, ah, chi vò’?!
Ah, chi vò belli spíngule francese! Ah, chi vò belli spíngule, ah, chi vò’?!”
Italiano
Un giorno me ne andai da casa Andai a vendere le spille da balia Mi chiama una ragazza: Entra, entra!
Quante spille mi dai per un tornese? Ed io che sono un tipo un poco vizioso Subito mi infilai nella casa Ah, chi vuole belle spille da balia! Ah, chi vuole belle spille, ah, chi vuole!
Dico io: “Se mi dai tre quattro baci Ti do tutte le spille da balia Pizzicotti e baci non fanno buchi E puoi riempire di spille il paese Sentite me, che anche in paradiso I baci costano a cinque al tornese” Ah, chi vuole belle spille da balia! Ah, chi vuole belle spille, ah, chi vuole!
Disse:” Cuore mio, questo è il paese Che se ti prude il naso, muori ucciso!” E io risposi:” Abbi pazienza, scusa La tengo la fidanzata e sta al paese Ed ha il viso come le foglie di rosa Ed ha la bocca come una ciliegia! Ah, chi vuole belle spille da balia! Ah, chi vuole belle spille, ah, chi vuole!
Il gruppo musicale Napulantica nasce con lo scopo di preservare e diffondere la Canzone Classica Napoletana nella sua forma più pura, così come concepita dagli stessi Autori.
Il repertorio, che spazia dalle arie del ‘600 ai successi dei primi decenni del ‘900, esegue brani prescelti, molto spesso in sonorità acustica, mediante l’uso degli strumenti caratterizzanti tale genere musicale: il mandolino, la chitarra, il flauto traverso, la fisarmonica, il tamburello, la tammorra, le nacchere.
LA TAMORRA / NOTA
La tammorra è lo strumento principe della tradizione campana e vanta origini antichissime. Accompagnava il duro lavoro dei campi, ma era anche il mezzo per l’approccio amoroso, la conquista della donna e dell’uomo che solo in queste occasioni godevano di una relativa libertà. Ci s’incontrava sulle aie, nei campi quando, al termine della raccolta stagionale, si festeggiava. Era legato ai culti lunari e ritenuto strumento essenzialmente femminile. Oggi diffusa in tutto il Mediterraneo, la tammorra, detta anche tammurro, accompagna sia il canto che il ballo tradizionale ed è usata da sola o con altri strumenti a percussione. Le origini della tammurriata si perdono, quindi, nella notte dei tempi; essa è senza dubbio una delle più sensuali e seducenti forme di ballo ed affonda le sue origini nelle antiche danze greche e, probabilmente, nelle antiche danze delle genti campane, come i Sanniti.
Per nostra fortuna, e nonostante i secoli trascorsi, la tammurriata ha mantenuto i tratti fondamentali delle antiche danze, continuando a rappresentare i riti della sessualità e della fertilità connessi alla terra intesa come madre di ogni cosa e, quindi, fonte della vita.
La storia della tammorra, rivissuta attraverso lo studio dei reperti archeologici e delle opere d’arte presso quei paesi che si affacciano sul Mare Mediterraneoprende inizio da alcune statuette fenicie di figure femminili, raffiguranti, forse, sacerdotesse della dea Astarte recanti un disco riconducibile ad un tamburo a cornice, conservate presso il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. Alcune pitture di origine greca mostrano donne nell’atto di suonare un tamburo simile all’attuale tammorra denominato tympanon.
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