FRANCO D’IMPORZANO, Consigliere del Direttivo della Sezione della sezione ANPI “G. Cristiano Pesavento”
FRANCO D’IMPORZANO, nato a Sanremo nel 1940 – 2019-
in questa foto ( abbiamo pubblicato il video ), Franco celebra il 25 aprile dell’anno precedente la sua morte, si vede che è già malato..
Trascrivo un pezzo della commemorazione che ha fatto mio fratello Franco, a nome dell’ ANPI, dei Martiri di Poggio il 19 novembre 2017. E’ un pezzo di storia di Sanremo, che non abbiamo conosciuto direttamente ( per fortuna). Siamo a Poggio, nell’autunno del 1944, dove i miei genitori, mio fratello ed io piccolissima eravamo sfollati.
“… la situazione era piena di tensione, di ansia continua. I bandi di Graziani, che venivano appiccicati ai muri dallo stesso factotum addetto a ” battere la grida”, a fare il netturbino e a chissà quali altre mansioni, aveva convinto anche i più titubanti fra i giovani a raggiungere i loro compagni sulle montagne. I partigiani che gravitavano nei dintorni erano molti, ma la parola ” partigiani” nessuno, in particolare i bambini, la potevano pronunciare in pubblico. Se proprio scappava di farne cenno, bisognava chiamarli ” ribelli”.
Non dimentico i generi alimentari e di prima necessità razionati; certi avvisi tam-tam di rastrellamenti che costringevano gli uomini validi a lasciare casa e a fuggire nel pieno della notte per recarsi nei boschi; l’aereo ricognitore, Pippo o Pippetto che fosse, che di notte sorvolava la regione, ronzando misterioso e ossessionante; spari notturni; fame della gente; donne che, armate di damigiane, scendevano in città a prendere l’acqua del mare per potersi fabbricare il sale; il campo sportivo, allora detto ” del Littorio “, che si vedeva in lontananza, spesso brulicante di moto, carri, sidecar e attorno un formicolio di uomini… alcuni militari che transitavano a gruppi di due, silenziosi, recando sulla schiena, a mo’ di zaini, certe grosse bobine di fili o cavetti destinati alla riparazione di linee telefoniche e telegrafiche saltate. A poco a poco i tedeschi diventarono feroci.
Si sentiva la gente mormorare:
” Hanno ucciso un uomo lì… hanno fatto un rastrellamento là… nel tale paese hanno massacrato donne, uomini e bambini… persino un prete!… nel centro di Sanremo, tra la farmacia Donzella e l’edicola della Scassa hanno fatto un rastrellamento grandissimo… alcuni uomini sono fuggiti sul campanile di San Siro, altri si sono nascosti al fondo della galleria, dietro ad alcune vecchiette. I tanti che sono rimasti sono stati caricati su un camion, a Upega un capo dei ribelli ferito in battaglia si è sparato per non cadere vivo nelle mani di quei brutessi… gli americani hanno bombardato Sanremo vecchia, un mucchio di persone sono rimaste sotto le macerie! “.
Si arrivò alla mattina del 20 ottobre 1944. Dopo un paio di bordate andate a vuoto, una nave francese riuscì a colpire il mercato dei fiori, dentro il quale c’erano circa cinquanta siluri tedeschi di nuovo modello, depositati giorni prima dai nostri ” camerati” germanici. Al bombardamento assistetti da un punto panoramico privilegiato. Avevo attorno una folla di donne piangenti e piansi anch’io nel vedere quel tremendo cinemascope di fuoco, fumo, cannonate e spezzoni incendiati che saltavano per ogni dove.
Altra notizia terribile: fucilato nei pressi di Oneglia, dopo torture, il conosciutissimo sarto sanremasco Pippo Anselmi, antifascista da sempre, organizzatore delle prime ” bande”. Si sentì anche mormorare:” Un generale inglese, no, americano, ha mandato a dire ai ribelli di smobilitare, di andare a trascorrere l’inverno a casa, ma i nostri gli hanno risposto di andare a prendersela…”.
” 24 novembre 1944. Altra mattinata di sole. Io sto giocando all’aperto, sul selciato della piazzetta del Dopolavoro, svogliatamente, perché, a differenza delle altre mattine, sono solo. Sento il rumore di un motore avvicinarsi. Mi affaccio dal parapetto e vedo arrivare un camion che arranca lentamente. L’automezzo entra nella stretta via che conduce alla piazza di Poggio ed sparisce al mio sguardo.
Dopo alcuni minuti rompe il silenzio un interminabile crepitio di mitraglia. Non faccio a tempo ad arrivare da mia mamma che si vede poco distante una spessa nube di fumo. In giro si sente un coro di urla e pianti. Si saprà poco dopo che i tedeschi hanno voluto, con quel gesto, vendicare l’uccisione di un loro commilitone, freddato pochi giorni prima non da un partigiano, ma da uno sbandato ubriaco. Questi, entrato nell’osteria della piazza, aveva compiuto la tragica bravata di sparare alle spalle del militare che stava giocando a carte o a bere. L’ucciso non apparteneva alle SS : era un graduato che non aveva mai mostrato crudeltà alcuna, addirittura ben voluto da tutti.
La popolazione organizzò subito un funerale solenne, sperando di scongiurare la rappresaglia. Ma il comando tedesco, aiutato dai fascisti, prelevati dei prigionieri da Villa Oberg o dal Castello Devachan, la rappresaglia la mise in atto. Gli assassini, dopo avere ucciso i dieci giovani prigionieri, diedero fuoco all’osteria dove tutto aveva avuto inizio; poi, entrati nell’alloggio dal cui balcone una donna aveva gridato qualche parola ad uno dei condannati, chiamandolo per nome, distrussero e incendiarono tutto quanto trovarono, senza dimenticarsi, prima di risalire sul camion e ripartire, di ordinare che nessun abitante di Poggio si azzardasse a toccare i cadaveri sanguinanti.
Gli incendi vennero domati, la piazza rimase devastata per un bel pezzo, con i buchi lasciati dalle pallottole ben visibili su una saracinesca e un muro. I corpi, dopo un giorno o due, vennero furtivamente non sepolti ma interrati provvisoriamente in un terreno vicino, ciascuno con attaccato a un piede un cartellino con le generalità. Tutto ciò fu organizzato dalle donne, guidate dal necroforo del paese.”
” Se vado con la memoria alle convulse e frenetiche giornate della Liberazione rivedo biancheggiare molte lenzuola dai terrazzi e da davanzali, mentre un aereo sorvola a bassa quota l’abitato. Rivedo uno stuolo di donne, le sfollate in prima fila, intente ad aiutare i gestori del Dopolavoro nella preparazione di un grande pranzo di festa. Vi era stato invitato, assieme ai più poveri del paese, un ragazzo sempliciotto, che nell’esprimere il suo grazie, eseguì un impeccabile saluto romano. Fu redarguito all’istante da un baffuto e barbuto comandante dalla cintura carica di bombe a mano: ” Fìu, da ancòi u se salùa cuscì, cu-u pùgnu serràu” ( Figliolo, da oggi si saluta così, con il pugno chiuso).
Cominciò allora la carriera della canzone “Fischia il vento” composta dal nostro Felice Cascione, finalmente cantata in pubblico da tutti e non soltanto dai pochi in montagna. Era intercalata, nel giubilo di quei momenti, tra una bevuta e l’altra, tra un ballo e l’altro, da ritmi americani fino ad un mese prima proibitissimi.
Avvenne il disseppellimento di quei poveri corpi martoriati, il loro funerale e, una volta contattati i parenti, la sepoltura definitiva nei paesi d’origine.
A distanza d’anni, mentre ancora ci commuove il ricordo di quei morti troppo spesso dimenticati, mi viene in mente una poesia di Marco Tobino, scritta come incipit al suo libro ” Il clandestino” ( Mondadori 1962) :
Fu un amore, amici,
che doveva finire;
credemmo che gli uomini fossero santi,
i cattivi uccisi da noi,
credemmo che diventasse tutta festa e perdono,
le piante stormissero fanfare di verde,
la morte premio che brulla
come sul petto del bambino
la medaglia alle scuole elementari.
Con pena, con lunga ritrosia,
ci ricredemmo.
Rimane in noi il giglio di quell’amore.
Mi sembra giusto ricordare, nome per nome, quei giovani torturati e uccisi dai nazi-fascisti, nostri ideali figli e nipoti:
Domenico Basso ( Vincenzo ) di Rocchetta Nervina (Imperia) Giuseppe Castiglione ( Beppe) di Centuripe ( Enna ) Pietro Catalano- Ventimiglia ( Imperia) Giovanni Ceriolo (Dino)- Bussana- Sanremo (Imperia) Pietro Famiano ( Piero)- Sant’Agata (Imperia) Michele Ferrara ( Magnin)- Pigna ( Imperia) Aldo Limon- Olivetta San Michele ( Imperia) Giobatta Littardi ( Giovanni)- Pigna ( Imperia) Paolo Selmi ( Biancon)- Genova Ignoto
Al ritorno dall’avere trucidato a Poggio quei dieci giovani, i nazifascisti si fermarono in località San Giacomo e ne assassinarono davanti alla chiesa altri tre:
Marco Carabalona Filippo Basso Stefano Boero Tutti e tre erano contadini di Rocchetta Nervina.
Poco prima della Liberazione, il 22 aprile 1945, veniva fucilato il patriota milanese Gualtiero Zanderighi ( tenore). Poggio di Sanremo ha avuto un’altra giovane vittima, Andrea Grossi Bianchi.
Alfeo. Illustrazione tratta da Jacobus Gronovius, Thesaurus Graecorum Antiquitatum, vol. II,
Lugduni Batavorum, 1698.
SINOSSI
La crudele Natura, scrive Brodskij nella appassionata Lettera al lettore italiano che apre questo libro, «con un minimo intervallo di tempo ha affibbiato alla Polonia non solo Czesław Miłosz ma anche Zbigniew Herbert. Che cosa ha cercato di fare, che cosa aveva in mente? Preparare la nazione al suo fosco avvenire, in modo che i polacchi potessero reggerlo?». Di fatto, la compresenza di due poeti di tale altezza – un’altezza dove «non c’è più gerarchia» – in una terra devastata sembra accennare a qualcosa. Lo scoprirà il lettore italiano, incontrando in queste pagine per la prima volta l’essenziale dell’opera di Herbert. Ma che specie di poeta è Herbert? Nessuno può rispondere meglio di come ha fatto Brodskij nella sua introduzione:
«È un poeta di straordinaria economia. Nei suoi versi non c’è niente di retorico o di esortativo, il loro tessuto è quanto mai funzionale: è brusco piuttosto che “ricco”. La mia impressione complessiva delle sue poesie è sempre stata quella di una nitida figura geometrica (un triangolo? un romboide? un trapezio?) incuneata a forza nella gelatina della mia materia cerebrale. Più che ricordare i suoi versi, il lettore se li ritrova marchiati nella mente con la loro glaciale lucidità. Né gli succederà di recitarli: le cadenze del tuo linguaggio cedono, semplicemente, al timbro piano, quasi neutro, di Herbert, alla tonalità della sua discrezione».
Un semplice taccuino, una raccolta dei versi che ho incontrato e, non volendo perdere, ho trascritto. Ho finito il mio vecchio quaderno con la copertina verde e nera. Continuo qua.
Tutti i tentativi di allontanare
il cosiddetto calice amaro —
con la riflessione
l’impegno frenetico a favore dei gatti randagi
gli esercizi di respirazione
la religione —
sono falliti
bisogna accettare
chinare mitemente il capo
non torcersi le mani
ricorrere alla sofferenza con misura e dolcezza
come a una protesi
senza falso pudore
ma anche senza inutile orgoglio
non sventolare il moncherino
sulle teste degli altri
non picchiare col bastone bianco
alle finestre dei sazi
bere l’estratto d’erbe amare
ma non fino in fondo
lasciarne avvedutamente
qualche sorso per l’avvenire
accettare
ma al tempo stesso
distinguere dentro di sé
e possibilmente
trasformare la materia della sofferenza
in qualcosa o qualcuno
giocare
con essa
ovviamente
giocarci
scherzare con essa
con grande cautela
come con un bambino malato
per strappare alla fine
con sciocchi giochetti
un esile
sorriso
è stato un poeta, saggista e drammaturgopolacco e uno degli autori europei più noti del Novecento. Legato da legami di parentela con il poeta, pastore e oratoreingleseGeorge Herbert durante la seconda guerra mondiale prese parte alla Resistenza contro i nazisti invasori, arruolandosi nell’Armia Krajowa. Come autore, esordì nel 1950 e la sua opera più nota è forse Pan Cogito (Il signor Cogito), opera che ha saputo incarnare lo spirito della nuova e della vecchia Letteraturaeuropea. Dal 1986 al 1992 visse a Parigi, collaborando con il giornale Zeszyty Literackie, poi tornò in Polonia, dalla quale si era allontanato per motivi politici. Nel 2007 è stato deciso di celebrarne l’opera nel 2008, in occasione del decennale della morte, con l’Anno di Zbigniew Herbert.
Nel 1944, prima della seconda invasione di Leopoli da parte dell’Armata Rossa, si dovette trasferire a Cracovia e, successivamente, nella vicina Proszowice, dove rimase sino al gennaio 1945. In quei due anni, Herbert si dedicò allo studio dell’economia prima all’Università Jagellonica, poi presso l’Accademia di Belle Arti. Fu questo il periodo di maggiore collaborazione con l’AK. La guerra terminò nel 1945 e, sebbene si fosse dissolta la minaccia nazista, la storia della Polonia continuò ad essere – almeno sino al 1956 – tormentata.
“Ho iniziato a scrivere abbastanza presto, ma per molto tempo ho trattato la scrittura come una questione unicamente personale. Ho fatto il mio debutto nel 1956 a 32 anni. Nel mio caso, non sono solo io, ma le circostanze hanno deciso che scrivo poesie da molti anni. Prima di tutto, la guerra. L’unicità di ciò che mi stava accadendo intorno, il senso dell’orrore e il pathos della storia mi hanno costretto a scrivere un possibile breve disco di riflessione. Ho iniziato a scrivere prosa. Dopo l’occupazione delle mie esperienze di guerriglia-cospirazione, ho scritto un ciclo, che ho chiamato “Non bruciare”. È stata una resa dei conti amara del passato. Posso soffrire, lottare per un ordine morale migliore con l’aiuto della cosa divertente di scrivere poesie – cerco di difendere cose che ritengo importanti. So abbastanza velocemente se una delle mie poesie ha successo o non ha successo di mio gradimento. Per scrivere qualcosa, devo prima leggere me stesso e poi guardare. Quando mi alzo la mattina non penso: oggi devo incidere una poesia. Deve essere un processo naturale, derivante da una necessità interna. Nel momento in cui ho finito e sono arrivato alla mia forma migliore, non mi interessa più la canzone. D’altra parte mi obbliga a non scrivere peggio. Non mi sento come se avessi realizzato nulla… Trovo sempre nei miei testi alcune possibilità di miglioramento, e soprattutto di riduzione. La poesia deve essere magra, ascetica. Non parlo mai dei piani possibili. Mi piace parlare solo di finito e pronto”.
Estratti della dichiarazione di Herbert sulla scrittura di poesie che ho preso dal libro – “Herbert. Conversazioni sconosciute“
Sono già pronti il Panettone e la Veneziana dello Chef Nicola Cavallaro! È possibile assaggiarli da noi in cascina oppure acquistarli intero, da degustare a casa e da regalare per le feste.
Il Rito del Jazz a ottobre: ogni martedì doppio concerto Jazz in salone, alle 19:30 e alle 21:30. L’ingresso è libero! Programma a cura di Musicamorfosi.
Ogni seconda domenica del mese, una cena conviviale per conoscere nuove persone e chiacchierare davanti a un buon piatto. Il vino per brindare lo offriamo noi!
In Corte Sud, più di un negozio: è uno spazio dove crescono piante, fiori, persone e relazioni. Piante da interni, fiori stagionali, complementi e arredi, servizi e allestimenti.
ORARI: dal martedì alla domenica, dalle h 10:00 alle 20:00
All’interno del giardino di Cascina Cuccagna, c’è un pezzetto di terra dedicato all’orto didattico comunitario, dove organizziamo laboratori per adulti e bambini su temi dell’orticoltura. Tra le coltivazioni ci sono piante spontanee e autoctone, piante aromatiche tradizionali, piante comuni, autoctone, rare e dimenticate. L’orto è coltivato dal Gruppoverde Cuccagna.
ORARI: sempre visitabile negli orari di apertura della cascina.
In Corte Sud, il nostro bar e ristorante: dal 2012 chef Nicola Cavallaro prepara piatti buoni e genuini con materie prime selezionate da piccole e medie aziende agricole a “Kilometro Vero”. L’ostello offre piccoli e grandi alloggi dove fare sonni tranquilli dal 1695.
ORARI: da lunedì a domenica, dalle 9:00 alle 01:00
In Corte Nord, una scuola di cucina, un laboratorio per catering, una location per eventi food. Da Il Cucinista è possibile: partecipare a corsi di cucina, organizzare eventi food privati o aziendali, realizzare team cooking e showcooking.
Due nuovi punti di incontro e orientamento nei quali trovare soluzioni di welfare condiviso e partecipato, adatte ai bisogni di tutti: nascono gli spazi di WeMi Cascina Cuccagna e Monteoliveto. Una comunità di operatori e cittadini che condividono conoscenze, esperienze e occasioni per stare insieme.
Lo Sportello Aiuto Energia negli spazi WeMi Cuccagna
L’obiettivo dello Sportello Aiuto Energia è di intervenire per contrastare la povertà energetica, nell’ottica di intercettare cittadini che, a causa di un problema di povertà energetica, potrebbero cadere al di sotto della soglia di povertà.
Nel cuore di Milano, nascosta tra i palazzi di Corso Lodi, alle spalle di Porta Romana, si trova dal 1695 una delle più attive tra le cascine milanesi: la Cascina Cuccagna. La cascina è stata riaperta al pubblico nel 2012, a seguito di un attento restauro conservativo, realizzato e interamente finanziato da un gruppo di associazioni e cooperative sociali. Il progetto per questa cascina è nato grazie all’interesse dimostrato, a partire dal 1998 (quest’anno compie 20 anni!), da parte di un gruppo di cittadini e associazioni che hanno fondato la Cooperativa Cuccagna.
foto del dott. Marco Mauro, amministratore della Famiglia Sanremasca dal suo Facebook
scrive Mauro :
questa è l’immagine più antica che abbiamo della Città di Sanremo. Si trova in una pala di pittore ignoto che raffigura la Madonna con il Bambino e Sant’Antonio ed è situata nel Battistero di San Giovanni. La data è del 1591.
una prima foto– un’altra più in basso
segue: *** nel link sg.
SANREMO STORIA- DI ERNESTO PORRI Sanremo storia ( testo e immagini )
trovate tante notizie che non avevo mai sentito, per esempio quelle dagli scavi archeologici compiuti tra gli anni ’50 e ’60.
Cito:
” Nel prezioso volumetto “Scavi e scoperte nel Battistero di Sanremo” Rivista Ingauna ed Intemelia si trovano tante notizie e riferimenti che aiutano a fare capire il succedersi delle costruzioni nelle varie epoche
.. Da questa gran mole di tracce ed indizi possiamo affermare che sono oltre duemila anni che l’uomo frequenta e lascia tracce del suo operato in questi 150 metri quadrati di suolo matuziano.
—
– IV livello — Epoca imperiale romana ”
BATTISTERO DI SAN GIOVANNI BATTISTA
La prima chiesa di Piazza San Siro
Un luogo di culto con oltre duemila anni di storia
testo e molte immagini di :
ERNESTO PORRO
Battistero di San Giovanni a Sanremo
1895 – Il lato est del Battistero non ancora coperto dall’edificio Piccone
Il “resettu” in fondo alle canoniche
Il “resettu” dalla parte del Battistero
Vista da campo lungo
Quadro sulla parete di destra
Veduta di Sanremo sul basso del dipinto del quadro con la Madonna- vedi sotto
Il quadro sulla parete di sinistra.
Pareti laterali con quadri
La Teca col Cristo Deposto
Una presenza che però non fa parte dell’antichità dell’edificio ma che si nota bene è a Teca col Cristo Deposto scolpito nel legno, di scuola altoatesina, è invece degli anni ’50 del ‘900 e fu acquistata dal Parroco Pasquale Oddo in Val Gardena.
Apre domani ad Asti la mostra dedicata a Paolo Conte pittore.
“Paolo Conte, original” a Palazzo Mazzetti con 143 opere
” Paolo Conte, Original ”
Aprirà domani, 5 novembre, a Palazzo Mazzetti ad Asti, la prima grande mostra dedicata al poeta, cantautore e compositore italiano e alla sua espressione artistica nata ancora prima della musica, la pittura, con 143 lavori su carta, eseguiti con tecniche diverse e in un arco di tempo di quasi settant’anni.
Paolo Conte ha coltivato per tutta la vita la passione per l’arte visiva.
Dopo aver esposto nel 2000 al Barbican Hall di Londra e in diverse città italiane fino al 2007, nel 2023 Paolo Conte è invitato a esporre alla Galli Uffizi. I suoi lavori conducono lo spettatore al centro stesso della sua poetica: elegante, malinconica, jazzata e ironica. In mostra ad Asti, opere mai esposte, tra cui Higginbotham del 1957, a tempera e inchiostro, dedicata a uno dei primi grandi trombonisti jazz.
Altro nucleo importante della mostra è costituito dalla selezione di tavole tratte dalle oltre 1.800 di Razmataz, l’opera interamente scritta, musicata e disegnata da Paolo Conte.
Infine una terza sezione di opere su cartoncino nero in cui Paolo Conte si affida alla suggestione delle linee e dei colori in un omaggio garbato, talvolta venato di ironia, alla musica classica, al jazz, alla letteratura, all’arte. Le opere si susseguono secondo una scelta scrupolosa, espressione del suo universo poetico. E questo non poteva che avvenire sotto la guida stessa del maestro Paolo Conte, con una sola avvertenza: «Lasciare al pubblico la possibilità di immaginare con libertà massima».
Piazza Alfieri, Asti
La piazza fu realizzata in due tempi differenti: la prima parte nel 1856 e poi nel 1869, al centro si rova il monumento a Vittorio Alfieri (Asti, 16 gennaio 1749 – Firenze, 8 ottobre 1803)-
Nel primo capitolo della Vita, l’autobiografia di Alfieri, uno dei romanzi più appassionanti del Settecento, si legge “Nella città d’Asti in Piemonte, il dì 17 di gennaio dell’anno 1749, io nacqui di nobili, agiati, ed onesti parenti”, con evidente errore nell’indicazione della data, essendo egli nato il giorno 16 gennaio. Suo padre, il conte Antonio Amedeo, morì quando il piccolo Vittorio non aveva ancora compiuto un anno. Alfieri legò alla città di Asti i ricordi più vividi della propria infanzia: la scoperta dei sentimenti e delle passioni, l’intenso legame con la sorella Giulia, la formazione del proprio carattere malinconico e orgoglioso.
La marcia di Radetzky è una marcia militare composta da Johann Strauss padre. Fu composta in onore del maresciallo Josef Radetzky per celebrare la riconquista austriaca di Milano dopo i moti rivoluzionari in Italia del 1848.
Concierto celebrado el 17 de noviembre de 2024 en el Auditorio Nacional de Música de Madrid con la finalidad de recaudar fondos para ayudar de los damnificados de la DANA en Valencia.
Gracias a los conciertos organizados por “Voces para la Paz” desde 1998, se han construido carreras, puentes, escuelas, bibliotecas, dispensarios sanitarios, orfanatos, pozos de agua, sistemas de regadío, etc. en países de África, Asía y América Latina. “Voces para la Paz” La Fuerza de la Música por un Mundo más Justo.
L’Hemisfèric è uno degli edifici che fanno parte della Ciutat de les Arts i les Ciències di Valencia, è stato progettato dal grande architetto Santiago Calatrava
In quanto residenza dei papi Benedetto XIII e Clemente VIII, questa località valenzana è stata al centro del cosiddetto Scisma aragonese, conclusosi nel 1429 in seguito agli accordi presi durante il concilio tenutosi a Pavia e a Siena cinque anni prima.
Nel 1956 ha ospitato le riprese del film italo-spagnolo Calabuig ed è anche il sito della famosa “Meereen” ne Il Trono di Spade.
Casa de las Conchas ( conchiglie che ricoprono i muri )
Pechino ha ormai una forza sufficiente a contrastare l’antagonismo americano. Non ne fa mistero e non esita a usarla per i propri interessi. I precedenti storici, da Attila agli ottomani. La lezione del Giappone. La pace è inevitabile, ma va aiutata.
Messa alle strette da Washington, la Cina accelera la modernizzazione dell’Epl e punta sulla ‘mutua distruzione assicurata’, prima che sia troppo tardi. L’eredità di Deng e il sogno di Xi. Il vertice con Trump serve, ma non risolverà nulla.
Putin e Xi Jinping hanno saldato un’intesa che si approfondisce grazie anche alla guerra d’Ucraina. Il via al gasdotto Power of Siberia 2 è svolta importante. La relazione personale fra i due leader è decisiva. Degli europei non vale parlare.
Il progetto del Corridoio di trasporto transartico intende sviluppare regioni polari e orientali, rafforzando la svolta verso est. La Russia ha bisogno di capitali esteri e cooperazione, per ora garantiti da Cina e India. Il problema dello scioglimento del permafrost.
Nell’Artico Pechino cerca risorse e rotte verso Occidente, con in mente l’avvicinamento alle coste dell’America e l’immobilizzazione di Mosca. L’importanza del Profondo Nord nella deterrenza nucleare cinese. Xi non lascerà la Corea del Nord a Putin.
Nella rivoluzione geopolitica l’India cerca di tenere dritta la rotta che dovrebbe portarla al rango di potenza superiore entro il 2047. Il rischio di finire sotto la Cina. Le mosse di Trump infiammano le periferie. La tensione col Pakistan sull’Afghanistan.
L’eredità del rivale di Gandhi continua a dividere gli indiani. L’avventurosa vicenda del condottiero che cercò di coinvolgere l’Asse nell’emancipazione del suo paese dall’impero inglese. L’importanza delle sue origini bengalesi. Il mistero sulla sua fine.
La fascinazione africana per la Cina resta profonda ma gli alleati non credono più all’immagine dell’egemone benevolo e disinteressato. Gli esempi di Kenya, Congo ed Etiopia. Perché Pechino deve restare nel continente. E perché non sarà facile.
La corsa alla Luna vede gli americani in ritardo rispetto ai cinesi. Prevalgono gli immediati interessi privati, mentre Pechino ragiona in termini geopolitici di lungo periodo. La crisi della Nasa. Ciò che accade nel cosmo è il riflesso di quanto avviene sulla Terra.
Rapporto dalla triste Washington. Così i trumpiani si dividono sulla strategia che non c’è. Salvare la nazione è la priorità. Ma come? Riaccentrando l’impero su Panamerica o concentrandolo sulla sfida con la Cina? Come cavarsela senza alleati affidabili.
Viaggio sulla via che unisce Est e Ovest. Tra indiani, cowboy, pazzi e mendicanti, degli Usa restano solo i sintomi. Perché Alex, repubblicano texano, è contento che la violenza politica sia diventata la norma. Dopo 2.450 miglia, la California: l’inferno.
Negli Usa è in corso una rivoluzione che vuole rifondare la nazione. La tribù trumpiana è in guerra contro i ‘nemici di dentro’, le élite liberal che hanno aperto agli immigrati, svenduto l’industria e favorito la Cina. Per questo i poteri vanno concentrati nella Casa Bianca.
Altro che periferia inaccessibile: il futuro del nostro pianeta si gioca nel Nord. La corsa tra Stati Uniti, Cina e Russia per il controllo di avamposti militari, rotte e risorse. Le linee rosse di Washington e i pericoli della ‘zona grigia’. Ascoltiamo la profezia di Mitchell.
Le acque di frontiera uniscono e dividono i due paesi da due secoli, ma la loro gestione resta macchinosa e inefficiente. L’importanza economica della regione. Morto il soft power l’America non può agire unilateralmente. Acqua e terra: cosa vuole Trump.
Gli scenari di attacco russo all’Europa nella (fanta)pianificazione di un ipotetico generale. Le opzioni operative, con pro e contro. Le direttrici di penetrazione e gli assetti impiegati. L’incognita Trump. La scelta migliore è non scegliere.
Un doppio scenario per saggiare la follia degli europei, incapaci di comprendere la guerra e dunque destinati a diventarne vittime. La narrazione bellicista è contraddittoria, quindi seguire i volenterosi potrebbe condurre al disastro. La realtà non è un war game.
Il conflitto è tornato nella grammatica del potere della Germania, che però resta impreparata ad affrontarlo. La vera incognita non è Mosca, ma Washington. Il consenso al riarmo cela le linee rosse dei tedeschi, tra cui inviolabilità del welfare e indisponibilità al sacrificio.
L’invasione dell’Ucraina ha ridotto le attività russe nell’Artico. Gli Usa hanno avanzato la linea di contenimento alle Svalbard. E l’Alleanza Atlantica ha guadagnato un blocco nordico. Ma l’inaffidabilità americana impone di ascoltare la cautela di Norvegia e Finlandia.
Stoccolma mobilita la società, ricostruisce le Forze armate e torna nell’ex spazio imperiale. Dove Nato e Ue servono per difendersi da Mosca. Scandinavi e Usa i partner fondamentali, Ucraina e baltici le frontiere avanzate. Criminalità e immigrazione le faglie interne.
COME FA LA LEONARDO A DIRE CHE NON È IMPLICATA NEI TEATRI DI GUERRA?
L’ospedale Bambin Gesù ha rifiutato una donazione natalizia di Leonardo ritenendola “inopportuna”. La Società ha commentato dicendo “In tutti i teatri di guerra in corso non c’è nessun sistema offensivo di nostra produzione” (La Repubblica, 12 gennaio 2024).
Abbiamo fatto su questo alcune domande a Antonio Mazzeo, giornalista pacifista specializzato in questioni militari ed editorialista di “Pressenza”.
Antonio, sulla base di cosa Leonardo può fare un’affermazione del genere?E con quale credibilità?
Beh, bisognerebbe chiedere ai manager di Leonardo perché si siano inventati una risposta che non trova alcun fondamento né tra i comunicati stampa emessi in tutti questi anni dalla holding armiera a capitale pubblico, né tra le relazioni ufficiali periodiche delle autorità governative sulle attività di esportazione delle aziende belliche italiane. Israele è uno dei partner strategici di Leonardo Spa o delle società controllate interamente o parzialmente che hanno sede sociale in paesi terzi (in particolare negli Stati Uniti d’America). Sono stati realizzati negli stabilimenti di Alenia Aermacchi (Leonardo) di Venegono Inferiore (Varese), i caccia-addestratori M-346 “Master” dove si formano i top gun dell’Aeronautica militare israeliana, prima di operare nei cacciabombardieri di IV e V generazione (come i famigerati F-35 che sono stati predisposti per l’uso di armi nucleari tattiche) che stanno sterminando morte e distruzione a Gaza, Libano meridionale e Siria. Negli stabilimenti AgustaWestland di Leonardo sono stati realizzati gli elicotteri d’addestramento che le forze armate israeliane hanno acquistato un paio di anni fa per “formare” i reparti elicotteristici destinati alle operazioni di guerra. E a bordo dei carri armati che hanno raso al suolo tanti quartieri di Gaza sono stati predisposti sofisticati sistemi di “autoprotezione” realizzati in joint venture dalla controllata USA di Leonardo (DRS) e aziende israeliane leader nel settore bellico. Questo per quello che riguarda solo il caso di Israele. Ma possiamo dimenticare l’apporto di Leonardo al potenziamento bellico delle forze armate turche? Al regime di Erdogan è stato fornito il know how per realizzare in Turchia gli elicotteri d’attacco “Atak”, la versione nazionale degli Agusta Westland A129 “Mangusta” di Leonardo, costantemente impiegati dalle forze armate di Ankara per bombardare i villaggi kurdi in territorio turco, iracheno e siriano. Ed oltre a questi sistemi di morte, Leonardo SpA, attraverso la controllata Telespazio, ha fornito alla Turchia componenti vitali per la realizzazione del programma aerospaziale militare “Göktürk-1”, basato su un satellite di osservazione della Terra con un sensore ottico ad alta risoluzione, un centro per l’integrazione satellitare e i test (costruito ad Ankara) e un segmento terrestre responsabile del controllo missione, della gestione in orbita, dell’acquisizione e processamento dati. Il satellite “Göktürk-1” è stato lanciato in orbita il 5 dicembre 2016 dallo spazioporto europeo di Kourou, in Guyana francese, con un lanciatore italiano VEGA, sotto il controllo del Centro Spaziale del Fucino di Telespazio.
Antonio Mazzeo fa l’insegnante, ma è uno tra i più attivi peace-researcher e saggista impegnato nei temi della pace, del disarmo, dell’ambiente, dei diritti umani e della lotta alle criminalità mafiose.
Esce in questi giorni una sua inchiesta sulla militarizzazione dell’istruzione in Italia da dove emerge che la direzione imboccata dalla scuola italiana è inquietante. Dove va la scuola italiana? Va alla guerra.
”Contemporaneamente alla privatizzazione e precarizzazione del sistema educativo, stiamo assistendo a un soffocante processo di militarizzazione delle istituzioni scolastiche e degli stessi contenuti culturali e formativi. Come accadeva ai tempi del fascismo, le scuole tornano a essere caserme mentre le caserme si convertono in aule e palestre per formare lo studente-soldato votato all’obbedienza perpetua” scrive Mazzeo.
Manifesto Libri 2023
Alle città d’arte, ai musei e ai siti archeologici, presidi e docenti preferiscono sempre più le visite alle basi Usa e Nato “ospitate” in Italia in barba alla Costituzione o quelle alle caserme, agli aeroporti, ai porti militari, alle installazioni radar e alle industrie belliche. Si moltiplicano anche le attività didattico-culturali affidate a generali e ammiragli docenti, gli stage formativi su cacciabombardieri, carri armati e fregate di guerra o l’alternanza scuola-lavoro a fianco dei reparti d’élite delle forze armate o nelle aziende produttrici di armi.
”Questo lavoro vuole contribuire alle campagne nazionali che puntano al disarmo e alla smilitarizzazione dell’istruzione a sostegno della pace, delle libertà di espressione e insegnamento, della scuola pubblica e dei valori fondamentali di uguaglianza formale e sostanziale e di giustizia sociale” scrive Mazzeo.
L’autore collabora con Il Manifesto e altre testate giornalistiche nazionali e nel 2020 è stato premiato dall’Archivio Disarmo con la “Colomba d’oro per la Pace” quale riconoscimento “per aver interpretato per anni il giornalismo e la scrittura come una missione di difesa dei diritti umani e di denuncia delle ingiustizie”. È tra i promotori dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università.
Giornalista e peace-researcher ecopacifista ed antimilitarista, ha pubblicato saggi sui temi della pace e dei diritti umani e sulla criminalità mafiosa.
Presentazione dell’inchiesta RIARMO ACCADEMICO con Luca Rondi #leonardo#PALERMO 8 novembre h. 17:30 // ExKarcere // Via San Basilio, 17 #CATANIA 10 novembre h. 17:30 // Monastero dei Benedettini (UniCt)
link di X
Antonio Mazzeo @mazzeoantonio
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#nocpr#Messina, martedì 11 novembre ore 19:30, – Libreria Colapesce , via Mario Giurba 8/10, ospiterà la presentazione del libro “Gorgo CPR” inchiesta scritta da Lorenzo Figoni e Luca Rondi che illumina uno dei capitoli più controversi delle politiche migratorie italiane: i CPR
*** questo link vi consiglio di frequentarlo perché ha l’abitudine di pubblicare cose belle, alcune molto belle, non facilmente accostabili diversamente.
“Intorno al 1980, Audette rimase affascinata dalle forme e dai colori delle auto rottamate in uno sfasciacarrozze rurale. Dopo essersi presentata al proprietario e aver mostrato alcuni esempi delle sue opere, le fu concesso l’accesso alla proprietà. Vagando tra le cataste di veicoli rottamati, fu attratta da come le loro forme diventassero astratte, da come l’esposizione agli agenti atmosferici ne influenzasse i colori e da come il tempo ne causasse il deterioramento superficiale. Il suo interesse per le automobili rottamate si estese presto alle navi rottamate”
“Audette esplorò costantemente la forma e la decostruzione attraverso un’ampia varietà di soggetti, dalla figura umana ai macchinari pesanti.
Realizzò dipinti e disegni di automobili, aerei, navi, treni abbandonati e interni di fabbriche
“Audette crebbe in un ambiente artistico raffinato. La cerchia sociale dei suoi genitori includeva importanti storici dell’arte, critici e intellettuali dell’epoca, da Erwin Panofsky, noto per i suoi studi di iconografia, a Charles Scribner, editore di opere di Hemingway e Fitzgerald. Le pareti dell’appartamento degli Held erano tappezzate, come in una galleria, di dipinti e disegni di varia provenienza.” “Audette iniziò le sue stampe, e in seguito i suoi dipinti, con schizzi dettagliati. Il disegno fu sempre la spina dorsale del suo lavoro” “I suoi dipinti di rovine industriali e macchinari obsoleti raccontavano il declino dell’industria americana”
Anna Held Audette (1938–2013), Scrap Metal V , 1990. Olio su tela, 70 ½ x 80 pollici, Florence Griswold Museum, dono di Louis G. Audette, 2022.24
il commento all’esposizione dello stesso Museo::
Nota per i suoi monumentali dipinti policromi di rovine industriali, Anna Held Audette era una pittrice americana di precisione, nella tradizione di Charles Scheeler, Walter Murch e Charles Demuth. Utilizzando colore, forma e scala con effetti drammatici, Audette ha ritratto il tempo e l’incuria su depositi di rottami, aerei, navi, treni, fabbriche e macchinari abbandonati.
All’inizio della sua carriera, Audette si concentrò sul disegno e sulla stampa d’arte. Fu solo più tardi, verso la mezza età, che Audette abbracciò la pittura. Eppure, nonostante i suoi mezzi espressivi preferiti cambiassero nel tempo, Audette esplorò costantemente la forma e la decostruzione. Attraverso un’ampia varietà di soggetti, dalla figura umana ai macchinari pesanti, questi temi di fondo rimasero evidenti in tutta la vasta opera di Audette.
Le sue opere variano per soggetto, dimensione e tecnica, ma condividono un filo conduttore: nelle parole di Audette, “costituiscono un requiem visivo per l’era industriale”.
Sembra naturale che la figlia del professor Julius Held, uno dei più eminenti storici dell’arte del XX secolo, abbia intrapreso una carriera nel mondo dell’arte. Anna Held Audette ha iniziato la sua carriera come incisore prima di dedicarsi alla pittura a olio, la sua tecnica preferita. Come l’americano Charles Sheeler, i cui temi urbani e industriali hanno definito un’iconografia dell’estetica dell'”era delle macchine”, le composizioni di Anna Audette riflettono e commentano la nostra era industriale. Con soggetti che spaziano da navi e aerei a macchine, edifici e rottami metallici, le sue tele di grandi dimensioni ci ricordano che, come lei stessa afferma, “i trionfi della tecnologia sono a un passo dall’obsolescenza”. Anna Audette cita diversi artisti come influenti nello sviluppo del suo stile, tra cui Giovanni Battista Piranesi, Piet Mondrian, Walter Murch e Franz Kline. Certamente, la sobria eleganza geometrica di un Mondrian si può ammirare in un’opera come Factory Wall (2005) di Audette, con la sua rappresentazione quasi astratta di una finestra di fabbrica a più vetri. Anche la presenza di Sheeler si fa sentire in Sloss Iron Furnaces (2002), un tipico soggetto di Sheeler, le ciminiere sui tetti. E Audette’s Factory (2005) potrebbe, a prima vista, essere un’opera caratteristica di Edward Hopper: l’esterno in mattoni rossi, le fredde ombre blu oltremare e il travolgente senso di solitudine e isolamento sono tutti tratti distintivi di quell’artista. Per adottare una prospettiva più storica, si possono persino considerare i dipinti architettonici di Anna Audette attraverso il filtro dei vedutisti del Settecento come Giovanni Paolo Panini e Hubert Robert, artisti i cui eleganti capricci di rovine romane commentano la grandezza di un’antica civiltà e la malinconia del suo successivo declino e decadenza. L’artista stessa osserva una stretta relazione tra la sua Demolition (1993) e uno schizzo di Robert. Spesso, grazie alla prospettiva estremamente ravvicinata di molte opere – come nel caso di “Scrap Metal XVII” di Audette ( immagine sopra ) , lotto 67 della presente asta – esse trasmettono un’intensa sensazione tattile e scultorea, con le superfici contorte e lucenti di un’opera di John Chamberlain. Dipinti di Anna Audette si trovano in collezioni prestigiose come il Metropolitan Museum of Art di New York, il Fitzwilliam Museum di Cambridge, Regno Unito, e la Yale University Art Gallery di New Haven.
Vendita di San Siro, Claudio Trotta: “Bando durato troppo poco, impossibile partecipare”
Il promoter, fra i fondatori del Comitato Sì Meazza, ascoltato dai pm dopo la presentazione dell’esposto sulla Scala del calcio: “Ci voleva una gara sullo stadio, non sull’intera area. Così diventa un’operazione immobiliare
Claudio Trotta; a destra, Bruce Springsteen, artista con il quale il promoter ha stretto un legame decennale- foto de Il Giorno
Milano, 6 novembre 2025 – “Sono stato convocato dalla Procura sulla base dell’esposto presentato dal Comitato Sì Meazza, di cui sono uno dei fondatori, sul caso San Siro. Sono stato ascoltato dai pm per tre ore e mezzo”.
Claudio Trotta, fondatore di Barley Arts, uno di promoter di concerti più noto a Milano e in Italia, organizzatore di decine di show di Bruce Springsteen nel Belpaese, è un fiero oppositore dell’accordo tra Comune e club sull’area di San Siro.
Quali sono stati gli argomenti del confronto con i pm?
“Su questo, naturalmente, non posso svelare nulla. Non sono stato io a parlare di turbativa d’asta come ipotesi di reato”.
Qual è il contenuto dell’esposto del Comitato Sì Meazza?
“L’esposto contesta le modalità dell’avviso pubblico per la raccolta di manifestazioni di interesse per stadio Meazza e l’area limitrofa. Un avviso nato dal progetto proposto da Milan e Inter al Comune sulla realizzazione di un nuovo stadio nell’area di San Siro e sulla demolizione e rifunzionalizzazione del Meazza. La prima critica riguarda i tempi previsti per l’avviso: appena 37 giorni – dal 24 marzo al 30 aprile 2025 – per presentare una proposta, dopo sei anni goduti dalle proprietà di Milan e Inter per dialogare con il Comune. Molti operatori, me compreso, confidavano in almeno 120 giorni, il minimo per elaborare un piano serio. Non è stato così. Ma c’è anche un’altra critica rilevata nell’esposto”.
Quale?
“Il perimetro dell’operazione: non si parla più solo dello stadio Meazza ma di un’area tre volte più grande dell’impianto. Non si sta più parlando di valorizzare un bene pubblico iconico, ma di una vera e propria operazione immobiliare”.
Avrebbe preferito un bando solo sulla riqualificazione dello stadio Meazza?
“Ben prima del progetto presentato da Milan e Inter, il Comune avrebbe dovuto lanciare un bando per il futuro dell’attuale impianto. Una richiesta che già il 9 novembre 2022 avevo fatto al sindaco Giuseppe Sala, durante un incontro al quale aveva partecipato il general manager di Asm Global Giuseppe Rizzello, interessato a valutare un restyling e la successiva gestione dell’attuale stadio con o senza Milan e Inter presenti. Ma il bando sul Meazza non c’è mai stato. Noi avevamo profilato al sindaco una ristrutturazione dello stadio che prevedesse una copertura retrattile e portante, la realizzazione di un nuovo terreno di gioco che potesse permettere in maniera dinamica ed economicamente sostenibile, un utilizzo polivalente e rapido aperto a tutti i generi di spettacolo, di intrattenimento e di disciplina sportiva in ogni stagione dell’anno, nel pieno rispetto del contesto”.
Il rendering del progetto per il nuovo stadio: sulla sinistra, quello che resterà di San Siro
Nel frattempo Milan e Inter hanno presentato il progetto e si è aperto l’avviso durato 37 giorni…
“Un tempismo quantomeno curioso, che sembra costruito per scoraggiare – se non escludere – ogni proposta alternativa”.
Un avviso su misura per Diavolo e Biscione?
“Non ho motivi reali per sostenere una cosa del genere. Ma purtroppo viviamo in un Paese in cui i bandi e gli avvisi pubblici appaiono precostituiti. Sottolineo: appaiono. Ho 68 anni, sono un promoter, ho partecipato a centinaia di bandi. So come funziona. Chi ha orecchie per intendere, intenda. Mi preme aggiungere un’ultima cosa”.
Prego.
“Dov’è l’interesse pubblico in tutta questa vicenda di San Siro? Si vuole abbattere lo stadio di Milano ma non si pensa minimamente ai cittadini e agli spettatori. Solo ai ricavi. O qualcuno crede ancora alla favola che per vincere la Champions bisogna avere uno stadio di proprietà?”.
altri articoli del quotidiano ” IL GIORNO ” SULL’ARGOMENTO:: puoi aprire, c’è il link nel titolo
Il Museo Nazionale Archeologico di Taranto (MArTA) è fra i più importanti d’Italia e fu istituito nel 1887. Il Museo occupa fin dalle origini l’ex Convento dei Frati Alcantarini, costruito a metà del XVIII secolo e, in seguito ad interventi di ingrandimento a metà del XX secolo, l’adiacente corpo settentrionale dell’Ala Ceschi. A partire dal 1998 sono iniziati i lavori di ristrutturazione che hanno portato alla parziale riapertura al pubblico del Museo, avvenuta nel dicembre 2007.
Dal 2013 sono state riaperte al pubblico le nuove sezioni espositive del Museo dedicate alla città romana, alla città tardoantica e altomedievale fino alla rifondazione bizantina dell’XI secolo d.C
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Oltre agli spazi già visitabili, in tutti i casi integrati con l’esposizione di nuovi reperti (monumenti funerari, vasi figurati, mosaici, intonaci dipinti, arredi), sono fruibili nuove sale dedicate alla ricca documentazione delle produzioni tarantine e delle importazioni di età romana, dei variegati corredi della necropoli della città, a partire dalla conquista di Q. Fabio Massimo del 209 a.C. fino al III secolo d.C.
Nelle vetrine risaltano le bellissime oreficerie, arricchite da paste vitree e pietre colorate, le terrecotte policrome ancora di tradizione greca, ossi, avori, e soprattutto vetri colorati importati che caratterizzano le sepolture ad incinerazione di età imperiale, fino ai frammenti di eccezionale eleganza di un sarcofago in marmo con scena di assalto alle navi.
La sezione dedicata alla città dal tardoantico all’età bizantina offre una vasta documentazione dei pavimenti musivi dell’edilizia pubblica e privata, con motivi geometrici e figurati policromi e materiali da scavi stratigrafici recenti (Villa Peripato, Palazzo delli Ponti, Cattedrale di San Cataldo) che hanno fornito dati rilevanti per la ricostruzione del centro antico in tali fasi cronologiche. Nell’ultima sala sono anche inserite epigrafi funerarie di Ebrei, Cristiani e Musulmani, che documentano la presenza a Taranto di genti di cultura e religione diverse fra il IV e l’XI secolo d.C.
La sezione dedicata alla storia del Museo è stata completamente rinnovata, con la ricostruzione di ambientazioni d’epoca del periodo di Q. Quagliati e C. Drago e con l’esposizione di acquisti e donazioni pervenute al Museo dalla fine dell’Ottocento ad oggi, con i vasi figurati di importazione e di produzione locale, trafugati dai siti archeologici del territorio apulo, confluiti in musei stranieri e oggi restituiti alla fruizione pubblica nel MArTA.
Una nuove veste espositiva è stata inoltre riservata ai quadri donati da Monsignor Ricciardi al Museo agli inizi del ‘900, in uno spazio a piano ammezzato che prospetta sulla Sala IX.
Questa maschera teatrale di terracotta riproduce le fattezze di uomo dal volto deforme e calvo. I fori sugli occhi e sulla bocca ne consentono un’identificazione come maschera teatrale relativa alla farsa fliacica, un particolare genere diffuso a Taranto e in Magna Grecia su ispirazione della commedia attica.
La maschera è stata rinvenuta all’interno di una sepoltura a incinerazione databile tra la fine del II sec. a.C. e il I sec. a.C. a Taranto in contrada Corti Vecchie, via Regina Elena nel 1932 Venite ad ammirarla, si trova al MArTA nella sala XXII, vetrina 58A
commento alla maschera sopra nel link del Museo Facebook:
Bellissima opera di tempi passati mi viene in mente questa, opera creata da madre natura
*** Gino Caffarelli è un illustre artista, forse scultore, di Potenza o dintorni.. Taranto? Sul suo Facebook non l’ho trovato.
I reperti del passato incontrano il design del presente, in uno scambio continuo. Come in questo attualissimo boccale attico a vernice nera ritrovato a Rutigliano (BA), Contrada Purgatorio, che risale al 430-400 a.C.
Vi aspetta al MArTA, sala VI, vetrina 47
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***per chi si occupa di bellezza e di arte, anche antica o anche moderna ( vedi sopra )– visitate senz’altro il Facebook del Museo MARTA DI TARANTO di cui riporto un’altra volta il link:
Nel teatro classico non esistono solo due forme teatrali (cioè tragedia e commedia) ma anche esiste una terza che si chiama farsa fliacica.
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Con Aristofane comincia un teatro nuovo che si chiama farsa fliacica. E questo teatro si sviluppa in Magna Grecia, Sicilia Salento ecc.
I Fliàci erano una sorta di saltinbanchi girovaghi, che allestivano semplici palchi su pali di legno in giro per la Magna Grecia e nell’isola di Sicilia. Fliaci è un epiteto dello stesso Dioniso del suo seguito deriva dal verbo φλύω in greco antico cioè scorro. Dato che, Dioniso era originariamento la linfa vitale che scorre nel mondo vegetale e determina la riproduzione.
Nella loro prima fase (V secolo a.C.) tali attori non usavano testi scritti, ma un canovaccio col quale aiutarsi improvvisando dialoghi in dialetto dorico. Il loro lavoro contribuiva ad esaltare l’atmosfera gioviale e sconcia delle feste dedicate a Dionisio. Gli attori indossavano dei costumi buffi, rigonfi, e addobbati con riferimenti all’organo genitale maschile. Farsa fliacita recita tata cioè da fliaci, autori travestiti con enormi pancioni e muniti di gigantesco fallo.
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Fissata in forma letteraria da Rintone di Siracusa, tutto quello che ne è rimasto sono le raffigurazioni su vasi, ritrovate nei pressi di Taranto, il cui studio ha permesso solo una parziale ricostruzione del genere. Rintone di Siracusa fliacografo e poeta diede al genere una maggior eleganza e finezza letteraria: cosa non semplice considerando lo scopo che si prefiggeva tal genere di farsa.
Della produzione scenica di Rintone, che probabilmente era formata da 38 drammi ilari, ci rimangono nove titoli (Dulomeleagro, Eracle, Anfitrione, Ifigenia in Aulide, Ifigenia fra i Tauri, Medea, Meleagro schiavo, Oreste, Telefo) e 28 frammenti, scritti tutti in dialetto dorico di Taranto.
— E’ sicuro che la forma espressiva del mimo abbia avuto la sua origine in Sicilia..e secondo Aristotele, che nella Poetica attribuisce ai siciliani Formide ed Epicarmo i primi testi teatrali comici, la commedia siracusana precedette quella attica. Cosi la commedia nacque prima in Italia (Magna Grecia) e poi abbiamo la forma della commedia con un’altra struttura ad Atene.
Durante la Seconda Guerra Mondiale Milano subì danni gravissimi al tessuto urbano e al suo patrimonio monumentale. Obiettivo strategico dell’alleanza anglo-americana per il suo ruolo industriale e di snodo commerciale, insieme a Torino e Genova, la città fu ripetutamente colpita dai bombardamenti aerei tra il 1940 e il 1944.
Se le prime incursioni provocarono danni circoscritti, i bombardamenti dell’ottobre 1942, i più tragici dell’agosto 1943, e del 1944 mutarono profondamente, e per sempre, l’aspetto della città che abitiamo oggi.
1943: la zona compresa tra San Babila e Largo Augusto dopo un bombardamento aereo; sullo sfondo è visibile la guglia del duomo
Dal 1940 al 1945 Milano, importante centro industrializzato d’Italia, fu oggetto di ripetuti bombardamenti ad opera degli aerei inglesi e statunitensi. Notevoli i danni al patrimonio artistico. Particolarmente, in occasione delle incursioni del mese di agosto dell’anno 1943, vennero danneggiati il Duomo, la Basilica di Sant’Ambrogio, le Chiese di Santa Maria delle Grazie (l’Ultima cena di Leonardo da Vinci fortunatamente non subì danno), Sant’Eustorgio, San Satiro, San Tommaso, San Sebastiano, San Bernardino e San Carlo. Subirono altresì danni il Castello Sforzesco, la Galleria Vittorio Emanuele II, la Scala, la Ca’ Granda, Palazzo Reale, Palazzo Sormani e molti altri edifici d’interesse storico od artistico.
Il cortile dell’Ospedale maggiore di Milano (Ca’ granda), oggi sede dell’Università degli Studi di Milano, dopo i bombardamenti del 1943 [Fonte: Wikimedia Commons]
Durante la Seconda Guerra Mondiale Milano subì danni gravissimi al tessuto urbano e al suo patrimonio monumentale. Obiettivo strategico dell’alleanza anglo-americana per il suo ruolo industriale e di snodo commerciale, insieme a Torino e Genova, la città fu ripetutamente colpita dai bombardamenti aerei tra il 1940 e il 1944. Se le prime incursioni provocarono danni circoscritti, i bombardamenti dell’ottobre 1942, i più tragici dell’agosto 1943, e del 1944 mutarono profondamente, e per sempre, l’aspetto della città che abitiamo oggi.
I sessanta raid aerei che si concentrarono sul capoluogo lombardo causarono decine di migliaia di morti e furono spesso all’origine della trasformazione urbanistico-architettonica della città nei decenni successivi al conflitto. Un terzo delle costruzioni milanesi edificate andò distrutto dai bombardamenti, dagli incendi che ne divamparono, o dalle demolizioni, necessarie o avventate, intraprese con la ricostruzione. Oltre il 65% degli edifici sottoposti a tutela dalla Soprintendenza furono danneggiati nonostante le misure di difesa nazionale del territorio e le disposizioni di salvaguardia che la stessa Milano, con grande lungimiranza e tecnica, dettò al ministero dell’Educazione Nazionale, al tempo dicastero dei beni e delle attività culturali del governo fascista. Chili di sabbia, armature e puntellamenti salvarono il Cenacolo vinciano e il ciborio di Sant’Ambrogio ma molte opere architettoniche, sia pubbliche che private, scomparvero per sempre nella loro versione originaria: i teatri Dal Verme, Verdi e Filodrammatici, Casa Velasco e Palazzo Melzi di Cusano in Porta Romana, le scuderie di Villa Reale, Palazzo Ponti di fronte a Brera o i Palazzi Arcimboldi, Cicogna (Via Unione) e Cramer (Via Fatebenefratelli), per citarne solo alcuni.
Il prestito di un miliardo di allora, ottenuto dal Comune nel 1944, servì a malapena a sgomberare la città dalle macerie. I
Il Montestella, collina artificiale nel nuovo quartiere sperimentale QT8 progettatato da Piero Bottoni (1947) fu eretto proprio grazie al riutilizzo dei detriti di guerra a perenne memento della città perduta.
Gli effetti della guerra, e insieme la speculazione edilizia aggravata dalla domanda di una popolazione più che raddoppiata già nel decennio precedente la Guerra, annullarono l’intersecarsi di vie popolari e quartieri ricchi e intere aree furono modificate nell’assetto planimetrico. Questo, per esempio, il destino del malfamato Bottonuto, quartiere “rosso” dietro Piazza Diaz, e di molte altre zone, almeno fino al piano regolatore del 1953.
11 maggio 1946 — ARTURO TOSCANINI RIAPRE LA SCALA DI MILANO
concerto : 1h 50 min. ca
L’11 maggio 1946 riaprì trionfalmente il Teatro alla Scala mentre i vuoti della città ferita alimentarono l’acceso dibattito tra ricostruzione in stile e libertà progettuale. Gli esiti più felici di questa dialettica diedero il via alla costruzione di edifici simbolo della modernità: Torre Velasca (BBPR, 1956-8), grattacielo Pirelli (Giò Ponti, 1956-61) e Padiglione d’arte Contemporanea (Ignazio Gardella, 1951-4) sono alcune delle architetture che, per destinazione d’uso, andranno a qualificare il volto della Milano contemporanea.
Familie Flöz, o Familie Floez, è una compagnia di teatro internazionale residente a Berlino.
Gli spettacoli che la compagnia realizza e produce prendono vita da un lungo processo introspettivo e collettivo che attraversa differenti discipline teatrali fra le quali il teatro di figura, il teatro di maschera, la danza, la clownerie, l’acrobazia, la magia e l’improvvisazione.
Nel suo lavoro teatrale la compagnia utilizza un linguaggio del corpo non convenzionale che attraverso l’uso di maschere e travestimenti rivela ciò che è nascosto nell’animo dell’essere umano.
La Familie Flöz si avvale di mezzi definiti “antelinguistici” poiché le maschere non hanno solo una forma, ma anche un contenuto, che si sviluppa con la maschera e la recitazione, fino all’atto simbiotico con l’attore come risultato finale.
Gli spettacoli della Familie Flöz sono stati rappresentati in 34 nazioni.
A Gubbio dei documenti d’archivio fanno risultare l’opera di mastri ceramisti fin dal 1300.
Le testimonianze medioevali mostrano una maiolica arcaica con decorazioni geometriche o vegetali di verde e bruno. Ma la fama della tradizione ceramica di questa città è legata al grande ceramista Giorgio Andreoli detto Mastro Giorgio, che giunge a Gubbio nel 1489 proveniente da Intra, sul Lago Maggiore. Fu l’arte di applicare il lustro, di cui Mastro Giorgio fu maestro indiscusso, a render famosa la ceramica eugubina: oro, argento, verde e soprattutto un bel rosso rubino di tonalità intensa.
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Dopo un lungo periodo di decadenza, la ripresa della produzione ceramica si ebbe nella seconda metà dell’Ottocento all’interno di un movimento culturale che investì l’Umbria con lo scopo di recuperare la tradizione rinascimentale.
Nei primi del Novecento, periodo a cui risalgono le prime esperienze di Aldo Ajò, il cui stile fu imitato da allievi ed epigoni; di Baffoni, Cavicchi, Faravelli, Monarchi, Notari, dei fratelli Rossi …, i ceramisti eugubini hanno intrapreso anche altre strade, oltre a quella della produzione di maioliche riverberate, come la lavorazione dei buccheri, lucidati e poi decorati a graffito o con smalti policromi e con oro oppure ceramiche di ispirazione medioevale in cui predomina il blu cobalto.
Il lustro è una particolare tecnica decorativa che consente di ottenere un tono metallico con sfumature cangianti o iridescenti.
Il procedimento è particolarmente sofisticato e venne acquisito dalla lavorazione della ceramica, nella seconda metà del XV secolo, quasi certamente attraverso la mediazione dei lustri ispano-moreschiprovenienti dalla Spagna attraverso il porto intermedio di Maiorca, da cui prese il nome di maiolica.
.. è una piccola città di 31.000 abitanti (2018) nella provincia di Valencia . È la sede dell’aeroporto di Valencia ed è un importante centro per la ceramica, praticata da almeno 700 anni.
Manises fu fondata dagli arabi, che la trasformarono in un centro per la produzione di ceramiche. Nel 1237 la città fu conquistata da re Giacomo d’Aragona, che permise ai residenti musulmani di rimanere e di insegnare ai nuovi arrivati cristiani l’arte della ceramica. Nel Medioevo, le ceramiche di Manises divennero molto apprezzate nelle corti reali di tutta Europa, soprattutto quelle con il caratteristico stile blu e oro, sviluppato per la prima volta dagli artigiani mori.
A differenza di altre città vicine, dove la tradizione della ceramica si è estinta, Manises è ancora oggi nota per la sua ceramica. È il più grande centro di produzione della Spagna, con oltre 100 laboratori e fabbriche situati in città e altri 50 nei comuni limitrofi.
Questa ex fabbrica di ceramiche ospita l’ufficio informazioni turistiche
Annuncio con vero piacere che il mio Amico GERMANO MASCI stà per avere la sua prima cucciolata con i LUPI DI GUBBIO, ovvero tra il suo pluri campione Wakan Big Wolf e la bellissima Galinka.
Wakan Big Wolf
Sia Wakan che Galinka hanno già riprodotto in passato, ma questa per loro è la prima cucciolata insieme e tra pochi giorni nasceranno i piccoli.
Quei volti parlano
come le pietre.
Contro cieli infiniti
sopportano i giorni.
Come le pietre
dei loro sentieri
sorreggono la vita,
quei passi
che portano
ad un cielo indifferente.
Ignoto, Francesco ammansisce il lupo di Gubbio sec. XV; carta, 34 x 25 cm;
Assisi, Santa Maria degli Angeli,
Biblioteca Porziuncola,
Specchio dell’Ordine dei Minori o Franceschina
nel link sotto, altre immagini dei quadri della Mostra:
Il lupo di Gubbio“Al tempo che santo Francesco dimorava nella città di Agobbio, nel contado d’Agobbio apparì un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali, ma eziandio gli uomini; in tanto che tutti i cittadini stavano in gran paura, però che spesse volte s’appressava alla città; e tutti andavano armati quando uscivano della città, come s’eglino andassono a combattere, e con tutto ciò non si poteano difendere da lui, chi in lui si scontrava solo. E per paura di questo lupo e’vennono a tanto, che nessuno era ardito d’uscire fuori della terra. Per la qual cosa avendo compassione santo Francesco agli uomini della terra, sì volle uscire fuori a questo lupo, bene che li cittadini al tutto non gliel consigliavano; e facendosi il segno della santissima croce, uscì fuori della terra egli co’suoi compagni, tutta la sua confidanza ponendo in Dio. E dubitando gli altri di andare più oltre, santo Francesco prese il cammino inverso il luogo dove era il lupo.
Ed ecco che, vedendo molti cittadini li quali erano venuti a vedere cotesto miracolo, il detto lupo si fa incontro a santo Francesco, con la bocca aperta; ed appressandosi a lui santo Francesco gli fa il segno della santissima croce, e chiamollo a sé e disse così: “Vieni qui, frate lupo, io ti comando dalla parte di Cristo che tu non facci male né a me né a persona”. Mirabile cosa a dire!Immantanente che santo Francesco ebbe fatta la croce, il lupo terribile chiuse la bocca e ristette di correre; e fatto il comandamento, venne mansuetamente come agnello, e gittossi alli piedi di santo Francesco a giacere. E santo Francesco gli parlò così: “Frate lupo, tu fai molti danni in queste parti, e hai fatti grandi malifici, guastando e uccidendo le creature di Dio sanza sua licenza, e non solamente hai uccise e divorate le bestie, ma hai avuto ardire d’uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu se’degno delle forche come ladro e omicida pessimo; e ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t’è nemica. Ma io voglio, frate lupo, far la pace fra te e costoro, sicché tu non gli offenda più, ed eglino ti perdonino ogni passata offesa, e né li uomini né li cani ti perseguitino più”. E dette queste parole, il lupo con atti di corpo e di coda e di orecchi e con inchinare il capo mostrava d’accettare ciò che santo Francesco dicea e di volerlo osservare.
Allora santo Francesco disse: “Frate lupo, poiché ti piace di fare e di tenere questa pace, io ti prometto ch’io ti farò dare le spese continuamente, mentre tu viverai, dagli uomini di questa terra, sicché tu non patirai più fame; imperò che io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male. Ma poich’io t’accatto questa grazia, io voglio, frate lupo, che tu mi imprometta che tu non nocerai mai a nessuna persona umana né ad animale: promettimi tu questo?”. E il lupo, con inchinare di capo, fece evidente segnale che ‘l prometteva. E santo Francesco sì dice: “Frate lupo, io voglio che tu mi facci fede di questa promessa, acciò ch’io me ne possa bene fidare”. E distendendo la mano santo Francesco per ricevere la sua fede, il lupo levò su il piè ritto dinanzi, e dimesticamente lo puose sopra la mano di santo Francesco, dandogli quello segnale ch’egli potea di fede. E allora disse santo Francesco: “Frate lupo, io ti comando nel nome di Gesù Cristo, che tu venga ora meco sanza dubitare di nulla, e andiamo a fermare questa pace al nome di Dio”. E il lupo ubbidiente se ne va con lui a modo d’uno agnello mansueto; di che li cittadini, vedendo questo, fortemente si maravigliavano. E subitamente questa novità si seppe per tutta la città; di che ogni gente, maschi e femmine, grandi e piccioli, giovani e vecchi, traggono alla piazza a vedere il lupo con santo Francesco.Ed essendo ivi bene raunato tutto ‘l popolo, levasi su santo Francesco e predica loro, dicendo, tra l’altre cose, come per li peccati Iddio permette cotali cose e pestilenze, e troppo è più pericolosa la fiamma dello inferno, la quale ci ha a durare eternalemente alli dannati, che non è la rabbia dello lupo il quale non può uccidere se non il corpo: “quanto è dunque da temere la bocca dello inferno, quando tanta moltitudine tiene in paura e in tremore la bocca d’un piccolo animale. Tornate dunque, carissimi, a Dio e fate degna penitenza de’vostri peccati, e Iddio vi libererà del lupo nel presente e nel futuro dal fuoco infernale”. E fatta la predica, disse santo Francesco: “Udite, fratelli miei: frate lupo che è qui dinanzi da voi, sì m’ha promesso, e fattomene fede, di far pace con voi e di non offendervi mai in cosa nessuna, e voi gli promettete di dargli ogni dì le cose necessarie; ed io v’entro mallevadore per lui che ‘l patto della pace egli osserverà fermamente”. Allora tutto il popolo a una voce promise di nutricarlo continovamente. E santo Francesco, dinanzi a tutti, disse al lupo: “E tu, frate lupo, prometti d’osservare a costoro il patto della pace, che tu non offenda né gli uomini, né gli animali, né nessuna creatura?”. E il lupo inginocchiasi e inchina il capo e con atti mansueti di corpo e di coda e d’orecchi dimostrava, quanto è possibile, di volere servare loro ogni patto. Dice santo Francesco: “Frate lupo, io voglio che come tu mi desti fede di questa promessa fuori della porta, così dinanzi a tutto il popolo mi dia fede della tua promessa, che tu non mi ingannerai della mia promessa e malleveria ch’io ho fatta per te”. Allora il lupo levando il piè ritto, sì ‘l puose in mano di santo Francesco. Onde tra questo atto e gli altri detti di sopra fu tanta allegrezza e ammirazione in tutto il popolo, sì per la divozione del Santo e sì per la novità del miracolo e sì per la pace del lupo, che tutti incominciarono a gridare al cielo, laudando e benedicendo Iddio, il quale sì avea loro mandato santo Francesco, che per li suoi meriti gli avea liberati dalla bocca della crudele bestia. E poi il detto lupo vivette due anni in Agobbio, ed entravasi dimesticamente per le case a uscio a uscio, sanza fare male a persona e sanza esserne fatto a lui, e fu nutricato cortesemente dalla gente, e andandosi così per la terra e per le case, giammai nessuno cane gli abbaiava drieto. Finalmente dopo due anni frate lupo sì si morì di vecchiaia, di che li cittadini molto si dolsono, imperò che veggendolo andare così mansueto per la città, si raccordavano meglio della virtù e santità di santo Francesco. A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.“Fioretti, capitolo XXI
Preghiera:
O Signore, il mondo è pieno di violenza e di guerre, come lo era la società in cui Francesco d’Assisi viveva. La gente spesso vive nella paura e senza speranza per il proprio futuro e quello del suo popolo. Libera, Signore, il mondo dalla guerra, dalla violenza e dalle ingiustizie, concedi a tutti quella pace che tu solo puoi dare. Dona la pace in particolare a quella terra, che tu hai percorso e dove hai annunciato il Vangelo del regno, Tu che sei Dio e vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.
Il memorandum con la Libia si rinnova nel nome di Almasri
Silenzio di morte Il governo tace, l’accordo anti migranti andrà avanti altri 3 anni. Nuove deduzioni alla Cpi per giustificare la liberazione del boia. L’ambasciatore Massari parla di nuove regole per la cooperazione. E cita la questione costituzionale sollevata dai giudici: non ha sbagliato Nordio, era sbagliata la legge
Giorgia Meloni con Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh – foto LaPresse
Mario Di Vito
Si trattava di non fare niente, e il governo è riuscito a svolgere questo compito alle perfezione: oggi si rinnova in automatico il memorandum tra Italia e Libia «sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere».
SCATTA in sostanza la clausola inserita all’articolo 8: le parti possono chiedere di rivedere gli accordi solo in forma scritta e con un preavviso almeno di tre mesi sulla scadenza.
Il patto venne stipulato il 2 febbraio del 2017, si intenderà tacitamente confermato il 2 febbraio del 2026 e oggi è l’ultimo giorno utile per poterlo disdire o modificare. Se ne riparlerà tra tre anni.
Nessuna sorpresa: il dibattito sul memorandum non è esistito in parlamento e nel paese soltanto poche tra associazioni umanitarie e ong hanno provato, vanamente, ad alzare la voce. Dunque la collaborazione continuerà, i lager per migranti in Libia non interromperanno il loro lavoro e la famigerata guardia costiera di Tripoli proseguirà la sua sanguinaria opera di limitazione delle partenze verso le coste italiane. Tutto questo in cambio di soldi, mezzi e addestramento. Un affare.
IERI, intanto, la Corte penale internazionale ha reso pubblica l’ultima risposta di Roma alle domande della prima pre-trial chamber sul caso Almasri, nome simbolo dello stretto rapporto che c’è tra Italia e Libia.
Le due paginette, firmate dall’ambasciatore italiano nei Paesi Bassi Augusto Massari e consegnate all’Aja venerdì, sono l’estremo tentativo di evitare un deferimento di fronte al consiglio di sicurezza dell’Onu per mancata cooperazione giudiziaria.
E i toni, rispetto al passato quando si parlava di «mandato d’arresto confusionario» e si concionava di «interessi strategici» e «sicurezza nazionale», sono molto più bassi.
IL NOSTRO PAESE quasi ammette l’errore fatto con la mancata consegna dell’ex capo della polizia giudiziaria di Tripoli, ricercato per crimini di guerra e contro l’umanità. Scrive Massari: «L’esperienza maturata con il caso Almasri ha portato l’Italia, in tutte le sue articolazioni (parlamento, governo e magistratura), a intraprendere una revisione delle modalità con cui deve operare il sistema di cooperazione delineato dalla legge italiana».
IL RIFERIMENTO è alla decisione presa giovedì dalla Corte d’appello di Roma di sollevare davanti alla Corte costituzionale una questione sulla parte della legge numero 237 del 2012 (quella che regola appunto la cooperazione con la Cpi) in cui si parla di obbligo da parte dell’autorità giudiziaria di interloquire con il ministero della giustizia.
La sponda al governo è evidente: il problema con Almasri – cioè proprio il motivo per cui il 21 gennaio il suo arresto non venne convalidato – risiedeva nel fatto che da via Arenula ( Sede del Min. Giustizia ) nessuno rispose alle sollecitazioni della Corte d’appello di Roma. Che ora dice: in fondo quella parte della legge forse era sbagliata.
Non basta per coprire l’inazione del ministro Carlo Nordio e dei suoi uffici (che nemmeno si sono degnati di interloquire con la Corte dell’Aja), ma i giudici di fatto concedono che la norma era da considerare quantomeno discutibile. Peccato che tutti i più importanti paesi europei prevedono nei casi del genere avvenga un dialogo tra i magistrati e l’esecutivo, che ha sempre l’ultima parola: in Francia il guardasigilli filtra tutte le richieste, in Germania il ministero federale della giustizia ha potere di veto, in Spagna il governo ha facoltà di bloccare tutto per motivi di politica estera, nel Regno Unito il segretario di stato ha il pieno controllo delle procedure.
AD OGNI MODO, Massari assicura che qualcosa stiamo facendo. Di più, l’ambasciatore spiega all’Aja che con il diniego opposto dalla Camera alla richiesta di autorizzazione a procedere contro Nordio, Piantedosi e Mantovano non è affatto un colpo di mano, perché «la magistratura ha il potere di sollevare la questione del conflitto di attribuzione di poteri statali dinanzi alla Corte Costituzionale; inoltre, la questione può essere sollevata senza alcun termine prefissato.La Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibili ricorsi analoghi in diverse occasioni».
Un ricorso c’è già, l’ha presentato a nome di Lam Magok, vittima di Almasri, l’avvocato Francesco Romeo. Ma proprio questa settimana il tribunale dei ministri ha disposto l’archiviazione dei due ministri e del sottosegretario in virtù dello scudo parlamentare.
MASSARI però insiste molto sul punto della libertà d’iniziativa della giurisdizione, e fa presente che esiste anche un’indagine aperta per false informazioni ai pm nei confronti di Giusi Bartolozzi, capa di gabinetto del ministero della Giustizia. «La procura è, ovviamente, indipendente e la durata del procedimento non è in alcun modo prevedibile», argomenta. Nessun accenno ovviamente al clima che si respira in Italia quando si parla di giustizia: ogni decisione presa da un giudice e sgradita al governo diventa casus belli; la premier ormai manco nasconde più che la riforma della separazione delle carriere è una vendetta contro le toghe; chi ha rinviato alla giustizia europea le leggi sull’immigrazione – a ragione, viste le sentenze – è stato additato e oggetto di linciaggio televisivo per mesi e mesi. E pure sul caso Almasri nello specifico non c’è mai stata alcuna vera ammissione di responsabilità da parte dell’esecutivo.
«L’ITALIA rinnova la sua ferma intenzione di collaborare positivamente con la Cpi», scrive Massari prima dei cordiali saluti. Da domani, però. Scordiamoci il passato. Nella speranza che il prossimo criminale internazionale che passa da queste parti non sia un pezzo fondamentale della nostra politica estera come l’ultimo.
Mario Di Vito è cronista giudiziario de “il manifesto”. Per Laterza è autore di Colpirne uno. Ritratto di famiglia con Brigate Rosse (2022) e La pista anarchica. Dai pacchi bomba al caso Cospito (2023).
Il nero dei giorni
Storia del giudice Amato, delle sue indagini e del suo omicidio
Dopo il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, Roma è sconvolta dalla violenza politica. I Nar, i Nuclei armati rivoluzionari di Mambro e Fioravanti, espressione della galassia neofascista, si distinguono per l’efferatezza delle loro azioni e per i collegamenti con i servizi segreti e la banda della Magliana. A indagare su di loro è un magistrato, Mario Amato. Solo e isolato, verrà ucciso, perché aveva intuito molte verità scomode.
Roma, 23 giugno 1980. Il sostituto procuratore Mario Amato sta aspettando sotto casa sua l’autobus che dovrebbe portarlo al lavoro, in tribunale. La macchina è rotta, la scorta non è disponibile e lui non può fare altro che servirsi dei mezzi pubblici.
All’improvviso un ragazzo si avvicina a lui, gli punta una pistola alla testa e apre il fuoco. Amato muore così, in mezzo alla strada, da solo. A sparare è stato Gilberto Cavallini, mentre il suo complice, il giovanissimo Luigi Ciavardini, lo attende a bordo di una moto. I due fanno parte dei Nuclei armati rivoluzionari, la formazione terroristica di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro che sta mettendo a ferro e fuoco Roma tra omicidi efferati, rapine e loschi traffici.
Su queste vicende Amato stava indagando, intuendo quella che lui stesso definì «una verità d’assieme». In procura però era isolato, i suoi capi lo ignoravano e alcuni colleghi addirittura cercavano di delegittimarlo e di sabotare il suo lavoro.
Mettendo insieme la biografia di questo sostituto procuratore e la storia delle sue indagini, andate avanti anche dopo la sua morte, il libro segue il percorso del filo che collega la lotta armata nera degli anni ’70 ai giorni nostri, tra personaggi ricorrenti, legami indissolubili e uno spirito che continua ad abitare le istituzioni ai suoi livelli più alti.
Secondo una prima ricostruzione, una parte della struttura in muratura si sarebbe staccata durante le operazioni di intervento, travolgendo parte delle impalcature e causando il cedimento di alcune porzioni del ponteggio. Gli operai presenti hanno subito dato l’allarme e diversi testimoni hanno riferito di aver udito un forte rumore, seguito da una nuvola di polvere che ha invaso la strada.
Steve Cutts è un illustratore e animatore attivista con sede a Londra, Inghilterra. Le sue opere d’arte fanno satira sugli eccessi della società moderna. Il suo stile si ispira ai cartoni animati degli anni ’20 e ’30, così come ai fumetti moderni e alle graphic novel.
Il mondo musicale della chitarrista francese Isabelle Laudenbachè vasto. Appassionata di flamenco, è stata la prima a diplomarsi in chitarra flamenca presso l’ESMUC – Escola Superior de Música de Catalunya. Oltre al flamenco, la sua curiosità la porta ad interessarsi a molti stili, dalla musica brasiliana al pop, passando per il folklore sudamericano, la canzone francese o la musica classica. Il suo linguaggio, sia negli arrangiamenti che nella composizione, si nutre naturalmente di queste influenze, sempre aperto a nuove sonorità e tecniche. È stata membro e fondatrice del gruppo Las migas, con il quale ha registrato due album e tenuto centinaia di concerti in Spagna e all’estero. Dal 2017 fa parte del progetto di flamenco sperimentale LaboratoriA, con il quale ha presentato gli spettacoli Una mujer fue la causa e Y perdí mi centro . Accompagna regolarmente la cantante catalana Maria Rodés e tende a muoversi in progetti interdisciplinari (teatro, circo, danza, poesia, colonne sonore).
Isabel Vinardellè una ballerina e cantante instancabile, che si dedica professionalmente al mondo della musica e della danza dal 2001 e che ha calcato i palchi di molti angoli del mondo con diverse formazioni della scena musicale. Ha registrato tre album con Cheb Balowski, che hanno avuto tournée internazionali. Ha collaborato con artisti come Calima o Morosito, ha partecipato a videoclip di Ojos de Brujo o DjVadim e il suo progetto musicale Alkut è stato selezionato da Rubén Blades nel Rubén Blades Show. Ha coreografato e partecipato a diversi spettacoli e spettacoli acquatici come Fonts Bessones in Plaça de Catalunya.
Nel suo intervento al forum “L’Europa di domani”, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio nell’ambito dell’incontro internazionale “Osare la pace” (Roma, 27 ottobre 2025), Lucio Caracciolo riflette sul ruolo smarrito dell’Europa nella costruzione della pace e sulla necessità di riscoprire l’arte del dialogo e della diplomazia. Un’analisi lucida sul presente geopolitico del continente, tra crisi identitaria, dipendenza americana e transizione dell’ordine mondiale.
TAG 24 — video, 8.00 min.
Prof. Canfora : la diagnosi ::: L’Europa è in coma
Netanyahu, ‘video carcere è il peggior danno d’immagine per Idf’.
Premier a riunione se la prende per la sua divulgazione.
La pubblicazione del video sugli abusi nel carcere israeliano di Sde Teiman “ha arrecato danni immensi all’immagine dello Stato d’Israele e delle Forze di Difesa Israeliane (Idf), ai nostri soldati.
Forse si tratta dell’attacco d’immagine più grave che lo Stato d’Israele abbia subito dalla sua nascita.
Non ricordo nulla di altrettanto mirato e intenso”.
Così il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, secondo una nota ufficiale pubblicata sul sito del governo israeliano, ha commentato, all’apertura della riunione di governo, la divulgazione del video di sorveglianza sui gravi maltrattamenti subiti da un detenuto palestinese, diffuso da quella che era la principale avvocata dell’esercito, il maggiore generale Yifat Tomer-Yerushalmi.
“Questo richiede un’indagine indipendente e imparziale, e mi aspetto che venga compiuta”, ha detto.
Yifat Tomer-Yerushalmi si è dimessa in seguito al congedo forzato imposto dal ministro della Difesa Israel Katz. Si è dichiarata responsabile della diffusione delle clip ai media.
Fece uscire un video sugli abusi dei soldati israeliani su un detenuto palestinese: silurata dall’Idf
Si è dimessa, dopo giorni di sospetti, accuse e indiscrezioni, con una lettera consegnata al capo di stato maggiore Zamir in cui si assume la responsabilità per la fuga di notizie che ha svelato gli abusi su un detenuto palestinese da parte di cinque riservisti. Parliamo dell’ormai famigerato video, mandato in onda da Channel 12 nell’agosto 2024, in cui si vedono i militari mentre circondano il prigioniero a Sde Teiman, carcere militare nel deserto del Negev, lo sottopongono a pestaggi e violenze. Il Jerusalem Post, quotidiano vicino alla destra israeliana e non sospettabile di antipatie per le Forze armate, scrive che «secondo quanto riportato» nelle carte dell’inchiesta ancora in corso, tre le accuse c’è anche quella di violenza sessuale: «il detenuto presentava gravi lesioni interne, tra cui costole rotte e lacerazione rettale».
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Il ministro della Difesa Katz si è scagliato contro l’avvocato militare rea di calunniare l’esercito, ma secondo la stampa israeliana le accuse contro i cinque riservisti si basano su prove solide. Semmai, scrive il giornalista di Haaretz Amos Harel, «i critici sostengono che Tomer-Yerushalmi e il suo team abbiano mostrato troppa poca determinazione durante la guerra nell’indagare su ulteriori sospetti di crimini di guerra e abusi nei centri di detenzione e a Gaza».
Sde Teiman è una base militare nel deserto del Negev che è stata trasformata in un centro di detenzione durante il conflitto, ci finiscono i palestinesi arrestati in «detenzione temporanea» anche senza un ordine del tribunale. Diverse inchieste di stampa hanno denunciato abusi e violenze nella base, con i detenuti bendati, picchiati, lasciati senza cure mediche adeguate.
L’avvocato militare verrà rimpiazzato ma il caso può avere ripercussioni più ampie perché Tomer-Yerushalmi è stata il legale dell’esercito israeliano durante tutta la guerra a Gaza e aveva in carico la difesa dell’Idf dalle accuse per presunti crimini di guerra presso la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte Penale Internazionale.
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Il Washington post ha diffuso in esclusiva i contenuti di un rapporto riservato dell’Ispettore generale del dipartimento di Stato Usa: rivela che unità militari israeliane a Gaza avrebbero commesso “centinaia” di potenziali violazioni della legge americana sui diritti umani, la Leahy, storica legislazione che vieta agli Stati Uniti di fornire supporto di sicurezza a eserciti stranieri che si macchino di gravi violazioni dei diritti umani.
Reddito disponibile reale Italia nel 2024 inferiore al 2008.
Eurostat, meglio solo di Grecia. Ancora quattro punti in meno
Redazione ANSA
Il reddito disponibile lordo reale pro capite delle famiglie in Italia nel 2024 era in leggera crescita sul 2023 ma ancora inferiore a quello del 2008, unico caso in Europa insieme alla Grecia.
E’ quanto emerge dal Report Eurostat appena pubblicato sui redditi reali secondo il quale fatto 100 il 2008 l’Italia nel 2024 si attesta per il reddito disponibile delle famiglie a 95,97 a fronte del 114,29 dell’Ue a 27 e del 109,40 dell’area euro.
In Germania l’indice nel 2024 è salito al 116,20, in Francia al 113,45 e in Spagna al 103,94.
Tino (in grecoΤήνος?, Tinos) è un’isola greca del Mar Mediterraneo appartenente all’arcipelago delle Cicladi vicino alle isole di Andro, Delo e Micono. Dal punto di vista amministrativo è un’unità periferica nella periferia dell’Egeo Meridionale costituita unicamente dal comune omonimo con una popolazione di 8 636 abitanti al censimento 2011.
A differenza della sua rumorosa vicina Mykonos, questa tranquilla isola è nota per i suoi rilassati bar-caffetteria, le cene in taverna e gli antichi sentieri che collegano splendidi villaggi. E le sue chiese dalle cupole e campanili blu cielo
A Tinos ci sono attualmente più di 600 piccionaie, anche se è probabile che ne siano state costruite più del doppio.
Si stima che la piccionaia sia comparsa a Tinos durante il periodo veneziano (1207-1715), anche se la prima testimonianza scritta di una piccionaia è legata a un patto stipulato da un ecclesiastico nel 1726.
I piccioni, che fornivano carne e fertilizzante, erano il principale prodotto di esportazione di Tinos quando il commercio iniziò a prosperare. Con l’arrivo dei Veneziani sull’isola furono costruite le prime colombaie e iniziò l’allevamento sistematico di piccioni.
Il luogo adatto per una piccionaia deve essere riparato per garantire protezione, aperto per favorire il volo libero dei piccioni e vicino a una fonte d’acqua.
Le colombaie sono edifici composti da due piani. Al piano inferiore si trovano i locali ausiliari (magazzini) e al piano superiore si trovano i piccioni.
Gli artigiani di Tinia utilizzavano l’ardesia come materiale da costruzione e la piccionaia come tela su cui imprimere eccellenti esempi di arte popolare e il loro personale punto di vista architettonico.
I lati decorati, che si trovano in prossimità dei piccioni, non sono mai rivolti a nord e presentano ricami che ricordano la pietra. Quadrati, triangoli, cerchi, rombi, soli, fiori, iniziali del proprietario o del fabbricante, sono alcuni dei motivi intagliati che rendono unica ogni piccionaia.
La colombaia era simbolo di nobili origini e potere economico. In passato, i diritti di proprietà e di utilizzo delle colombaie appartenevano ai signori veneziani. Dal 1715 in poi, quando Tinos fu occupata dai turchi, il diritto di proprietà e di utilizzo passò ai proprietari terrieri di Tinos.
TESTO E ULTIMA IMMAGINE ( DETTAGLIO ) SONO DEL LINK:
Greece, Cyclades islands, Tinos, Church near Aetofolia
La chiesa vicina a Aetofolia ( = nido d’aquila ), villaggio poco conosciuto di Tinos, che si trova a 7 km dalla costa
Una casa del villaggio di Aetofolia
un’altra
che faccino buono…
Il nome del villaggio Aetofolia deriva dal luogo in cui si trova, poiché è come un nido costruito in alta montagna. Dopo l’insediamento di artisti provenienti da Sifnos (Cicladi), divenne un centro della ceramica. La chiesa di Ag. Ioannni, che domina il villaggio, fu costruita nel 1819. Nel villaggio si trova un Museo della ceramica tradizionale e dell’arte popolare.
Le zone circostanti “Tis Koris o Pyrgos”, “Ellinikaria”, “Kammeni Spilia”, oltre alla loro bellezza fisica, sono associate a varie versioni di leggende popolari- Secondo la tradizione, nel “Pyrgos di Kori” viveva Persefone, figlia di Demetra, la mitica dea
Tino costituisce una importante meta del turismo religioso grazie ad un santuario ove è custodita un’immagine della Madonna cui sono attribuite proprietà taumaturgiche. L’isola si è guadagnato l’appellativo di “Lourdes dell’Egeo” essendo frequenti nel mese di agosto i pellegrinaggi di devoti ortodossi provenienti da ogni parte della Grecia. Per il resto Tino rimane ancora relativamente fuori dalle rotte battute del turismo di massa, fatto che è stato apprezzato da una cerchia di artisti e intellettuali greci da sempre assillata dal problema di godersi le vacanze in un angolo tranquillo del proprio paese e il più lontano possibile dalle “orde” di turisti europei e americani che ogni anno invadono le isole dell’Egeo con tavole da surf e armatura da subacqueo al seguito.
La scoperta della sacra icona nel 1823 fu considerata un presagio divino per la giusta causa e il successo della rivoluzione contro il giogo turco, mentre la costruzione del maestoso tempio fu la prima grande opera architettonica del nuovo stato greco.
Siamo nel mezzo della battaglia per l’indipendenza greca contro i turchi ottomani, nel 1822.
A Tinos c’è una ormai anziana suora di nome Pelagia, la quale ha preso i voti più di cinquant’anni prima, quando suo padre morì. Con sé al monastero portò la dote del campo che la sua famiglia utilizzava per la sussistenza finché era bambina.
Una mattina del luglio 1822, le appare in sogno una donna di bellezza incommensurabile, la quale le chiede esplicitamente di volere che tutti gli isolani le costruissero una degna dimora.
Specificò anche chi doveva essere a portare avanti il lavoro e dove la voleva. Ma Pelagia, pensando che fosse il diavolo a tentarla, lasciò perdere il sogno.
Sette giorni dopo, la stessa cosa accade.
Pelagia lascia ancora perdere.
Accade una terza volta.
A questo punto la bellissima donna si fa riconoscere come la Vergine Maria e soprattutto minaccia una punizione tremenda nel caso in cui non venisse ascoltata.
Pelagia quindi va dall’abate che capisce subito che non c’è tempo da perdere e ordina l’inizio dei lavori. Il problema però è che il terreno identificato è di proprietà di un tiniota temporaneamente a Costantinopoli, quindi i lavori cominciano in ritardo.
I primi scavi rivelano l’esistenza di una chiesa paleocristiana e di una fonte.
I tempi erano assai complicati: in questo periodo, una nave da Instanbul porta con se una malattia che si allarga a macchia d’olio tra la popolazione, specialmente tra le migliaia di fuggitivi dal Massacro di Chios e dall’Asia Minore.
Ma i locali non si danno per vinti e, a fine gennaio 1823, riprendono gli scavi.
Il 30 gennario 1823, trovano proprio l’icona intatta della Panagia Evaggelistria (letteralmente, l’Annunziata).
Giorno che da quel momento è ovviamente diventato il prescelto per la celebrazione annuale.
nel link sotto prosegue la storia con i Fanarakia :
” La tradizione dei Fanarakia che si svolge a Tinos proprio il 30 gennaio di ogni anno”.
Tinos è famosa per i suoi villaggi. È l’unico caso di un’isola delle Cicladi e forse della Grecia ad avere più di quarantacinque villaggi, tutti insediamenti tradizionali rimasti invariati nel tempo, nel rispetto assoluto dell’architettura tradizionale. Il tour nell’entroterra dell’isola e la scoperta dei segreti di ogni villaggio è un’esperienza unica per il visitatore di Tinos.
Il tipico villaggio di Tinos …
La maggior parte dei villaggi è stata fondata in epoca medievale o bizantina. Sono rimasti inalterati e visitarli rappresenta per il viaggiatore un breve viaggio nel tempo.
Costruite sui pendii sottovento per proteggere i residenti dal vento, nascoste o arroccate sulle montagne per tenere lontani i pirati, spesso assomigliano a fortezze. Le case, costruite una accanto all’altra, “tagliano” il vento e uniscono le persone. Imbiancate e semplici, seguendo lo stile minimalista delle Cicladi, riflettono lo stile di vita puramente autentico del villaggio di Tinos.
La piazza, la fontana, i portici, gli archi, i vicoli, i sentieri acciottolati, le scale di marmo, tutti elementi comuni dei villaggi, sono opere artigianali e un caso di studio per gli architetti moderni.
GLI ARCHITRAVI DI TINOS
Gli architravi di Tinos…
Gli architravi (lucernari o fototiridi) sono elementi molto comuni negli edifici tradizionali di Tinia.
Collocati sopra porte e finestre, oltre alla loro funzione di migliorare l’illuminazione e la ventilazione della casa, sono rappresentativi dell’alto livello dell’arte popolare dell’isola.
Realizzati in marmo, sono solitamente semicircolari e i loro motivi variano. Pesci, uccelli, barche, barche a vela, fiori sono alcuni dei motivi più comuni. Le insegne sui portoni delle case dei funzionari veneziani e di altre famiglie benestanti erano elementi indicativi di potere e prestigio.
A seconda dell’epoca, presentano elementi dello stile bizantino o veneziano, dai quali sono stati influenzati i moderni artigiani del marmo.
Secondo la tradizione popolare, impediscono ai demoni di entrare in casa.
La casa tradizionale di Tinos è semplice, sobria e funzionale.
La tipica casa di Tinia aveva due piani con una scala esterna. Il piano terra (seminterrato) ospitava i servizi, come il torchio, il magazzino, il forno o la stalla. Al primo piano (piano superiore) si trovavano il salotto con il camino, le camere da letto e la cucina.
Internamente, gli archi collegano le pareti interne e distribuiscono il peso del tetto, poiché non sono state utilizzate travi di sostegno in legno. Le nicchie nelle pareti fungono da vani portaoggetti.
Le pareti esterne sono bianche (nel Medioevo, le pareti mantenevano il colore della pietra, una sorta di mimetizzazione, per non far sì che le case risultassero facilmente individuabili dai pirati). Le porte e le finestre sono prevalentemente dipinte di blu, con traversi decorativi, lucernari e targhe in rilievo.
Il cortile antistante la casa non è mai rivolto a nord. È pavimentato e decorato con vasi di basilico e altre erbe aromatiche, con staccionate in pietra e tavoli in marmo.
LE FONTANE
La fontana tradizionale dell’isola di Tinos…
Secondo una teoria, il soprannome dell’isola “Hydrousa” deriva dall’abbondanza di acque e sorgenti che vi si trovavano in passato.
Sull’isola ci sono 86 fontane, costruite per la maggior parte nel XVIII e XIX secolo.
Quelle all’aperto erano destinate a fornire acqua a interi insediamenti di case, chiese e monasteri, mentre quelle riparate venivano utilizzate per abbeverare i campi, il bestiame o per lavare tappeti e vestiti.
Le Xinaria sono decorazioni in marmo, situate attorno al punto in cui sgorga l’acqua, raffiguranti fiori, frutta, uccelli, pesci, ecc., e i cui temi si basano sulla tradizione e sulla religione.
Il profondo sentimento religioso è evidentemente rappresentato sulle fontane. Icone e candele sono collocate ai lati delle fontane affinché la Vergine Maria benedica l’acqua.
Fontane elaborate si trovano in tutta l’isola, nella chiesa di Panagia, nei villaggi di Pyrgos, Ysternia, Agapi, Arnados, Volax.
TUTTA L’ULTIMA PARTE (da : I villaggi di Tinos alle fontane, e forse altro che mi sfugge.. ) E’ DEL BELLISSIMO LINK ” TINOS SEGRETA ” dove trovate altro +++
MAPPA DELLE CICLADI CON I NOMI DELLE ISOLE — NEL MAR EGEO- GRECIA
Questo arcipelago è composto da circa 220 isole e isolotti di varie dimensioni sparsi nel mar Egeo, di cui 24 abitate, avvolte da un incantesimo che rimane indelebile nella mente dei viaggiatori che le hanno scoperte.
Sarà per la particolare luce che le avvolge, per il candore delle case bianche o per il blu delle cupole delle chiese, per le romantiche stradine piene di fiori e di vita o per il divertimento che suscita l’intensa vita notturna… esplorare le Cicladi è sicuramente un viaggio da sogno.
Perché queste isole si chiamano così? Le Cicladi — il cui nome deriva dalla parola greca κύκλος ( cerchio, anello )— sono il gruppo centrale di isole del Mar Egeo, così chiamate per il modo in cui sembrano essere disposte in circolo intorno all’isola sacra di Delos, patria degli dei Apollo ed Artemide e antico centro politico e religioso dell’Egeo.
Idealmente possiamo suddividere le Cicladi in quattro aree principali:
Vediamo qualcosa di più su queste meravigliose isole:::
Kea
L’isola greca di Kea, conosciuta dai greci anche come Tzia, è una delle più settentrionali delle Cicladi e più vicina all’Attica, collegata con traghetti giornalieri dal porto di Lavrio in circa un’ora. Nell’architettura e nel paesaggio è piuttosto diversa dalle altre Cicladi, ma può vantare un ambiente naturale unico nel suo genere, splendide spiagge, panorami emozionanti e una ricca tradizione storica.
Il villaggio di Ioulida al centro dell’isola di Kea.
La breve distanza da Atene la rende facilmente accessibile durante tutto l’anno, per tanti ateniesi e anche altri viaggiatori che possono passare anche solo un fine settimana in una bella isola, senza allontanarsi troppo, ma è perfetta anche per vacanze più lunghe.
Andros
Andros è l’isola più settentrionale delle Cicladi e la seconda più grande, dopo Naxos, con una superficie di 380kmq. Grazie alla sua breve distanza dall’Attica e alla sua grande diversità, è un’isola adatta a tutti, dove rilassarsi e divertirsi, nuotare nelle bellissime spiagge ma trovare anche un lato spirituale in chiese, monasteri e una vasta natura.
Il villaggio di Chora Andros sulla costa orientale dell’isola.
Ha innumerevoli spiagge meravigliose, alte montagne, molte gole, piccole valli fluviali, vigneti, boschi, sorgenti termali… è un’isola di grandi constrasti che combina il paesaggio più arido delle Cicladi con una ricca vegetazione e tanti corsi d’acqua.
Tinos
Tinos è una delle isole greche più incantevoli, con belle spiagge sabbiose, villaggi tradizionali e l’architettura minimalista delle Cicladi a creare un’atmosfera unica che non manca mai di affascinare i viaggiatori.
L’isola di Tinos in Grecia.
Ma Tinos ha anche una particolare aurea spirituale, profondamente rilassante, è una delle mete di pellegrinaggio più frequentate perché ospita il santuario di Panagia Evangelistria che ogni anno richiama migliaia di fedeli da tutta la Grecia per adorare l’icona miracolosa della Vergine Maria. Ma oltre al suo cuore spirituale e religioso, in questa bellissima isola ci sono tante cose da fare per divertirsi.
Kythnos
Kythnos è un’isola nelle Cicladi occidentali situata tra Serifos e Kea. I suoi abitanti la chiamano anche Thermia per le sorgenti termali, conosciute da secoli, che si trovano nella baia di Agia Irini e Loutra e che attirano molti visitatori.
La striscia di sabbia dorata della spiaggia di Kolona, in uno stupendo scenario paesaggistico a Kythnos.
La maggior parte dei visitatori, naturalmente, viene sull’isola per le sue magnifiche spiagge sabbiose come quelle di Agios Sostis, Simousi o Kolona, che ha un sorprendente paesaggio naturale. Kythnos, isola della semplicità, è ancora un piccolo paradiso poco esplorato, con solo due villaggi, Chora e Dryopida, oltre a tre principali località balneari.
Syros
Syros si trova nel cuore delle Cicladi di cui è il centro amministrativo, commerciale, intellettuale e culturale, circondata da tante altre isole e raggiungibile in non più di 4 ore di traghetto dal porto del Pireo.
Ermoupoli, il suo capoluogo, è conosciuta come “la signora del Mar Egeo” ed è costruita ad anfiteatro sulle colline che circondano il suo porto. La sua architettura testimonia la storia dell’isola dai tempi antichi fino ai giorni nostri, combinando magistralmente il classico con il moderno.
La bellissima Ermoupoli, capoluogo dell’isola greca di Syros.
La parte settentrionale e montuosa di Syros è chiamata Apano Meria, con uno splendido paesaggio roccioso costellato di grotte sulla costa, mentre le pianure delle parte meridionale ospitano la maggior parte dei villaggi e delle spiagge dell’isola, con un turismo molto sviluppato e infrastrutture con ogni servizio e comfort.
Nel bel mezzo del Mar Egeo, Mykonos è probabilmente la più conosciuta delle isole Cicladi. Ha un’atmosfera multiculturale ed un aspetto pittoresco, che non richiama solo i più giovani alla ricerca di divertimento, ma viaggiatori di ogni età interessati anche alla bellezza dei suoi paesaggi ed al patrimonio storico e culturale offerto da siti archeologici e musei.
Mykonos in Grecia.
Di giorno stupisce con i suoi 80 km di spiagge e insenature spettacolari, il mare blu e l’architettura di una miriade di casupole cubiche e bianchissime. Dopo il tramonto invece si trasforma nella regina delle notti greche, perla mondana delle Isole Cicladi e paradiso del divertimento.
Delos e Rhenia
Delos e Rhenia sono due piccole isole disabitate a breve distanza da Mykonos, da cui partono sempre dei tour per poterle visitare. Anticamente le due isole erano molto importanti per il culto religioso, per questo oggi offrono un immenso patrimonio archeologico da visitare, con antichi templi greci in un paesaggio intatto, rovine archeologiche e qualche piccola chiesetta molto pittoresca.
Scavi archeologici e templi sull’isola di Delos, vicino Mykonos.
Una gita in barca verso queste isole permette anche di fare il bagno su spiagge incontaminate e solitarie, in un paesaggio naturale ancora inviolato.
La piccola isola di Serifos si trova nell’arcipelago delle Cicladi, ma non è ancora invasa dal turismo di massa, riuscendo perciò a mantenere il suo aspetto autentico, con le strade non asfaltate ed il silenzio, pur avendo molti posti da visitare durante una vacanza.
Vista di Chora a Serifos, in Grecia.
Di spiagge ce ne sono tante e possono accontentare ogni preferenza, ma anche posti affascinanti da vedere per non limitare la propria vacanza esclusivamente al suo mare da sogno: siti archeologici, monasteri, fortezze e pittoreschi mulini a vento sparsi un po’ per tutta l’isola.
Sifnos
La combinazione di splendidi paesaggi delle Cicladi, pittoreschi villaggi bianchi, straordinarie prelibatezze locali e ricchi monumenti storici fanno dell’isola di Sifnos una destinazione di vacanza ideale per la maggior parte delle persone.
L’incantevole isola greca di Sifnos, meraviglia delle Cicladi.
Né troppo grande né troppo piccola, è un’isola caratterizzata da grazia e raffinatezza. Il cibo a Sifnos è un ottimo motivo per visitare l’isola tutto l’anno, non solo perché è meraviglioso, ma perché ogni stagione ha le sue prelibatezze e ricette. Sifnos è anche un paradiso per gli amanti della natura, con un’enorme rete di sentieri per chi ama le escursioni, scavi storici e archeologici, perfetta anche per gli appassionati di immersioni e sport acquatici.
Paros si trova nel cuore del Mar Egeo e appartiene al popolare gruppo di isole greche delle Cicladi, è una miscela di architettura tradizionale cicladica, vivace vita notturna, spiagge magiche, affascinanti villaggi rurali e monumenti storici.
L’isola greca di Paros nelle Cicladi centrali.
La vicina e piccola isola di Antiparos non è solo una destinazione eccellente per escursioni di un giorno da Paros, ma anche una meta ideale per una vacanza rilassante. Antiparos è famosa per le sue spiagge prevalentemente sabbiose e le acque cristalline, la maggior parte si trova a pochi passi da Chora, il piccolo capoluogo locale.
L’isola di Naxos è la più grande delle Cicladi in Grecia, ha innumerevoli calette rocciose nascoste, ma anche grandi spiagge con la sabbia fine in cui lasciarsi meravigliare dal Mar Egeo.
La meravigliosa costa marina di Naxos in Grecia.
In questa isola greca è facile respirare storia e mitologia, imbattersi in siti archeologici, tempi, castelli e monumenti storici di diverse epoche da visitare. Ogni angolo di quest’isola è diverso da quello vicino, per questo vale la pena visitarla il più possibile, scoprirne i luoghi e le tante spiagge dove trascorrere una magnifica vacanza.
Iraklia
Iraklia appartiene al gruppo insulare delle Piccole Cicladi e dista circa sei ore di traghetto dal Pireo. È un posto speciale per chi cerca tranquillità, la semplicità della vita dell’isola e zero stress. Quando scendi dal traghetto ti dimentichi del tempo e di tutto il resto, l’unica cosa da fare è abituarti alla sua bellezza senza pari, con la luce delle Cicladi che si diffonde ovunque.
La tranquillità e la bellezza semplice di Iraklia, nelle Piccole Cicladi.
Ha bellissime spiagge con acque turchesi, poiché fa parte della rete Natura 2000 è anche un santuario degli uccelli selvatici, comprende otto sentieri numerati e ha la settima grotta più grande della Grecia.
Schinoussa
Schinoussa è una delle piccole isole più belle dell’Egeo, nel complesso delle Piccole Cicladi, e fa parte del programma Natura 2000, poiché ospita molte piante endemiche ed è un’importante stazione migratoria per molti uccelli.
Il panorama dal villaggio di Schinoussa verso il mare.
Ha una superficie di soli 9kmq con due villaggi, Chora e Messaria, con meno di 300 abitanti che si occupano di agricoltura, pesca e turismo. Il paesaggio dell’isola ha basse colline verdi e piccole valli tra loro, molte spiagge dalla sabbia dorata e possibilità di escursioni che la rendono una destinazione ideale nelle Cicladi per tanti viaggiatori.
Koufonissi in realtà è costituita da due piccole isolette, Ano Koufonissi e Kato Koufonissi, e diversi altri isolotti nel cuore delle Piccole Cicladi greche. Sta gradualmente diventando una destinazione più popolare tra i viaggiatori, principalmente greci, soprattutto fra chi cerca una vacanza alternativa, come i campeggiatori che si accampano sulle spettacolari spiagge dell’isola.
La bellezza della costa dell’isola di Ano Koufonisi.
A Koufonissi si respira un’atmosfera rilassata e autentica, sembra quasi di fare una vacanza in Grecia come una volta, tra meravigliose spiagge tranquille e un paesaggio naturale senza pari circondato dall’Egeo. Nelle isolette vicine non mancano importanti siti archeologici di epoca Cicladica.
Nell’arcipelago delle isole Cicladi, Amorgos è la più orientale, quasi interamente montagnosa, dal paesaggio aspro che si addolcisce sul versante meridionale, dove si possono trovare valli coltivate e spiagge da sogno con sabbia finissima.
Le spiagge nella magnifica baia di Kalotaritissa ad Amorgos.
Amorgos è la destinazione perfetta per chi cerca tranquillità e bellezza delle natura, sia lungo la costa che nell’entroterra. L’isola è disseminata di chiese, monasteri, mulini a vento, mentre le sue spiagge dal mare blu intenso sono tra le più belle che si possano trovare in Grecia.
Milos è una piccola isola vulcanica delle Cicladi che richiama l’attenzione in maniera particolare per il suo paesaggio naturale, formato da montagne colorate che fanno da sfondo alle attraenti spiagge di acqua calma e cristallina.
Milos, isole greca delle Cicladi.
Milos è un’isola ricca di storia e mitologia, piena di musei e monumenti da vedere (catacombe, un teatro romano, tanti siti archeologici) ma è famosa anche per le sue spiagge uniche e spettacolari, con baie incredibili che creano spiagge rocciose di origine vulcanica, circondate da scogliere in un paesaggio indimenticabile, ma anche belle spiagge di sabbia bianca.
Kimolos
A un passo da Milos, da cui è separata solo da uno stretto tratto di mare, Kimolos è un’isola molto meno mondana e decisamente autentica, dove gli abitanti dell’unico villaggio chiamato Chorio si occupano in prima persona di ogni aspetto della propria isola. Altre piccole località si trovano lungo la costa, ma sono abitate quasi esclusivamente d’estate.
Panorama sul porto di Kimolos da un appartamento per vacanze.
Kimolos è ricca di cavità naturali ed è conosciuta fin dai tempi antichi per le cave di gesso da cui deriva il suo nome, che ancora oggi impegnano i pochi abitanti locali; questo materiale è utilizzato per il bianco delle case, delle strade e di tutta l’architettura, insieme al blu tipico delle Cicladi.
Folegandros
Folegandros è un’isola di incredibile bellezza naturale situata tra Milos e Sikinos, a breve distanza anche da Santorini. Nonostante la sua vicinanza ad altre isole più popolari, mantiene ancora uno stile di vita diverso ed un fascino quasi vergine.
Folegandros è un gioiello greco poco frequentato.
Folegandros ha l’architettura tradizionale delle Cicladi, con i villaggi costituiti da piccole case bianche che sembrano ammassate una sull’altra, vicoli stretti e finestre colorate, dove ogni angolo sembra una cartolina delle Cicladi. Nel punto più alto dell’isola si trova la chiesetta di Panagia, ma non mancano tante viste mozzafiato sul Mar Egeo, con un mare blu in cui perdersi.
Sikinos
L’isola di Sikinos è una delle Cicladi meridionali situata tra Folegandros e Ios, con una superficie di 416kmq e poco più di duecento abitanti residenti. La parte meridionale dell’isola è più pianeggiante, mentre il nord-ovest su cui si trova il capoluogo omonimo arriva a circa 280 metri sul mare.
Panorama sull’Egeo dal monastero Zoodochos Pigi di Sikinos.
La città di Sikinos è un eccellente esempio di architettura cicladica con al centro la chiesa di Pantanassa. Molto interessanti da vedere il castello, il monumento funerario romano dalla facciata monumentale del II secolo e le spiagge ideali per viaggiatori alla ricerca di una vacanza tranquilla.
L’isole greca di Ios è un piccolo gioiello nel Mar Egeo, nell’arcipelago delle Cicladi, che non ha nulla da invidiare ad altre isole vicine più conosciute: spiagge, scogliere e calette con splendide acque turchesi, oltre ad una vivacissima vita notturna.
Chora, il capoluogo dell’isola cicladica di Ios.
Nella piccola Ios non mancano i divertimenti per i più giovani, ma questa pittoresca isola ha saputo preservare la sua essenza e il suo carattere tradizionale, ha molto da offrire anche a chi cerca un posto per rilassarsi e godersi una vacanza in questo piccolo paradiso della Grecia.
Santorini è una delle isole più belle delle Cicladi ed è considerata una delle località turistiche più importanti del mondo, quindi è meta di migliaia di viaggiatori ogni anno. È rinomata per la sua magnifica Caldera, le sue spiagge colorate, le sue inestimabili antiche attrazioni, la sua vita notturna e il suo magnifico tramonto.
Santorini è la meta perfetta per una vacanza romantica o la luna di miele.
A Santorini troverai spiagge uniche, scogliere rocciose di origine vulcanica, tutta la bellezza che un luogo così celebre può offrire, anche per questo è una delle mete più romantiche che ci siano al mondo. Quasi infinite le possibilità per chi decide di trascorrere qui una vacanza o un breve viaggio, nel blu cobalto delle sue cupole, del cielo e del mare.
Anafi
Anafi è una piccola isola ad est di Santorini, un luogo sereno, ideale per chi cerca tranquillità, spiagge idilliache con acque cristalline e sentieri escursionistici.
Anafi, un’immagine tipicamente greca con la chiesetta sul mare.
I viaggiatori sono attratti dal bianco abbagliante della sua architettura tradizionale, gli interessanti siti archeologici, i monasteri, le cappelle di campagna e naturalmente le magnifiche spiagge.
TUTTO IL TESTO E LE FOTO SOPRA SULLE ISOLE CICLADI SONO ( ripeto ) DA QUESTO LINK:
Giuseppe Arcimboldi, Autoritratto cartaceo (1575)
Grafite e inchiostro su carta, 23,1 × 15,7 cm;
Praga, Národní Galerie)
GIUSEPPE ARCIMBOLDI E LE SUE BUGIE
AUTORITRATTO
Era nato bugiardo, non ci poteva fare nulla, anzi nessuno ci poteva fare nulla. Era nella sua natura e se non avesse potuto dire bugie si sarebbe ammalato o qualcosa di peggio. Già nella pancia di sua madre si era provato a dire bugie : lui si girava da una parte e, mentre sua madre, estatica, diceva al padre: ” Guarda come il nostro piccolo muove i piedini”, lui in realtà muoveva i pollici delle mani. Appena nato sputò il latte materno,” per una incompatibilità congenita”- dissero i pediatri. In realtà era lui che fingeva di non volere quel latte naturale per attirare su di se’ l’attenzione e per gustare altre prelibatezze. Non crediate che lo facesse con malizia: lo faceva perché così gli veniva e non avrebbe concepito un modo di vivere diverso: troppo noioso. All’asilo vi fu solo una maestra che lo capì a fondo: lei si limitava ad interpretare al contrario quello che lui diceva e tutto filò meravigliosamente. Le scuole successive furono più dolorose, soprattutto con quegli insegnanti che la mettevano sul piano morale e non capivano il lato puramente creativo delle sue menzogne. Avevano un gran spiegare i suoi genitori di come le sue bugie fossero innocenti: non c’era verso che quei noiosi vedessero il lato paradossalmente giocoso di quelle storie e inchiodavano il piccolo bugiardo alle proprie responsabilità. Finalmente si concordò tra scuola e famiglia una soluzione: si sarebbe interpretato il contrario di quello che l’incorreggibile Pinocchio avesse detto o scritto: se diceva a casa che gli insegnanti lo avevano interrogato, voleva dire che nessuno gli aveva chiesto niente, se diceva che non aveva avuto verifiche era perché ne aveva fatto almeno due nella mattinata. Insomma, non era facile vivergli accanto. I genitori si erano fatti una lista dei contrari e la consultavano quando erano un po’ incerti nella decifrazione. Pinocchio ( ormai tutti lo chiamavano affettuosamente così e lui non se ne dispiaceva) diceva che la nonna era sul punto di morire? Semplicemente la nonna scoppiava di salute ed aveva appena prenotato una crociera ai Caraibi. Se diceva di non avere fame, avrebbe ingoiato chili di roba, se diceva di non stare troppo bene, voleva dire che sprizzava di gioia di vivere, se diceva di avere segnato due goal nella partita con la scuola avversaria voleva dire che aveva sbagliato un rigore; quando diceva di non avere sonno si addormentava di colpo sul letto. Insomma, avrete capito che in fondo si trattava semplicemente di decifrare quello che diceva e che non c’era malizia in lui: semplicemente il nero era bianco e il bianco nero. Quando cominciò l’età degli amori, ebbe la vita semplificata, perché, nelle schermaglie amorose, quando le ragazze gli chiedevano se voleva loro bene e lui rispondeva di no, queste si innamoravano pazzamente di lui. Una però fiutò la preda e capì che c’era da divertirsi: quando Pinocchio le disse che l’odiava, non lo lasciò più andare via e divenne la sua fata Turchina. Anche nel lavoro ebbe grosse soddisfazioni: si mise molto presto in politica, perché aveva intuito che la verità interessava a ben pochi. Le storie che lui raccontava facevano bene alla gente. Le persone erano sfiduciate, oppresse dalle difficoltà della vita, preoccupate per il futuro? Bastava che lui sorridesse e dicesse che nei prossimi anni tutto sarebbe andato per il meglio, che il Paese aveva un rigurgito di ottimismo, l’indice della borsa saliva, i consumi si impennavano e la gente faceva più figli. Divenne l’idolo delle folle e durante gli anni del suo governo, che lasciò completamente vuote le casse dello Stato, ci fu una crescita demografica enorme, perché si investiva in figli, convinti che bisognasse far godere il più possibile la razza umana in quella nuova età dell’oro. Quando fu sul punto di morire annunciò in televisione che il medico gli aveva detto che sarebbe scampato ancora per cent’anni e che tutti quindi dovevano stare tranquilli e felici come sempre. Era così convinto di quello che diceva che era già morto da qualche giorno e non se ne era accorto. Fu il suo segretario che lo vide particolarmente pallido a dare l’allarme.
Giuseppe Arcimboldi (Milano, 1527 – 1593), noto anche come Giuseppe Arcimboldo ( l’artista utilizzò indistintamente entrambe le forme durante la sua carriera, oltre al latino “Arcimboldus” ), è stato uno dei pittori più estrosi, fantasiosi e bizzarri della storia dell’arte. È famoso soprattutto per le sue “teste composite”, ovvero ritratti dove le sembianze del soggetto vengono riprodotte con accumuli di oggetti, frutta, animali, tutti in linea con un tema (per esempio, la testa composita della primavera composta da diverse specie di fiori e foglie). Sono poi note altre sue stravanganti realizzazioni, come le “teste reversibili”, immagini che si possono leggere in sia con il quadro dritto che con il quadro capovolto, ma anche per i suoi studi sulla natura, alcuni dei quali condotti in collaborazione con Ulisse Aldrovandi, grande naturalista del Cinquecento. Ingegno multiforme al servizio di diversi imperatori del Sacro Romano Impero, Giuseppe Arcimboldi si divise tra Milano, Vienna e Praga e realizzò capolavori eccentrici, ma anche opere più “tradizionali”.
Con la figura di Arcimboldi, il Manierismo giunge alle sue conseguenze più estreme. L’artista, milanese, si era formato in un ambiente artistico particolarmente vitale come la Milano di metà Cinquecento, che aveva visto finire il dominio sforzesco e l’avvio del periodo spagnolo, che durò fino al Settecento: sotto il dominio spagnolo lo stato di Milano non conobbe particolari sconvolgimenti politici per diverso tempo, ma andò incontro a una decadenza progressiva che si fece sentire soprattutto intorno. La formazione di Giuseppe Arcimboldi prese però avvio in una Milano ancora vitale, una Milano dove l’interesse per le ricerche di Leonardo da Vinci era ancora vivo e dove avevano si erano da poco spenti i più grandi artisti del Rinascimento milanese, dal Bramantino a Bernardino Luini passando per Gaudenzio Ferrari, Marco d’Oggiono, il Bambaia, Cesare da Sesto e molti altri.
A questa temperie culturale andò a sostituirsi progressivamente quella degli artisti dellaControriforma, che a Milano fu particolarmente viva, ma prima ancora si registra a Milano la presenza degli artisti cremonesi, su tutti Bernardino Campi, presente a Milano a partire dal 1550, oltre ad altri artisti come Antonio Campi e Giulio Campi che gravitavano diciamo nell’orbita del manierismo emiliano che si rifaceva ad artisti come il Parmigianino e Giulio Romano, ed erano ancora attivi tra anni Trenta e anni Quaranta del Cinquecento. Fu però fuori dall’Italia che Arcimboldi conobbe i maggiori successi: in particolare, alla corte dell’imperatore Rodolfo II a Praga fu maestro di cerimonie e poté lavorare con costanza alle sue teste composite. L’estro di Arcimboldi, del resto, non poteva prosperare nella Milano della Controriforma e di Carlo Borromeo, divenuta più austera, meno aperta nei confronti delle stravaganze raffinate, e più incline a un’arte pregna di severa religiosità.
La vita di Giuseppe Arcimboldi
Giuseppe Arcimboldi nasce a Milano nel 1527 da Biagio, di professione pittore, e Chiara Parisi. La famiglia è nobile e il giovane Giuseppe ha modo di compiere la sua formazione in un ambiente colto. Sulla base dei documenti, sappiamo che nel 1549 Giuseppe inizia a lavorare nel cantiere del Duomo di Milano insieme al padre Biagio per alcune decorazioni ma soprattutto per la realizzazione di due vetrate, una con le storie del Vecchio Testamento e una con le storie di santa Caterina d’Alessandria ( vedi foto sotto, la prima ). L’opera sarà terminata da Giuseppe nel 1556 (ma vi aveva lavorato da solo fin dal 1551). Nel 1556, l’artista lavora all’affresco con l’albero di Jesse nel Duomo di Monza assieme a Giuseppe Meda. I lavori saranno terminati nel 1559. L’anno prima, nel 1558, è a Como dove lavora ad alcuni modelli per le vetrate del Duomo.
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L’Albero di Jesse o l’Albero della vita, Duomo di Monza– Giuseppe Arcimboldi e Giuseppe Meda ( 1559 )
Nel 1562 l’artista viene chiamato a Vienna dall’imperatore del Sacro Romano Impero, Ferdinando I, che evidentemente l’aveva notato per alcune sue realizzazioni a Milano (secondo un’ipotesi recente, per una sua primissima serie delle Stagioni). Appena arrivato, realizza i ritratti della famiglia regnante. Nel 1563, il futuro imperatore Massimiliano II (divenuto tale nel 1564) gli commissiona il ciclo delle Stagioni, terminato nel 1566. Del ciclo originale si conservano solo l’Estate, l’Inverno (Vienna, Kunsthistorisches Museum) e forse la Primavera (Madrid, Museo della Real Academia de San Fernando). L’Autunno invece è noto solo da repliche successive. Giuseppe diventa poi ufficialmente ritrattista di corte nel 1564, succedendo in tale carica all’anziano pittore Jacob Seisenegger. L’artista compie nel 1566 un breve soggiorno in Italia e nello stesso anno dipinge il famoso Bibliotecario, una cui copia molto fedele all’originale e a esso vicina cronologicamente, è oggi conservata in Svezia nel castello di Skokloster. Nel 1568 engono presentati i due cicli delle Stagioni e degli Elementi all’imperatore Massimiliano II (la presentazione è a cura del letterato Giovanni Battista Fontana, o Fonteo).
Risale invece al 1570 il disegno dell’antilope cervicapra conservato presso la Biblioteca Nazionale Austriaca di Vienna, uno degli studi naturalistici più famosi dell’artista. Nel 1571, Giuseppe Arcimboldi è incaricato di organizzare i festeggiamenti per le nozze tra Carlo d’Asburgo e Maria di Baviera, mentre risale al 1573 la serie delleStagioni oggi conservata al Louvre.
Nel 1576 Rodolfo II diventa imperatore in seguito alla scomparsa di Massimiliano II e conferma Giuseppe nel suo incarico. Nel 1582, per conto dell’imperatore, Giuseppe si reca in Baviera dove è incaricato di valutare l’acquisto di antichità e opere d’arte provenienti dalle raccolte dei Fugger, per le collezioni imperiali.
Al 1583 risale la collaborazione tra Giuseppe Arcimboldi e Ulisse Aldrovandi (Ulisse Aldrovandi ) , con il primo che invia al secondo disegni per i suoi studi sulla natura. È invece del 1585 ilcarnet con i disegni per costumi e apparati da feste oggi conservato agli Uffizi e dedicato a Rodolfo II (https://issuu.com/artsolution/docs/custode_dell_orto/s/15580929 .
Attorno al 1590, il pittore realizza l’Ortolano, la sua più famosa “testa reversibile”, e sempre attorno allo stesso anno, Giuseppe Arcimboldi dipinge il ritratto di Rodolfo II come dio Vertumno (realizzato come una delle sue “teste composite”). Nel 1592 l’artista viene nominato conte palatino da Rodolfo II. Giuseppe Arcimboldi, tornato a Milano, si spegne nella sua città natale l’11 luglio.
Giuseppe Arcimboldi, Martirio di santa Caterina (1556; pannello di vetrata; Milano, Duomo, vetrata di santa Caterina d’Alessandria)
Giuseppe Arcimboldi, La Primavera (1555-1560 circa; olio su tavola, 68 × 56,5 cm; Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemäldesammlungen)
Giuseppe Arcimboldi, L’Estate (1555-1560 circa; olio su tela, 68,1 x 56,5 cm; Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemäldesammlungen)
Giuseppe Arcimboldi, L’Autunno (1572; olio su tela, 91,4 x 70,2 cm; Denver, Denver Art Museum, lascito di John Hardy Jones)
Giuseppe Arcimboldi, L’Inverno (1563; olio su legno di tiglio, 66,6 × 50,5 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, inv. GG 1590)
Opere, stile e capolavori di Giuseppe Arcimboldi
Figlio di un pittore, Biagio Arcimboldi, che era amico di Bernardino Luini, il giovanissimo Giuseppe fu dunque subito a contatto con gli ambienti leonardeschi (l’arte di Leonardo da Vinci sarebbe stata per lui fondamentale in quanto ispirò molti dei suoi studi maturi) e fu nella bottega paterna che cominciò a lavorare. La sua prima opera documentata sono due vetrate per il Duomo di Milano (sono del 1549: Arcimboldi tuttavia non realizzò da solo i cartoni da cui sarebbero state tratte queste vetrate bensì in collaborazione con il padre Biagio, e i cartoni poi sarebbero stati tradotti in vetro da un vetraio tedesco, Corrado Mochis, a lungo attivo nel cantiere del duomo di Milano). Si tratta di opere dalle quali si può evincere come Giuseppe Arcimboldi fosse aggiornato rispetto alle novità del manierismo, di cui l’artista riprende la grande vivacità innestandola però su di una base monumentale. Il primo manierismo di Arcimboldi si ritrova ancora in un’altra delle sue realizzazioni giovanili, un affresco nel duomo di Monza realizzato in collaborazione con Giuseppe Meda tra il 1556 e il 1559 circa (L’albero di Jesse: affresco monumentale e imponente, con figure cariche e una gamma cromatica fredda e tenue). Chiamato a Vienna nel 1562 da Ferdinando I d’Asburgo, Arcimboldi fu subito impegnato come ritrattista, tanto da venire nominato ritrattista di corte nel 1564 da Massimiliano II, che nutriva una grande predilezione nei confronti di Giuseppe Arcimboldi. Diversi suoi sono conservati al Kunsthistorisches Museum di Vienna: per esempio, il ritratto dell’arciduca Massimiliano (futuro imperatore Massimiliano II) assieme alla moglie Maria di Spagna e a tre figli, opera del 1563 dai toni “istituzionali”, distaccati e austeri.
La ritrattistica ufficiale era però un genere che stava stretto a Giuseppe Arcimboldi, che a partire dal 1563inizia per la prima volta a lavorare alle sue teste composite, che gli garantiscono successo e fama di artista estroso ed ingegnoso. Il primo ciclo di teste composite è quello delle Quattro stagioni, realizzato tra il 1563 e il 1566 per Massimiliano II: degli originali rimangono soltanto l’Estate e l’Inverno, conservati al Kunsthistorisches Museum di Vienna, e una Primavera al Museo della Real Academia de San Fernando di Madrid che potrebbe essere il terzo originale ma non ci sono certezze in merito (l’Autunno invece è considerato perduto ed è noto solo da repliche successive, per esempio quella del ciclo del 1573 conservato al Louvre, quasi identico a quello originale).
Le “teste composite” sono così definite in quanto composte da diversi elementi, tutti attinenti a un tema, che formano un ritratto: la testa della primavera, per esempio, è composta da fiori e foglie (gli studiosi di botanica hanno contato circa ottanta specie diverse di piante e di fiori, segno dell’elevato interesse di Giuseppe Arcimboldi per il mondo della natura), l’estate ha la testa composta da frutta tipicamente estiva (la guancia è una pesca, il mento una pera, il naso è un cetriolo mentre i capelli sono formati da susine, ciliegie, lamponi e un grappolo d’uva ancora acerbo, l’orecchio è una pannocchia di granturco e il busto è formato da spighe di grano tutte intrecciate). In occasione della mostra sul pittore che si è tenuta a Milano nel 2011, alcuni studiosi hanno messo in dubbio che il ciclo viennese sia il primo sul tema realizzato da Giuseppe Arcimboldi, avanzando anche l’ipotesi che la corte imperiale abbia notato il giovane artista milanese in virtù del fatto che forse già a Milano avesse iniziato a realizzare dipinti di questo tipo, che avrebbero così stimolato l’interesse e la curiosità di Ferdinando I d’Asburgo che decise di chiamarlo a Vienna.
Quale il significato di questi dipinti? Forse non sarebbero altro che una celebrazione della corte asburgica: così pensava il letterato Giovanni Battista Fontana, attivo presso la corte asburgica negli anni Sessanta del Cinquecento. In un suo scritto, Fontana suggerisce di vedere elementi e stagioni come allegoria dell’impero: in particolare i dipinti sarebbero da leggersi in chiave aristotelica (secondo Aristotele, l’universo era assimilabile a un macrocosmo composto dai quattro elementi, e si trattava di una concezione che poggiava le sue basi su filosofie ancora più antiche, e sempre secondo questo modo di vedere la realtà, a ogni elemento corrispondeva una stagione diversa, che simboleggiano lo scorrere del tempo dell’univers). E dal momento che le teste sono assimilate a ritratti di cesari, la composizione di Giuseppe Arcimboldi sarebbe da intendersi come l’impero che regna e domina sia sul macrocosmo sia sul microcosmo, dal momento che l’imperatore assume le sembianze di componenti del macrocosmo e del microcosmo (altro ciclo famoso è quello dei Quattro Elementi, aria, acqua, terra e fuoco, che secondo alcuni studiosi sarebbe legato a quello delle Quattro Stagioni).
Tra le altre opere interessanti di Giuseppe Arcimboldi è possibile menzionare il Bibliotecario del 1566(che probabilmente rappresenta un personaggio della corte di Massimiliano II che effettivamente faceva il bibliotecario: denota dunque l’interesse dell’artista nei confronti delle caricature di Leonardo, comune a tutto l’ambiente artistico milanese della prima metà del Cinquecento),e le teste reversibili, ovvero dipinti che da un lato sembrano nature morte, ma capovolgendoli diventano teste composite: e l’esempio più famoso è il celeberrimoOrtolano del 1590 circa, conservato al Museo Civico Ala Ponzone di Cremona. Sembra una natura morta, una scodella ripiena di ortaggi, con cipolle, patate, funghi e quant’altro, ma capovolgendo il dipinto appare la raffigurazione caricaturale di un ortolano (il naso è la patata, la cipolla è la guancia, i funghi dànno forma alle labbra e la scodella diventa il cappello del personaggio). Come anticipato, infine, Giuseppe Arcimboldi nutrì forti interessi nei confronti del mondo naturale. Contemporaneo e anzi quasi coetaneo di Ulisse Aldrovandi, il grande scienziato bolognese, fu dagli studi di quest’ultimo fortemente ispirato, e viceversa Aldrovandi gradiva molto le opere e i disegni del pittore milanese, tanto che in qualche occasione i due collaborarono, con Arcimboldi che fornì ad Aldrovandi illustrazioni per i suoi studi. Si conserva una corrispondenza tra Aldrovandi e Francesco de Paduanis, studioso attivo alla corte di Praga, in cui De Paduanis fa sapere allo studioso bolognese di aver ottenuto da Arcimboldi alcune rappresentazioni di animali per gli studi di Aldrovandi e che glieli avrebbe inviati. Una delle illustrazioni più famose è l’antilope cervicapra conservata alla Biblioteca dell’Università di Bologna, che fu utilizzata per gli studi di Ulisse Aldrovandi. Esiste poi un codice conservato presso la Biblioteca Nazionale Austriaca di Vienna, conosciuto come il “bestiario di Rodolfo II”, in cui si conservano numerose rappresentazioni naturali di Arcimboldi (principalmente di animali: cervi, fagiani, lucertole, cinghiali, gru, e iin generale animali che Arcimboldi probabilmente vedeva nei giardini e nelle riserve di caccia imperiali). Giuseppe Arcimboldi dunque non fu solo un grande artista, ma era anche inserito molto bene negli ambienti scientifici dell’epoca.
Giuseppe Arcimboldi, L’Acqua (1566; olio su legno di ontano, 66,5 × 50,5 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, inv. GG 1586)
Giuseppe Arcimboldi (copia da), Il Bibliotecario (olio su tela, 97 x 71 cm; Svezia, Castello di Skokloster)
Giuseppe Arcimboldi, L’Ortolano (Priapo) / Ciotola di verdure (1590-1593 circa; olio su tavola, 35,8 x 24,2 cm; Cremona, Museo Civico “Ala Ponzone”)
Giuseppe Arcimboldi, Alcefalo e Antilope cervicapra (1584; acquerello su carta; Ms. Aldrovandi, Tavole di Animali, V, c. 20, Bologna, Biblioteca Universitaria)
Giuseppe Arcimboldo, Renna (1562; acquerello su carta, 158 x 222 mm; Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, KupferstichKabinett)
Dove vedere le opere di Giuseppe Arcimboldi
Artista che fece carriera tra le corti d’Europa e dunque presente in molti musei, Giuseppe Arcimboldi è poco rappresentato in Italia: le sue opere più famose, le “teste composite”, furono infatti realizzate per le corti di Vienna e Praga e si trovano dunque all’estero. In Italia, l’itinerario alla scoperta dell’Arcimboldo parte dal Duomo di Milano, dove si ammirano le sue due vetrate. Sempre in Lombardia si trova l’opera più famosa di Arcimboldi presente in Italia, ovvero l’Ortolano del Museo Ala Ponzone di Cremona. A Monza si osserva l’Albero di Jesse, affresco nel Duomo, e diversi suoi disegni si trovano nei Gabinetti delle Stampe degli Uffizi di Firenze e dei Musei di Strada Nuova di Genova, nonché alla Biblioteca Universitaria di Bologna, ma vengono esposti raramente data la loro delicatezza.
I cicli di teste composte più famosi si trovano all’estero, al Kunsthistorisches Museum di Vienna, presso la Bayerische Staatsgemäldesammlungen di Monaco di Baviera (quello di Monaco è completo, anche se l’Autunno, in condizioni precarie, è conservato in deposito), e al Denver Art Museum.
In Svezia, il Castello di Skokloster conserva una fedele copia del Bibliotecario (l’autografo non ci è noto). Altre opere si trovano al Nationalmuseum di Stoccolma, presso le collezioni dei principi del Liechtenstein a Vienna, al Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles, al Museo de la Real Academia de San Fernando di Madrid.
chiara : fa bene Limes a pubblicare il pensiero russo sulla storia e l’invasione dell’Ucraina. Si capisce bene che sono due nazioni strettamente legate fin dalle origini. Mi pare, però, che non sia dato sufficiente rilievo alla lotta per l’Indipendenza di questa regione … determinata, tra le altre cose, da comportamenti russi durante l’invasione tedesca e, non ultimo, da quello che si chiama, HOLOMODOR ( = in ucraino significa : ” infliggere la morte mediante la fame”- ) degli anni Trenta.
La battaglia di Poltava lega passato e presente dello scontro tra Europa e Russia.
Lo scontro di tre secoli fa assume oggi un cruciale significato geopolitico. La sconfitta ha lasciato un segno profondo su Stoccolma e un’ostilità permanente nei confronti di Mosca.
La battaglia di Poltava lega passato e presente dello scontro tra Europa e Russia.
Lo scontro di tre secoli fa assume oggi un cruciale significato geopolitico. La sconfitta ha lasciato un segno profondo su Stoccolma e un’ostilità permanente nei confronti di Mosca.
Esperto in storia e politica degli Stati Uniti e relazioni russo-americane. Professore alla facoltà di Sociologia dell’Università Statale Lomonosov, Mosca (DA LIMES)- vedi immagine e notizie dell’Università Lomosov a Mosca- al fondo
Dettaglio di una carta di Laura Canali. Per la versione integrale,clicca qui.
Il prossimo luglio ricorreranno i 316 anni dalla battaglia di Poltava, evento che oggi ricordano solo gli storici professionisti (e nemmeno tutti), mentre è ben conosciuto da svedesi, ucraini e chiaramente dai russi. Lo scorso anno nella Federazione si sono tenute diverse celebrazioni per l’anniversario dello scontro e alcuni anni fa la data della battaglia (8 luglio) è stata ufficialmente riconosciuta come Giorno della gloria militare russa. A Poltava, come sa qualsiasi scolaro russo, la Russia sconfisse gli svedesi.
Tuttavia, oggi questo evento assume un significato storico e geopolitico cruciale. Lo ottiene per la guerra in Ucraina che ha scosso la Russia e tutto il mondo. Ma anche perché la Russia uscita dalle macerie dell’impero sovietico ha acquisito con Putin i contorni del nemico principale, agli occhi dell’Occidente. Questi tratti incutono ancor più timore di quanto non facessero quelli del Novecento e si possono paragonare solo alla Cina comunista e forse ora all’America di Trump – consiglio a tal proposito la lettura dell’articolo di Martin Wolf, “The US Is Now the Enemy of the West”, uscito sul Financial Times lo scorso 26 febbraio. Tutto il contrario delle previsioni dei demolitori interni ed esterni dell’Urss e del socialismo.
Il motivo di tale importanza sono le coincidenze storiche che saltano agli occhi. Un potente imperatore russo, Pietro I figlio di zar, affascinato dall’Occidente già a partire dal quartiere tedesco della Mosca di fine Seicento, riceve un’istruzione e un’esperienza imprenditoriale in Europa occidentale, introduce con il pugno di ferro nella Russia asiatica riforme occidentali e improvvisamente si mette a far la guerra all’Occidente stesso.
Ora c’è Vladimir Putin, a suo tempo non meno affascinato dall’Ovest. Putin ha lavorato in Germania Est, è stato testimone della demolizione del socialismo, della DDR e dell’Urss ed è tornato in Russia, dove sognava un modello occidentale di capitalismo e l’amicizia con l’Occidente. Ora si è trasformato agli occhi di quell’Occidente in un nuovo imperatore russo, un acerrimo nemico simile a Stalin o a Trump.
C’è poi l’Ucraina, che ai tempi degli zar e dell’Unione Sovietica – ossia in totale per circa 340 anni, dal 1654 al 1991, senza considerare la coesistenza nella Rus’ di Kiev tra i secoli IX e XII – era volutamente la parte più consistente e sviluppata dell’impero dopo la Russia.
Mentre ora guidata dal presidente Volodymyr Zelensky svolge il ruolo di “Stato per procura” separato dalla Russia, che porta avanti una sanguinosa guerra con Mosca per la sopravvivenza, grazie al sostegno decisivo e negli interessi dell’Occidente.
Carta di Laura Canali – 2024
Per risolvere la quadratura del cerchio, occorre almeno per un momento rivolgersi alla storia. Nel Settecento tutta l’Europa temeva il re di Svezia Carlo XII: aveva sbaragliato con successo e ripetutamente il re polacco Augusto, dopodiché aveva mosso verso Mosca. A quel tempo il giovane zar Pietro I, che nell’agosto del 1700 aveva dichiarato guerra alla Svezia – da qui ebbe inizio la Grande guerra del Nord – puntava a una rivincita, dopo essersi ripreso dall’onta della sconfitta subita in quel primo anno di conflitto contro le forze di Carlo presso la fortezza di Narvanel Nord Europa. Le forze russe conquistavano città dopo città in Curlandia (oggi parte della Lettonia).
L’atamano ( = capo militare dei Cosacchi ) ucraino Mazepa aveva inizialmente servito il re polaccoJan Kazimierz (Giovanni Casimiro), ma passò poi allo zar.
La massima autorità russa lo amava, lo aveva decorato con le onoreficenze più illustri e lui da parte sua eseguiva diligentemente gli ordini di Pietro I, inviando le sue truppe cosacche a prender parte alle guerre dello zar. Quest’ultimo si fidava senza riserva alcuna dell’atamano e non credeva alle innumerevoli delazioni sul suo conto. Tuttavia dopo l’inizio della campagna di Carlo XII in Russia Mazepa cambiò casacca a favore della corona svedese, promettendo sostegno in Ucraina e migliaia di uomini di rincalzo. Ciò convinse il re a muovere su Mosca da sud, proprio passando attraverso l’Ucraina.
Così come molti altri invasori prima e dopo di lui, è noto agli storici che Carlointendeva smembrare lo Stato russo in frammenti indipendenti e ostili l’uno all’altro, cancellando così dalla scena storica internazionale questa grande entità autonoma. Dello stesso avviso e intenzioni erano Napoleone e Hitler, così come ora lo sono molti leader occidentali. Questi, quantomeno prima che l’esercito di Zelensky iniziasse ad accusare delle battute d’arresto, parlavano pubblicamente della necessità di imporre alla Russia una “sconfitta strategica”, che di fatto è la stessa cosa. Tuttavia al posto del sostegno promesso da Mazepa in Ucraina ad attendere il re svedese c’erano rappresaglie e una guerra partigiana da parte della popolazione che non voleva il dominio svedese. Lo stesso Mazepa riuscì a procurare a Carlo appena duemila baionette.
Nella storica battaglia svoltasi presso la città ucraina di Poltava l’esercito svedese fu distrutto dai russi guidati da Pietro: fino a novemila soldati svedesi rimasero sul campo; caddero stendardi militari, la maggior parte dei generali e la reputazione di “invincibilità”. Lo stesso successe nel 1812 in Russia all’esercito paneuropeo di Napoleone e nel 1945 in Urss all’esercito paneuropeo di Hitler.
Mazepa scappò nell’impero ottomano assieme al re svedese. Dopo il tradimento, in Russia venne scagliato un anatema su di lui e vi fu anche una simbolica condanna a morte. Inoltre, Pietro concepì anche un’ironica onorificenza che portò il nome del traditore biblico Giuda, pensando proprio a Mazepa. A Mosca si tenne una parata trionfale in onore della Vittoria sulla Svezia, durante la quale vennero gettati a terra i vessilli militari scandinavi conquistati in battaglia. Una simile cerimonia fu ripetuta da Stalin in Piazza Rossa il 24 giugno 1945, nel corso della Parata della Vittoria sulla Germania di Hitler.
Nella Russia di oggi è ben chiaro l’enorme significato della Grande guerra del Nord e del suo culmine, la battaglia di Poltava, per la storia del paese e del continente europeo. Infatti non si è trattato di una semplice guerra russo-svedese, il conflitto ha avuto dimensioni paneuropee. Sconfitta, la Svezia ha perso per sempre lo status di grande potenza, mentre la Russia al contrario è entrata nel club elitario dei vincitori mondiali, più volte poi riconfermandosi tale. All’epoca la battaglia di Poltava rivela a un’Europa sorpresa una nuova Russia a lei sconosciuta: un impero di grandezza mondiale potente, vigorosa e da rispettare – in quanto nemico forte, non come amico.
Molti esperti affermano che gli svedesi non considerano la sconfitta di allora una catastrofe, pur ritenendola una tragedia nazionale. Ciò perché a Poltava vengono sepolte le loro ambizioni imperiali: dopo la “brutta figura” la Svezia sembrerebbe essersi ravveduta, non ha preso posizione nei conflitti militari europei, comprese le due guerre mondiali, dichiara la propria neutralità, ha profuso tutti i propri sforzi nel migliorare il benessere della popolazione.
Chi scrive è però di un’altra opinione. Secondo le mie osservazioni nel corso degli anni, la sconfitta a Poltava ha lasciato un segno profondo nella coscienza nazionale svedese. Nonostante la sua dichiarata neutralità, nel corso della seconda guerra mondiale il governo e la stampa svedesi non nascosero le proprie simpatie per Berlino, secondo quanto riferito dall’ambasciatrice sovietica a Stoccolma Aleksandra Kollontaj e da altre fonti. Stoccolma intrattenne con la Germania un’intensa attività commerciale, fornendole anche materiale bellico e non mostrando alcuna simpatia per l’Armata Rossa in guerra contro i nazisti.
Dopo la guerra, gli svedesi hanno portato avanti una politica ostile nei confronti dell’Urss, poi mantenuta verso la Russia attuale. L’apice è stato raggiunto ora con l’adesione di Stoccolma alla Nato. Né l’Urss né la Russia hanno mai perseguito politiche di ostilità e nemmeno d’inimicizia nei confronti della Svezia. Prendiamo solo due esempi del comportamento antitetico dei due paesi. In dichiarazioni del loro governo e in accese pubblicazioni sui loro media, gli svedesi hanno accusato per decenni l’Urss e ora la Russia di inviare sottomarini militari nelle acque territoriali svedesi, senza che siano mai state presentate prove concrete e inconfutabili delle affermazioni. Per decenni invece in Urss/Russia le opere degli scrittori svedesi sono state pubblicate in grandi tirature e le pièce dei drammaturghi svedesi sono state messe in scena nei teatri. La scrittrice più amata da generazioni di bambini russi è stata Astrid Lindgren, per esempio: i personaggi del suo libroKarlsson sul tetto sono diventati protagonisti di un famoso cartone animato sovietico (al pubblico russo si teneva nascosto il fatto che Lindgren non celasse le proprie opinioni russofobe).
Anche oggi il destino dell’eterno confronto tra Occidente e Russia non lascia ben sperare, nonostante i tentativi di moderazione attuati dal nuovo presidente statunitense Trump – un confronto che, secondo il ricercatore svizzero Guy Mettan, è più che millenario: si veda il suo volume Russofobia. Mille anni di diffidenza.
Un ruolo particolare in tutto questo è oggi svolto dalla guerra in Ucraina e proprio per questo la città-fortezza di Poltava, scenario della battaglia che abbiamo descritto, acquisisce un significato particolare. Come sottolineano gli studiosi russi, emergono così tante coincidenze storiche e geografiche che è impossibile non farci caso. Così come oltre tre secoli fa, oggi l’esercito russo cerca di liberare le proprie terre storiche dall’essere di fatto incorporate economicamente, militarmente e politicamente dall’Occidente. Così come oltre tre secoli fa quando l’esercito svedese di Carlo XII, considerato il migliore del mondo, fu spazzato via a Poltava e la Grande guerra del Nord fu vinta dalla Russia. Così come nel 1812, quando l’esercito di Napoleone fu pressoché annientato nelle vaste distese dell’impero russo, pur avendo conquistato Mosca per un breve periodo. Così come nel 1945, quando l’Armata Rossa issò la bandiera della Vittoria su Berlino, avendo precedentemente liberato il territorio dell’Ucraina sovietica. Così oggi in Russia si ritiene che quantomeno il territorio dell’Ucraina non dovrebbe rappresentare una minaccia per la sicurezza della Federazione e soprattutto dovrebbe diventare un’entità amica dello Stato e del popolo russo.
Eppure, per ora in Ucraina gli eventi storici descritti sono interpretati in maniera del tutto diversa. Il governo che esiste a Kiev dal 1991 e che si sta radicalizzando sempre di più ha fatto del nazionalismo, dell’odio per la Russia, per tutto ciò che è russo e per la storia condivisa con il popolo russo il fondamento dell’ideologia che instilla nella sua popolazione. Di qui derivano l’odio per Pietro I e il culto dell’atamano Mazepa, presentato come un eroe nazionale e un guerriero immolatosi per l’indipendenza ucraina. Di qui derivano le descrizioni della battaglia di Poltava come un evento tragico della storia ucraina e della Grande guerra del Nord come una catastrofe nazionale che determinò per il popolo ucraino l’avvento di una schiavitù coloniale organizzata dai russi. Di qui derivano le tinte eroiche con cui si descrive Simon Petljura, capo dell’esercito nazionale in Ucraina durante la guerra civile e l’intervento militare portato avanti da quattordici potenze occidentali e dal Giappone contro la Russia sovietica nel periodo 1918-1922. Di qui deriva la trasformazione in eroi nazionali di Bandera e Šuchevič, capi degli eserciti nazionalisti ucraini che combatterono contro l’Urss al fianco della Germania nel 1941-1945.
Carta di Laura Canali – 2022
Sempre seguendo questa ideologia a Kiev si è iniziato con la demolizione della famosa statua del fondatore dello Stato sovietico Vladimir Lenin – unione cui l’Ucraina aderì volontariamente nel 1922. Per poi continuare con la rimozione di tutti i monumenti dedicati a imperatori e scrittori legati alla Russia e agli eroi dell’Armata Rossa che liberarono l’Ucraina dall’occupazione nazista e nella quale combatterono sette milioni di ucraini, insieme agli altri popoli sovietici. Per arrivare infine alla cancellazione della toponomastica storica e all’annientamento della letteratura russa nelle biblioteche e nella mente degli ucraini. Tutto ciò non è iniziato con l’avvio delle azioni militari di Mosca contro l’Ucraina nel febbraio del 2022, ma trentacinque anni prima.
Chi scrive, passeggiando recentemente per Mosca, ha visitato una delle famose “sette sorelle”, la serie di edifici costruiti per volere di Stalin nella capitale sovietica dopo la guerra. Era l’albergo di lusso “Ucraina”. Così si chiama tuttora (“Ucraina-Radisson”). Accanto, su una collinetta, si erge una maestosa statua dell’iconico poeta e scrittore ucraino Taras Ševčenko. È rivolta verso il lungofiume sulla Moscova, via che prende il suo nome. Lasciato l’hotel, sono capitato in un bel viale alberato che si chiama Ukrainskij bul’var (boulevard ucraino). Qui tra le aiuole e le fontane ci sono monumenti dedicati ad altri famosi scrittori ucraini dell’Ottocento. Il viale porta alla stazione ferroviaria Kievskijche conserva tuttora il suo nome storico, sebbene i treni per la capitale ucraina non partano più da tempo. Accanto, c’è la stazione metro Kievskaja dove all’interno sono perfettamente preservati quadri pittoreschi legati alla storia ucraina. Di recente è stata visitata da Tucker Carlson, famoso giornalista televisivo americano e amico del presidente Trump. È rimasto piacevolmente stupito di questa pittoresca Ucraina nel centro di Mosca e lo ha mostrato ai suoi spettatori. Sempre di recente ho passeggiato per Mosca, dove ho fatto caso al ristorante ucraino “Korčma” (una catena diffusa in tutta Mosca), all’incrocio tra piazza Gagarin, che ospita l’enorme statua del primo uomo che è stato nello spazio, e il Leninskij prospekt, alla fine del quale si trova una statua di Lenin diversa da quella rimossa a Kiev. Accanto, ho notato un ristorante di cucina nazionale russa che porta il nome dell’eroe del folklore russo, Il’ja Muromec. I due locali erano pacifici l’uno accanto all’altro. Ho pensato che questo simbolismo non sia casuale. In ragione dello stesso Dio ortodosso e della loro grande storia e cultura comune, a Russia e Ucraina è dato non solo di vivere fianco a fianco ma anche di essere intimamente amiche, non di farsi la guerra. E così dev’essere.
(traduzione di Martina Napolitano)
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NOTA::
L’UNIVERSITA’ STATALE DI MOSCA
( costruita con decreto del 25 gennaio 1775 ), la più grande della Russia intera
*** qualcosina sulla sua storia con immagini
L’edificio centrale dell’università in via Mokhovaya (1798). Oggi decanato ( uffici del rettore o anche ” ufficio delle parrochie ” – in ambito ecclesiastico) Autore sconosciuto
Nel XVIII secolo l’Università contava tre facoltà: filosofia, giurisprudenza
e medicina. Quest’ultima fu articolata nel 1804 in tre distinte facoltà: medicina clinica, chirurgia e ostetricia. Tra il 1884 e il 1897 il Dipartimento di Medicina fece costruire un vasto campus a Devič’e pole, che nel 1918 fu separato dall’Università e successivamente affidato all’Accademia medica di Mosca.
L’edificio di via Mochovaja ospita oggi le facoltà di giornalismo e psicologia ( vecchio quartiere dell’Università ) Alexander Viktorovich Shipilin (Александр Шипилин) – http://ashipilin.narod.ru/Galery.files//stuniver4.jpg
Distretto di Ramenki. Complesso residenziale Krylya.
Il quartiere Ramenki (in russoРайон Раменки?) è un quartiere di Mosca sito nel Distretto Occidentale. Vi si trovano l’Università Statale di Mosca, gli studi della casa di produzione Mosfil’m e alcune presunte strutture sotterranee, tra cui il bunker della cosiddetta “Metro 2“.
Il nome deriva probabilmente dal termine ramen’e, che indica una foresta fitta.
Sull’area sorgeva l’abitato di Vorob’ëvo – che dà il nome all’altopiano delle Vorob’ëvy Gory, ex “colline Lenin” – di cui si ha menzione scritta nel 1453.
Tra il 1949 ed il 1953 nei pressi della collina fu costruito un complesso architettonico destinato ad ospitare l’Università statale di Mosca. Fu anche allestita una piattaforma d’osservazione capace di offrire la visione di un grandioso panorama di Mosca. Tale piattaforma rappresenta una meta turistica di notevole importanza. Nel 1953 fu installata anche una sciovia. La collina è inoltre luogo di gare di mountain biking e corse motoristiche. Nel 1958 fu costruito il metroponte Lužniki che collega la prospettiva Komsomol’skij alla zona dell’Università.