Quando l’arte diventa un dovere verso chi non è sopravvissuto alla Shoah: così pensava David Olère, deportato ad Auschwitz, dove lavorò nei Sonderkommando addetti ai forni crematori. Era difficilissimo uscirne vivi: Olère fu uno dei pochi. E con la sua arte ci offre una testimonianza straordinaria.
L’arte, insieme alla letteratura e al cinema, ha raccontato facendosi testimonianza uno dei periodi più terribili della storia, una delle più grandi tragedie di sempre dell’umanità: gli orrori dell’olocausto, le persecuzioni che hanno subito gli ebrei con le leggi razziali emanate dal regime nazista, le deportazioni e i campi di concentramento e di sterminio, la morte nelle camere a gas. Indicibili atrocità compiute nella seconda guerra mondiale in nome dell’idea della superiorità di un’unica razza, quella ariana, per l’eliminazione definitiva di tutti gli ebrei e delle minoranze. Una pagina drammatica della Storia che ha visto donne e uomini, bambini e adulti improvvisamente strappati dalle loro vite quotidiane, dalle loro case, dalle loro abitudini, dai loro affetti, costretti a rifugiarsi e a nascondersi, spesso inutilmente perché poi scoperti o denunciati da impensabili e insospettate spie tra vicini, “amici”, conoscenti, e portati via in massa verso luoghi da cui nella maggior parte dei casi non avrebbero più fatto ritorno. Tra i deportati vi sono state molte persone che hanno raccontato con i loro disegni e dipinti ciò che voleva dire essere ebrei in quel momento storico: immagini con cui illustravano di nascosto quello che loro stessi subivano e vedevano all’interno dei ghetti e dei campi di concentramento e che sono state ritrovate quando i loro autori erano già stati uccisi o memorie incancellabili nella mente e negli occhi di sopravvissuti che una volta liberati hanno trovato nell’arte un mezzo per esprimere i terribili momenti che loro stessi avevano vissuto. In ogni caso l’arte è da considerarsi testimonianza e strumento per tramandarne memoria, per far comprendere alle generazioni future di quanto male sia capace l’umanità, e da questa riflessione far sì che tutto questo odio non si verifichi mai più. Che nulla di tutto ciò che accadde col nazismo e le persecuzioni razziali non si ripeta mai più. L’arte (e non solo) serve quindi a non dimenticare.
In occasione della Giornata della Memoria vi raccontiamo su queste pagine, come ormai facciamo da qualche anno, la storia di un deportato e internato ad Auschwitz che, una volta liberato, e quindi salvatosi, raffigurò nei suoi disegni e dipinti la tragedia che vide e si compì nel campo di concentramento e di sterminio su persone innocenti. Opere che divennero quindi testimonianze di ciò che lui stesso aveva visto e sentito.
È la storia di David Olère, nato il 19 gennaio 1902 a Varsavia, in Polonia, dove frequentò l’Accademia di Belle Arti. Tra il 1921 e il 1922 fu assunto come assistente architetto, pittore e scultore all’Europaïsche Film Allianz. A Berlino lavorò con Ernst Lubitsch, famoso regista e produttore cinematografico, e realizzò varie scenografie. La sua carriera iniziò dunque come scenografo nell’industria cinematografica, lavorando anche per Paramount Pictures, Fox Films e Columbia Pictures. Trasferitosi a Parigi, sposò nel 1930 Juliette Ventura, dalla cui unione nacque il figlio Alexandre. Quando venne dichiarata la guerra in Europa, David fu mobilitato nel 134° reggimento di fanteria a Lons-le-Saunier. Il 20 febbraio 1943 venne arrestato dalla polizia francese nel dipartimento di Seine-et-Oise a causa delle sue origini ebraiche e internato nel campo di Drancy, e il 2 marzo fu poi deportato ad Auschwitz. Nel campo di Auschwitz Olère rimase per quasi due anni, dal 2 marzo 1943 al 19 gennaio 1945, e qui lavorò nel Sonderkommando, un’unità speciale di lavoro costretta dai nazisti a rimuovere i corpi dalle camere a gas e i resti dai forni crematori. Selezionati dalle autorità dei campi fin dall’arrivo dei convogli di deportati, i membri del Sonderkommando vivevano in appositi settori, separati dagli altri per impedire fughe di notizie su ciò che accadeva veramente in questi ultimi luoghi; sono quelli che Primo Levi ne I sommersi e i salvati definisce “miserabili manovali della strage” e sul ruolo dei quali è ricaduta, condivisibile o non condivisibile che sia, l’accusa di non essersi rifiutati, di non aver provato a far nulla per evitare l’uccisione di così tanti innocenti. David Olère non si è rifiutato, probabilmente non si è potuto rifiutare; è stato uno dei pochi deportati a vedere con i suoi occhi tutte le fasi del processo di sterminio uscendone vivo, anche se per la maggior parte del tempo veniva impiegato per realizzare opere d’arte per le SS e per tradurre trasmissioni radiofoniche poiché conosceva molte lingue.
Il 24 febbraio 2022, con l’invasione su larga scala dell’Ucraina, la Russia ha dato ulteriore sviluppo alla guerra iniziata nel 2014 con l’occupazione della Crimea e il sostegno ai separatisti del Donbass. La mossa rientra in un progetto geopolitico e identitario di tipo imperiale e segue una logica neostalinista. Putin agisce infatti per ottenere il ritorno di Mosca da protagonista sul palcoscenico globale, perché convinto che la Russia sia da sempre e sarà anche in futuro un impero. Per consolidare la “fortezza russa”, ha dato vita a un regime illiberale grazie alla rielaborazione di teorie e pratiche ereditate dallo stalinismo: politica da grande potenza, controllo autoritario della società, esaltazione del passato imperiale, rivendicazione di una missione storica.
Riscrivendo la storia e statalizzando lo spazio memoriale, il putinismo ha creato una nuova identità fondata su alcuni stereotipi positivi di epoca sovietica ancora radicati in parte della popolazione. Allo stesso tempo ha inglobato, manipolato, censurato o represso le iniziative liberamente nate sui temi del passato russo nella società civile. Sposando una visione catastrofista delle relazioni internazionali, Putin ha dato forma a una Russia postsovietica dalle ambizioni imperiali, decisa a plasmare l’ordine europeo e mondiale. Il libro affronta le tappe della costruzione di questa identità geopolitica, interrogandosi sulla solidità del putinismo e sulle eredità che lascerà ai russi anche dopo l’uscita di scena di Putin.
Putin nel conflitto, il potere tra continuità e fragilità
RUSSIA. Con la «fine» di Prigozhin ha inteso dimostrare a un paese impaurito di essere l’unico in grado di guidarlo. Il presidente russo finora è riuscito a tarpare le ali alle alternative politiche – degli oligarchi, della sua cerchia e della società civile. Ma è una solidità alla prova della durata del conflitto ucraino
Poliziotti sulla Piazza Rossa – Epa/Maxim Shipenkov
Andrea Borelli *storico, autore di “Nella Russia di Putin” (Carocci, 2023)
Sono passati ventuno mesi dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Federazione russa e Putin ha mantenuto le redini del regime nonostante le difficoltà militari sul terreno e le sanzioni occidentali. Dal febbraio 2022 il presidente russo è riuscito a stringere ancora di più il cappio intorno al collo della società russa, dando seguito a una gestione neo-patrimoniale del potere tipica del putinismo inaugurata fin dal 2000 e che aveva fatto un primo salto di qualità già nel 2012 (terza rielezione di Putin).
Prendiamo ad esempio gli oligarchi. Denotando una scarsa conoscenza della realtà russa, alcuni analisti e politici occidentali avevano sostenuto che le sanzioni avrebbero spezzato il legame tra Putin e questi ultimi. È invece successo il contrario, visto che oggi in Russia per essere un oligarca, cioè per poter giovare di enormi ricchezze accumulate nel tempo in modo più o meno illecito, è necessario avere l’appoggio del Cremlino.
GLI ULTIMI ventuno mesi hanno rafforzato questa dinamica: gli oligarchi devono la loro sopravvivenza economica e l’incolumità fisica al regime. In questo anno e mezzo, infatti, sono decine gli uomini ai vertici di aziende pubbliche o private che hanno perso la vita in modo sospetto: la maggior parte di loro ricopriva ruoli di responsabilità nel settore energetico e alcuni avevano sollevato critiche verso la guerra.
All’interno dell’élite russa, però, la morte più celebre è stata quella di Evgenij Prigozhin. Putin è stato il principale beneficiario della dipartita del comandante della Wagner, che aveva lanciato con la sua “marcia della giustizia” una sfida all’inquilino del Cremlino nel tentativo di riequilibrare a suo vantaggio (e di chi lo aveva inizialmente sostenuto) il potere tra le alte sfere della Federazione russa.
Come tutte le “rivoluzioni di palazzo”, la ribellione di Prigozhin non pretendeva di sollevare la popolazione e si è conclusa con la morte di uno dei due contendenti. Il presidente russo ha inteso dimostrare a un paese impaurito di essere l’unico in grado di guidarlo e così facendo ha cercato di diffondere l’idea che al putinismo non c’è alternativa.
Il tentativo era anche quello di piegare l’opposizione di parte della società civile russa alla guerra in Ucraina, opposizione già duramente colpita dalla repressione. Solo per fare alcuni esempi, poco dopo l’inizio della “operazione speciale” il regime ha liquidato l’associazione Memorial, lo storico giornale Novaja Gazeta è stato costretto a chiudere e sono stati oscurati più di 200 media indipendenti con posizioni critiche verso la guerra.
Ecco dunque che Putin, almeno temporaneamente, è riuscito a tarpare le ali a qualsiasi alternativa politica proveniente dagli oligarchi, dalla sua cerchia ristretta e dalla società civile. Eppure nonostante questa solidità relativa, quanto appena detto dimostra che Putin non è riuscito a convincere i russi della necessità di combattere fino all’ultimo uomo (e rublo) in Ucraina.
LA CAUTA opposizione tra la classe dirigente è stata soppressa, ma ha dimostrato la presenza tra gli uomini di regime di posizioni critiche. Prigozhin è morto e la Wagner non rappresenta più una minaccia imminente per il Cremlino, ciononostante i russi hanno apprezzato le critiche rivolte dall’ex cuoco di Putin ai generali dell’esercito a testimonianza di un diffuso malcontento. La società civile è stata vittima di un ulteriore giro di vite, nondimeno la continua sequela di arresti ha messo in luce la fragilità del sostegno goduto da Putin.
In altre parole, il regime ha serrato i ranghi ma non può tirare troppo la corda. Al putinismo gli uomini e le armi non mancano, piuttosto è la debole legittimità politica che “l’operazione speciale” ha tra la popolazione russa a consigliare prudenza. Alla luce del precario equilibrio interno, più che per le difficoltà incontrate al fronte o per la pressione occidentale, il putinismo pare non avere le risorse politiche necessarie a vincere la guerra oppure a continuarla per un tempo illimitato.
In egual misura non esiste oggi in Russia un’alternativa organizzata interna o esterna alla cerchia di Putin, a meno che non si facciano largo figure forse ancora più spericolate come Dmitrij Medvedev. Dopo ventuno mesi di guerra il potere di Putin è più fragile, ma il presidente rimane ancora l’unico in grado, se volesse, di cambiare la politica russa in Ucraina.
POSSONO le fragilità di cui abbiamo parlato spingerlo ad una apertura diplomatica non di facciata? Difficile dirlo. Le parole pronunciate al G20 sembrano aprire qualche spiraglio, ma devono essere analizzate con attenzione. Putin ha usato la parola «guerra» e chiesto di risolvere la «tragedia in Ucraina», ma ha anche deresponsabilizzato la Federazione russa addossando tutte le colpe per quanto successo dal 2014 in poi al governo ucraino.
Una vera apertura da parte del putinismo ci sarà solo quando il Cremlino deciderà di assumersi se non tutte almeno parte delle proprie responsabilità. Un passo non semplice da fare per Putin che ritiene quella in Ucraina una guerra esistenziale contro l’Occidente, ma forse necessario per interrompere il conflitto ed evitare così l’esacerbarsi delle debolezze interne accumulate nell’ultimo anno e mezzo.
*storico, autore di “Nella Russia di Putin” (Carocci, 2023)
Per la rubrica sbarazzina, petulante, intermittente “Non c’entra assolutamente niente…” ci è pervenuta questa segnalazione, che ci è parsa in qualche modo simpatica:
” Per favorire la circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, a uso personale dei lettori purché non a scopo commerciale”, 2019 Edizioni Alegre, Roma.
Questa dichiarazione della casa editrice Alegre l’ho trascritta dalla quarta pagina del libro ” La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro”, del 2o19. Autore Wolf Bukowski, guest blogger del sito dei Wu Ming. Collabora con “Internazionale” ed è autore per Alegre di ” La danza delle mozzarelle”,2015 e “La santa crociata del porco”,2017, titoli molto molto invitanti.
È in corso da anni una guerra, combattuta tra le strade delle città, contro poveri, migranti, movimenti di protesta e marginalità sociali. Le sue armi sono decoro e sicurezza, categorie diventate centrali nella politica ma fatte della sostanza di cui son fatti i miti:Furio Jesi chiamava idee senza parole gli artifici retorici di questo tipo, con cui la cultura di destra vagheggia fantomatici «bei tempi andati» di una società armoniosa. Lo scopo è cancellare ogni riferimento di classe per delimitare un dentro e un fuori, in cui il conflitto non è tra sfruttati e sfruttatori ma tra noi e loro, gli esclusi, che nel neoliberismo competitivo da vittime diventano colpevoli: povero è chi non si è meritato la ricchezza. Il mendicante che chiede l’elemosina, il lavavetri ai semafori, il venditore ambulante, il rovistatore di cassonetti, dipinti come minacce al quieto vivere.
I dati smentiscono ogni affermazione ma non importa, la percezione conta più dei fatti: facendo appello a emozioni forti, come la paura, o semplificazioni estreme, come il «non ci sono i soldi» per le politiche sociali, lo scopo delle campagne securitarie diventa suscitare misure repressive per instillare paure e senso di minaccia. A essere perseguita non è la sicurezza sociale, di welfare e diritti, ma quella che dietro la sacra retorica del decoro assicura solo la difesa del privilegio. Sotto la maschera del bello vi è il ghigno della messa a reddito: garantire profitti e rendite tramite gentrificazione, turistificazione, cementificazione, foodificazione.
Wolf Bukowski ripercorre come l’adesione della sinistra a questi dogmi ha spalancato le porte all’egemonia della destra. Una perlustrazione dell’«abisso in cui, nel nome del decoro e di una versione pervertita della sicurezza, ci sono fioriere che contano come, e forse più, delle vite umane».
Perché sdraiarsi su una panchina sarebbe indecoroso e incivile? Perché una persona civilizzata non lo farebbe. Perché una persona civilizzata non lo farebbe? Perché è indecoroso e incivile. Tutte le apparenti spiegazioni si alimentano (e quindi si annullano) a vicenda, e il residuo che lasciano è solo la sagoma del noi che si arroga il diritto di scacciare loro, gli altri.
La santa crociata del “decoro” – intervista di Elfi Reiter a Wolf Bukowski su “Salto.bz”
Noi l’abbiamo intervistato su alcuni temi generali che ci stanno a cuore da tempo.
Salto.bz: Il tuo nuovo libro La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro esce giusto in tempo per l’estate in cui sono maggiormente visibili le “indecorose” situazioni nelle realtà urbane?
Wolf Bukowski: In realtà il tema del decoro attraversa la politica italiana da decenni, e raggiunge il massimo della temperatura quanto più viene alimentato dall’alto: oggi Salvini, ieri Maroni o Minniti.
Wolf Bukowski
La sua pubblicazione piú recente è Perché non si vedono piú le stelle (Eris Edizioni 2022), dedicata alla piú abbagliante di quelle trasformazioni, l’inquinamento luminoso. Vive nell’Appennino bolognese.
Interessante il binomio tra “decoro” – l’estetica della città – e “sicurezza” – e quindi le paure nelle città, dettate dall’alto. Quale il filo di connessione?
Il nesso origina nella teoria delle finestre rotte, la teoria oggi egemone – anche se poco conosciuta – sul tema della sicurezza urbana. È una teoria del tutto priva di fondamento, e smentita da un gran numero di studi, che lega il disordine e i “comportamenti disordinati” (ovvero il cosiddetto degrado) alla criminalità. In realtà, questa teoria è un pretesto per costruire città ripulite dalla vista dei poveri e del conflitto sociale, ripulite dalla vita stessa, in nome della messa a profitto e della turistificazione.
Leggendo tra le righe, mi vengono in mente articoli tuoi anche precedenti in cui denunci questo dato di fatto, ad esempio, la stazione di Milano. Ce ne parli?
Nelle stazioni e nelle ferrovie la trasformazione di cui sopra avviene come in un piccolo laboratorio. Si perde di vista lo scopo, ovvero il trasporto pubblico e la realizzazione della libertà di movimento, e vi si sostituisce la necessità di fare profitto, sia con l’esercizio ferroviario che con la messa a reddito degli immobili di stazione. Si producono così orrendi mostri urbani in cui i servizi essenziali (biglietteria, assistenza ai viaggiatori, sala d’attesa) sono ridotti quasi a zero perché ogni angolo utile ospita un negozio di vestiti, di cibo fintamente “tipico” o di gelati o qualsiasi cosa, in una superfetazione commerciale che identifica i luoghi della città, e della vita, con i luoghi del profitto.
Quali sono stati i punti affrontati nel dibattito a Bolzano? Nel corso delle presentazioni del libro, hai notato differenti ricezioni nelle città? diversi punti focali?
Ogni città ha i suoi problemi, ma in fondo essi – soprattutto il modo in cui diventano, appunto, “problemi” – sono riconducibili alla stessa matrice. Prima c’è l’enfasi su qualche episodio, poi questa enfasi diventa la prova stessa del “degrado”, e ben presto il problema del “degrado”, che spesso non esiste, diventa imprescindibile nel dibattito locale. Ecco, credo che bisogna far saltare questa catena risalendo alla sua prima origine, ovvero all’enfasi smisurata, altrimenti essa contamina ogni discorso successivo.
Tutto è stato reso possibile dalla rimozione del concetto di classe, al punto che destra e sinistra si sono buttate nelle politiche del cosiddetto “decoro” senza accorgersi poi di aver virato entrambi verso destra, in quella “pulizia”, un termine che è legato a un non lontano periodo storico del secolo scorso. Quali segni ci vedi?
La rimozione del concetto di classe fa sì che provvedimenti classisti, ovvero che colpiscono chi appartiene a una classe povera e impoverita, non siano riconosciuti come tali; e la rimozione del razzismo e del passato coloniale fa sì che neppure provvedimenti razzisti non siano riconosciuti come tali. La persecuzione dei venditori ambulanti, per esempio, è una prassi che riassume entrambe queste caratteristiche e viene portata avanti sia dalla destra che dalla sinistra da anni, con eguale, e a mio parere disumana, enfasi.
Nel tuo libro citi le ordinanze da “tolleranza zero” del sindaco di New York Rudolph Giuliani, ma anche alcuni in Italia non erano e non sono da meno… ricordo quello di Treviso di parecchi anni fa ormai, che tolse le panchine onde evitare che anche migranti ci si sedessero sopra. Come hai fatto la ricerca?
Selezionando gli elementi più comuni e ricorrenti, ma anche rinunciando a ogni vocazione enciclopedica. Mi interessava di più riconoscere le costanti di tutti i provvedimenti per il decoro, piuttosto che farne l’elenco. Per avere un elenco aggiornato basta aprire un giornale, quello che manca, è capire il perché essi abbiano tanta presa.
Ovviamente c’è una bella differenza tra un “ambiente pulito anonimo” e un “ambiente pulito animato”, dove l’attenzione va al rispetto per sé, per gli altri e per l’ambiente, tutelandone le caratteristiche, senza tuttavia escludere nessuno. In che modo hai tenuto conto del “rispetto per l’ambiente” nel tuo libro?
L’ambientalismo deve guardare alle grandi condizioni di produzione e di distribuzione, non ai micro-comportamenti.Per esempio: c’è stato un lavorio legislativo di anni e anni per spingere i locali, la ristorazione eccetera, verso quello spreco di risorse smisurato che è l’ “usa e getta”. Usa e getta le stoviglie, i contenitori, le posate, e non importa se siano bio-compostabili o meno: sempre spreco è. E ora, anziché fermare quello spreco con lo stesso impegno legislativo e – perché no? – con la leva fiscale (rendendo quindi più conveniente il riuso dei contenitori), si finge che il problema sia il decoro e la buona educazione e cioè dove ognuno butta quei contenitori. Un problema di economia e di sistema viene ridotto, fittiziamente, a problema individuale. In mezzo ovviamente c’è anche il profitto delle aziende di smaltimento rifiuti, nel frattempo privatizzate. Ecco: questo è un buon esempio di come la privatizzazione distorca il discorso pubblico, e di come il decoro sia ideologicamente funzionale alla privatizzazione, e cioè al non mettere mai in dubbio il dogma neoliberista.
Politica securitaria vs politica umanitaria, già in un tuo contributo su Internazionale avevi analizzato l’erigersi dei “gate” ( cancelli o comunque porte ) come accessi ai binari nelle stazioni di Milano e di Roma, ufficialmente per controllare i biglietti ma ufficiosamente per questioni di sicurezza. Dove vedi altri segnali analoghi?
Ovunque il decoro, o anche il rispetto della legge – laddove “la legge” viene vista come un feticcio astorico e immodificabile – prevale sul necessario riconoscimento dell’umanità dell’altro.
Che impressione ti ha fatto venire a Bolzano, di cui avevi già scritto all’insegna della Barbarie da combattere, ma non quella cui molti penseranno, ossia i migranti nel parco della stazione, quanto quella rappresentata dai germanici in epoca fascista, i barbari che andavano acculturati, secondo la famosa scritta incisa sul Monumento della vittoria eretto negli anni venti del Novecento?
Mi fai pensare che in quella scritta è presente anche il concetto di “educazione”, esercitato dai sedicenti civilizzati (cioè gli italiani) nei confronti degli “altri”, ovvero i barbari (Hinc ceteros excoluimus lingua, legibus, artibus). Nel dare al mio libro il titolo di La buona educazione degli oppressi non ci avevo pensato, ma questa è l’ennesima prova di come il concetto di educazione venga usato nel razzismo, sia nel razzismo legato all’annessione di territori, sia in quello esercitato nei confronti di chi arriva in un territorio, come oggi i migranti.Il concetto di educazione va maneggiato con cautela, esso è tutt’altro che neutro. Tra l’altro, poi, il potere che ci invita a partecipare a uno sforzo collettivo per “educare” gli altri, e cioè a renderli “decorosi”, sta anche – e talvolta soprattutto – educando “noi” a subire passivamente le sue pretese.
Wolf Bukowski, il tuo nome, di primo acchito mi fa pensare a uno pseudonimo riferito alle lotte contro il lupo (=Wolf) e a situazioni poco decorose per colpa di alcolismo diffuso (=Bukowski con riferimento al famoso Charles, poeta e scrittore). Che ne dici?
Non ci avevo mai pensato, potrebbe essere divertente, in effetti i miei nomi – che sono veri – si prestano a varie divertenti interpretazioni. Sui social vengo talvolta accusato, con grande provincialismo, di “nascondermi dietro a uno pseudonimo”, cosa che non ritengo peraltro affatto condannabile, e che magari per qualcuno è pure necessario per situazioni personali. Ciò che è importante, è ciò che si dice e come lo si argomenta, non la firma, vera o falsa che sia, che si appone in calce.
Come hai iniziato la tua attività di blogger?
Negli anni zero, con l’esigenza di raccontare la cementificazione della zona in cui vivo, la provincia bolognese. Non so se l’ho mai fatto pubblicamente, quindi colgo l’occasione per ringraziare Simona Vinci, che mi leggeva su qualche mailing list, per avermi spinto a scrivere su un blog che parlava, appunto, di cemento e di spazio pubblico.
La tua attenzione è da sempre per gli outsider, da dove nasce questo interesse?
Forse dalla sensazione che basta poco, nella vita, per trovarsi dalla parte degli esclusi, degli indecorosi. Ricordarselo sempre, credo che aiuti a cambiare la prospettiva.
****
Un libro di Wolf Bukowski — Einaudi 2023
La merce che ci mangia. Il cibo, il capitalismo e la doppia natura delle cose
Wolf Bukowski ci accompagna, girone dopo girone, in un viaggio al centro di quella spirale infernale in cui il bisogno piú elementare si tramuta in desiderio e profitto.
In tempi in cui tutto, ma proprio tutto, è merce, non è difficile immaginare che anche il cibo lo sia. Basta pensare alle navi cariche di cereali che attraversano gli oceani, alle fabbriche di conserva che divorano pomodori o alle scintillanti corsie dei supermercati. Basta pensare al fatto che in una parte del mondo il cibo si spreca mentre in altre esplodono le carestie. Anzi, il cibo merce lo è quasi da sempre: i prodotti alimentari sono stati quelli intorno a cui si è consolidato il mercato globale. Eppure il cibo non è una merce del tutto come le altre, e neppure è facile dire cosa sia precisamente a renderlo tale: in cosa differiscono le mele che compriamo al mercatino bio con la coscienza pulita da quelle avvolte dalla plastica che mettiamo senza pensarci dentro al carrello?
La Casa-Museo di Candido Portinari a Brodowski, Stato di San Paulo
Composizione. La morte di un bambino, 1944 – della stessa serie ” Retirantes “, 1944
Biografia
Candido Portinari nasce il 30 dicembre 1903 in una fazenda di caffè a Brodowski, nello Stato di San Paolo. Figlio di immigranti italiani, di umili origini, ha finito solo le scuole elementari. Fin da bambino manifesta la vocazione artistica. A 15 anni, si reca a Rio de Janeiro per studiare più sistematicamente la pittura, iscrivendosi alla Scuola Nazionale delle Belle Arti.
Nel 1928 riceve il Premio di Viaggio all’Estero dell’Esposizione Generale di Belle Arti, di tradizione accademica. Si reca a Parigi, dove rimane tutto l’anno 1930. Lontano dalla patria nostalgico a causa della distanza dai propri cari, Portinari decide di ritornare in Brasile nel 1931 e ritratta sulle sue tele il popolo brasiliano, superando poco alla volta la propria formazione accademica e fondendo l’antica scienza della pittura ad un moderno spirito sperimentalista e anti-accademico.
Nel 1935, arriva il primo riconoscimento internazionale, la seconda menzione d’onore all’esposizione internazionale del Carnegie Institute di Pittsburgh, negli Stati Uniti, con una tela di grandi proporzioni intitolata “Café”, in cui raffigura una scena agraria tipica dei suoi luoghi di origine.
L’inclinazione muralista di Portinari si rivela con vigore nei pannelli realizzati per il Monumento Stradale nell’Autostrada Rio de Janeiro – San Paolo nel 1936, e negli affreschi del nuovo edificio del Ministero dell’Educazione della Salute, realizzati tra il 1936 e il 1944. L’insieme di tali opere, come concezione artistica, rappresenta un punto di riferimento nell’evoluzione dell’arte di Portinari e affermano la scelta della tematica sociale, che ha poi condotto tutta la sua opera.
—
L’ascesa del nazifascismo e gli orrori della guerra rinforzano il carattere sociale e tragico delle sue opere, portandolo alla produzione delle serie “Retirantes” e “Meninos de Brodowski” tra il 1944 e il 1946 e all’attivismo politico, iscrivendosi al Partito Comunista Brasiliano e candidandosi a Deputato nel 1945 e a Senatore nel 1947.
Ancora nel 1946, Portinari ritorna a Parigi per realizzare la sua prima esposizione in Europa, alla Galerie Charpentier. L’esposizione avrà grande ripercussione e a Portinari verrà assegnata la Légion d’Honneur dal governo francese.
—
Nel 1948, Portinari si esilia per questioni politiche in Uruguay–
Candido Portinari muore il 6 febbraio 1962, vittima di un’intossicazione causatagli dai colori utilizzava, mentre preparava una grande esposizione di circa 200 opere a Milano, su invito del Comune.
Studenti Partinico contro intitolazione scuola a Impastato.
E’ personaggio ‘divisivo’; fratello, ‘deluso e amareggiato’
PEPPINO IMPASTATO
Su 1300 alunni del liceo scientifico Savarino di Partinico ben 797 (il 73%) non vuole che l’istituto prenda il nome di Peppino Impastato, il giornalista militante di Democrazia Proletaria assassinato dalla mafia nel 1978 per le sue battaglie contro i clan.
Secondo i ragazzi, Impastato, ben connotato ideologicamente, sarebbe un personaggio “divisivo” proprio per la sua appartenenza politica.
NOTA : LIBRO
PEPPINO IMPASTTO DA RAGAZZINO — E’ LA COPERTINA DEL LIBRO :
Peppino Impastato. La memoria difficile –Pino Manzella(Curatore) Guerini e Associati, 2023 La figura di Peppino Impastato è certamente molto più complessa, ricca e articolata dell’icona cinematografica che spesso si è sovrapposta alla realtà. Vengono qui raccolte trentanove testimonianze che riguardano tutto l’arco della vita di Peppino fino alla sua uccisione per mano mafiosa. Episodi, ricordi, aneddoti raccontati dalla viva voce di chi gli è stato accanto, dai compagni di giochi dell’infanzia ai compagni di lotta degli ultimi anni passando attraverso le storie inedite delle ragazze del Circolo Musica e Cultura. Ed è una voce che spesso si incrina per l’emozione perché, anche dopo più di quarant’anni da quei tragici avvenimenti, il ricordo è ancora vivo e doloroso. Da questi racconti emerge la figura di un leader che non voleva essere tale, una guida suo malgrado ma con una capacità straordinaria di radunare attorno a sé la meglio gioventù del suo paese. Una storia collettiva, dunque, che tratteggia i contorni della figura di Peppino oltre lo stereotipo dell’eroe solitario.
Gli studenti, inoltre, contestano una scarsa democrazia nell’iter che ha portato alla intitolazione della scuola alla vittima della mafia, iter complesso e pieno di colpi di scena, conclusosi nei giorni scorsi dopo due anni.
“Non si è tenuto conto delle nostre proposte”, dicono i rappresentanti degli studenti che, inizialmente, avevano chiesto che la scuola, che porta il nome di un controverso cittadino partincese tra l’altro sostenitore delle leggi razziali, fosse intitolata o all’ex sindaca Gigia Cannizzo o al giudice Rosario Livatino.
“Non abbiamo nulla contro Impastato – spiegano – Non ci piace il metodo seguito”.
Deluso e amareggiato il fratello del militante di Dp ucciso dalla mafia. “Peppino è un personaggio amatissimo dai ragazzi, forse gli studenti del liceo non hanno studiato la sua storia”, commenta.
NOTA 1. GIGIA CANNIZZO
Ex sindaco di Partinico Gigia Cannizzo, ex provveditore agli studi di Trapani, Gigia Cannizzo fu tra i primi sindaci donna antimafia della provincia dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio.
Stidda agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa nostra.
nota 4— i ” giudici ragazzini ” di Cossiga
Pochi giorni dopo l’omicidio, i colleghi più fidati di Livatino, Roberto Saieva e Fabio Salamone, denunciarono lo stato di abbandono in cui versavano i magistrati impegnati in prima linea nelle indagini antimafia, costretti a lavorare in condizioni non certo ideali.
Nello stesso periodo, il giudice Francesco Di Maggio (ex collaboratore di Domenico Sica all’Alto Commissariato per la lotta alla mafia), intervistato dal quotidiano L’Unità affermò: “Dietro la bara di Livatino non può nascondersi tutta la magistratura“, alludendo alle precise responsabilità e inerzie dei superiori del giudice assassinato, frase che provocò numerose polemiche.
I rappresentanti di tutte le Procure siciliane, riunitisi ad Agrigento per commemorare Livatino (intervenne anchePaolo Borsellino), minacciarono le dimissioni di massa, denunciando l’inerzia dello Stato di fronte all’assassinio dei magistrati.
«Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno…? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta.»
Dodici anni dopo l’assassinio, in una lettera aperta pubblicata dal Giornale di Sicilia e indirizzata ai genitori del giudice, Cossiga smentì che quelle affermazioni dispregiative fossero riferite a Rosario Livatino (come era stato suggerito da alcuni), e invece lo definì “eroe” e “santo”.
Oggi Elly Schlein e Dario Franceschini hanno consacrato la candidatura di Sara Funaro (imposta da Dario Nardella) a sindaca di Firenze. «Siamo pronti a continuare con il buongoverno della città», ha detto Schlein. Il «buongoverno della città» è quello di quindici anni di perfetta continuità Renzi-Nardella: nella mia ingenuità avevo capito che Schlein questo ‘buongoverno’ l’avrebbe ribaltato, non perpetuato. Perché si scrive ‘buongoverno’ ma si legge sistema di potere, emarginazione dei più poveri, svendita della città storica alla speculazione, abbandono delle periferie, infrastrutture insostenibili, supermercati al posto dei parchi, lavoro povero…
È tutto questo che Schlein è pronta a continuare? È questo che si aspettavano i tanti non iscritti al Pd che, votandola alle primarie, l’hanno messa alla guida del partito? E siccome il diavolo sta nel dettaglio, è impossibile non notare la presenza dell’eterno Dario Franceschini, che sta al cambiamento come l’acqua al fuoco.
Quel Franceschini che, ministro nel governo Renzi, si inventò i musei autonomi “macchine da soldi” (parole di Renzi) e ‘creò’ quell’Eike Schmidt superdirettore degli Uffizi che oggi si candida a sindaco con la destra, contro Funaro. Uno Schmidt che, applicando la dottrina Renzi-Nardella, passerà alla cronaca per aver chiesto a Chiara Ferragni di ‘vendere’ gli Uffizi ai giovani! Così, al secondo turno, Renzi metterà all’asta i suoi voti tra la delfina del suo vicesindaco Nardella, e la sua creatura Schmidt. Elly Schlein ha anche detto che la candidatura di Funaro sarebbe la «garanzia di tenere insieme questa coalizione … che lavoriamo per allargare ulteriormente, perché noi abbiamo questa tensione unitaria, sempre». Parole singolari: imporre unilateralmente una candidata, e poi chiedere che venga accettata da chi dovrebbe entrare dopo, non sembra manifestare una grande tensione unitaria. E spero che Giuseppe Conte, che Firenze la conosce bene, veda quanto sarebbe assurdo far cadere anche il Movimento 5 Stelle in questa bella coalizione, che aspetta a gloria l’aiuto di Renzi per continuare il ‘buongoverno’ di Firenze. Che si scrive ‘buongoverno’, e si legge ‘colpo di grazia’.
CENTROSINISTRA. Sono passate tre settimane, lo spoglio delle schede in Sardegna non è ancora ufficialmente concluso eppure è già sparito l’ottimismo che la vittoria un po’ imprevista e un po’ fortunata […]
Laureato in Economia e Commenrcio, ha iniziato il giornalista nel 1995 per il quotidiano Liberazione. Cronista parlamentare, al manifesto dal 2001, insegnante di giornalismo a Unisob dal 2010. E’ direttore del manifesto dal 2023.
Sono passate tre settimane, lo spoglio delle schede in Sardegna non è ancora ufficialmente concluso eppure è già sparito l’ottimismo che la vittoria un po’ imprevista e un po’ fortunata in quella regione aveva sparso sulle opposizioni.
L’umore del centrosinistra è tornato quello dominante da un anno e mezzo, tanto è passato da quando la destra ha facilmente vinto le elezioni politiche sugli avversari divisi: umore nero.
È stato troppo facile illudersi che il vento fosse cambiato, metafora a pensarci ideale per partiti che hanno scelto di andare a vela, ritenendo secondario radicarsi nella rappresentanza di interessi concreti.
È invece impossibile sottovalutare l’impatto che prima la sconfitta in Abruzzo, poi la spaccatura tra Pd e M5S in Piemonte e sopratutto il ritiro ieri in Basilicata di una candidatura durata tre giorni – quando ne mancano cinque al deposito delle liste – hanno sulla credibilità dello schieramento che si oppone o dovrebbe opporsi alla destra.
Se c’è una morale da trarre da questi tre rovesci è che la costituzione di uno schieramento largo e unitario nel campo opposto a quello che oggi è al governo è lontana all’orizzonte.
Le elezioni regionali, che si giocano con leggi maggioritarie, erano l’unico terreno di prova possibile per le alleanze, prima di una sfida alle elezioni europee dove la legge proporzionale incoraggia alla corsa solitaria.
La prova a questo punto può dirsi prevalentemente fallita. Ma è ancora lecito augurarsi che questo fallimento valga come una presa di coscienza.
Non esistono soluzioni facili, non si va avanti con scelte opportunistiche, serve a poco vincere una mano a braccio di ferro con l’alleato, dispetti e concorrenze sfrenate non portano lontani.
L’alleanza è condizione necessaria per essere competitivi ma non è né sufficiente né scontata, dunque va costruita partendo dalla ricerca delle ragioni di fondo dello stare insieme. Che naturalmente sono ragioni
Esistono queste ragioni? La domanda è ancora aperta, anche perché sia il Pd che Sinistra/Verdi e M5S, per non parlare dei centristi un po’ di là un po’ di qua, hanno risposte diverse, persino contrastanti.
Se oggi per improbabile sorte si ritrovassero al governo dovrebbero ricorrere all’atroce formula del «contratto» introdotta da Conte e Salvini, essendo lontani da proposte condivise su temi non secondari come la politica estera, la giustizia, la politica industriale.
Naturalmente questo richiede che l’alleanza venga presa sul serio come opzione strategica, cosa non scontata sia al vertice del M5S sia nel corpo del Pd.
Il tema andrebbe affrontato in maniera onesta, non nascondendo le difficoltà ma offrendo una risposta pragmatica alle strettoie della legge elettorale maggioritaria.
La vera battaglia che manca è infatti quella contro il sistema di voto che oggi è responsabile di un deficit democratico diverso per intensità ma non per genere da quello che il premierato annuncia.
Litigiose su tanto altro, le leadership di Pd e 5 Stelle vanno d’accordo nel dimenticare l’urgenza di abbattere il Rosatellum. Per piccole convenienze trascurano le possibili alleanze in questa battaglia.
Eppure potremmo presto assistere a un paradosso, al fatto cioè che Pd e 5 Stelle litigheranno meno nella campagna per le europee, dove pure corrono con il proporzionale tutti contro tutti, che nella composizione delle coalizioni da presentare nei sistemi elettorali maggioritari.
Questo, assieme alla necessità di un lavoro politico a monte degli accordi, a riprova che se l’unione talvolta fa la forza, l’unione forzata è quasi sempre una debolezza.
Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Autore
Eugenio Montale
Titolo dell’opera
Ossi di seppia
1ª edizione
1925
Genere
poesia lirica
Forma metrica
Due quartine composte da 7 endecasillabi ed un doppio settenario. Rima: ABBA-CDDA. Interna la rima con “strozzato” del v. 2.
Commento
Spesso il male di vivere ho incontrato è una delle più alte poesie della raccolta Ossi di seppia presente nella sezione eponima. Già partendo dal titolo dell’intera raccolta e della particolare sezione in cui risiede la poesia, è possibile segnalare alcune caratteristiche fondanti di tutta l’opera. La poesia di Ossi di seppia è una poesia che, come l’osso di seppia, si lima, si fa «scabra ed essenziale», riduce le pretese eroiche e celebrative dei “poeti laureati” (in particolare Gabriele d’Annunzio, come si legge nei I limoni), per avvicinarsi alla quotidianeità, alla concretezza delle cose e spostandosi verso l’uso di toni ironici e colloquiali desunti in parte dal crepuscolare Guido Gozzano.
nota blog: eponimo ( dal gr. ἐπώνυμος, comp. di ἐπί sopra» e ὄνομα, ὄνυμα «nome») = che dà il nome- qui, sezione che si intitola ” Ossi di seppia “-
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
ui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.
Forma Metrica:
Lirica di quattro strofe irregolari di versi liberi, prevalentemente endecasillabi
Parafrasi discorsiva
Ascoltami, i poeti illustri camminano sempre tra piante dal nome poco comune: bossi, ligustri o acanti. Dal canto mio, io preferisco le strade che vanno a finire tra erbosi fossi, dove nelle pozzanghere quasi asciutte i ragazzi si divertono a catturare le poche anguille che vi sono rimaste: le stradine costeggiate da argini, che poi scendono tra le canne e conducono negli orti, tra gli alberi di limoni.
È anche meglio quando i versi rumorosi degli uccelli si fanno silenziosi e salgono nell’azzurro del cielo: è così più facile sentire il fruscio dei rami colorati scossi da una brezza leggerissima, e l’essenza del loro odore che rimane attaccato al suolo e rovescia nel petto una dolcezza inquieta. Qui le passioni in tumulto trovano una pace miracolosa, qui anche noi poveri possiamo trovare la ricchezza che ci è dovuta ed essa è proprio l’odore dei limoni.
Capisci, in queste atmosfere silenziose in cui le cose si mostrano come sono e sembrano essere quasi pronte a rivelare la loro origine, ci si aspetta talvolta di poter scoprire qualche passo falso della Natura. il luogo in cui il mondo non esiste, l’anello mancante, il filo del gomitolo impossibile da sbrogliare, che finalmente ci faccia scoprire una qualche certezza. Lo sguardo allora cerca tutto intorno, la mente esplora, incatena ragionamenti e li disfa nel momento in cui quel profumo si espande maggiormente sul finire del giorno. In questi silenzi sembra che in ogni ombra umana che passando si allontana vi sia una entità divina che si vergogna di mostrarsi.
Ma quest’illusione svanisce e il tempo della nostra vita ci riporta nelle nostre rumorose città, dove il cielo si può vedere solo a piccoli pezzi, in alto, tra i tetti dei palazzi. La pioggia cade fitta sulla terra, poi; si fa fitta come un banco di nebbia la noia dell’inverno sulle case, la luce del giorno si fa via via più breve – si fa più malinconica l’anima.
Fino a un nuovo giorno in cui possiamo vedere attraverso un portone non del tutto chiuso tra gli altri alberi di un giardino il giallo degli alberi di limone; e la freddezza del cuore si riscalda e nel petto risuona il loro aspetto come fosse un inno suonato dai raggi del sole trasformati in trombe dorate.
Analisi e Commento
I limoni è la poesia che Eugenio Montale utilizza come dichiarazione aperta di poetica nell’edizione di Ossi di seppia del 1925, la sua prima e celebre raccolta. L’importanza programmatica del componimento fa sì che venga collocata pressoché in apertura del testo, in seconda posizione, preceduta solo dalla lirica introduttiva In limine.
Con I limoni, i cui riferimenti sono metaforici ma facilmente riconoscibile, Montale voleva esplicitare come Ossi di seppia fosse concepita quasi quale rovesciamento parodico dell’Alcyone dannunziano, testo poetico di riferimento dell’Italia dei primi decenni del Novecento.Ossi di seppia, come Alcyone, è formalmente il diario poetico di un’estate, ma si tratta dell’estate assolata e arida delle Cinque Terre in Liguria, ben lontana dalle atmosfere erotiche e idilliache cantate da Gabriele D’Annunzio, e popolata dal “male di vivere”.
Il titolo della raccolta allude agli scheletri delle seppie, “inutili macerie” lasciate dagli animali dopo la morte, trascinate a riva dalla corrente perché “rifiutate” dal mare stesso, utilizzate come simboli dell’esistenza umana.
I limoni è appunto la lirica in cui, mettendo immediatamente in chiaro la propria diversissima visione del mondo e della poesia rispetto alla generazione precedente, il poeta si smarca nettamente dal Vatismo del tardo Ottocento, apostrofando autori quali Giosuè Carducci e D’Annunzio come “poeti laureati”, specializzati nell’enfasi retorica e falsamente gloriosa.Proponendo la propria poesia, dal tono filosofico di ascendenza squisitamente leopardiana, che cerca il senso dell’esistenza tra stradine assolate e solitarie, Montale afferma che è venuto ormai il tempo delle incertezze piuttosto che dei proclami di grandezza.
I limoni che il poeta evoca al posto delle piante “dai nomi poco usati” sono allora un correlativo oggettivo, un oggetto quotidiano e semplice capace di sbloccare, almeno apparentemente, i meccanismi della memoria e del mistero dell’esistenza, che rendono solo apparentemente risolvibili i dubbi legati alla condizione umana.
E tuttavia i limoni sono anche metaforicamente “trombe della solarità” e della luce, ossia la fonte quegli attimi brevi e consolatori in cui l’intelletto umano e poetico si illude di poter afferrare certezze sull’esistenza, veritiere eppure aspre come l’odore degli agrumi.
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
Parafrasi discorsiva
Non chiederci la spiegazione – ossia la parola poetica – che dia una definizione precisa (squadri) dei segreti dell’animo umano indecifrabile (informe), e con lettere indelebili, e marchiate a fuoco lo descriva apertamente al mondo, risplendendo come un fiore giallo di zafferano rimasto solo in mezzo a un campo polveroso.
Ah, l’uomo che procede altezzoso e superbo, fiducioso nel prossimo e in se stesso, e non si dà preoccupazione alcuna della sua ombra che il rovente sole estivo proietta sopra un muro senza intonaco!
Non domandarci una formula matematica che possa rivelarti nuovi mondi e pianeti – le leggi dell’universo –, piuttosto chiedici solamente qualche sillaba dal suono aspro e secca come un ramo. Tutto ciò che noi siamo capaci di dirti oggi è ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Analisi e Commento
Il componimento Non chiederci la parola apre Ossi di seppia: la prima raccolta di poesie montaliane, pubblicata nel 1925. Il titolo fa riferimento alla conchiglia interna della seppia (di colore bianco e dalla consistenza schiumosa) che altro non è che la testimonianza di un organismo vivente che è stato scartato dal mare.
Montale ritiene che le sue poesie abbiano la stessa caratteristica, in quanto sono tracce di ciò che rimane di una vita consumata dalla presa di coscienza di non poter decodificare il senso dell’esistenza e del dolore, sia dal senso d’impotenza provato dall’uomo, attanagliato dal “male di vivere”.
Lo sfondo di queste liriche è il paesaggio della Liguria, la terra natale del poeta, che simboleggia anch’essa l’aridità della vita. La raccolta si colloca, secondo la dichiarazione di poetica contenuta ne I limoni, contro la poesia retorica di maestri come Carducci e D’Annunzio. In particolare Montale si propone di “attraversare” D’Annunzio, il “poeta laureato” che si muove “fra le piante/ dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
La raccolta contiene ventidue brevi liriche semplici e chiare, con un linguaggio semplice e comune, che testimoniano la solitudine esistenziale del poeta.
Montale scrive la raccolta negli anni in cui si sta affermando il Fascismo, per cui il messaggio contenuto nella lirica è anche rivolto contro la veemenza e le false certezze del regime. Come si evince dalla lirica e, come ci ricorda Guglielmino, il poeta non ha certezze da rivelare:
Di fronte alla constatazione della negatività del reale e della condizione umana il poeta non ha certezze da comunicare. La sua verità è solo una verità dolorosa e consiste tutta nell’affermazione di questa negatività e dell’assenza di ogni certezza. Ma questa stessa dichiarazione costituisce, implicitamente ma nettamente, un atto polemico nei confronti di quanti credevano, soprattutto in quegli anni, di poter trasmettere attraverso un canto disteso, sonoro ed eloquente, delle dubbie verità “positive”. È il rifiuto del poeta-vate, del poeta che si fa depositario delle verità ufficiali politiche o religiose che siano.1
La posizione occupata dalla lirica Non chiederci la parola all’interno della raccolta e il suo contenuto la rendono un vero e proprio manifesto poetico. I versi in questione esprimono la crisi spirituale di Montale e di un’intera generazione d’intellettuali che, negli anni in cui si afferma il Fascismo, rifiuta di compromettersi col regime.
La poesia ha il compito di esplorare il male di vivere dell’uomo novecentesco e di cercare di spiegare la sofferenza provata dall’uomo, ma la mancanza di certezze portano ad un’unica certezza, in negativo: “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (v. 12).
I poeti non hanno più lo sguardo da veggente da loro posseduto in passato e sono smarriti come tutti gli uomini comuni. Nella prima strofa Montale si rivolge ad un ipotetico lettore abituato ad ascoltare formule rassicuranti e lo invita a non chiedergli più certezze positive, in grado di spiegare tutto.
Nella seconda strofa prende atto dell’esistenza di uomini fiduciosi nella vita, che non si preoccupano dei dubbi esistenziali e non sono consapevoli della precarietà del vivere, per cui fanno sfoggio della loro apparente sicurezza. Lo scalcinato muro del v. 8 altro non è, come il polveroso prato del v. 4 (che sottolineava l’aridità del vivere) che un correlativo oggettivo,cioè un oggetto che evoca un concetto e un’emozione.
Nella terza ed ultima strofa di Non chiederci la parola il poeta sottolinea di non possedere delle formule magiche e di non poter fornire alcuna certezza, ma di poter soltanto accettare il male del vivere.
1 S. Guglielmino, Guida al Novecento, Principato, Milano, 1986, p. 428.
#PapaFrancesco#bandierabianca. Molti non vedono che Francesco ha sempre e da sempre quella bandiera bianca in mano, e non ne colgono il significato. Oggi su
IL GOVERNO FILO-IRANIANO IN YEMEN NON È SOLO UN BURATTINO DI TEHERAN
Più che mero strumento dell’estroflessione dell’Iran, gli huthi vogliono accreditarsi come attore in grado di negoziare alla pari con tutti, sauditi ed emiratini compresi. La partecipazione al conflitto contro Israele. Gli attacchi nel Mar Rosso.
Dettaglio di una carta di Laura Canali. La versione originale nell’articolo.
Il governo yemenita sostenuto dalla Repubblica Islamica dell’Iran, che da dieci anni controlla la capitale Sanaa e ampie regioni del martoriato paese arabo, è parte integrante del conflitto regionale scaturito dalla guerra a Gaza.
Attore che non può essere screditato come “forza ribelle”. Detiene il controllo di parte delle istituzioni dello Yemen, inclusa la Banca centrale, ed è guidato da un gruppo di potere costituitosi attorno al clan degli ḥūṯī (huthi) più di trent’anni fa (1992) nella regione settentrionale di Saada, al confine con l’Arabia Saudita.
nota : gli Huthi sono religiosamente zayditi, una componente minoritaria dell’Islamsciita (nata verso la fine dell’VIII secolo, dopo una disputa circa l’identità del quinto Imam sciita)
Governatorato di Sa’da, capitale le città di Saadah – wikipedia
Sia Riyad sia Teheran svolgono un ruolo di primo piano nella vicenda yemenita e soprattutto nel determinare l’atteggiamento che le forze filo-iraniane basate a Sanaa stanno assumendo rispetto al conflitto tra Ḥamās (Hamas) e Israele.
Lo Stato ebraico dista oltre duemila chilometri dallo Yemen. Ma già nel recente passato le forze huthi sostenute dall’Iran hanno dimostrato di poter colpire obiettivi molto distanti. Nel 2019 hanno usato dei droni contro la raffineria di petrolio di Abqaiq in Arabia Saudita; due anni dopo hanno colpito un centro commerciale ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, e hanno messo a segno altri attacchi contro navi commerciali nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden.
Un volantino del governo yemenita filo-iraniano in cui si mostra la relativa vicinanza dello Yemen alla Palestina e, dunque, a Israele
A partire dagli stravolgimenti politici avvenuti in molti altri paesi arabi nel 2011, le forze guidate dagli huthi hanno gradualmente preso il controllo di ampie aree del paese, conquistando nel 2014 la capitale Sanaa.L’anno successivo, l’Arabia Saudita ha dato vita a una coalizione anti-huthi a cui si sono uniti, tra gli altri, gli Emirati Arabi Uniti. Diverse fonti umanitarie concordano nel constatare che in questa guerra sono morte più di 350 mila persone.
Nell’aprile 2022 una tregua regionale sostenuta dall’Onuaveva avviato una fragile tregua nel paese, diviso ormai da tempo in quattro macroaree:
–nel Nord e nel Centro le forze filo-iraniane,
–nel Centro e nel Sud-Ovest quelle filo-saudite,
–nel porto meridionale di Aden quelle filo-emiratine,
–nell’Hadramawt e nell’Est una congerie di forze affiliate all’ala yemenita di al-Qāʿida, la più influente delle quali vicina all’Iran.
Dalla metà del 2022 gli attacchi aerei delle forze di Sanaasi sono di fatto interrotti così come non ci sono stati significativi raid delle forze aeree saudite. Un anno dopo, nella primavera scorsa, il disgelo politico e diplomatico tra Iran e Arabia Saudita mediato dalla Cina ha accelerato il dialogo tra le parti yemenite e ha prolungato il cessate-il-fuoco, di fatto ancora in vigore.
In questo contesto di relativa calma dopo anni di tempesta, il 10 ottobre scorso il leader delle forze yemenite, Abd al-Malek Ḥūthī, annunciava di fatto l’entrata del suo governo nel conflitto contro Israele a fianco di Hamas e del cosiddetto asse della resistenza guidato dall’Iran.
Da metà ottobre a oggi sono più di dieci gli attacchi degli huthi contro obiettivi israeliani o statunitensi nel Mar Rosso e nel Golfo di Aqaba. Queste azioni vanno lette alla luce delle altre operazioni condotte contro Israele e basi Usa in Siria, Iraq e Libano dalle diverse forze filo-iraniane schierate nei vari teatri.
L’ultimo attacco yemenita risale al 3 dicembre. Secondo il racconto del Comando centrale Usa, tre droni di Sanaa, lanciati contro quattro navi mercantili in transito nel Mar Rosso, sono stati abbattuti dal cacciatorpediniere americano USS Carney nei pressi dello Stretto di Bāb al-Mandab ( vedi cartina di LIMES all’inizio ), che separa quel tratto di mare dall’Oceano Indiano.
Il primo attacco risale invece al 19 ottobre, quando lo stesso USS Carney aveva intercettato tre missili sparati dalle coste dello Yemen. Altri attacchi si sono registrati il 20, il 29 (un drone caduto su Taba, in Egitto, ferendo cinque persone) e il 31 ottobre; e poi il 4, il 9 e il 15 novembre.
Il 19 novembre si è verificata l’azione più clamorosa, ripresa dai media governativi di Sanaa: l’assalto e il sequestro di una nave cargo a largo delle coste del Mar Rosso. L’imbarcazione non è israeliana come inizialmente detto dalle forze yemenite ma è di proprietà di un armatore israeliano
Le forze del governo yemenita filo-iraniane sequestrano una nave cargo nel Mar Rosso
Nessun israeliano era a bordo ma per gli huthisi è trattato di un successo mediatico rilevante. Anche perché dalla prospettiva delle forze yemenite vicine all’Iran gli Stati Uniti hanno assunto un atteggiamento sempre più aggressivo e invasivo nella regione. È esemplare l’ingresso della portaerei USS Eisenhower nelle acque del Golfo superando lo stretto di Hormuz del 26 marzo scorso.
Il fronte yemenita della guerra assomiglia molto a quello irachenoe a quello siriano orientale. Si tratta di teatri che non hanno confini territoriali con lo Stato ebraico ma che sono assai prossimi a obiettivi statunitensi.
A differenza delle forze filo-iraniane dispiegate in Siria e in Iraq, dallo Yemen per ora hanno sparato – o tentato di sparare – direttamente su Israele. E questo anche in virtù delle regole di ingaggio diverse che gli huthi hanno adottato negli anni contro i rivali sauditi ed emiratini.
Nella gerarchia di equilibri interni all’asse della resistenza, gli yemeniti rappresentano l’unico avamposto filo-iraniano sul Mar Rosso, e questo offre loro un vantaggio strategico di non poco conto.
Tuttavia, essi non dispongono della vicinanza ideologica e politicache può vantare Hizbullāh(Hezbollah) – il principale alleato arabo-mediterraneo della Repubblica Islamica.
Anzi, i combattenti del Partito di Dio libanesi sono presenti, assieme ai pasdaran, nelle stanze dei bottoni di Sanaa per sostenere e guidare la macchina da guerra e mediatica degli huthi.
La loro azione però non mira solo a soddisfare le esigenze dell’Iran su scala regionale e quelle di Hezbollah contro Israele. Per il governo dei “ribelli” yemeniti è vitale mantenersi come attore in grado di negoziare alla pari con sauditi ed emiratini. La loro azione nel conflitto mediorientale del 7 ottobre serve per accreditarsi con Teheran e per mostrarsi forti con Riyad, con la quale il negoziato continua anche in queste settimane.
Finora l’Arabia Saudita ha tenuto un profilo estremamentebasso nella guerra di Gaza. E anche nei riguardi delle azioni del governo di Sanaa non ci sono state esplicite prese di posizione. A conferma del fatto che è interesse strategico dei sauditi mantenere la tregua in Yemen e, con essa, gli equilibri di potere scaturiti dalle trattative avviate nell’aprile del 2022 e rafforzate dalle intese della scorsa primavera.
In questo quadro è probabile che l’atteggiamento degli huthi continuerà a essere influenzato dalle decisioni politiche attorno a Gaza, tra una tregua e un’eventuale ripresa del conflitto.
In un contesto di sospensione delle attività belliche regionali, le forze yemenite filo-iraniane si limiteranno a operazioni di routine, come lanciare droni contro obiettivi militari statunitensi nel Mar Rosso. In un contesto di inasprimento della tensione in tutta la regione, torneranno forse con maggiore efficacia a puntare missili a lunga gittata contro Eilat e altri obiettivi israeliani.
EILAT – ESTREMO SUD DI ISRAELE SUL GOLFO DI AQABA–
AQABA, PORTO IN GIORDANIA CHE DA’ NOME AL GOLFO
video, 2 minuti — AQABA VISTA DAL DRONE
CONTINUA L’ARTICOLO DI LIMES :
In ogni caso, le scelte degli huthi non saranno necessariamentespeculari a quelle di Hamas, Hezbollah e Iran. La loro agenda converge, per molti aspetti, con quelle delle altre entità dell’asse della resistenza, ma diverge per quanto riguarda gli spazi geografici più prossimi alle aree yemenite sotto il loro diretto controllo: il Mar Rosso vicino al porto di al-Ḥudayda, lo stretto di Bāb al-Mandab, i confini settentrionali con l’Arabia Saudita.
In questo senso una delle variabili più rilevanti è quella relativa all’atteggiamento che Riyad adotterà contro le forze di Sanaa qualora il contesto regionale dovesse surriscaldarsi ulteriormente.
Ci si chiede se l’Arabia Saudita potrà rimanere così apparentemente in disparte se gli huthi, presenti nel cortile di casa della Penisola Arabica, dovessero innalzare in maniera esponenziale il livello del loro coinvolgimento.
Carta di Laura Canali – 2023
AQABA — 4K — 2.40 minuti — Fa vedere l’antico Forte mamelucco di Aqaba, oggi Museo-
Il castello ha una forma quadrilatera, e su ogni angolo, c’era una torre di pietra, e queste torri ora sono state distrutte. 1501-1516), fu scritta la frase: “Ha ordinato la costruzione di questo castello benedetto e felice, il nostro Maestro il Sultano, il Re Ashraf Abu Al-Nasr Qansuh Al-Ghouri, il Sultano dell’Islam e dei musulmani”, e “Il nostro Maestro, il Sultano Al-Ashraf Re Murad bin Salim Khan, possa la sua vittoria, rinnovare questo castello”.
Uno dei punti salienti del castello è l’albero di Aqaba. Fu costruito nel 2004 nella piazza adiacente al castello per portare la bandiera della Grande Rivolta Araba. A quel tempo, l’albero era il più alto del mondo.
Il castello fu originariamente costruito come un castello crociato, e fu in gran parte ricostruito dai Mamelucchi nel XIV secolo, in particolare nel 1587 d.C. durante il regno dell’ultimo sultano mamelucco, e cambiò diverse volte in seguito. All’inizio del XVI secolo, Aqaba cadde sotto il controllo del dominio ottomano. La città decadde e rimase un piccolo e insignificante villaggio di pescatori per circa 400 anni. Durante la prima guerra mondiale nel 1917, le forze ottomane si ritirarono dalla città dopo che l’esercito arabo di Sharif Hussein bin Ali, leader della Grande Rivolta Araba con l’aiuto di Lawrence d’Arabia, le attaccò. Divenne una delle principali roccaforti della rivolta contro i turchi. La fortezza fu sotto l’autorità egiziana fino all’anno 1892 quando fu consegnata all’Impero Ottomano fino a quando iniziò la Grande Rivolta Araba e le tribù giordane la presero come sede e punto di partenza per liberare il Levante dal dominio ottomano che durò 400 anni.
Con «L’ebreo errante» Sue denuncia i misfatti del sistema sociale: vede il trionfo dell’ingiustizia con la compagnia di Gesù che ha la meglio sui membri della famiglia che vuole depredare. La critica sociale attraversa tutta la storia e, proprio nelle conclusioni, l’autore si difende dalle critiche ricevute e riassume le sue denunce: l’insufficienza dei salari, le cauzioni troppo alte, la condizione delle donne lavoratrici, la facilità con cui le persone vengono rinchiuse in manicomio. Propone anche soluzioni, come la creazione delle case comuni degli operai. L’opera ha anche un tocco mistico con i personaggi di Erodiade e dell’ebreo errante, costretti a vagare sulla terra da diciotto secoli e che saranno perdonati dal Signore, mediante una sorta di contrappasso, solo con il sacrificio degli ultimi membri della stirpe dell’ebreo errante.
L’ebreo errante (titolo originale in francese: Le Juif errant) è un romanzo di Eugène Sue pubblicato a puntate su Le Constitutionnel dal 25 giugno 1844 al 26 agosto 1845 e in volumi dall’editore Paulin dal 1844 al 1845.
La vicenda si svolge nel 1832. La storia inizia lungo le coste deserte della Siberia e dell’Alaska, separate dallo stretto di Bering nel Mar Glaciale Artico. Impronte maschili con sette chiodi sporgenti a formare una croce spiccano sulla neve del lato asiatico, a cui corrispondono sul lato americano analoghe impronte femminili; sono quelle dell’ebreo errante e di sua sorella Erodiade, gli angeli custodi dei protagonisti positivi del romanzo, ossia dei discendenti del marchese Marius Rennepont vissuto nel XVII secolo.
Nel marzo del 1685Luigi XIV revocò l’editto di Nantes, la disposizione emanata da Enrico IV nel 1598 con la quale si garantiva la tolleranza religiosa agli ugonotti; con il nuovo editto Luigi XIV proibì la pratica di qualsiasi culto che non fosse quello cattolico ed espulse tutti gli ebrei dal regno. Il marchese Marius Rennepont abiurò pertanto la fede calvinista; ma, a quanto pare, la sua conversione non fu del tutto sincera. I gesuiti lo denunciarono e si impossessarono dei suoi beni. Il marchese Rennepont riuscì però a fuggire e a conservare un capitale di 150.000 franchi, la cui amministrazione era stata affidata nel 1682 a una famiglia di finanzieri ebrea.
Il 13 febbraio 1682 il marchese Rennepont redasse un testamento con cui si disponeva che 150 anni dopo, ossia il 13 febbraio 1832, i discendenti della famiglia Rennepont dovessero convenire al numero 3 di Rue St. François a Parigi, prima di mezzogiorno, per dividere l’eredità. Per mantenere memoria dell’evento, ogni erede porta una medaglia su cui sono incisi, per mezzo dei sette chiodi posti nella suola delle scarpe dell’Ebreo errante, le parole: «13 février 1832, rue Saint-François, n° 3». Con il passare del tempo il capitale iniziale di 150.000 franchi, amministrato dalla stessa famiglia di padre in figlio, si è trasformato con gli interessi nell’enorme somma di 250 milioni di franchi del 1832.
Gli eredi Rennepont sono sette e fanno ormai parte di gruppi sociali molto differenti. Sono Rennepont per discendenza materna: Rose e Blanche Rennepont,due gemelle, orfane del generale napoleonico Simon, le quali vivono in Siberia assistite da Dagobert, un ex soldato fedele alla memoria del generale; Djalma, principe indiano; François Hardy, industriale fourierista. Sono Rennepont per discendenza paterna: Gabriel Rennepont, gesuita missionario sulle Montagne rocciose, in America; Jacques Rennepont, operaio a Parigi, Adrienne de Cardoville, ricca e bella figlia del defunto conte Rennepont.
I gesuiti cercano di impedire l’arrivo tempestivo degli eredi in modo che tutta l’eredità vada al loro confratello Gabriel, uomo peraltro di angelica bontà, il quale quando è diventato gesuita ha devoluto all’ordine tutti i suoi beni, anche quelli futuri.
Il cattivo gesuita padre Rodin fa in modo che tutti gli eredi Rennepont muoiano: Adrienne e Djalma, innamorati, si uccidono; Jacques muore alcolizzato; François Hardy muore per il dispiacere di aver visto la sua fabbrica distrutta da un incendio; le due gemelle muoiono di colera contratto per essersi dedicate ad assistere caritatevolmente gli ammalati. Rimane solo padre Gabriel; ma costui, conosciuta la malvagità di Rodin, ordina che la preziosa cassetta sia bruciata. Muore lo stesso Rodin avvelenato da un aderente alla setta indiana degli Strangolatori.
Dominano il romanzo i due personaggi fantastici dell’ebreo errante e della sorella, simboli il primo degli oppressi e della classe operaia lavoratrice condannata a una fatica gravosa senza compenso, mentre la seconda è simbolo della donna oppressa e conculcata nei suoi diritti. Sue si servì di questa storia per combattere i gesuiti e farsi interprete della lotta di classe
Il nostro compito è compiuto, il nostro lavoro completato.
Sappiamo quanto quest’opera sia incompleta e imperfetta; sappiamo tutto ciò che gli manca, sia in termini di stile, sia di concezione, sia di favola.
Ma crediamo di avere il diritto di dire questo lavoro in modo onesto, coscienzioso e sincero.
Nel corso della sua pubblicazione molti attacchi odiosi, ingiusti, implacabili lo perseguitarono; molti critici severi, aspri, a volte appassionati, ma leali lo hanno accolto favorevolmente.
Gli attacchi violenti, odiosi, ingiusti, implacabili ci hanno intrattenuto proprio per questo, lo ammettiamo con tutta umiltà, per il fatto stesso che sono stati formulati in ordini contro di noi, dall’alto di certi pulpiti episcopali. Queste piacevoli furie, questi buffoni anatematici che ci prendono in giro da più di un anno, sono troppo divertenti per essere odiosi; è semplicemente un’alta, bella e buona commedia di costumi clericali.
Abbiamo apprezzato, molto apprezzato questa commedia; l’abbiamo assaggiato, assaporato; Non ci resta che esprimere la nostra sincera gratitudine a coloro che, come il divino Molière, ne sono gli autori e gli attori.
Quanto alle critiche, per quanto aspre e violente possano essere state, le accettiamo tanto meglio in tutto ciò che riguarda la parte letteraria del nostro libro, poiché spesso abbiamo cercato di sfruttare il consiglio che magari ci è stato dato un po’ duro. La nostra modesta deferenza all’opinione di menti più giudiziose, più mature, più corrette che comprensive e benevoli, temiamo, abbia un po’ sconcertato, infastidito, turbato queste stesse menti; siamo doppiamente dispiaciuti, perché abbiamo beneficiato delle loro critiche, ed è sempre involontariamente che dispiacciamo coloro che ci obbligano… anche sperando di deluderci.
Qualche parola in più su attacchi di altro tipo, ma più gravi.
Ci accusavano di aver fatto appello alle passioni, additando alla pubblica animosità tutti i membri della Compagnia di Gesù.
Ecco la mia risposta:
Ciò è ormai fuori dubbio, è incontestabile, lo dimostrano i testi sottoposti ai controlli più contraddittori, da Pascal ai giorni nostri; è dimostrato, diciamo, da questi testi, che le opere teologiche dei membri più accreditati della compagnia di Gesù contengono la scusa o la giustificazione
Di furto, — di adulterio, — di stupro, — di omicidio.
È anche provato che opere immonde e ripugnanti, firmate dai reverendi padri della Compagnia di Gesù, furono più di una volta messe nelle mani di giovani seminaristi.
Quest’ultimo dato accertato, dimostrato dall’esame scrupoloso dei testi, essendo stato peraltro solennemente consacrato non molto tempo fa, grazie al discorso pieno di elevazione, alta ragione, seria e generosa eloquenza, pronunciato dall‘avvocato generale Dupaty, durante il processo del dotto e onorevole signor Busch, di Strasburgo, come abbiamo proceduto?
Abbiamo supposto membri della compagnia di Gesù, ispirati ai principi detestabili dei loro teologi classici , e che agiscono secondo lo spirito e la lettera di questi libri abominevoli, del loro catechismo, del loro rudimento; abbiamo finalmente messo in atto, in movimento, in rilievo, in carne e ossa queste dottrine detestabili; Niente di più, niente di meno.
Abbiamo forse affermato che tutti i membri della Compagnia di Gesù avessero l’oscuro talento, l’audacia o la scelleratezza di usare queste armi pericolose, che contiene l’oscuro arsenale del loro ordine? Affatto. Ciò che abbiamo attaccato è lo spirito abominevole delle Costituzioni della Compagnia di Gesù, questi sono i libri dei suoi teologi classici.
Dobbiamo infine aggiungere che, poiché papi, re, nazioni e, più recentemente, la Francia, hanno condannato le orribili dottrine di questa compagnia espellendone i membri o sciogliendo la loro congregazione, non abbiamo, per ben dirlo, quello presentato, sotto nuova forma, idee, convinzioni, fatti da tempo consolidati dalla pubblica notorietà.
Detto questo andiamo avanti.
Siamo stati accusati di fomentare il risentimento dei poveri contro i ricchi, per infiammare l’invidia che la vista degli splendori della ricchezza suscita nella sventura.
A questo risponderemo che abbiamo, al contrario, tentato, nella creazione di Adrienne de Cardoville, di personificare per nome e fortuna quella parte dell’aristocrazia che, tanto per un impulso nobile e generoso quanto per l’intelligenza del passato e con la lungimiranza del futuro, tende o dovrebbe tendere una mano benefica e fraterna a tutto ciò che soffre, a tutto ciò che mantiene integro nella miseria, a tutto ciò che è dignitoso nel lavoro. In una parola, è seminare la divisione tra ricchi e poveri mostrare Adrienne de Cardoville, la bella e ricca patrizia, che chiama Mayeux sua sorella e la tratta come una sorella; lei, povera operaia, miserabile e inferma?
Mostrare al signor François Hardy che getta le prime fondamenta di una casa comune irrita l’operaio contro chi lo impiega?
No, al contrario, abbiamo tentato un’opera di riavvicinamento, di conciliazione, tra le due classi poste ai due estremi della scala sociale, perché, da quasi tre anni, scriviamo queste parole: se i ricchi sapessero!
Abbiamo detto, e lo ripetiamo, che c’è di terribili ed innumerevoli miserie, che le masse, sempre più illuminate sui loro diritti, ma ancora tranquille, pazienti, rassegnate, esigano che coloro che governano si occupino finalmente del miglioramento della loro deplorevole situazione, aggravata ogni giorno dall’anarchia e dalla spietata concorrenza che regna nel settore.
Sì, abbiamo detto e ripetiamo che l’uomo laborioso e onesto ha diritto ad un lavoro che gli dia un salario sufficiente.
Riassumiamo infine in poche righe le questioni da noi sollevate in questo lavoro.
Abbiamo cercato di dimostrare la crudele inadeguatezza dei salari delle donne e le orribili conseguenze di questa inadeguatezza.
Abbiamo chiesto nuove garanzie contro la facilità con cui chiunque può essere rinchiuso in un manicomio.
Abbiamo chiesto che l’artigiano possa godere del beneficio previsto dalla legge in materia di libertà su cauzione , una cauzione elevata a una cifra tale (cinquecento franchi) che gli è impossibile conseguirla, libertà di cui tuttavia ha bisogno più di chiunque altro, poiché spesso la sua famiglia vive della sua industria, che lui non può esercitare in carcere. Abbiamo quindi proposto la cifra da sessanta a ottanta franchi , che rappresenta la media di un mese di lavoro.
Infine, cercando di rendere pratica l’organizzazione di una casa comune dei lavoratori, abbiamo dimostrato, speriamo, quali immensi vantaggi, anche con l’attuale tasso dei salari, per quanto insufficiente possa essere, le classi lavoratrici troverebbero nel principio di associazione e vita comune, se facilitassimo i mezzi per praticarle.
E affinché ciò non sia considerato un’utopia, abbiamo stabilito in cifre che gli speculatori potrebbero sia compiere un’azione umana, generosa, vantaggiosa per tutti, sia ritirare il 5% del loro denaro, contribuendo alla fondazione delle case comuni.
Speculazione umana e generosa che abbiamo segnalato anche all’attenzione del consiglio comunale, sempre così pieno di preoccupazione per la popolazione parigina. La città di Parigi è ricca, non potrebbe investire fruttuosamente dei capitali istituendo, in ogni quartiere della capitale, una casa comune modello: innanzitutto la speranza di esservi ammessi, per un prezzo modesto, susciterebbe una lodevole emulazione tra le classi lavoratrici; poi avrebbero attinto a questi esempi dei primi e fruttuosi rudimenti associativi.
Ora, un’ultima parola per ringraziare dal profondo del nostro cuore gli amici conosciuti e sconosciuti la cui benevolenza, incoraggiamento, simpatia, ci hanno costantemente seguito e ci sono stati di così potente aiuto in questo lungo compito…
Ancora una parola di rispettosa e inalterabile gratitudine per i nostri amici del Belgio e della Svizzera che si sono degnati di darci pubblica prova della loro simpatia, di cui saremo sempre orgogliosi, e che sarà stata una delle nostre più dolci ricompense.
EPILOGO
Al signor C*** P***.
Amico mio, ti ho dedicato questo libro; Dedicartelo significava impegnarsi a compiere un’opera che, se gli mancava il talento, era almeno coscienziosa, sincera, e la cui influenza, sebbene limitata, poteva essere salutare. Il mio obiettivo è raggiunto; alcuni cuori d’élite come il tuo, amico mio, hanno messo in pratica la legittima associazione di lavoro, capitale e intelligenza, e hanno già concesso ai loro lavoratori una quota proporzionale dei profitti; altri hanno gettato le prime fondamenta di case comuni, e uno dei più grandi industriali di Amburgo ha avuto la gentilezza di venire a raccontarmi i suoi progetti per unaun’istituzione di questo tipo intrapresa su proporzioni gigantesche.
Quanto alla dispersione dei membri della compagnia di Gesù, la provocai io come tanti altri nemici delle detestabili dottrine di Loyola, e la voce di costoro ebbe molto più fulgore, sonora ed autorità della mia.
Addio, amico mio, avrei voluto quest’opera degna di te; ma tu sei indulgente, e terrai conto, almeno, delle intenzioni che lo hanno dettato.
Crolla il mito dei maschi fisicamente più grandi delle femmine.
Lo sfata un vasto studio su oltre 400 specie di mammiferi
di Elisa Buson
Ritratto di una coppia di babbuini africani (fonte: Neurobite, iStock) –
Contrariamente allo stereotipo secondo cui i maschi sarebbero più grandi delle femmine, sostenuto a lungo anche da buona parte della letteratura scientifica, una ricerca condotta su 429 specie di mammiferi dimostra che in molti casi i maschi hanno le stesse dimensioni delle femmine e talvolta sono persino più piccoli.
I risultati sono pubblicati su Nature Communications dai ricercatori della Princeton University negli Stati Uniti.
La stazza di maschi e femmine può variare nelle diverse specie di mammiferi in relazione alla competizione per l’accoppiamento e all’investimento che viene fatto sulla prole. Accade per esempio nei leoni e nei babbuini, dove i maschi (più grandi delle femmine) si sfidano fisicamente per aggiudicarsi una compagna, così come nei conigli, dove le femmine (che sono più grandi dei maschi) generano più cucciolate per ogni stagione degli accoppiamenti.
In passato diverse ricerche hanno dimostrato che maschi e femmine della stessa taglia sono più comuni di quanto si pensi, eppure si è comunque diffuso lo stereotipo secondo cui i maschi sarebbero più grandi delle femmine nella maggior parte dei mammiferi.
Per dimostrare definitivamente l’infondatezza di questa convinzione, i ricercatori guidati da Kaia Tombak hanno messo a confronto la massa corporea di maschi e femmine di 429 specie di mammiferi che vivono in libertà. I dati raccolti indicano che nella maggior parte dei casi i maschi non sono più grandi delle femmine e che in molte specie hanno dimensioni simili: questo vale ad esempio per i cavalli, le zebre, i lemuri e le talpe dorate. Differenze significative tra maschi e femmine sono presenti in un numero ridotto di specie, come l’elefante marino settentrionale (i maschi sono tre volte più grandi delle femmine) e il pipistrello dal naso a tubo (con le femmine grandi 1,4 volte i maschi).
Secondo gli autori dello studio, i pregiudizi che resistono nella letteratura scientifica da oltre un secolo derivano dal fatto che per anni l’interesse si è focalizzato su alcune specie più importanti e iconiche, in cui i maschi sono più grandi delle femmine, e sulla competizione maschile per l’accoppiamento, come nei primati e nelle foche. In proporzione, però, sono più numerose le specie di roditori e pipistrelli che solitamente hanno dimensioni simili tra maschi e femmine.
To xlomo to prosopaki sou stis fotografies mas koito toso kourastikes na fugeis viastikas ta thlimenna ta matakia sou san duo sunnefa ston ourano pou na pigainoune, pou taksideuoune
Eleni, ekei pou pas koita na eisa eutuxismeni, s´auti ti gi i moira sou itan grammeni s´aspro xarti me ena kitrino stilo san dakru apo lemoni
Thumamai posa apogeumata kathosouna dixos vgaleis tsimoudia mono me koitazes kai xamogelages sou stelno auto to tragoudaki mou gia na sou krataei suntrafia kai na min ksexnas na mou xamogelas
Sayed Haider Raza (22 febbraio 1922 – 23 luglio 2016) è stato un pittore indiano che ha vissuto e lavorato in Francia per la maggior parte della sua carriera. Nato il 22 febbraio 1922 a Kakkaiya (distretto di Mandla), province centrali, India britannica (l’attuale Madhya Pradesh ), Raza si trasferì in Francia nel 1950, sposando l’artista francese Janine Mongillat nel 1959. Dopo la sua morte per cancro nel nel 2002, Raza ritornò in India nel 2010, a Delhi, dove visse fino alla sua morte, avvenuta il 28 luglio 2016 a 94 anni. Il suo ultimo desiderio di essere sepolto nella sua città natale, Mandla, accanto alla tomba di suo padre è stato esaudito. Fu sepolto nel Kabristan della città di Mandla.
Per la promozione dell’arte tra i giovani indiani, ha fondato la Fondazione Raza in India che assegna il premio annuale della Fondazione Raza ai giovani artisti indiani. La Fondazione Raza in Francia, con sede nel villaggio degli artisti di Gorbio, gestisce la tenuta di Sayed Haider Raza
“Il mio lavoro è la mia esperienza interiore e il coinvolgimento con i misteri della natura e della forma che si esprime nel colore, nella linea, nello spazio e nella luce”. – SH Raza
SH RAZA 1960
del Centre Pompidou, foto di André Morain
–
“SH Raza ha avuto molti compagni di viaggio nel mondo dell’arte moderna indiana, come Akbar Padamsee e FN Souza, che hanno trascorso entrambi lunghi anni all’estero, in Europa e in America.”
– Catherine David e Diane Toubert, curatrici di ‘Sayed Haider Raza’ al Centre Pompidou
A febbraio, il Centre Pompidou di Parigi, un importante centro per l’arte moderna sin dalla sua costruzione nel 1977, ha allestito un’ampia mostra personale ripercorrendo la carriera pittorica di SH Raza. Rappresenta un momento storico per la storia internazionale dell’arte moderna indiana così come si è svolta nel corso del XX secolo, e ha segnato anche il ritorno simbolico di Raza al luogo in cui rimase per gran parte della sua vita lavorativa. Il fertile periodo post-indipendente ha visto le connessioni interculturali forgiate da artisti indiani in Europa e in America secondo i loro termini e questa mostra è una testimonianza degli incontri in evoluzione di Raza con la terra e la mitologia. Le curatrici, Catherine David e Diane Toubert, hanno parlato con DAG evidenziando alcuni dei punti salienti di questa importante retrospettiva.
SH RAZA
Maa 1981
olio su tela
Adagpa, Parigi 2022- Fonazione Raza
Come molti artisti indiani della sua generazione come Akbar Padamsee, Krishna Reddy, Jean Bhownagary, Ram Kumar, SH Raza ha avuto un’esperienza parigina. Ma a differenza di loro, si stabilì a Parigi per sessant’anni (1950-2010), lavorando e vivendo in Francia e visitando regolarmente l’India dal 1959 in poi.
In questo senso la sua esperienza incontra il percorso di FN Souza, che vive temporaneamente a Londra prima di trasferirsi a New York come Natvar Bhavsar o Mohan Samant. La mostra è dedicata a questa specificità condivisa di visioni incrociate sui contesti artistici indiano ed euro-americano. La posta in gioco della modernità post-indipendente in India sembra più facile da leggere per un pubblico francese – che è ancora in gran parte inconsapevole delle diverse forme e dei contesti specifici della modernità indiana – quando vengono abbinati a indicatori familiari come la storia dell’astrazione euro-americana.
“Raza è uno dei tanti artisti moderni non euroamericani che hanno sviluppato le loro pratiche in modo indipendente o al di là dei centri autoproclamati della modernità e ha bisogno di essere introdotto nel moderno canonico fino a poco tempo fa ristretto e nelle sue icone o feticci.”
-Catherine David e Diane Toubert
Centre Pompidou, immagine gentilm. concessa, fotografo Bernard Prévost
WILFREDO LAM ( Sagua la Grande, Cuba, 1902 – Parigi 1982 )
Paris, Centre Pompidou, 30 septembre 2015 – 15 février 2016<br />Madrid, 12 avril-15 aout 2016<br />Londres, Tate Modern, 14 septembre 2016-8 janvier 2017 DAVID CATHERINE
foto Hoepli.it ( Editore del libro )
SH RAZA
Alto di Cagnes, 1951
Guazzo su carta.
Collezione Darashaw
Adagp Parigi, 2022, gentile concessione
The Raza Foundation
Paul Gaugin, L’albero di Ibisc (Te Burao)
1892 – Pittura –
0.907m x 0.68m
The Art Insitute Chicago
SULL’INTERPRETAZIONE DI RAZA E LA SFIDA CURATORIALE
La sfida era quella di evitare interpretazioni e interpretazioni errate. Ad esempio, di fronte alla serie di chiese dipinte da Raza a metà degli anni Cinquanta si può pensare a Bernard Buffet, Van Gogh, Gauguin, ma non bisogna dimenticare il dialogo di Raza dell’epoca con Souza e le sue visioni iconoclaste e torturate dell’iconografia cristiana. È importante evidenziare anche l’incontro con le sperimentazioni di Raza sul nudo, il dialogo con Souza, Padamsee, Kumar e (MF) Husain e l’impatto della pittura figurativa-narrativa e del nudo nel contesto indiano. Abbiamo fornito al pubblico le consuete informazioni biografiche e storico-artistiche per una maggiore chiarezza.
2 FOTO SOPRA : Centre Pompidou, Fotografo, Jacques Prévost
La mostra si svolgerà — SI E’ SVOLTA — dal 15 febbraio al 15 maggio 2023 al Centre Pompidou di Parigi.
di Roger Wilson;
acura di Roger Wilson e Serena Raffiotta;
traduzione Serena Raffiotta
La Sicilia di età romana era famosa per la grande produttività agricola ma sono ancora relativamente poche le ville riportate alla luce nell’isola: quella del Casale a Piazza Armerina è in assoluto la più nota
È raro sapere con certezza chi possedesse queste tenute ma sono talvolta le iscrizioni a fornirci importanti indizi: Roger Wilson ci parla delle sue scoperte nella contrada Gerace non lontano da Enna dove eccezionalmente è stato individuato il proprietario terriero – tale Philippianus vissuto nella seconda metà del IV secolo – e insieme al nome il racconto della sua vita
In un momento imprecisato dopo la metà del IV sec. d.C. un giovane proprietario terriero siciliano di nomePhilippianus, osservando il grande e solido magazzino costruito una generazione precedente nella sua tenuta, si accorse che il tetto necessitava di un piccolo intervento.
Aveva appena realizzato una fornace per tegole, tutte bollate con il suo nome e che ora poteva utilizzare per la riparazione. Come primi prodotti della fornace, i pezzi non erano venuti granché – il colore verdastro tradiva un’eccessiva cottura – ma li impiegò ugualmente.
Tuttavia, non passò molto che il tetto crollò per una forte scossa di terremoto, forse lo stesso registrato dallo scrittore Libanio subito dopo la morte dell’imperatore Giuliano nel 363, in conseguenza del quale andarono distrutte “tutte le città della Sicilia” (un’esagerazione?), oppure un altro sisma che colpì l’isola all’incirca nello stesso periodo. E forse lo stesso che danneggiò la vicina villa del Casale di Piazza Armerina, distante solo una quindicina di chilometri. […]
Le mostre del weekend, dall’Informale alla Pop Art.
Tra i focus quelli su Kounellis, Munari e il Sassetta
Dai movimenti dell’Informale e della Pop Art in Italia, fino all’arte antica del Sassetta e a quella contemporanea di Kounellis e Munari.
PISTOIA – A Palazzo Buontalenti “’60 Pop Art Italia”, grande mostra curata da Walter Guadagnini e allestita dal 16 marzo al 14 luglio.
Per il pubblico un vero e proprio viaggio in quelle città – come Roma, Milano, Torino, Venezia, Palermo e Pistoia – che hanno permesso il proliferare della cultura Pop: nel percorso sono ricostruite le vicende del movimento in Italia, attraverso 60 opere e i suoi maggiori esponenti, da Schifano a Festa, da Rotella a Pascali, da Kounellis fino a Titina Maselli e Giosetta Fioroni.
LECCO – Il segno, il colore, la materia, il gesto sono protagonisti dal 15 marzo al 30 giugno a Palazzo delle Paure nella mostra
“Informale. La pittura italiana degli anni Cinquanta”. A cura di Simona Bartolena, la rassegna racconta quella generazione di autori usciti feriti dalla Seconda guerra mondiale che sperimentò nuovi linguaggi e nuovi stili capaci di narrare una situazione drammatica e complessa. Esposte più di 60 opere di artisti quali Afro, Tancredi, Chighine, Fontana, Moreni, Burri, Morlotti e molti altri.
MASSA MARITTIMA – “Il Sassetta e il suo tempo. Uno sguardo sull’arte senese del primo Quattrocento” è in programma dal 14 marzo al 15 luglio al Museo di San Pietro all’Orto.
A cura di Alessandro Bagnoli, l’esposizione riunisce una cinquantina di opere di cui 26 del maestro senese (tra queste anche un inedito, una Madonna con Bambino, scoperta sotto una ridipintura seicentesca), le altre appartengono ad artisti attivi in quegli anni nel medesimo contesto.
FIRENZE –
Dal 15 marzo al Museo Novecento “La stanza vede. Disegni 1973-1990″, mostra dedicata ai disegni di Jannis Kounellis, con la direzione artistica di Sergio Risaliti e a cura di Dieter Schwarz. In programma fino al 9 giugno, l’esposizione presenta un centinaio di disegni eseguiti su carta, per lo più a china, matita, carboncino, tra gli anni Settanta e Ottanta.
MAMIANO DI TRAVERSETOLO – Alla Fondazione Magnani-Rocca la grande mostra “Bruno Munari. Tutto”, dal 16 marzo al 30 giugno: alternando grafica, oggetti e opere d’arte, il percorso condensa 70 anni di idee e lavori senza essere suddiviso per tipologie o per cronologia, ma per attitudini e concetti, in modo da poter mostrare i collegamenti e le relazioni progettuali tra oggetti anche apparentemente molto diversi l’uno dall’altro.
ROMA –
Spazio Treccani Artepresenta un nuovo format espositivo, intitolato Voci, che accoglie artisti selezionati invitati a scegliere una parola dal vocabolario della lingua Italiana e a ideare, partendo dalla sua definizione, una o più opere in edizione limitata e un progetto artistico site specific. L’11 marzo a inaugurare il ciclo è Alice Guareschi, con la parola “giorno”, in mostra fino a venerdì 14 giugno con 2 opere neon inedite in edizione limitata.
Dal 13 marzo al 1 maggio all’Istituto centrale per la grafica la personale “Doppia ombra” dell’artista rumeno Ciprian Mureşan. Curata da Maura Picciau e da Pier Paolo Pancotto, la mostra presenta circa 24 opere su carta di diversi formati, oltre a 9 lavori fotografici e una scultura.
Dal 12 marzo al 15 luglio alla Galleria Erica Ravenna la bipersonale dedicata a Vincenzo Agnetti e Tomaso Binga dal titolo “una macchina è una macchina”.
L’esposizione mette a fuoco i punti di contatto tra i due artisti che, nonostante non si siano mai incontrati, hanno condiviso linguaggi comuni: nel percorso circa 30 opere, per la maggior parte inedite, dai dattilocodici di Tomaso Binga ai prodotti della macchina drogata di Vincenzo Agnetti, raccontano come il loro lavoro abbia anticipato quanto accade oggi nell’ambito delle nuove tecnologie, dell’intelligenza artificiale e dei new media.