prima pagina de IL MANIFESTO — 21 LUGLIO 2024–

 

 

NON E’ SUCCESSO NIENTE: IL SILENZIO DI USA  E UE DOPO IL PARERE DELLA CORTE INTERNAZIONALE SULL’ACCUSA DI APERTHEID IN PALESTINA. ISRAELE NON SI FERMA: DEMOLIZIONE A GERUSALEMME, MASSACRI A GAZA E UCCISIONI IN CISGIORDANIA.

 

 

 

 

 

DA : IL GIORNALONE ci sono le prime pagine di tanti quotidiani italiani e stranieri e anche di riviste 

https://www.giornalone.it/prima-pagina-il-manifesto/

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A.N.P.I. Nazionale @Anpinazionale – 8.08 — 20 luglio 2024 *** noi aspettiamo la piattaforma, quando ci sarà —

 

 

Al via la campagna raccolta firme per il referendum abrogativo della legge sull’autonomia differenziata.

Firma il 25 luglio alle Pastasciutte antifasciste: anpi.it/il-25-luglio-t

Presto si potrà firmare anche sulla piattaforma

referendumautonomiadifferenziata.com #autonomiadifferenziata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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GUSTAV HERLING ( 1919 – 2000 ), autore polacco famoso per ” Un mondo a parte “, dove parla della sua esperienza in un campo di lavoro russo– + altro

 

 

 

 

Un mondo a parte - Gustaw Herling - copertina

 

Un mondo a parte

 

 

Un mondo a parte - Gustaw Herling - copertina

2017

 

 

Con la pubblicazione nel 1951, in Gran Bretagna, di “Un mondo a parte” Bertrand Russel commentò: “Dei molti libri che ho letto sulle esperienze delle prigioni e dei campi di lavoro sovietici, questo libro di Herling è il più impressionante e quello scritto meglio. Un libro estremamente interessante e del più profondo interesse psicologico”. Identici giudizi espressero Albert Camus e Ignazio Silone.

Tra i ghiacci della Siberia, i prigionieri lavorano senza sosta nei boschi a temperature polari: nello stomaco brodo di cavoli e pochi grammi di pane. Sola via d’uscita le automutilazioni che aprono le porte dell’ospedale; unico paradiso, qualche giorno di riposo e una coperta. Con una scrittura di straziante impersonalità che mette il lettore davanti ai nudi fatti, Gustaw Herling – intellettuale cosmopolita che ha vissuto sulla propria pelle lo scandalo del Male nella storia del Secolo breve – racconta il gulag in questo libro-testimonianza che è quasi un Bildungsroman ( romanzo di formazione ). Pubblicato a Londra nel 1951, in Italia nel 1958 e solo negli anni Ottanta in Polonia, “Un mondo a parte” – ha scritto Ignazio Silone – «malgrado tutti gli orrori che descrive, è un libro di pietà e di speranza».

 

 

 

GARIWO – LA FORESTA DEI GIUSTI
https://it.gariwo.net/giusti/totalitarismo-sovietico/gustaw-herling-1296.html

 

 

GUSTAW HERLING (1919 – 2000)

lo scrittore del Male del “mondo a parte”

 

 

NOTA : Commissariato del popolo per gli affari interni, noto anche con l’acronimo  NKVD(in russo Народный комиссариат внутренних дел, НКВД, Narodnyj
https://it.wikipedia.org/wiki/Commissariato_del_popolo_per_gli_affari_interni

 

 

 

Gustaw Herling-Grudziński, scherzando, si definiva un “polacco-napoletano”. Era infatti nato a Kielce, nel sud della Polonia ed è morto (e sepolto) a Napoli, dove era vissuto dal 1955, dopo aver sposato, in seconde nozze, Lidia, figlia di Benedetto Croce.

Era di origini ebraiche (nasce a Kielce, Polonia del sud, ilo 20 maggio 1919, anche se su questo aspetto preferì sempre mantenere, in pubblico, una certa riservatezza. Alla domanda se fosse ebreo, rispondeva di esser polacco. Molti si scandalizzavano per questa reticenza. Ma spiegava che il suo atteggiamento era dovuto al fatto di non aver vissuto di persona l’Olocausto e di non voler usurpare un ruolo non suo: quello dello scrittore ebreo sopravvissuto (G. Herling-Grudziński, Dziennik pisany nocą 1989-1992, Diario scritto di notte 1989-1992, Czytelnik, Warszawa 1997, p. 250).

Entrava in gioco però, in questa sorta di occultamento delle sue origini, anche il difficile rapporto col padre patriarca e il trauma per la prematura scomparsa della madre, Dorota Bryczkowska: (“Mia madre, che amavo molto, è morta giovane, aveva appena quarant’anni. Sono rimasto solo con mio padre, anch’egli ebreo e proprietario di un mulino a Kielce, e da allora hanno avuto inizio nella mia vita diverse traversie che hanno reso la mia giovinezza molto difficile”).

 

Studiò letteratura a Varsavia e, dopo lo scoppio della guerra, si rifugiò nella Polonia occupata, il 17 settembre, dai sovietici (in base al Patto Ribbentrop-Molotov).

Nel marzo 1940, ricercato dalla polizia segreta sovietica, tentò di passare in Lituania per andare in Francia o in Inghilterra a combattere con l’esercito polacco ricostituito in esilio. A causa di una soffiata, fu arrestato e rinchiuso nella prigione di Vitebsk, in Bielorussia. Durante l’interrogatorio disse che, come molti suoi coetanei, voleva andare a combattere contro i tedeschi. “Non sapete,” gli fu chiesto, “che l’Unione Sovietica ha firmato un trattato di amicizia con la Germania?”.

Fu così condannato a cinque anni e inviato al campo di lavoro di Ercevo, che faceva parte del comprensorio concentrazionario di Kargopol’, vicino ad Arcangelo (sul Mar Bianco).

Tornò libero il 20 gennaio del 1942, grazie al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra l’Urss e la Polonia, dopo l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica. Assieme a molti altri polacchi scampati al Gulag si arruolò, in Kazakistan, nelle truppe del generale Władysław Anders che combattevano, sotto bandiera polacca, nell’esercito inglese e, nel dicembre 1943, sbarcarono in Italia e combatterono, tra l’altro, a Monte Cassino.

 

Basandosi sulle sue esperienze nel Gulag, Herling ha scritto uno dei libri più importanti del Novecento: Un mondo a parte (Inny świat. Zapiski sowieckie) che fu pubblicato inizialmente in inglese (A World Apart: a Memoir of the Gulag), nel 1951, ed ebbe un grande successo. Nell’introduzione, il filosofo Bertrand Russell scrisse: “Dei molti libri che ho letto sulle esperienze delle vittime delle prigioni e dei campi di lavoro sovietici, Un mondo a parte di Gustaw Herling è il più impressionante e quello scritto meglio. Egli possiede a un grado assai raro il potere della descrizione semplice e vivida, ed è del tutto impossibile mettere in dubbio la sua sincerità in ogni punto. I compagni di strada che rifiutano di credere all’evidenza di libri come quelli di Herling, sono necessariamente gente destituita di umanità, perché se così non fosse essi non respingerebbero l’evidenza, ma al contrario ne sarebbero turbati…”.

Il libro fu osteggiato in Polonia, Francia e anche in Italia perché faceva vedere come i Gulag sovietici furono una “macchina di annientamento” pari ai lager nazisti:

“Ora che ho letto qualche testimonianza sui campi di concentramento tedeschi mi rendo conto che un trasferimento a Kolyma, nei campi di lavoro sovietici, era l’equivalente della scelta delle camere a gas dei tedeschi. L’analogia diviene ancora più precisa quando si considera che, come per le camere a gas, i prigionieri per Kolyma erano presi tra quelli in peggior stato di salute; in Russia tuttavia non venivano inviati a una morte immediata, ma a un lavoro durissimo che richiedeva una forza e una resistenza fisica eccezionali”.

Herling ricordava spesso il finale del saggio autobiografico del poeta russo Iosif Brodskij, intitolato In una stanza e mezzo (1985), dove il figlio parla con il padre del passato: “Mi sorpresi a domandargli quali campi di concentramento, secondo lui, fossero peggiori: quelli dei nazisti o i nostri. ‘Per conto mio,’ fu la risposta ‘mi farei bruciare sul rogo, subito, piuttosto che morire di morte lenta e scoprire che senso ha’.”

Herling conosceva perfettamente e comprendeva a fondo la letteratura e la cultura russa: non odiava, al contrario di molti suoi connazionali, i russi. Tra gli scrittori russi, si sentiva particolarmente vicino a Varlam Šalamov, autore de I racconti di Kolyma (VEDI), il testimone più profondo della realtà del Gulag, al quale dedicò, nel Diario scritto di notte (1978), un bellissimo racconto che descrive la sua terribile fine nel manicomio dove il KGB lo aveva fatto rinchiudere.

È come se Šalamov, con la sua opera, affiancasse e completasse idealmente Un mondo a parte. A Herling interessava in particolare un aspetto che Šalamov, seppur ateo, e in conflitto con il padre pope, ha messo in luce: quello della fede religiosa come risorsa per sopravvivere e non trasformarsi in bestie che schiacciano gli altri.

Proprio riprendendo una sua idea esposta in Un mondo a parte (“l’uomo può essere umano solo in condizioni umane, e considero assurdo giudicarlo severamente dalle azioni che egli compie in condizioni disumane”), Herling scrive: “Il lato atroce dell’esperienza concentrazionaria è la mancanza di scelta, una cosa davvero orrenda, che pregiudica qualsiasi possibilità di vita morale. Perciò è giusto quanto dice Šalamov a proposito dei credenti che più spesso sono sopravvissuti: credere significa avere una chance, e anche la speranza in un’altra vita”.

In fondo, in questa impossibilità, o grandissima difficoltà, ad agire bene sta l’essenza del Male.

Nel suo “testamento spirituale”, Variazioni sulle tenebre. Conversazione sul male (1999), dopo aver definito il Novecento “un secolo del Male”, Herling si dichiara “manicheo”: convinto cioè che il Male esista davvero come entità autonoma.

Il Male Herling lo vedeva tangibile e si lamentava che la gente fosse diventata insensibile a esso, quasi assuefatta. Lo preoccupava (come preoccupava Primo Levi nel finale de I sommersi e i salvati) che il Bene e il Male non siano riconoscibili: “E’ come il cancro, una modificazione interna non immediatamente percepibile. E’ una devastante malattia spirituale; è necessario del tempo per rinvenire la malvagità dell’uomo (…) Quando leggo i giornali o vedo la televisione mi rendo conto che la gente non ha più il senso del Bene e del Male, non percepisce nemmeno la propria colpevolezza. C’è un’atrofia della sensibilità. Il Male si espande a tal punto che investe anche le persone che sembravano buone”.

Rifacendosi alla propria esperienza nel Gulag, e alle considerazioni di Šalamov, Herling concludeva la sua conversazione sostenendo che il rimedio contro il Male sia la solitudine:

“Secondo Šalamov, l’unica cosa che difende dal Male, nella cui esistenza crede fermamente dopo l’esperienza della Kolyma, è la solitudine. (…) Pure io, sebbene fossi molto giovane allora, ventuno, ventidue anni, mi resi conto istintivamente che solo così potevo salvarmi dal terribile male dei campi di concentramento.(…) Avevo amici, ma mi sentivo più forte quando ero solo. Quando tutti si addormentavano, io restavo sveglio, e solo, e quelli erano per me i momenti più belli. (…) Ritrovavo la mia identità originaria rimanendo sveglio. La solitudine era allora una vera difesa contro il Male”.

La fermezza morale di Herling si vede bene nel finale di Un mondo a parte: quando, nel giugno 1945, a Roma, il suo ex-compagno di prigionia, un architetto ebreo-polacco, gli confessa di aver denunciato e quindi mandato a morte quattro loro compagni tedeschi, completamente innocenti, per poter esser trasferito in un campo meno pesante. Vorrebbe che Herling gli dicesse “ti capisco”, ma lui si rifiuta addirittura di parlargli, lasciandolo solo col peso dei suoi rimorsi.

Libri:

– Un mondo a parte, trad. Gaspare Magi, Mondadori, Milano 2017 [con un dossier di testi e documenti e introduzione di Francesco M. Cataluccio];
– Dialogo su Solzhennitsyn con Gustavo Herling, in: Nicola Chiaromonte, Silenzio e parole, Milano: Rizzoli, 1978, pp. 225-33;
– Diario scritto di notte, trad. Donatella Tozzetti, a cura du Francesco M. Cataluccio, Feltrinelli, Milano1992;
– L’isola, trad. Donatella Tozzetti, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2003
– Gli spettri della rivoluzione e altri saggi, introduzione di Francesco M. Cataluccio, Ponte alle Grazie, Firenze 1994;
– Ritratto veneziano, trad. Mauro Martini e Donatella Tozzetti, Feltrinelli, Milano 1995;
– Le perle di Vermeer trad. Laura Quercioli Mincer e Piero Di Nepi, introduzione di Francesco M. Cataluccio, Fazi, Roma 1997, 2004
– Don Ildebrando e altri racconti, trad. Mauro Martini, introduzione di Francesco M. Cataluccio, Feltrinelli, Milano 1999;
– Ricordare, raccontare. Conversazione su Šalamov, con Piero Sinatti, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 1999;
– Variazioni sulle tenebre. Conversazioni sul male, a cura di Édith de la Héronnière, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2000;
– Breve racconto di me stesso, a cura di Marta Herling, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2001;
– Introduzione, in Nikolaj Berdjaev, Gli spiriti della rivoluzione russa, a cura di Mauro Martini, Bruno Mondadori, Milano 2001;
– Requiem per il campanaro, trad. Vera Verdiani, postfazione di Francesco M. Cataluccio, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003;
– La notte bianca dell’amore, trad. Vera Verdiani, con una conversazione con Wlodzimierz Bolecki a cura di Marta Herling, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2004;
– Il pellegrino delle libertà. Saggi e racconti, a cura di Marta Herling, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2006.
– Etica e letteratura, a cura di Krystyna Jaworska, con un saggio introduttivo di Wlodzimierz Bolecki e una testimonianza di Goffredo Fofi; cronologia redatta da Marta Herling, Mondadori Milano 2019.

 

 

 

 

Gustaw Herling e il suo mondo

La Storia, il coraggio civile e la libertà di scrivere

a cura di Andrea F. De Carlo e Marta Herling

Collana: Alia, 17
Pubblicazione: Luglio 2022

 

Questo volume, che raccoglie gli Atti del festival letterario Napoli di Herling tenutosi nel 2019 nel centenario della nascita dello scrittore

nel link, c’è un video del dibattito di Radio Radicale
https://www.viella.it/libro/9788833138886

 

segue da :

Governo polacco
https://www.gov.pl/web/italia/marta-herling

 

 

 

TESTIMONIANZA DELLA FIGLIA MARTA HERLING

 

Volti polacchi

 

Marta Herling, nipote di Benedetto Croce, torna nel “buen retiro” di Pollone - La Stampa

 

se vuoi leggere, apri il link sotto:

Marta Herling, nipote di Benedetto Croce, torna nel “buen retiro” di Pollone 

FOTO  E ARTICOLO DELLA STAMPA – 20. 08-2021

 

 

 

Sebbene sia nata a Napoli, Marta Herling, porta un cognome di particolare importanza nella cultura polacca. Le sue radici familiari affondano inoltre nella terra italiana e nella sua storia perché suo nonno era Benedetto Croce. Come ha riscoperto la sua identità polacca in questa storia familiare? “Ho esplorato, passo dopo passo, un mondo a parte”.

Il padre di Marta, Gustaw Herling Grudziński, era un illustre scrittore il cui destino è stato segnato dolorosamente dalla storia polacca. La sua vita è stata sconosciuta a Marta per molti anni ma da quando l’ha scoperta, ha deciso che sarebbe stata la sua missione divulgare le opere e le memorie paterne. Ne parla con grande entusiasmo: “A Napoli, la vita di mio padre non era facile. Nessuno era in grado di capire quello che provasse. Quando ero piccola, il ricordo più vivo che ho di lui è il suono dei suoi passi nella notte, nello studio dove era solito rinchiudersi, isolandosi dal mondo, per lavorare sui suoi libri. Il suo studio era diventato un piccolo angolo di Polonia, dove egli era solito scrivere per interi giorni e ricevere i suoi ospiti polacchi. Raramente ne ho avuto accesso, era il suo mondo, un mondo nel quale era totalmente immerso”.

Tutto questo non ha fatto che alimentare la curiosità di Marta, per questo ha dedicato i suoi anni di università alla conoscenza del paese natale del padre e allo studio della lingua polacca. “Mio padre per me era una figura affascinante e allo stesso tempo misteriosa. Decisi per questo di scoprire il suo mistero”.

“Sono andata in Polonia per la prima volta nel 1967, insieme a mia madre, perché a quel tempo a mio padre, in esilio, era vietato l’accesso. Chi fosse veramente Gustaw Herling Grudziński l’ho compreso con il viaggio successivo, nel 1979. All’università, ogni volta che mi presentavo, percepivo il rispetto che le persone mostravano verso il mio cognome. Questo è stato molto importante perché in quel periodo, in Italia, mio padre non era così conosciuto e compreso”.

Scoprire la Polonia, la sua lingua, la sua cultura, per Marta ha significato ritrovare la parte mancante di se. Durante i viaggi a Varsavia e nei luoghi d’origine della famiglia paterna, ha ritrovato la vera identità del padre, finora a lei sconosciuta. Un giorno, lo scrittore le chiese di tenere un diario del suo viaggio. Al suo ritorno in Italia nel leggere alcuni stralci dei suoi scritti il padre si commosse: era lei ora, la figlia, a fargli conoscere il suo paese.

Gustaw Herling Grudziński fece ritorno in Polonia solo nel 1991, dopo un esilio forzato di mezzo secolo. “Ricordo molto bene quel volo da Roma a Varsavia perché avevo accompagnato mio padre insieme a mia madre. Era da poco decollato l’aereo quando incominciò a raccontarci della sua infanzia, dei suoi genitori e dei suoi anni all’università. Udii raccontare storie mai sentite prima. Inizialmente rimasi senza parole, solo in seguito mi resi conto che soltanto al suo ritorno in Polonia, avrebbe riacquistato un senso per lui parlare degli anni antecedenti la guerra. Non meno toccante è stato il momento in cui mio padre è sbarcato all’aeroporto Okęcie. Ad aspettarlo c’era sua sorella, gli amici, molti lettori e giornalisti. Sembrava per un attimo come se non avesse mai lasciato la Polonia”.

 

 

bibliopolis– 2023
Una raccolta di articoli dal “Mondo” di Pannunzio a “Tempo presente” di Silone e Chiaromonte, al “Corriere della Sera” di Spadolini e al “Giornale” di Montanelli, fino alla “Stampa” e al “Mattino” negli anni ’90..
https://www.poloniaeuropae.it/diario-di-giorno-per-la-seconda-patria/

 

 

IL MANIFESTO  19 MARZO 2023
https://ilmanifesto.it/herling-lurgenza-della-storia-e-della-politica-in-una-lezione-di-stile

 

Herling, l’urgenza della storia e della politica in una lezione di stile

PERSONAGGI DEL SECOLO. Gustaw Herling (1919-2000) si definiva umoristicamente «polacco napoletano»: e a Napoli, dove si stabilì dopo aver sposato una figlia di Croce, esce ora la corposa raccolta degli Scritti italiani, due volumi Bibliopolis. La sua esistenza drammatica e avventurosa è sviscerata da studiosi e testimoni nel libro «Gustaw Herling e il suo mondo», Viella

 

Herling, l’urgenza della storia e della politica in una lezione di stile

Gustaw Herling a Napoli, Galleria San Carlo, nel 1988, foto di Bohdan Paczowski

prof. Lett. Italiana a Roma Tor Vergata dal 1988 al 2018; dal 2018 Letteratura italiana contemporanea. Ha vinto molti premi per la saggistica
https://it.wikipedia.org/wiki/Raffaele_Manica

 

Quando Gustaw Herling arriva a Sorrento nel 1943 – fuciliere del Secondo corpo d’Armata polacco del generale Anders che sta risalendo l’Italia – ha alle spalle l’esperienza del gulag sovietico e ha davanti quella dell’esilio. Nato nel 1919, alla spartizione della sua terra tra nazisti e sovietici nel 1939, Herling è tra gli organizzatori della resistenza e viene arrestato dalla polizia segreta di Stalin mentre tenta di raggiungere l’Occidente: dopo la carcerazione, nel 1940 è condannato a cinque anni di gulag, nel campo di Ercevo. Nel gennaio 1942, liberato in seguito all’amnistia per i prigionieri polacchi, cominciano anni di peregrinazione, fino a Kazakistan e Iran, Iraq, Palestina, Egitto per unirsi alla missione militare e per l’addestramento.

A Sorrento, convalescente dopo un ricovero, nel marzo 1944 va in visita a Benedetto Croce. Il filosofo annota nei suoi diari di aver ricevuto quel giovanotto che ha letto le sue opere in tedesco e – sappiamo da Herling – resta stupito nel ricevere informazioni sulla diffusione dell’Estetica e del suo pensiero filosofico in Polonia. Di Croce, Herling diventerà genero, sposandone la figlia Lidia in seconde nozze nel 1951.

Intanto ha preso parte alle battaglie di Montecassino e sulla linea gotica. Decorato al valor militare, subito dopo la guerra, a Roma, ha diretto iniziative culturali e letterarie, scegliendo l’esilio dopo Jalta e all’instaurarsi del regime comunista in Polonia. Inizia di lì a poco la pubblicazione della rivista «Kultura», voce decisiva degli intellettuali polacchi all’estero e del dissenso politico contro il totalitarismo.

Una vita così avventurosa, senza tratti estetizzanti, avrebbe potuto dare materiale a schiere di narratori e di memorialisti: in Herling, oltre che a memorabili racconti, ha contribuito alla serietà, a formulare giudizi cristallini, duri e severi, tenendo dritta la rotta verso la giustizia e la libertà. Il libro nato dall’esperienza di Ercevo, Un mondo a parte, tra le prime testimonianze sui gulag a vedere la luce, si è assestato con forza tranquilla nel suo posto di classico, non senza «strane» vicende in Italia: stampato due volte senza nessuna fortuna, ha dovuto aspettare la metà degli anni novanta per rendersi visibile, nel momento di quella che si può pur chiamare la «riscoperta» di Herling, passata in quegli stessi anni per la pubblicazione di una prima scelta di pagine dal suo libro capitale, Diario scritto di notte, e dei suoi saggi, Gli spettri della rivoluzione (entrambi in collaborazione con Francesco Cataluccio), nonché attraverso il rifiuto einaudiano di pubblicare un suo dialogo pensato quale introduzione ai Racconti di Kolyma di Varlam Šalamov.

 

«Il Mondo» e «Tempo presente»

In Italia Herling collabora dal 1954 al «Mondo» di Pannunzio e poi a «Tempo presente» di Ignazio Silone e di Nicola Chiaromonte; in seguito col Corriere della Sera diretto da Giovanni Spadolini e, per vicinanza con Enzo Bettiza, col Giornale, dal quale si allontanerà in seguito alle aperture di credito concesse da Montanelli al generale Jaruzelski durante la stretta militare nella Polonia di Solidarnosc, che si muove sotto lo sguardo del Papa polacco.

Infine, al Mattino di Napoli, la città dove ha deciso di vivere (e dove muore nel 2000), definendosi con umorismo, sulla scia di un film di Totò, il polacco napoletano. Qualche trasferta se la concederà, regolarmente, a Parigi, durante le riunioni periodiche di «Kultura» a Maisons-Laffitte: «continua a scrivere – gli dirà in una lettera del 1972 Zbigniew Herbert, per Herling un’anima fraterna –. I giovani in Polonia ti leggono con entusiasmo. Ciò che preferisco di te è il tuo mélange di collera e di scetticismo» (la si legge in Combat et création).

Fino alla fine detesterà una parola: «riabilitazione», troppo in odore di cattiva fede, perché non si spiegava come mai la riabilitazione dovesse arrivare da coloro che erano accecati nel condannare e che erano sempre lì, sempre gli stessi (o al massimo i loro eredi) a far la morale eterna a chi aveva subito i danni del loro accecamento. L’argomento principe degli scritti italiani di Herling è quanto succede all’Est, con particolare attenzione alle ragioni del dissenso, ma il lettore non dimentica nemmeno per un momento che Herling nasce critico letterario, così che basta talvolta una frase, un rigo appena, a lasciar intendere quanto il suo giudizio debba a quella formazione. Non è un letterato che parla di civiltà e di politica, ma un esule che sa aggiungere allo sguardo politico, civile e morale una tensione della quale solo la letteratura è capace.

E sotto gli occhi del lettore passano tanti scrittori, da Pasternak a Solženicyn, da Czapski a Miłosz, e tante idee e riflessioni sull’equivalenza dei totalitarismi e sul male nel Novecento.

Oltre Un mondo a parte, il titolo più celebre di Herling è Diario scritto di notte, che va dal 1970 al 2000: migliaia di pagine pensate e scritte in polacco dove si susseguono articoli, riflessioni, saggi, novelle, commenti: un’opera di grande estensione, un’ampia scelta della quale è stata pubblicata nel «Meridiano» Mondadori Etica e letteratura nel 2019 a cura di Krystyna Jaworska: in coda allo stesso volume, aperto da una irrinunciabile cronologia firmata da Marta Herling, si leggeva il catalogo degli scritti italiani, allora «in preparazione» e che oggi escono in due splendidi volumi: Gustaw Herling, Scritti italiani 1944-2000 (a cura di Magdalena Sniedziewska, pp. XXVIII-1278, Bibliopolis / Instytut Literatury, € 60,00); vi vanno affiancati, per la ricostruzione di molteplici aspetti della biografia e dell’opera, gli interventi contenuti in Gustaw Herling e il suo mondo La storia, il coraggio civile e la libertà di scrivere (a cura di Andrea F. De Carlo e Marta Herling, Viella, pp. 430, € 35,00)

Non si può darne conto minutamente, ma sia consentito ricordare l’ampia ricostruzione del sentire geopolitico di Herling di Paolo Morawski e il nome di Wojciech Karpinski, al quale le cose di Herling furono familiari quanto quelle di Chiaromonte e che scrisse (in uno dei saggi usciti in francese sotto il titolo Ces livres de grand chemin) di «un’opera difficile da classificare, che parte per destinazioni diverse e che ricomincia, ancora e ogni volta di nuovo, a definire il posto dell’uomo nel mondo contemporaneo. Un’opera difficile da situare sulla mappa della letteratura: segretamente moderna, si stringe coraggiosamente ai i generi classici».

Un giudizio che si riflette ora sugli scritti italiani, i quali s’inarcano come un’opera dal flusso continuo, che si frange sugli avvenimenti, li avvolge, li riporta a terra, si ricompone: come un diario scritto di giorno che nelle sue singole pagine e nel suo insieme va molto oltre le occasioni all’origine dei pezzi che lo compongono. Un’energia irruenta – che trova oggetti diversi nel corso degli anni e resta fedele a se stessa perché quegli oggetti appartengono a una medesima serie – ma tenuta entro la giurisdizione di una limpidezza argomentativa che va dritta al sodo, alla questione centrale delle cose. Se per assurdo volessimo sottrarre queste pagine all’urgenza della politica e della storia dalle quali furono originate, ne resterebbe una lezione di umanità straordinaria e di stile di pensiero: ma a quell’urgenza non si può né si deve sottrarle. Diventano così il racconto di buona parte del secolo scorso affidato a lettere pubbliche dall’esilio e la testimonianza di una lunga lotta contro la menzogna: vale qui quanto scritto nel Diario: «voglio essere un cronista. La mia ambizione è dipingere, come posso, l’epoca nella quale vivo (…) vedo me stesso come un piccolo autoritratto nell’angolo di un grande quadro».

 

La polemica su Pasternak

 

Di tutte le pagine che si potrebbero citare ce n’è una che, nella sua brevità, mi pare esemplare della mente di Herling. 1958: nella polemica sul Dottor Živago la «Literaturnaja Gazeta» cita, tagliando maldestramente, un giudizio di Herling, che così replica sul «Mondo»: i difetti del romanzo non intaccano la grandezza dell’opera: «Dostoevskij ha scritto una sola cosa ineccepibile dal punto di vista della struttura e tecnica del romanzo – Delitto e castigo. Ma ciò non cambia in nessun modo il fatto che – se è ammissibile in casi simili stabilire una graduatoria di valore – la grandezza dei Demoni, dei Fratelli Karamazov e dell’Idiota supera spesso la perfezione narrativa della storia dello studente Raskolnicov». Un esempio minimo e imperfetto della grandezza degli Scritti italiani.

 

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A.N.P.I. Nazionale @Anpinazionale -. 13.23 — 21 luglio 2024 – ANDREA JOLY, GIORNALISTA DELLA STAMPA AGGREDITO A TORINO DA UN GRUPPO DEL CIRCOLO ” ASSO DI BASTONI ” – + altre fonti

 

 

 

PERSONE - Il Messaggero

foto e testo da  Il Messaggero  (link )

21 luglio ore 16.24

 

Un giornalista del quotidiano La Stampa, Andrea Joly, è stato aggredito a Torino all’esterno di un locale, chiamato ‘Asso di Bastoni’, frequentato da militanti di circoli di estrema destra. Secondo quanto è stato ricostruito, il giornalista stava passando davanti al locale mentre era in corso una festa. Dall’interno sarebbero uscite alcune persone che, dopo avergli chiesto chi fosse, gli avrebbero intimato di consegnargli il telefonino, poi minacciato e colpito con dei calci mentre tentava di allontanarsi.

Sono presenti anche dei video: uno fatto dal giornalista stesso in cui riprende il momento in cui gli intimano di mollare il telefono, altri fatti da persone nei palazzi circostanti che riprendono il momento dell’aggressione.

Andrea Joly, nato ad Asti, è un giovane giornalista che vive a Torino.

Dopo aver frequentato lo scientifico Cattaneo, nel capoluogo piemontese, studia presso l’università di Torino e frequenta la Scuola di Studi Superiori Ferdinando Rossi, un istituto di eccellenza che affianca gli studi universitari. Lavora a La Stampa dal 2018 e – come si legge nei suoi profili social – scrive di tutto, con un occhio particolare per gli esteri come si puo vedere dai servizi sull’Ucraina e sul caso Salis in Ungheria.

 

 

 

 

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La lunga notte del '43. Le manifestazioni dell'ANPI nell'80° anniversario. – BnTv.it

foto infosannionews

 

Il commento del Presidente nazionale ANPI Gianfranco
Pagliarulo all’aggressione da parte di militanti di
CasaPound al giornalista de

Immagine

 

SEGUE DALL’ANSA:

 

In uno dei video pubblicati da La Stampa si vede il pestaggio: sono in tre, lo circondano, lo colpiscono e poi lo trascinano a terra. A quel punto si avvicina un quarto personaggio (dalla testa rasata) che vibra dei calci mentre da una finestra si sente l’urlo “lasciatelo”.

 

 

VIDEO ( 1.02 min. ) DELLA STAMPA PUBBLICATO DALL’ANSA

 

 

 

segue NEL LINK :
ANSA.IT — 21 LUGLIO 2024 –16.20

Aggredito a Torino il giornalista della Stampa Andrea Joly, identificati 2 militanti di CasaPound

Solidarietà da Meloni: “Condanna e massima attenzione”. Il circolo Asso di Bastoni: “Ha spintonato e creato un battibecco”

https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2024/07/21/aggredito-a-torino-il-giornalista-della-stampa-andrea-joly-identificati-2-militanti-di-casa_57bec78c-1186-4734-a3a1-331efabe10fc.html

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UNA PAROLA AL GIORNO.IT / 2 Maggio 2021 — CESELLARE + altro

 

 

 

Una parola al giorno

https://unaparolaalgiorno.it/significato/cesellare

 

 

video cesello parte prima.flv - YouTube

 

 

 

Cesellarece-sel-là-re   (io ce-sèl-lo)

 

 

 

 

cesellare sul cuoio

 

 

 

argento cesellato, teiera di epoca vittoriana

 

 

 

Cesello: dizionario, significato e curiosità

 

 

He Thinks In Marble by Julius Mendes Price

una caricatura di Rodin del 1904

 

 

 

SIGNIFICATO

Lavorare col cesello; elaborare, rifinire con cura minuziosa, specie un’opera d’arte

 

ETIMOLOGIA

dal latino parlato caesellum, da caèdere  ‘tagliare, battere’.

 

Quando qualcuno ci fa notare come le battute memorabili nel dialogo di un film siano nientemeno che cesellate, quando leggiamo del lavoro di cesello su un verso poetico, o quando vediamo che la socia impiega mezza mattinata a cesellare un’email, tutti siamo in grado di decodificare la metafora.

Sappiamo che si tratta di un lavoro di elaborazione minuziosa, da orefice, volta con pazienza certosina alla perfezione formale di ogni dettaglio. Ciò nondimeno, che diavolo è un cesello? Chi lo sa trovare su un banco di lavoro?

Ancora una volta ci troviamo davanti a una tecnologia che nel suo nome e nella sua metafora supera di innumerabili ordini di grandezza la diffusione del suo impiego materiale — in questo caso appannaggio di arte e artigianato. Insomma, sono tante di più le persone che sanno dire che cosa vuol dire figuratamente ‘cesellare’ rispetto a quelle che sanno descrivere un cesello.

 

Per quanto l’arte del suo uso sia complessa, la concezione dello strumento è semplice — e lo testimonia anche la semplicità popolare dell’etimo. Serve in special modo per decorare lamine di metallo, imprimendovi da rovescio i volumi degli sbalzi, e incidendovi da dritto dettagli dei più variegati: propriamente è proprio questa seconda lavorazione di finitura ad essere detta ‘cesellatura’.

 

MYANMAR-WORK-ENVIRONMENT-MARBLE

un marmo finemente cesellato, parte di una statua di Budda, a Myammar, in un villaggio 47 km ca da Mandalay

 

Possiamo pensare il cesello come uno scalpellino di acciaio, grossomodo delle dimensioni di una penna, che possa essere mosso con una mano mentre con l’altra lo si martella.

La sua punta ha forme delle più diverse perché deve letteralmente disegnare un’impressione nel metallo caldo, fermo su un pane di pece che ne assorbe gli urti e ne accoglie la deformazione plastica: può avere dei tagli affilati, dritti o curvi, può avere una superficie arrotondata, punte acuminate, o addirittura sezioni di fiore, di stella. È uno strumento che l’artista si può fare da sé, secondo le proprie necessità.

 

Dudley Carter's Hand & Chisel

la mano dello scultore Dudley Carter che usa uno scalpellino di legno

 

 

Dalle teiere di argento con sopra cesellati motivi floreali, dai bracciali cesellati che ci regaliamo con entusiasmo, dai bassorilievi cesellati esposti in cornice a casa della zia — oggetti preziosi ma consueti — la lingua trae la metafora del lavoro artistico meticoloso, distillando tutta l’arte orafa in un verbo. La sua lenta, precisa cura, e la suggestione in cui il lavoro di cesello ci sa catturare, gli è valso un uso figurato così vasto.

 

Prehistorical Museum In Quinson, France On May 29, 2001.

un Museo pre-historico a  Quinson in Francia; si vede qualcuno che mostra un uomo di Neanderthal che incide la pietra con un cesello di  silice

 

 

 

Un’ultima nota. Per essere una parola che senza soluzione di continuità arrivi dal latino parlato si attesta tardi, solo a metà del Cinquecento. Capita a certi termini di lavoro, che magari a lungo non vengono captati dalla letteratura.

 

 

"The Tower of Babel, by Pieter Bruegel the Elder, 1563, 16th century, oil on panel, 114 x 155 cm."

La Torre di Babele, opera di Bruegel il Vecchio, 1563 : il re e un gruppo di persone che stanno attorno a degli operai che incidono le pietre della costruzione : sullo sfondo la città che si inabissa..

 

 

 

Infatti è emersa dove l’arte orafa viene tratta ad argomento di trattato: Due trattati di Benvenuto Cellini scultore fiorentino, uno dell’oreficeria l’altro della scultura.

 

 

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Ritratto di Benvenuto Cellini alla Biblioteca Nazionale di Vienna

Serie di ritratti d’uomini illustri toscani, con gli elogj istorici dei medesimi, Allegrini, Giuseppe, Zocchi, Giuseppe, 1711-1767

 

 

 

 

 

 

 

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Il Perseo con la testa di Medusa (1554)- Loggia dei Lanzi

 

 

Benvenuto Cellini (Firenze3 novembre 1500 – Firenze13 febbraio 1571) è stato uno scultoreorafo e scrittore italiano, considerato uno dei più importanti artisti del manierismo.

Dopo il trionfo del Perseo, tuttavia, Cellini fu costretto all’inoperosità, a causa della posizione di preminenza assunta dai rivali Baccio Bandinelli e Bartolomeo Ammannati nella scena artistica fiorentina; questi ultimi si erano recentemente imposti non per particolari meriti scultorei, bensì perché maggiormente sottomessi alla rigorosa etichetta medicea.

 

 

 

” Tutti gli uomini di ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa, doverieno, essendo veritieri e da bene, di lor propria mano descrivere la loro vita»— Benvenuto Cellini, Vita, proemio

 

Furono queste le circostanze che portarono alla gestazione della Vita: non potendo più «fare», infatti, Cellini iniziò a «dire», mettendo per iscritto la propria concezione dell’arte ma, soprattutto, il proprio vissuto esistenziale, così da segnalare a Cosimo de’ Medici il valore di quell’artista impedito a operare. Fu così che Cellini iniziò nel 1558 la stesura della Vita, opera letteraria che – dopo una breve interruzione nel 1562, dovuta alla rinunzia degli ordini ecclesiastici, alle nozze con Piera de’ Parigi e alla nascita di un figlio – venne terminata nel 1567. Questa cocente delusione venne inasprita ulteriormente dalle diverse disavventure giudiziarie: nel 1556, infatti, venne incarcerato per aver percosso Giovanni di Lorenzo, mentre l’anno successivo venne condannato a cinquanta scudi di multa e a quattro anni di carcere (commutati poi in quattro anni di arresti domiciliari) perché durante «cinque anni […] ha tenuto […] Fernando di Giovanni di Montepulciano […] in letto come sua moglie».

 

un brano della Vita assai istruttivo sul temperamento dell’artista

«Voltomi subito e veduto che lui [Gherardo Guasconti] se ne rise, gli menai sì grande il pugnio in una tempia, che svenuto cadde come morto; di poi voltomi ai sua cugini, dissi: “Così si trattano i ladri poltroni vostri pari”; e volendo lor fare alcuna dimostrazione, perché assai erano, io, che mi trovavo infiammato, messi mano a un piccol coltello che io avevo, dicendo così: “Chi di voi esca della sua bottega, l’altro corra per il confessoro, perché il medico non ci arà che fare”. Furno le parole a loro di tanto spavento, che nessuno si mosse a l’aiuto del cugino»— Benvenuto Cellini, Vita

da : wikipedia – link al fondo

 

 

 

 

A lato della Vita, in ogni caso, nel suo ultimo decennio di vita si cimentò anche nella stesura del Trattato dell’oreficeria e del Trattato della scultura, iniziata nel 1565 e terminata tre anni dopo, quando le due opere vennero date alle stampe.

Benvenuto Cellini, infine, morì a Firenze il 13 febbraio 1571; poco prima del decesso, fece dono di tutte le sue sculture «finite et non finite» a Francesco I de’ Medici. Fu sepolto nella Cappella di San Luca.

da :

https://it.wikipedia.org/wiki/Benvenuto_Cellini

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Nena, 29 settembre 2015 –chiara cruciati, il manifesto -I RAID SAUDITI POLVERIZZANO LO YEMEN – Intervista all’archeologa Lamya Khalidi: “Riyadh fa quello che l’Isis fa a Palmira, nel silenzio totale di Europa e Stati Uniti che sta fornendo gli equipaggiamenti di precisione “–+ Immagini dal blog di VIO CAVRINI – link

 

 

 

 

**** la guerra in Yemen è iniziata nel 2011, si è intensificata nel 2015 quando 8 stati guidati dall’Arabia Saudita hanno bombardato contro gli Youthi perché ” sostenuti dall’Iran “.

Da ” Save the Children Italia

 

 

logo

29 settembre 2015

https://nena-news.it/i-raid-sauditi-polverizzano-il-patrimonio-dello-yemen/

 

 

I RAID SAUDITI POLVERIZZANO LO YEMEN

Intervista all’archeologa Lamya Khalidi: “Riyadh fa quello che l’Isis fa a Palmira. In grave pericolo un patrimonio unico, prodotto dell’incontro di culture e popoli diversi. Sono già 43 i siti danneggiati o distrutti”.

 

yemen

 

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

 

Roma, 29 settembre 2015, Nena News

 

– La guerra con­tro lo Yemen è una guerra occulta: oltre 4mila morti, un milione di sfol­lati interni, 21 milioni di per­sone senza accesso costante a cibo e acqua. Alla deva­sta­zione subita dalla popo­la­zione civile se ne aggiunge un’altra: quella alle immense ric­chezze archeo­lo­gi­che e archi­tet­to­ni­che di un paese che è stato culla della civiltà araba e isla­mica. Sana’a, Marib, Aden: città, che ad ogni angolo nar­rano la sto­ria del mondo arabo e il suo incon­tro con popoli asia­tici e afri­cani, sono in mace­rie. «Para­diso»: que­sto signi­fica in arabo il nome Aden, la città por­tuale a sud, tar­get dei vio­lenti raid della coa­li­zione anti-Houthi gui­data dall’Arabia sau­dita.

 

KHALIDI Lamya


Archéorient MSH Maison de l’Orient et de la Méditerranée
https://www.archeorient.mom.fr/annuaire/khalidi-lamya

 

Quello che lo Stato Isla­mico sta facendo in Iraq e in Siria, can­cel­lando Pal­mira e Nim­rud, Riyadh lo sta facendo in Yemen, nel silen­zio del mondo.

Ne abbiamo par­lato con Lamya Kha­lidi, archeo­loga stau­ni­tense di ori­gini pale­sti­nesi al Cen­tro Nazio­nale della Ricerca Scien­ti­fica (Cnrs) fran­cese. Lamya ha vis­suto in Yemen per otto anni e lo segue dal 2001. Oggi moni­tora i danni pro­vo­cati dal con­flitto in corso.

 

Dopo oltre cin­que mesi di guerra, è pos­si­bile fare un bilan­cio dei siti distrutti o dan­neg­giati, sti­mare le per­dite per il patri­mo­nio yeme­nita?

È dif­fi­cile dare i dati esatti, nep­pure le auto­rità locali sono in grado di muo­versi sul campo per docu­men­tare i dan­neg­gia­menti. Al momento, comun­que, il bilan­cio è ter­ri­bile. L’ultimo rap­porto del Mini­stero degli Interni risale al 19 luglio ( 2015 ) e com­prende 43 siti (moschee, siti archeo­lo­gici e luogi turi­stici). Ritengo che tale numero sia aumen­tato a dismi­sura negli ultimi due mesi a causa della vio­lenza dei bom­bar­da­menti. È impos­si­bile sti­mare il numero di reperti dan­neg­giati o distrutti. Pos­siamo farlo nel caso del Museo di Dha­mar, pol­ve­riz­zato in un bom­bar­da­mento aereo: cono­sce­vamo prima il numero di oggetti lì con­ser­vati, non ser­vono altre stime, si è perso tutto. E non dimen­ti­chiamo che i raid, il caos e la povertà faci­li­tano i sac­cheg­gia­menti di siti e musei. Ci sono poi siti chd sono stati bom­bar­dati più volte, come l’antica diga di Marib o i siti di Bara­qish e Sir­wah, risa­lenti al primo mil­len­nio a.C.

 

nota: siti chd — non trovato

 

Tra i siti più noti, sim­boli dell’impatto della distru­zione di un’eredità mon­diale, quali sono ormai persi per sem­pre?

Vista l’ampiezza della distru­zione, dob­biamo divi­dere i danni a patri­moni tan­gi­bili in cin­que cate­go­rie: le città; i monu­menti come moschee, cit­ta­delle, forti; i siti archeo­lo­gici; i reperti archeo­lo­gici; e i musei.

Il museo di Dha­mar è un signi­fi­ca­tivo esem­pio della por­tata della per­dita. Il museo ospi­tava decine di migliaia di reperti, alla cui cata­lo­ga­zione hanno lavo­rato molti archeo­lo­gici yeme­niti e stra­nieri. Si tro­vava in un sito archeo­lo­gico, sca­vato prima della costru­zione del museo. È stato pol­ve­riz­zato in un secondo, non rie­sco a capire come nes­suno possa rea­gire. Se il museo nazio­nale egi­ziano del Cairo fosse bom­bar­dato, il mondo si mobi­li­te­rebbe, scioc­cato e disgu­stato. Quando il museo di Mosul è stato van­da­liz­zato, i video hanno fatto il giro del mondo e la rea­zione della gente è stata duris­sima. Qui stiamo par­lando di musei nazio­nali, isti­tu­zioni nazio­nali che pro­teg­gono tesori ine­sti­ma­bili.

I siti archeo­lo­gici sono nume­rosi, molti sono stati col­piti all’inizio del con­flitto dalla coa­li­zione sau­dita e poi bom­bar­dati di nuovi, nono­stante gli sforzi di Une­sco e archeo­logi di pro­teg­gere un patri­mo­nio mon­diale. Tra que­sti la diga di Marib, ancora oggi tar­get, è un’impresa del genio inge­gne­ri­stico del primo mil­len­nio a.C. quando a gover­nare lo Yemen era la dina­stia Sabei.

Un’altra città della stessa epoca, Bara­qish, restau­rata da un team ita­liano, è stata col­pita solo pochi giorni fa: il tem­pio di Nakrah, com­ple­ta­mente sitrut­tu­rato dagli ita­liani, il tem­pio di Ath­tar, le mura cit­ta­dine e anche la casa usata dal team, sono ridotti in mace­rie.

 

Se par­liamo di città, classi­fi­cate siti Une­sco per la loro archi­tet­tura moz­za­fiato, unica, la lista è lunga: è dif­fi­cile tro­vare in Yemen un vil­lag­gio che non abbia la sua par­ti­co­la­rità.

Il più ovvio atto di van­da­li­smo sono i raid con­tro le città vec­chie di Sana’a e Shi­bam, entrambe patri­mo­nio dell’umanità.

Meno note sono Zabid, Saada e Wadi Dhahr, in lista per l’ingresso all’Unesco.

 

E poi ci sono i monu­menti, moschee e cit­ta­delle, tombe sacre, distrutti dai raid aerei o van­da­liz­zati da gruppi come Isis e al Qaeda, che vi vedono forme di ido­la­tria. Non è qual­cosa di nuovo in Yemen: da quando ci lavoro, da 15 anni, i mili­ziani Wah­habi spesso arri­vano dall’Arabia sau­dita per distrug­gere l’eredità yeme­nita. Ma que­ste moschee e tombe sono parte di un’identità ric­chis­sima e antica, che intrec­cia insieme l’Islam reli­gioso e quello cul­tu­rale.

 

Molti non sanno di quanto sia esteso il patri­mo­nio yeme­nita, della sua uni­ver­sa­lità. È un paese con una cul­tura che è un mosaico di ele­menti, dall’Asia sudoc­ci­den­tale, dall’Africa dell’Est, dal Medio Oriente. È un incre­di­bile mix di popoli, suoni, sapori, este­tica, archi­tet­tura che si sono uniti natu­ral­mente, in un modo bel­lis­simo, con sullo sfondo uno dei pae­saggi più vari al mondo. Ora tutto ciò è in pericolo.

 

Pensa che in futuro sarà pos­si­bile recu­pe­rare parte di que­sta ere­dità? O si tratta di danni irre­pa­ra­bili?

La prin­ci­pale tra­ge­dia sono le vit­time civili e la pro­fon­dità dei danni alle infra­strut­ture e alle case. Quando la crisi finirà, il recu­pero di que­sto patri­mo­nio non sarà una prio­rità. In ogni caso, si potrà recu­pe­rare solo quello che esi­ste ancora. Quello che è stato distrutto, è perso per sem­pre, è inso­sti­tui­bile. I bom­bar­da­menti con­ti­nui con­tro alcuni siti e la demo­li­zione com­pleta di altri lasciano ben poca spe­ranza. Quello che l’Isis sta com­piendo in Siria e Iraq con­tro i patri­moni locali è esat­ta­mente lo stesso di quello che Riyadh fa in Yemen.

 

Ci sono orga­niz­za­zioni inter­na­zio­nali che stanno ten­tando di fare pres­sioni sui sau­diti per pro­teg­gere que­sta ere­dità?

 

Quello che sta suc­ce­dendo in Yemen sta avve­nendo nel silen­zio asso­luto del mondo. Non c’è nep­pure una buona coper­tura media­tica. Intanto la gente è ter­ro­riz­zata, i raid sono così vio­lenti e col­pi­scono pesan­te­mente le aree abi­tate, intere fami­glie non sanno dove andare o cosa fare. Que­sta è la dimo­stra­zione che la coa­li­zione bom­barda indi­scri­mi­na­ta­mente, senza pre­oc­cu­parsi di vite umane, patri­mo­nio o diritto inter­na­zio­nale. I rac­conti di amici e col­le­ghi rima­sti in Yemen mi ricor­dano l’attacco israe­liano con­tro Gaza della scorsa estate.

 

Nel caso del patri­mo­nio sto­rico, i raid sono sì indi­scri­mi­nati ma anche molto pre­cisi.

Alcuni siti sono nel mezzo del deserto, come la diga di Marib. Puoi col­pirla solo con coor­di­nate pre­cise. E poi lo rifai, per set­ti­mane: è chia­ra­mente una distru­zione voluta per­ché quel sito non minac­cia nes­suno. Non ci sono strade vicino, né vil­laggi intorno. L’Unesco ha con­se­gnato all’Arabia sau­dita una lista di siti pro­tetti, ma Riyadh è indif­fe­rente. La pres­sione che viene fatta sui sau­diti è nulla: i ten­ta­tivi di pro­te­zione non sono pro­por­zio­nali al livello di distru­zione. L’Unesco cerca di fare la sua parte ma non ha influenza. Nes­suno ascolta.

 

In un edi­to­riale sul New York Times, lei ha par­lato di “van­da­lism sau­dita”.

Qual è l’obiettivo di Riyadh quando distrugge i sim­boli di un paese con una sto­ria mil­le­na­ria? Imporre la pro­pria nar­ra­tiva, la pro­pria auto­rità?

 

Non so quale sia l’obiettivo, ma posso dire che si tratta di una distru­zione cal­co­lata: cono­sco que­sti siti, dove si tro­vano, quali sono abi­tati e quali no, e so che non è facile col­pirli a meno che non lo si voglia. Dall’altro lato abbiamo città come Sana’a e Shi­bam, siti Une­sco, chia­ra­mente molto popo­lati: è evi­dente che siano affol­lati di civili e siano sede di un patri­mo­nio impor­tante. I sau­diti, che in mano hanno una lista no-fly, non rispon­dono alle domande sul per­ché stanno com­piendo una simile distru­zione.

Non penso lo faranno fino a quando i loro alleati, gli Stati Uniti e l’Europa, invie­ranno loro un equi­pag­gia­mento ad alta pre­ci­sione che pro­voca distru­zione di massa. Nes­suno li sta accu­sando di cri­mini con­tro l’umanità. Si tratta di puro van­da­li­smo, esat­ta­mente quello che com­pie l’Isis in Siria.

 

 

 

SEGUONO IMMAGINI DAL BLOG DI VIO CAVRINI– giugno 2015

https://www.ilblogdiviocavrini.com/2015/06/foto-yemen-new-entry.html

 

 

La spettacolare San’a, patrimonio dell’UNESCO (Yemen)

 

 

case torri nel centro di San’a

 

 

 

Cupola e minareto della moschea di Quabbat al-Bakirya a San’a, patrimonio dell’UNESCO (Yemen)

 

 

 

Gli orti  un tempo garantivano a San’a l’autosufficienza alimentare (Yemen)

 

 

 

Per le vie di San’a, patrimonio dell’UNESCO (Yemen)

 

 

 

San’a, patrimonio dell’UNESCO (Yemen)

 

 

 

Un temporale in arrivo a San’a (Yemen)

 

 

 

La città vecchia dietro la porta Bab el-Yaman – San’a, patrimonio dell’UNESCO (Yemen)

 

 

 

 

Il Dar al-Hajar, nel wadi Dhahr, ormai  divenuto l’edificio simbolo dello Yemen

 

 

 

Sa’da (Yemen)

 

 

 

 

 

 

Sa’da  e le mura della città vecchia

 

 

 

Villaggio nei dintorni di Sa’da (Yemen)

 

 

 

Villaggio nei dintorni di Sa’da (Yemen)

 

 

 

Villaggio nei dintorni di Sa’da (Yemen)

 

 

 

La porta di entrata a Thula (Yemen)

 

 

 

 

Per le strade di Thula

 

 

 

Le strade di Thula

 

 

 

L’antica città di Zabid, patrimonio dell’UNESCO (Yemen)

 

 

 

L’antica città di Zabid, patrimonio dell’UNESCO (Yemen)

 

 

Il ponte di Shahara XVII secolo, scavalca una gola  profonda 300 m. (Yemen)

 

 

 

 

Una delle cisterne per la raccolta dell’acqua  di Shahara (Yemen)

 

 

 

 

Scolare a Shahara (Yemen)

 

 

 

 

Tessitori a Zabid ( Yemen )

 

 

 

Al Thawila ( Yemen)

 

 

 

Paesaggio tipico delle montagne dello Yemen

 

 

 

Coltivazione a terrazze — in verde le piante di qat

 

 

 

Al-Hajjara (Yemen)

 

 

 

Al-Hajjara (Yemen)

 

 

 

Casa -torre di Al-Hajjara

 

 

 

Tipica porta yemenita (ricorda le porte delle case Dogon del Mali)

 

 

 

Al-Hajjara

 

 

 

La spettacolare Shibam — patrimonio Unesco

 

 

 

 

 

 

 

Il tempio del Sole a Marib, capitale del regno di Saba (V-VI sec. d.C.) (Yemen)

 

 

RIPETO IL LINK DA CUI HO PRESO TUTTE LE IMMAGINI PUBBLICATE, ANCHE PERCHE’ CE NE SONO ALTRE SEMPRE BELLISSIME, LE FOTO SONO DELL’AUTORE DEL BLOG: 

 

VIO CAVRINI

 

https://www.ilblogdiviocavrini.com/

 

 

Biohttps://www.ilblogdiviocavrini.com/p/biografia.html

Sono nato a Budrio (Wikipedia: Budrio), paese della bassa bolognese con radici etrusco-villanoviane e notevoli testimonianze medievali.

Ho conseguito il diploma di maturità classica al liceo-ginnasio Luigi Galvani di Bologna, dove ho cominciato ad amare la scrittura (vedere: I miei libri)
CONTINUA NEL LINK– DOVE SOTTO ” LIBRI ” TROVATE LE SUE PUBBLICAZIONI

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ANSA.IT — 20 LUGLIO 2024 –17.53  :: Raid ed esplosioni a Hodeida, nello Yemen. Dopo il drone degli Houthi su Tel Aviv di ieri.

 

 

CARTINA DA:
https://www.cbc.ca/news/world/yemen-airport-hodeidah-houthis-saudi-1.4711997

 

 

ANSA.IT — 20 LUGLIO 2024 –17.53
https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2024/07/20/raid-ed-esplosioni-a-hodeida-nello-yemen_a711321d-c9c7-427a-8aeb-e24a438b91af.html

 

 

Raid ed esplosioni a Hodeida, nello Yemen.

Dopo il drone degli Houthi su Tel Aviv di ieri.

 

 

 

 

- RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Attacchi ed esplosioni vengono riferiti in questi minuti nella città di Hodeida controllata dagli Houthi, nello Yemen occidentale.

Le immagini che circolano sui social mostrano il fumo che si alza da un sito preso di mira.

Gli attacchi arrivano un giorno dopo che un drone Houthi ha colpito Tel Aviv, uccidendo un uomo. Lo riportano i media israeliani.
Secondo al Arabiya sarebbe un attacco israeliano. Da Israele al momento non ci sono conferme.

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IL FATTO QUOTIDIANO / 19 LUGLIO 2024 — L’Aja: “Israele deve terminare la presenza illegale nei Territori palestinesi”. Netanyahu: “Non siamo conquistatori nella nostra terra”

 

 

IL FATTO QUOTIDIANO — 19 LUGLIO 2024
https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/07/19/la-corte-de-laja-israele-deve-terminare-la-presenza-illegale-nei-territori-palestinesi-i-ministri-smotrich-e-ben-gvir-annettiamoli/7629763/

 

 

L’Aja: “Israele deve terminare la presenza illegale nei Territori palestinesi”. Netanyahu: “Non siamo conquistatori nella nostra terra”

 

 

L’Aja: “Israele deve terminare la presenza illegale nei Territori palestinesi”. Netanyahu: “Non siamo conquistatori nella nostra terra”

 

 

 

 

 

“Lo Stato di Israele ha l’obbligo di porre fine alla sua presenza illegale nei Territori palestinesi occupati il più rapidamente possibile, di cessare immediatamente tutte le nuove attività di insediamento, di evacuare tutti i coloni e di risarcire i danni arrecati”. Nonostante le Nazioni Unite ripetano da decenni che le colonie israeliane nei Territori occupati sono illegali, considerando i confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni del 1967, viste le incessanti autorizzazioni alla costruzione di nuovi insediamenti l’Assemblea generale dell’Onu aveva deciso di richiedere un nuovo parere consultivo ai giudici del tribunale internazionale. E la risposta da L’Aja è stata la medesima: quelle colonie sonoillegali“.

 

Se la speranza delle Nazioni Unite era quella di riportare il governo israeliano sulla strada della legalità, le dichiarazioni che arrivano da Tel Aviv vanno invece nella direzione opposta.

I ministri della destra radicale dell’esecutivo israeliano, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, hanno infatti chiesto “l’annessione” di larghe parti della Cisgiordania in risposta al parere espresso dalla Corte.

Poco dopo il concetto è stato ribadito anche dal primo ministro, Benjamin Netanyahu, secondo cui “il popolo ebraico non è conquistatore nella propria terra, né nella nostra eterna capitale Gerusalemme, né nella terra dei nostri antenati in Giudea e Samaria“.

E ha promesso che “nessuna falsa decisione dell’Aja distorcerà questa verità storica, così come non si può contestare la legalità dell’insediamento israeliano in tutti i territori della nostra patria”.

E anche colui che è considerato un leader più moderato rispetto all’attuale esecutivo, l’uomo che la Casa Bianca ha individuato come interlocutore nel caso di una fine dell’esecutivo Netanyahu, Benny Gantz, adotta questa falsa narrativa: “È l’ennesima testimonianza di un’ingerenza esterna che non solo è controproducente per la sicurezza e la stabilità regionale e trascura il massacro del 7 ottobre e il terrorismo in Giudea e Samaria, ma serve come un altro esempio di ‘giudizializzazione’ di un conflitto politico. Continueremo a difenderci da chi cerca la nostra distruzione e di proteggere l’unico e solo Stato ebraico“.

 

Le repliche non rappresentano un sentimento minoritario all’interno del panorama politico israeliano. Tutt’altro.

Lo dimostra il voto del 18 luglio, quando la Knesset, il Parlamento israeliano, con 68 voti a favore e solo 9 contrari ha approvato una risoluzione che respinge l’istituzione di uno Stato palestinese, la via indicata dalla comunità internazionale come l’unica in grado di portare a una pacificazione duratura tra i due popoli. Il pronunciamento dell’assemblea israeliana non ha lasciato indifferenti nemmeno alcuni governi europei.

Così, l’Ungheria, da quanto si apprende, nel corso della riunione dei 27 rappresentanti permanenti (Coreper) in vista del prossimo Consiglio europeo Affari Esteri, ha deciso di bloccare la dichiarazione congiunta sul conflitto a Gaza proprio perché la presa di posizione della Knesset cambia sensibilmente la postura che le cancellerie di Bruxelles intendono assumere.

 

Dall’Autorità Nazionale Palestinese, invece, arrivano commenti positivi sul pronunciamento dei giudici de L’Aja:

“Una vittoria della giustizia – ha dichiarato il presidente Abu Mazen – L’occupazione israeliana è illegale e Israele deve porre fine alla sua occupazione e alla sua presenza in Cisgiordania, cessare immediatamente qualsiasi attività di insediamento ed evacuare i Territori”. La presidenza dell’Anp ha poi chiesto alla comunità internazionale di “obbligare Israele a porre fine completamente e immediatamente alla sua occupazione e al suo progetto coloniale, senza restrizioni o condizioni”.

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Pasquale Pugliese @PasqPugliese – 7.50 — 20 luglio 2024 — grazie di aver condiviso, così si fa girare un po’.. ciao ! + Anpi Mantova con le date

 

 

 

X  Pasquale Pugliese

https://x.com/PasqPugliese

 

 

 

 

 

Oggi la #liberazione si chiama #disarmo,

la #resistenza si chiama #nonviolenza.

Ne parliamo stasera alla #PastasciuttaAntifascista di Asola, nel mantovano

 

 

 

 

 

 

una bella foto di Asola  – link sotto

 

 

Nessuna descrizione della foto disponibile.

foto di Asola dal Facebook — 20 maggio 2023

Asola: Eventi, Notizie e Curiosità 

 

 

 

L’elenco degli appuntamenti nel Mantovano::

 

ASOLA sabato 20 e domenica 21 luglio ore 19.30 Casa degli Alpini
MANTOVA mercoledì 24 luglio ore 20.00 Campo Canoa
CASTIGLIONE giovedì 25 luglio ore 19.30 Arci Dallò
SUZZARA giovedì 25 luglio ore 19.00 Giardini Aronne Verona
MONTANARA giovedì 25 luglio ore 20.00 Parco Pognani
PORTO MANTOVANO venerdì 26 luglio ore 20.00 bocciofila Montata Carra
VILLASTRADA di DOSOLO domenica 28 luglio ore 19.30 Parco Primo Maggio
POLESINE di PEGOGNAGA lunedì 29 luglio ore 20.30 Area Feste
SERRAVALLE a PO mercoledì 7 agosto ore 20 Parco la Grola – Torriana

 

 

 

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Battaglia di Curtatone e Montanara (29 maggio 1848)
Pietro Senno –

 

 

Villastrada di Dosolo,
pastasciutta antifascista

 

 

 

 

Nel corso delle Pastasciutte sarà possibile firmare per il referendum abrogativo della legge sull’autonomia differenziata, Anpi fa parte del Comitato promotore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MANTOVA – Come ogni estate, il 25 luglio l’Anpi Provinciale di Mantova celebra il ricordo della Pastasciutta Antifascista dei fratelli Cervi, simbolo di condivisione della speranza e del desiderio di pace e libertà con cui nel luglio del 1943 si festeggiò la caduta del Fascismo e del governo di Mussolini in Italia.
“Anno dopo anno si moltiplica il numero delle Pastasciutte Antifasciste organizzate dai vari territori e aumenta la partecipazione delle cittadine e dei cittadini, a sottolineare quanto gli ideali della Resistenza e la speranza di pace e giustizia sociale siano presenti e importanti all’interno della nostra società, oggi come ieri – si legge nella nota diffusa da Anpi – oggi più che mai è importante riconoscerci e unirci come Antifascisti a difesa dei valori espressi dalla nostra Costituzione, figlia della Resistenza e strumento imprescindibile di equilibrio tra i poteri in difesa dei più deboli”.
Da qui la presenza di Anpi provinciale sul territorio con le Pastasciutte organizzate dalle diverse sezioni, insieme alle associazioni e a tutti coloro che si riconoscono negli ideali rappresentati dalla famiglia Cervi e dal loro gesto di condivisione e di speranza.

 

 

In 300 alla pastasciuttata antifascista, una grande festa con i Cervi nel cuore

 

da :

Pastasciutta Antifascista, gli appuntamenti nel Mantovano

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ANSA.IT — 20 LUGLIO 2024 –15.40 :: Oms Europa: in 8 settimane i casi Covid sono aumentati di 5 volte. Kluge: ‘I ricoveri cresciuti del 51% rispetto a 4 settimane fa’ – La variante Kp3 – cosa sappiamo (link )

 

*** come saprai, facendo clic su ” traduci  ” ( al fondo del testo ) hai la traduzione in italiano. Sarebbe bene per noi giovanetti tenerlo d’occhio–

 

 

 

ANSA.IT — 20 LUGLIO 2024 –15.40
https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2024/07/20/oms-europa-in-8-settimane-i-casi-covid-sono-aumentati-di-5-volte_dccbda14-ae57-4307-9445-39735b1bcf81.html

 

 

Oms Europa: in 8 settimane i casi Covid sono aumentati di 5 volte.

 

Kluge: ‘I ricoveri cresciuti del 51% rispetto a 4 settimane fa’

ANSACheck

Covid - RIPRODUZIONE RISERVATA

 Covid –

 

“Il Covid-19 non è scomparso: nella regione dell’Oms Europa, che comprende 53 Stati membri di Europa e Asia centrale, la percentuale di pazienti con malattie respiratorie risultati positivi al test per Sars-CoV-2 nelle reti delle cure primarie è aumentata di 5 volte nelle ultime 8 settimane”, e il numero di ricoveri ospedalieri nelle ultime 4 settimane nell’area “è del 51% più alto rispetto alle 4 settimane precedenti”.

 

Lo riferisce il direttore dell’ufficio regionale dell’Oms per l’Europa, Hans Kluge su X.

Quanto ai morti riportati nelle ultime 4 settimane il dato “è del 32% più alto rispetto alle 4 settimane precedenti”.

 

 

“Non è allarmismo” ma “il compito dell’Oms è quello di aiutare a proteggere la salute e il benessere attraverso consigli tempestivi a governi e cittadini. L’Oms Europa prende sul serio questo mandato” precisa Kluge, spiegando che a preoccuparsi per il contagio con Sars-CoV-2, per il rischio di forme gravi, dovrebbero essere “le persone anziane o immunodepresse, le persone con più patologie pre-esistenti, le donne incinte, il personale sanitario che potrebbe essere facilmente esposto nei propri ambienti di lavoro”.

 

E, alla luce dei dati che documentano l’aumento dei casi in Europa, Kluge ricorda che gli strumenti per ridurre il rischio di malattia grave ci sono:

Rimanere aggiornati con le vaccinazioni Covid; garantire un rapido accesso al trattamento antivirale per le persone ad alto rischio; adottare precauzioni sensate tra cui indossare la mascherina per le persone particolarmente vulnerabili in spazi chiusi affollati con un’apposita mascherina monouso ‘respiratoria’; tenersi lontani dagli altri se si è affetti da Covid o si sospetta di esserlo; adottare precauzioni se si deve interagire con persone che hanno o si sospetta abbiano contratto il Covid (ad esempio familiari o persone che fanno assistenza); lavarsi regolarmente le mani, misura di controllo delle infezioni veramente efficace.

Tutti coloro che sono ad alto rischio di gravi conseguenze da Covid dovrebbero sottoporsi a un vaccino aggiornato ogni anno”.

“Inoltre, coloro che sono ad altissimo rischio, compresi gli anziani e le persone immunodepresse, dovrebbero sottoporsi a un vaccino aggiornato ogni 6 mesi. I vaccini salvano vite”, conclude il direttore dell’ufficio regionale dell’Oms per l’Europa.

 

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Elisa Canetri @CanetriElisa — che ringraziamo ! / 13.20 — 19 luglio 2024 — pubblica per noi ” L’Ora d’arte ” di Tomaso Montanari sul Venerdì di Repubblica–del 19 luglio

 

 

X   ELISA CANETRI — link
https://x.com/CanetriElisa/status/1814258984699797868

 

 

 

Immagine

 

 

 

 

 

La facciata verso via Gregoriana

A colpire la vista e l’immaginazione sono innanzitutto il grande portone e le finestre che si trovano sulla facciata in via Gregoriana e che hanno fatto guadagnare al palazzo il soprannome di Casa dei Mostri. Le loro cornici esterne hanno infatti l’aspetto di gigantesche bocche aperte: fu lo stesso Zuccari a volere queste decorazioni particolari che suscitavano stupore nei visitatori e che contrastavano con la bellezza idilliaca del giardino e degli interni della casa

da : turismo.roma.it

 

 

 

 

undefinedPalazzetto Zuccari, fronte su piazza della Trinità dei Monti
Georg Schelbert – Opera propria

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Palazzetto_Zuccari

 

 

L’ entrata con il Mostro

 

Victor Andrade – Opera propria

 

 

 

in bianco e nero, una foto di Paolo Monti
Fondo Paolo Monti, presso il Civico Archivio Fotografico di Milano.

 

foto da : https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Palazzo_Zuccari,_Rome?uselang=it

 

 

nota : 

 

PAOLO COLLARETA,  storico dell’arte

 

 Marco Collareta è nato a Merano (Bolzano) l’8 marzo 1952-

Marco Collareta, dopo aver svolto gli studi universitari presso l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore, ha insegnato presso l’Università di Bergamo. Attualmente insegna Storia dell’arte medievale, Storia della miniatura e delle arti suntuarie nel Medioevo e Storia delle tecniche artistiche presso l’Università di Pisa. I suoi studi riguardano la storia dell’arte tra tardo Medioevo e prima Età Moderna, con particolare riguardo per l’oreficeria, la scultura e le fonti letterarie.

 

«Visibile parlare»: l’arte medievale come linguaggio

pdf .. 2005

 

La Divina Commedia è un mondo letterario talmente ricco che vi sono molti modi per attraversarla da lettori. Ad esempio possiamo passeggiare con Dante come se fossimo in una galleria d’arte, soffermandoci su immagini che sembrano quadri, tanto sono ben dipinte dall’autore; ma possiamo anche sostare di fronte a delle sculture di marmo, opere d’arte che prendono corpo dalle terzine, come Dante e Virgilio nel canto X del Purgatorio. Particolarmente importanti, sottolinea l’autore, sono le parole che Dante usa per descrivere queste sculture perché trovare un collegamento tra le parole e le idee di Dante e le “cose d’arte” a cui si riferisce ci può aiutare a ripercorrere l’esperienza artistica medievale.

 

Vita e Pensiero Editore

 

 

Alcune opere di Marco Collareta presso :

PISA UNIVERSITY PRESS

https://www.pisauniversitypress.it/autore-marco-collareta-260466.html

 

 

 

qui da IBS se ne vedono di più :

opere marco collareta

https://www.ibs.it/libri/autori/marco-collareta

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Pietro Secchia Nuovo– link sotto — LA STORIA SIAMO NOI .. / 04 luglio 1941 — LA STRAGE DI LEOPOLI– grazie ! + due libri e qualche foto

 

 

 

bellissime foto di Liviv — come saranno adesso luglio 2024 ? anche se la città è stata, per quel poco che sappiamo, più risparmiata di altre

 

 

Lemberg: Florenz des Ostens - [GEO]

Se guardi Leopoli dall’alto, ricorda Firenze in Italia con la cupola della cattedrale e i campanili

©Viktor/Fotolia

foto GEO

 

 

Veduta aerea del centro storico di Leopoli, Ucraina – Foto stock

Cathedral, Church, City, Cityscape, Summer

un’altra foto di LVIV

Veduta aerea del centro storico di Leopoli, Ucraina

 

Vecchia strada nel centro di Leopoli

Vecchia strada nel centro di Leopoli – LVIV

 

 

 

FACEBOOK — PIETRO SECCHIA NUOVO

4 LUGLIO 2024 — ore 20.27

https://www.facebook.com/profile.php?id=100094715080360

 

 

La Storia siamo noi…

04/07/1941, la strage di Leopoli ( Lvov ).

 

 

I nazisti compiono l’efferato omicidio di 25 intellettuali e scienziati polacchi residenti nella città occupata di Lvov.

Nel luglio 1941 venticinque accademici polacchi della città di Leopoli (oggi in Ucraina) furono uccisi dalle forze di occupazione naziste con i loro complici.

Come loro pratica comune, i nazisti, prendendo di mira eminenti cittadini ed intellettuali speravano di impedire attività resistenziali e quindi d’indebolire il movimento di resistenza polacco.

Secondo un testimone oculare le esecuzioni furono fatte da un’unità delle Einsatzgruppen (Einsatzkommando zur besonderen Verwendung) sotto il comando dello SS-Brigadeführer Karl Eberhard Schöngarth con la partecipazione attiva di traduttori ucraini (banderisti), che indossavano uniformi tedesche.

Prima del settembre 1939 e dell’invasione dell’esercito hitleriano della Polonia,

Leopoli ( allora città polacca), contava 318 000 abitanti di diversi gruppi etnici e religiosi, di questi, il 60% dei quali erano polacchi, il 30% ebrei e circa il 10% ucraini e tedeschi.

Leopoli era uno dei più importanti centri culturali della Polonia dell’anteguerra, tant’è vero che in seno alla città, oltre all’Università vi era presente il Politecnico ed un’accademia specializzata nella preparazione dei funzionari del settore commercio estero.

In città, abitavano intellettuali polacchi ed ebrei polacchi, attivisti politici ed animatori culturali, scienziati e membri dell’intellighenzia della Polonia del periodo interbellico.

Dopo l’arrivo dei sovietici, l’Università di Leopoli fu ribattezzata in onore di Ivan Franko, un’importante figura letteraria ucraina vissuta a Leopoli e la lingua d’istruzione, il polacco gli venne affiancato anche l’ucraino.

Dopo l’avvio dell‘operazione Barbarossa, Leopoli fu occupata dalle forze tedesche nel giugno 1941.

Insieme alle unità tedesche della Wehrmacht, numerose formazioni dell’Abwehr e delle SS entrarono in città.

Durante l’occupazione nazista, quasi tutti i 120 000 abitanti ebraici della città furono uccisi, dentro il ghetto cittadino o nel campo di sterminio di Bełżec, alla fine della guerra, solo 200–800 ebrei sopravvissero.

Per controllare la popolazione i cittadini gli intellettuali, particolarmente ebrei e polacchi, furono o confinati nei ghetti o trasportati nei siti di esecuzione, come la prigione della Gestapo in via Pełczyńska, la prigione di Brygidki, l’ex prigione militare a Zamarstynów e nei campi circostanti la città — nel sobborgo di Winniki, sulle colline Kortumówka e nel cimitero ebraico.

Molti degli uccisi erano eminenti esponenti della società polacca: politici, artisti, sportivi, scienziati, sacerdoti, rabbini e altri membri dell’intellighenzia.

L’omicidio di massa, perpetrato dai nazisti (fatto salvo le genti di etnia ebrea), rientrava in una logica preventiva utile nel mantenere la resistenza polacca frammentata ed assolutamente non in grado d’infastidire l’occupante hitleriano.

Altro non era, che la continuazione diretta della famigerata Ausserordentliche Befriedungsaktion, uno dei primi stadi del Generalplan Ost, politiche anti slave, iniziate con la campagna tedesca contro l’URSS.

Uno dei primi crimini nazisti compiuti a Leopoli, fu l’omicidio di massa dei professori polacchi, con loro, anche alcuni dei loro parenti e ospiti, compiuto all’inizio del luglio 1941.

Brevemente, già dal 2 luglio 1941 erano in corso esecuzioni individuali pianificate.

Alle tre di notte, tra il 02 ed il 03/07/1941, il prof. Kazimierz Bartel fu arrestato da uno degli Einsatzgruppen operanti nell’area.

Nella notte fra il 3 e il 4 luglio, parecchie dozzine di professori e le loro famiglie furono arrestate dai distaccamenti tedeschi (quest’ultime consistenti di un ufficiale, soldati e guide ed interpreti ucraini).

Le liste furono preparate da complici nazionalisti ucraini, per la verità, in un secondo momento si venne alla conoscenza che queste liste di proscrizione, vennero compilate dai loro studenti ucraini, quest’ultimi, quasi sempre associati all’OUN (Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini).

Tale organizzazione, di fatto, altro non era che un partito politico nazionalista e fascista fondato nel 1929 da esuli ucraini anticomunisti e anti-russi nella città di Vienna.

A questo riguardo, dall’aprile 1941, la frangia dell’OUN sostenitrice di Stepan Bandera (OUN-B) si avvicinò molto all’ideologia del fascismo italiano e successivamente questi nazionalisti, abbracciarono senza alcun problema i dettami dell’ideologia hitleriana.

Tornando alla strage dei professori, quelli menzionati nelle liste degli studenti ucraini, alcuni di loro alla data del 04/07/1941, di fatto erano già morti.

Nello specifico, i professori Adam Bednarski e Roman Leszczyński.

I detenuti ancora in vita, furono trasportati al dormitorio di Abrahamowicz, dove prima di essere giustiziati, furono torturati e interrogati.

Nel primo mattino del 4 luglio, uno dei professori e la maggior parte delle persone del suo nucleo famigliare arrestate con lui, furono liberati, mentre i restanti furono o portati sulle colline Wulka per essere giustiziati, oppure uccisi, sparando loro nel cortile dell’edificio Bursa Abrahamowiczów.

Secondo gli storici polacchi, le vittime non erano in alcun modo coinvolte nella politica.

Dagli studi effettuati, dopo la fine del conflitto mondiale, su approssimativamente 160 professori polacchi che vivevano a Leopoli nel giugno 1941, i professori scelti per l’esecuzione, erano specificamente quelli che in qualche modo avevano cooperato attivamente con i sovietici tra il 1940 e il 1941.

La decisione di effettuare la strage, fu presa al più alto livello delle autorità del terzo Reich.

Il responsabile diretto, in merito al massacro fu il comandante della Sicherheitspolizei (Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des SD – BdS) nel Governatorato Generale del Distretto di Cracovia, il Brigadeführer Karl Eberhard Schöngarth.

Parteciparono anche i seguenti ufficiali della Gestapo: Walter Kutschmann, Felix Landau, Heinz Heim (Capo di Staff Schöngarth), Hans Krueger (Krüger) e Kurt Stawizki.

Nessuno di loro fu mai punito per il ruolo avuto nel massacro di Leopoli.

Mister Kutschmann, visse sotto falsa identità in Argentina fino al gennaio 1975, quando fu trovato e smascherato dal giornalista Alfredo Serra.

Fu arrestato, dieci anni dopo nella città argentina di Florida da agenti dell’Interpol, tuttavia, morì di attacco cardiaco in carcere prima di essere estradato, il 30 agosto 1986.

Testimoni oculari, sostengono che membri degli ausiliari ucraini del Battaglione Nachtigall fossero i veri responsabili degli omicidi.

Tuttavia, Stanisław Bogaczewicz, dell’Istituto della Memoria Nazionale, affermò che i soldati del Nachtigall presero parte agli arresti, ma non agli omicidi.

Il sociologo Tadeusz Piotrowski notò che, sebbene il ruolo dei Nachtigall sia contestato, essi erano presenti in città durante gli eventi, che le loro attività non sono adeguatamente documentate e che come minimo sono colpevoli della collaborazione sia attiva che passiva in questo evento.

Solo nel 1960, con l’aiuto delle autorità del governo locale sovietico (l’Ucraina era parte dell’Urss) la dott.ssa Helena Krukowska, vedova del prof. Włodzimierz Krukowski, fece appello al tribunale di Amburgo per avere giustizia in merito all’accaduto.

Dopo cinque anni il tribunale tedesco chiuse i procedimenti giudiziari.

Un pubblico ministero tedesco (risultato successivamente, legato all’associazione dei reduci nazisti) asserì che le persone responsabili del crimine erano già morte; tuttavia, l’SS-Hauptsturmführer Hans Krueger (scritto anche Krüger), comandante dell’unità della Gestapo che supervisionò i massacri a Leopoli nel 1941, era detenuto nella prigione di Amburgo.

Condanna che gli venne inflitta (l’ergastolo) per l’omicidio di massa di ebrei e polacchi a Stanisławów, commesso parecchie settimane dopo che la sua unità fu trasferita da Leopoli.

Ma come spesso avvenne, nei tribunali della Germania occidentale, il risultato del dibattimento, fu che nessuna persona interessata all’eccidio dei professori di Leopoli, sia mai stata ritenuta responsabile di questa atrocità.

Ricordo alle amiche ed agli amici, che negli ’70 del secolo scorso, Via Abrahamowicz a Leopoli fu rinominata Via Tadeusz Boy-Żeleński.

Varie organizzazioni polacche hanno fondato delegazioni per ricordare le vittime dell’atrocità con un monumento o una tomba simbolica a Leopoli.

Il caso dell’omicidio dei professori ancora oggi è sotto indagine da parte dell’Istituto della Memoria Nazionale.

Che nel maggio 2009 il monumento alle vittime di Leopoli fu sfregiato con vernice rossa recante le parole: “Morte ai Lach [Polacchi]” siglato dal simbolo dei nazionalisti ucraini.

Le vittime di questa efferata strage:

Prof. dr. Antoni Cieszyński, professore di stomatologia, (UJK);

Prof. dr. Władysław Dobrzaniecki, capo dell’organizzazione del Reparto di chirurgia, (PSP);

Prof. dr. Jan Grek, professore di medicina interna, (UJK);

Maria Grekowa, moglie del Prof. Jan Grek;

Prof. ass. dr. Jerzy Grzędzielski, capo dell’Istituto di oftalmologia, (UJK);

Prof. dr. Edward Hamerski, capo di medicina interna, (AWL);

Prof. dr. Henryk Hilarowicz, professore di chirurgia, (UJK);

Rev. dr. Władysław Komornicki, teologo, un parente della famiglia Ostrowski;

Eugeniusz Kostecki, marito della domestica del prof. Dobrzaniecki;

Prof. dr. Włodzimierz Krukowski, capo dell’Istituto di misurazione elettrica, (PL);

Prof. dr. Roman Longchamps de Bérier, capo dell’Istituto di diritto civile, (UJK);

Bronisław Longchamps de Bérier, figlio del prof. Longchamps de Bérier;

Zygmunt Longchamps de Bérier, figlio del prof. Longchamps de Bérier;

Kazimierz Longchamps de Bérier, figlio del prof. Longchamps de Bérier;

Prof. dr. Antoni Łomnicki, capo dell’Istituto di matematica, (PL);

Adam Mięsowicz, nipote del prof. Sołowij;

Prof. dr. Witołd Nowicki, preside della Facoltà di anatomia e patologia, (UJK);

Dr. med. Jerzy Nowicki, assistente all’Istituto di igiene (UJK), figlio del prof. Witołd Nowicki;

Prof. dr. Tadeusz Ostrowski, capo dell’Istituto di chirurgia (UJK);

Jadwiga Ostrowska, moglie del prof. Ostrowski;

Prof. dr. Stanisław Pilat, capo dell’Istituto di tecnologia del petrolio e dei gas naturali (PL);

Prof. dr. Stanisław Progulski, pediatra (UJK);

Andrzej Progulski, figlio del prof. Progulski;

Prof. dr. Roman Rencki, capo dell’Istituto di medicina interna (UJK);

Dr. med. Stanisław Ruff, capo del Dipartimento di chirurgia dell’Ospedale Ebraico;

Anna Ruffowa, moglie del dr. Ruff;

Ing. Adam Ruff, figlio del dr. Ruff;

Prof. dr. Włodzimierz Sieradzki, preside della Facoltà di medicina forense (UJK);

Prof. dr. Adam Sołowij, ex capo del Dipartimento di ginecologia e ostetricia del PSP;

Prof. dr. Włodzimierz Stożek, preside della Facoltà di matematica (PL);

Ing. Eustachy Stożek, assistente al Politecnico di Leopoli, figlio del prof. Włodzimierz Stożek;

Emanuel Stożek, figlio del prof. Włodzimierz Stożek;

Dr. Tadeusz Tapkowski, avvocato;

Prof. dr. Kazimierz Vetulani, preside della Facoltà di meccanica teorica (PL);

Prof. dr. Kacper Weigel, capo dell’Istituto delle misure (PL);

Mgr. Józef Weigel, figlio del prof. Kacper Weigel;

Prof. dr. Roman Witkiewicz, capo dell’Istituto dei macchinari (PL);

Prof. dr. Tadeusz Boy-Żeleński, scrittore e medico, capo dell’Istituto di letteratura francese;

Assassinati nel cortile della Bursa Abrahamowiczów, un’ex scuola a Leopoli, ora un ospedale:

Katarzyna Demko, insegnante di lingua inglese;

Dr. Stanisław Mączewski, capo del Dipartimento di ginecologia e ostetricia del PSP;

Maria Reymanowa, infermiera;

Wolisch (nome ignoto), commerciante ex funzionario statale.

Assassinati il 12 luglio:

Prof. dr. Henryk Korowicz, capo dell’Istituto di economia (AHZ);

Prof. dr. Stanisław Ruziewicz, capo dell’Istituto di matematica (AHZ).

Assassinati il 26 luglio nella Prigione di Brygidki:

Prof. dr. Kazimierz Bartel, ex Primo Ministro della Polonia, ex rettore del PL, presidente del Dipartimento di geometria (PL).

Legenda delle abbrevazioni:

UJK = Uniwersytet Jana Kazimierza (Università di Leopoli, ora Università nazionale Ivan Franko di Leopoli)

PSP = Państwowy Szpital Powszechny (Ospedale Pubblico Nazionale)

PL = Politechnika Lwowska (Politecnico di Leopoli)

AWL = Akademia Weterynaryjna we Lwowie (Accademia di scienze veterinarie)

AHZ = Akademia Handlu Zagranicznego we Lwowie (Accademia di commercio estero a Leopoli).

Nell’immagine postata, il monumento alle vittime della strage dei Professori a Breslavia (Polonia).

Il simbolo dell’ Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini.

Potrebbe essere un'immagine raffigurante monumento

 

 

 

Potrebbe essere un'immagine raffigurante il seguente testo "ፈ"

 

 

 

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UN LIBRO CHE RIGUARDA UN’ALTRA CITTA’ POLACCA

 

I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia - Jan T. Gross - copertina

 

I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia

 

In un campo nei pressi di Jedwabne, una città del nordest della Polonia, c’è una targa che ricorda l’uccisione di 1.600 ebrei per mano della Gestapo e della polizia tedesca. Solo dopo sessant’anni si è scoperto invece che la targa racconta una parziale verità. Secondo una ricerca basata su diverse testimonianze oculari raccolte dall’autore, fu infatti il sindaco Marian Karolak a far radunare tutti gli ebrei nella piazza centrale della città dove ben presto vennero circondati da uomini armati che cominciarono a colpirli con pietre e bastoni. La polizia tedesca si limitò a fotografare il massacro. Un libro che apre un capitolo nuovo sulla responsabilità dei civili che in molti casi si rivelarono zelanti esecutori degli ordini tedeschi.

 

 

 

 

GARIWO : LA FORESTA DEI GIUSTI

 

https://it.gariwo.net/giusti/memoria/jan-tomasz-gross-24017.html

 

 

JAN TOMASZ GROSS (1947)

 

Lo storico che svelò il massacro degli ebrei di Jedbawne da parte dei polacchi

 

 

 

Nato a Varsavia, figlio di Hanna Szumańska (cattolica, membro della resistenza polacca, distintasi per il salvataggio di molti ebrei), e di Zygmunt Gross, ebreo, militante del Partito Socialista Polacco. A causa della campagna antisemita del 1968, scatenata dal potere comunista polacco, il giovane Gross emigrò negli Stati Uniti dove è stato Professore di Storia alla Princeton University e docente di Scienze Politiche alla New York Univeristy. Specialista dei rapporti tra polacchi ed ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.

La vicenda del massacro di Jedwabne, da lui ricostruita e coraggiosamente pubblicata, ne I carnefici della porta accanto (2001), suscitò in Polonia un putiferio di polemiche e violente accuse a Gross di antipatriottismo e menzogne verso i polacchi. Il suo libro ha invece contributo a togliere un velo di omertà che la storiografia ufficiale polacca ha sempre tentato di stendere (e ancora tenta) sul comportamento antisemita di molti polacchi.

La cittadina di Jedwabne si trova nelle vicinanze di Białystok, nella parte orientale della Polonia. Alla vigilia della Guerra vi abitavano 2167 persone, delle quali il 60% erano ebrei. Inizialmente Jedbawne fu invasa dai tedeschi, che bruciarono la Sinagoga, ma poi, in base al patto Ribbentrop-Molotov, passò sotto il controllo sovietico. Nel giugno del 1940, nelle sue vicinanze, fu annientato un gruppo di partigiani antisovietici: circa 250 vennero arrestati, alcuni furono uccisi, altri deportati in Siberia. I delatori erano stati dei polacchi, ma la gente sospettò gli ebrei. Il 23 giugno del 1941, la cittadina fu occupata di nuovo dai tedeschi. Il giorno seguente, i polacchi iniziano ad assassinare alcuni ebrei per strada. Alcuni anziani furono presi e torturati a morte e delle donne inseguite e bastonate bestialmente. Settantacinque tra i più giovani e robusti ebrei vennero costretti a portar via dalla piazza il pesante monumento a Lenin, eretto dai sovietici. Dovettero scavare, cantando, una fossa e buttarcelo dentro. Dopo anche loro vi furono gettati e sepolti. Lo sterminio di 1600 persone si concluse il 10 luglio. Capeggiati dal sindaco Karolak, nominato dai tedeschi, alcuni cittadini armati ammassarono gli ebrei superstiti (a eccezione di sette persone che furono nascoste da polacchi e riuscirono poi a fuggire). Li costrinsero a marciare in fila dietro al rabbino novantenne con una bandiera rossa. Li chiusero in un fienile e, dopo averlo cosparso di nafta, gli dettero fuoco. Poi andarono a cercare, per le case degli ebrei, gli eventuali scampati, tra i vecchi ammalati e i bambini.

Secondo la testimonianza di Julia Sokołowska “i tedeschi stavano a distanza e facevano foto che poi mostrarono per far vedere come i polacchi massacravano gli ebrei”. Quello che raccontano i testimoni è sufficiente. A compiere il massacro furono in pochi. Ma il resto degli abitanti “ridevano e facevano il tifo”, inseguivano gli ebrei che fuggivano e bloccavano loro la strada. Il prete Aleksander Dolegowski, al quale alcune donne ebree si rivolsero per chiedere un intervento che fermasse il massacro, disse che “tutti gli ebrei dai più giovani ai sessantenni sono comunisti e non ho nessun interesse a difenderli”. Il medico polacco Jan Mazurek si rifiutò di curare i feriti e fornire delle medicine agli ebrei che le chiedevano. Il principale artefice del pogrom venne poi fermato e ucciso dai nazisti per essersi impadronito di beni ebraici.

Ma la storia non finì lì. Nella primavera del 1945 vennero assalite e minacciate di morte due famiglie polacche (i Karwowski e i Wyrzykowski) ritenute colpevoli di aver nascosto e salvato i sette ebrei. L’ 8 gennaio del 1949 la polizia politica polacca arrestò 15 persone sospettate di essere gli artefici del pogrom. Nel processo, che si svolge il 16-17 maggio dello stesso anno, 11 persone vennero riconosciute colpevoli e condannate a pene tra i 5 e 15 anni, e uno (Karol Bardon) fu condannato a morte. Nel 1957 erano di nuovo tutti in libertà.

Agli inizi degli anni Sessanta, venne eretto un piccolo monumento (rimosso soltanto alcuni anni fa), nella piazzetta del paese, che ricordava “gli ebrei ammazzati dai nazisti”. L’iscrizione era firmata: “la società”. Un’ulteriore menzogna e una macabra offesa alle vittime: proprio “quella società” aveva massacrato gli ebrei! “Una vergogna nazionale” definì la vicenda di Jedwabne lo storico ed ex leader dell’opposizione Adam Michnik (“The New York Times”, 16/IV/2001).

LIBRI:

 Neighbors: The Destruction of the Jewish Community in Jedwabne, Poland (2001), trad it. I carnefici della porta accanto, Mondadori, Milano 2002;

– Golden Harvest (2011), trad. it. Un raccolto dell’oro. Il saccheggio dei beni ebraici (Einaudi, Torino 2016).

 

L’ALTRO  LIBRO DI GROSS– EINAUDI

 

 

Un raccolto d'oro. Il saccheggio dei beni ebraici - Jan Tomasz Gross,Irena Grudzinska Gross - copertina

Un raccolto d’oro. Il saccheggio dei beni ebraici

 

 

Tutto inizia da una fotografia di gruppo. A prima vista la scena appare familiare: contadini che si riposano dopo il lavoro della mietitura. Ma quando ci accorgiamo con orrore che il raccolto disposto ai piedi del gruppo è fatto di ossa e di teschi umani, il senso di smarrimento cresce. Si tratta di un raccolto di un genere molto differente. Il punto di partenza di “Un raccolto d’oro”, ritrae, effettivamente, un gruppo di persone sulla collina formata dalle ceneri degli ottocentomila ebrei gassati e cremati a Treblinka tra il luglio 1942 e l’ottobre 1943. L’occupazione di coloro che vediamo nella foto è quella di scavare tra i resti umani alla ricerca dell’oro e dei beni preziosi sfuggiti agli assassini nazisti. Anche a guerra finita, scavatori andavano alla ricerca di oggetti di valore delle vittime che i nazisti potevano aver tralasciato. La storia racchiusa in questa fotografia, scattata poco dopo la guerra, simboleggia il saccheggio dei beni ebraici che, nell’intero continente europeo, è andato di pari passo con la Shoah. La spoliazione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale ha generato occasionalmente attenzione quando banche svizzere sono state forzate a produrre liste dei beni occultati o musei nazionali sono stati costretti a restituire opere d’arte trafugate. Ma il furto dei beni della popolazione ebraica europea non è stato appannaggio del solo regime nazista. Esso è stato perpetrato anche dalla popolazione locale, come quella ritratta nella fotografia.

 

 

 

Bundesarchiv Bild 101I-186-0160-11, Lemberg, Misshandlung eines Juden-
Lemberg, il matrattamento di un ebreo- giugno 1941

Lemberg è il nome tedesco di  Lvov – in italiano : Leopoli

 

 

Bundesarchiv Bild 101I-186-0160-12, Lemberg, Misshandlung eines Juden

 

Bundesarchiv Bild 101I-186-0160-13, Lemberg, Misshandlung eines Juden

 

 

Donna fugge da armati di mazze e da un “mercante di morte” la cui gamba sx si vede sul bordo sx della foto. Tra il 30.06 al 29..07.1941, “giornate Petlura” incoraggiate da SS, almeno 6000 ebrei polacchi massacrati a Lvov da nazionalisti ucraini.

Lviv pogrom (June – July 1941).jpg
File di Pubblico Dominio

 

 

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DELMORE SCHWARTZ , Nei sogni cominciano le responsabilità– traduttore : Attilio Verardi– NERI POZZA, 2013 + DELMORE SCHWARZ – America ! America ! Ventura, 2022

 

 

 

NERI POZZA, 2013

Traduttore : Attilio Verardi

 

 

 

DELMORE SCHWARTZ

Nei sogni cominciano le responsabilità

 

Poeta e scrittore ineguagliabile, personaggio versatile e affascinante, nonché autodistruttivo, tanto da finire i suoi giorni solo e alcolizzato in uno squallido albergo di New York, Delmore Schwartz è a tutti gli effetti una figura leggendaria della letteratura statunitense. John Berryman e Robert Lowell gli dedicarono alcune poesie, Lou Reed, che lo ebbe come professore alla Siracuse University, gli dedicò una canzone (European Son) e Saul Bellow ne fece addirittura il protagonista del suo romanzo Il dono di Humboldt.
Ancora oggi, buona parte della scena intellettuale americana sa di essere in debito, quanto a ispirazione, verso la scrittura di Delmore Schwartz, soprattutto verso i suoi racconti e, in particolare, verso la straordinaria raccolta che qui presentiamo.
Con rara maestria letteraria, Schwartz affronta in queste pagine il registro onirico, come Nei sogni cominciano le responsabilità, il racconto che fornisce il titolo all’intera raccolta, dove un ragazzo assiste per incanto a un film incentrato sul primo incontro dei suoi genitori e, in un crescendo angoscioso, avverte sempre di più la necessità di entrare nelle immagini per ammonirli entrambi e convincerli a non concepire; abbraccia la satira lucida e sofferta degli ambienti intellettuali newyorkesi, tanto pretenziosi quanto vulnerabili, in Il mondo è un matrimonio e nel caustico Capodanno; schiude al lettore vivi spaccati di vita borghese, al tempo stesso ironici e commoventi, come in America! America! e in I figli sono il senso della vita. Storie che mostrano una straordinaria capacità di acutezza e sintesi oltre a uno stile incomparabile.

 

 

COME SPESSO SUCCEDE, L’EDITORE CI OFFRE ALCUNE PAGINE DA LEGGERE IN ANTEPRIMA:

  1. L’introduzione di Lou Reed; .
  2. l primo racconto, forse intero, che si  chiama : ” Il mondo è un matrimonio “

 

apri qui per leggere

https://www.google.it/books/edition/Nei_sogni_cominciano_le_responsabilit%C3%A0/js_bCgAAQBAJ?hl=it&gbpv=1&printsec=frontcover

 

 

COMMENTI DI LETTORI

Cristiano Cant

13 ottobre 2017

Come posso trasmettere la felicità di parlare di questo libro? Un segno di sorriso sul fondo di una tazza di caffè, davanzali di neve a inizio giornata in una New York immersa nel silenzio, attimi meno che attimi, ma ugualmente densi e lunghi, bastevoli a saziare e a salvare una vita: “il tempo è una vecchia storia, una vecchia scusa”. Un corteo di nobili perdenti, sognatori irrisolti, fragili e infelici, amici preparatissimi e colti, ma scansati dalle mascelle del sociale che finisce sempre per scegliere “la marmaglia, i succedanei, le mezzecalze, le mezzecartucce, le mezzeseghe…”. E contro questi precetti, contro le avide cecità del prossimo, le furberie corali, gli sgambetti dietro l’angolo, sempre e soltanto il Dare e il Bene come unici timoni a contrastare il canagliume diffuso e l’ovvietà di esistenze da nulla, convinti, per contrasto, che il bene fatto ritornerà nel tempo, non scorderà quelle azioni, ripagandole. C’è una novella in tal senso (si intitola Cinembola) che spezza il cuore in tutto il suo andamento e che è davvero specchio e taglio di tutta questa morale, l’unica in assoluto che migliori le cose. Una grande riflessione sul tempo, sul finire della vita, sul bisogno dell’altro e sul dargli piacere nonostante si cada di continuo, giorno per giorno, senza toccarne le ferite ma consapevoli che si stanno formando, invisibili, innocue fattezze di una fine presto o tardi arriva. Ma la meraviglia che vorrei far passare è che è un libro niente affatto triste. Aleggia come una tenerezza cosciente, un realismo giocato con ironia rassegnata dove complessità e stranezze sono messe in conto e cadenzano i giorni ma senza sopraffarli, scorrendo accanto a gesti, a conversazioni vivaci, amicizie vere, e tanto Amore. E’ lì la gioia di cui parlavo all’inizio, quel guardare, anche nella frana,il ramo di insensata speranza a cui aggrapparsi e tentare l’allungo. Poi sarà lo stesso un cadere, ma fra un momento e l’altro quanta poesia c’è stata! Commovente e geniale !

 

 

 

Poche volte vi capiterà nella vita di leggere racconti di una tale bellezza.

 

 

 

 

IL GIORNALE  9 NOVEMBRE  2022
https://www.ilgiornale.it/news/schwartz-angelo-e-demone-poesia-americana-2083483.html

 

Schwartz, angelo e demone della poesia americana

Per la prima volta esce in Italia un’antologia di versi dell’autore amato da Bellow e Lou Reed

 

 

 

 

Schwartz, angelo e demone della poesia americana

 

 

In un passaggio, Saul Bellow scrive che «era impossibilmente bello». E poi scrive, riferendo le parole di Von Humboldt Fleisher, cioè di Delmore Schwartz, «E da ultimo ricorda, non siamo esseri naturali, siamo esseri soprannaturali». Nato nel 1913 a Brooklyn da ebrei rumeni, cresciuto per lo più orfano genitori divorziati, papà che muore quando lui è ragazzo, piccola eredità che gli consente di frequentare la New York University Delmore Schwartz sembrava un angelo. Era bello, soprannaturale, impossibile. Sembrava uscito da uno dei rotoli apocrifi del Primo Testamento, il Libro dei Vigilanti, per dire, che brulicano di angeli meravigliosi e crudeli, sembrano vampiri. Ai confini del mondo, è detto, ci sono le inquietanti prigioni degli angeli ribelli. Dell’angelo, Delmore Schwartz portava lo stigma: l’ascesa, incredibile; la caduta, micidiale; il volto, abbacinante. Incline a clamorose tenerezze «Cerchiamo di essere informati sulle autentiche enigmatiche divinità», attacca in una poesia dedicata a L’amore e Marilyn Monroe non poteva essere amato: tutto ciò che Delmore tocca questo è il carisma, la condanna deperisce, muore. Eppure, chi passa attraverso Delmore, chi si nutre della sua carne, risorge, diventa un genio.

Per sdebitarsi con lui, Saul Bellow ha scritto un romanzo, Il dono di Humboldt, dedicato agli anni gloriosi di Delmore Schwartz, «scrittore d’avanguardia… bello, biondo, corpulento, serio e spiritoso, colto. Insomma, aveva tutto». Il romanzo gli consentì il Pulitzer, nel 1976. Delmore Schwartz era morto dieci anni prima, d’estate, al Columbia Hotel. Vagava di albergo in albergo. Reprobo e recluso. Angelo alienato. Pare che prima abbia distrutto la camera. Aveva 52 anni. Lou Reed, un altro graziato dal genio angelico e scismatico di Delmore, in una memoria del 2012, O Delmore How I Miss You, lo ricorda nei suoi ultimi anni. Era il suo insegnante alla Syracuse University. «Eri troppo bravo per sopravvivere. Le ispirazioni ti hanno carpito. Le aspettative. La fama… Ho idolatrato il tuo ingegno e la tua conoscenza, immane. Sei e sarai sempre il solo». Per tre giorni nessuno ha reclamato il corpo di Delmore Schwartz, l’angelo ribelle della poesia americana. C’è qualcosa di cristico in questo. La lurida stanza del Columbia Hotel come il sepolcro vuoto. Non bastarono tre giorni a Delmore per risorgere.

Eppure, ha ragione Saul Bellow. Delmore Schwartz aveva tutto. Nel 1938 pubblica In Dreams Begin Responsibilities: la raccolta di racconti edita, in Italia, da Neri Pozza piace un po’ a tutti. Thomas S. Eliot, il suo poeta prediletto, sommo cardinale della modernità, ne è affascinato, gli scrive. Secondo Vladimir Nabokov, di cui è nota l’arguzia, crudele, il racconto che dà titolo al libro è uno dei più belli della letteratura americana, insieme «a un’altra mezza dozzina». Ma Delmore, per lo più, prima di tutto, è poeta. La sua poesia è vertiginosa e spiazzante, elettrificata da un talento spietato, rigorosissimo, che annienta per autorevolezza. «Sono un poeta dell’asilo (urbano)/ e del cimitero (metropolitano)/ Dell’estasi e del ragtime e anche della città nascosta nel cuore e nella mente», scrive in America, America!, poesia sacrificale, sbandierata come titolo per la prima antologia lirica di Delmore Schwartz pubblicata in questo Paese poeticamente stitico, evviva, evviva (ci è voluto un piccolo, audace editore marchigiano, di Senigallia, Ventura edizioni, pagg. 262, euro 15; la traduzione è di Angelo Guida). La poesia di Delmore Schwartz mitiga l’entusiasmo di Walt Whitman che si ravvisa, ad esempio, nel lungo poemetto La domenica pomeriggio lungo la Senna di Seurat: «Cosa contemplano? Il fiume?/ Il sole che illumina il fiume, l’estate, l’ozio,/ O l’opulenza e il nulla della coscienza?» in barometri barocchi, alterna piscio e incanto («Oh Amore, oscuro animale,/ Le tue stranezze ti fanno sembrare/ Un eccentrico o un pagliaccio:/ Consola la bambina che è in lei/ Perché è sola»). Come l’angelo contraffatto, catramato di dolori, Delmore Schwartz disseziona la civiltà «A quattro anni la natura è impervia,/ Enigmatica e misteriosa. Anche// Un bambino di città lo capisce, ascoltando la metropolitana/ Borbottare nel sottosuolo…» , prende per mano l’uomo, di cui conosce le scaturigini del pianto, lo porta in un «interminabile viaggio notturno verso il noto insondabile abisso» (Per tutta la notte).

I padri di Delmore Schwartz sono William Blake, Friedrich Hölderlin e il libro di Giobbe; presso la Beinecke Library, a Yale, si può sfogliare, anche in digitale, la sua copia annotata del Finnegans Wake di Joyce, opera di adamantina dedizione. «Sovrano e re di tutti i poeti»: così Delmore Schwartz scriveva di James Joyce. Aveva una grafia infantile, da ragazzo imperituro, scriveva in stampatello: martoriava i testi di correzioni.

Charles Bukowski lo ammirava, da incazzato, «davvero, era una puttana più che un bardo / la sua poesia, così leziosa e delicata». Delmore Schwartz appartiene al lignaggio più nobile della poesia americana, e dunque negletto, è dalla parte dei visionari, gli Hart Crane, gli Allen Tate, i Robert Penn Warren, i Robinson Jeffers. Poeti ostinati e ostili, che con la lingua hanno costruito un mondo, un’epica, un’epoca, a cui bisogna conformarsi senza conferme, pretendono obbedienza.

Quando ottenne il Bollingen, nel 1959 il poeta più giovane a cui sia mai stato assegnato quel premio aveva già bruciato due matrimoni, infilandosi nel tumulto della depressione. Dieci anni prima, il Bollingen era andato a Ezra Pound, con cui Delmore intratteneva, da tempo, un furibondo scambio epistolare. Litigavano intorno all’importanza di Tommaso d’Aquino nella Divina Commedia. Nel 1938, su Poetry, Delmore Schwartz aveva scritto un lungo studio sui Cantos, dal titolo Ezra Pound’s Very Useful Labors: ne riconosceva l’importanza fondamentale, il fondamento di una poesia nuova, sprezzante; preferiva W.H. Auden e Eliot. «Trovo le tue osservazioni sui semiti, o sulla razza ebraica, dannose… dò le dimissioni dai tuoi ammiratori e studiosi più fedeli», gli scrisse, l’anno dopo.

Alcune poesie sono memorabili e folli. La più nota quella che piace di più a Lou Reed s’intitola L’ingombrante orso che cammina con me e inizia così: «Un variegato miele imbratta il muso/ Dell’ingombrante orso goffo e sgraziato/ Che mi segue dappertutto». In un saggio del 1951, The Vocation of the Poet in the Modern World, Delmore scrive che «in poesia, molti sono i chiamati e pochi gli eletti». Cosa vuol dire? Che molti scrivono poesia e pochi, pochissimi sono poeti. Uno dei caratteri dell’eletto alla poesia, secondo Delmore Schwartz, è la «rinuncia»: per non perdere la vocazione bisogna rinunciare a tutto. Soprattutto, rinunciare a se stessi. Perdita, perdizione, spoliazione sono i criteri che fondano il carisma del poeta; «né il perdono né la grazia vengono elargiti alla poesia, ai poeti, alle poesie», scrive Delmore Schwartz in The Poet.

Ovviamente, morì solo e dimenticato, il poeta, imbarcato nella propria turpe miseria. Lo trattavano come un ubriaco, un insolito insolente: d’altronde, che senso ha un poeta nel mondo delle atroci macchine? «Quanto a me, mi sentivo come uno che cade,/… che precipita senza sosta e sente l’immensa/ Corrente dell’abisso trascinarlo sempre più giù,/ Un pagliaccio sconvolto e impotente coinvolto in un’incessante caduta», scrive. Paul Celan ha cantato il potere del «sedicesimo Salmo», che «ti manda un bagliore attorno/ all’angolo destro della bocca».

Chissà quale salmo ha sbavato Delmore Schwartz mentre moriva, perché il poeta lo capisci lì, nel punto in cui muore; chissà se gli angeli hanno fatto scempio del suo cadavere, appena prima o appena dopo. All’origine di ogni grande poesia c’è il corpo morto del poeta: i lettori devono lucidarlo con l’olio, purificarlo con l’issopo.

 

 

 

 

Traduzione di Angelo Guida


AMERICA!AMERICA!

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FRANCESCO GUCCINI ( che l’ha composta ) & ENZO JANNACCI cantano L’AVVELENATA — + testo + altro + altro

 

 

 

 

 

 

TESTO

Ma s’ io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni
credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni;
va beh, lo ammetto che mi son sbagliato e accetto il “crucifige” e così sia,
chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato…

Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante,
mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più d’ un cantante:
giovane e ingenuo io ho perso la testa, sian stati i libri o il mio provincialismo,
e un cazzo in culo e accuse d’ arrivismo, dubbi di qualunquismo, son quello che mi resta…

Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi, chiedo scusa a vossìa,
però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia;
io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia senza applausi o fischi:
vendere o no non passa fra i miei rischi, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso…

Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star quassù a cantare,
godo molto di più nell’ ubriacarmi oppure a masturbarmi o, al limite, a scopare…
se son d’ umore nero allora scrivo frugando dentro alle nostre miserie:
di solito ho da far cose più serie, costruire su macerie o mantenermi vivo…

Io tutto, io niente, io stronzo, io ubriacone, io poeta, io buffone, io anarchico, io fascista,
io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, comunista!
Io frocio, io perchè canto so imbarcare, io falso, io vero, io genio, io cretino,
io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino, voglia di bestemmiare!

Secondo voi ma chi me lo fa fare di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento?
Ovvio, il medico dice “sei depresso”, nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento.
Ed io che ho sempre detto che era un gioco sapere usare o no ad un certo metro:
compagni il gioco si fa peso e tetro, comprate il mio didietro, io lo vendo per poco!

Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni,
voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni…
Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete,
un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate!

Ma s’ io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso,
mi piace far canzoni e bere vino, mi piace far casino, poi sono nato fesso
e quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare:
ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto!

 

 

 

TESTO DA ROCKIT

https://www.rockit.it/francescoguccini/canzone/lavvelenata/125693

 

 

video, 9. 18 min. Riccardo Bertocelli racconta la storia de  ” L’Avvelenata “

+++ mi sembra più simpatico lo scritto, se proprio siete curiosi di quei tempi, subito sotto il video: da Gong / Cuore / Linus

 

 

 

ciao 2001, riviste italiane

sarà Riccardo Bertoncelli da giovane ?–mah ..sembra strano visto com’è sotto..

 

 

 

Riccardo Bertoncelli (Novara21 marzo 1952) è un giornalistacritico musicale e conduttore radiofonico italiano, tra i primi a occuparsi attivamente di rock in Italia. Ha poi svolto l’attività di traduttore per diverse case editrici di settore.

La sua prima fanzine ciclostilata si chiamava Freak, alla quale seguirono la temporanea collaborazione per le riviste Muzak e Gong, della quale fu uno dei fondatori. Il suo Pop Story è considerato tra le prime produzioni editoriali di rilievo della critica musicale rock italiana.

Riccardo Bertoncelli, docente di teoria e tecnica dell’editoria musicale al Master in Comunicazione Musicale della  Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica di Milano. Tra le sue collaborazioni più recenti vi sono anche la conduzione ai microfoni della Radio Svizzera Italiana (Rete Due) della trasmissione Birdland, dedicata al jazz, e articoli sulle pubblicazioni la Repubblica XLMusica JazzBlow UpAudioReview.

da : Wikipedia

 

 

 

 

La vera storia dell’Avvelenata raccontata da Bertoncelli  – link

 

Questa è la più bella, e giuro che è autentica. Sono più di vent’anni fa, io devo partire militare e aspetto la cartolina da un giorno all’altro. Sono curioso e anche vagamente terrorizzato di finire in qualche buco sperduto d’Italia (ci finirò). Un mattino, finalmente, il postino suona alla porta per la fatidica chiamata. Gli apro, capisco al volo e allungo la mano rassegnato, come a dire «su, dai, qua la roba, facciamola finita subito». Eh no, troppo facile. Lui mi squadra, si rigira la cartolina fra le mani, mi squadra ancora e poi mi ficca addosso lo sguardo più curioso che ha. «Scusi eh, scusi se mi permetto… Ma lei è quel Bertoncelli che… quello della canzone, come si chiama, quella canzone di Guccini che ho sentito anche ieri alla radio». Io ho i nervi in fiamme e la salivazione azzerata e con un soffio di voce, ma forse è un rantolo, gli rispondo «sì, sono io, sono io», così la smette e molla ‘sto czzz di avviso. Macché. Lui prende la cartolina, la posa sul mucchio della posta e con le braccia conserte, tutto cinguettante, mi fa: «Ma dai, ma veramente? Perché sa, io sono un patito del Guccini, ci ho tutti i suoi dischi, tutti eh, anche quello con La Genesi, come si chiama, che mi piace tanto, come si chiama quel disco?» «Si chiama Opera buffa», sussurro io esanime, adesso me la da la cartolina? «Ma allora lei conoscerà il Guccini, se l’ha citata nella canzone lei lo conosce di certo… E com’è il Guccini dal vero, eh, com’è?»

Andò avanti così dieci minuti, io ero da unità coronarica mobile e lui impassibile mi citava quelle canzoni «troppo forti, quella dell’isola sconosciuta, là, no anzi, l’isola non trovata. Troppo forte»: e solo alla fine di quel tormento, dopo dieci minuti da fachiro o giù di lì, mi allungò quel czzz di cartolina staffilandomi un ultimo «ma guarda un po’, chi l’avrebbe mai detto. Mi saluti il Guccini se lo vede», e io lessi Macomer, Sardegna, uauh, e poi non ricordo più molto, devo essere svenuto. Nel mio deliquio mi parve di sentire la voce del Guccini: ma non cantava, no, rideva solo, faceva «Ah ah ah». Vendetta, ma certo. Una sua sottile, trasversale, paradossale vendetta.1357_riccardo-bertoncelli

 

Ma vendetta di che? Qui devo fare un altro passo indietro e tornare a due anni prima di quella simpatica mattina e del mio esilio a Macomer, anzi, a Fort Apache, come nella mitologia era conosciuta quella caserma (Fabio Concato ne sa qualcosa, venne deportato lì anche lui in quel periodo a scontare tutti in anticipo i suoi peccati musicali). Dunque, 1975. Io sono un giovane collaboratore di «Gong», la più tendenziosa rivista di tendenza musicale dell’epoca, e un giorno mi affidano la recensione del disco nuovo di Guccini, «Stanze di vita quotidiana». Io di solito tratto altro, rock d’avanguardia o jazz improvvisato, e i cantautori non son proprio nel mio cuore; ma per Guccini, su, dai, faccio volentieri un’eccezione. Conosco le sue canzoni dall’epoca di «Folk Beat», anzi, da prima ancora, da «Per quando noi non ci saremo» dei Nomadi, colorata reliquia beat apribile che conservo ancora (pagata un occhio della testa lire 3200 dell’aprile 1967). All’epoca mi piacevano le sue visioni italico-beat, in tono con certe poesie scritte per il cassetto dei miei quindici anni, ma più avanti apprezzerò anche cose completamente diverse: Il compleanno per esempio, quella crudele storia da film di Pupi Avati sul secondo album, o Asia, sull’«Isola non trovata», oppure Incontro, il pezzo con cui apre «Radici».

 

Ecco, Radici è un disco che mi ha intrigato: e non tanto per La locomotiva, inno troppo facile e simil-peronista, ma per il clima in generale e per il linguaggio, aulico e controcorrente, che in quella mia gassmaniana stagione me fa impazzì. Quelle «stoviglie color nostalgia», quei metri gozzanian-pascoliani per me sono una libidine. Io adoro il Pascoli, quando sono in vena c’è chi ama farsi una pista di coca e io invece apro i Poemi conviviali e declamo, mi piace declamare («Sòlon, dicesti un giorno tu: beat o/ chi ama, chi cavalli ha solidunghi/ Cani da preda, un ospite lontano»): e non immaginate il gusto, il piacere, la complicità quando il Guccini incise Amerigo, quella bella canzone sul suo avo emigrato, e il tempo di un verso («e dire ‘bos’ per capo, ‘ton’ per tonnellata, ‘raif’ per fucile») mi si stagliò subito innanzi l’originale pascoliano a cui s’era ispirato – «Italy», massì, quel favoloso mosaico anglo-broccolino che dovrebbero far studiare a scuola, anziché perder tempo con le cavalle storne e le querce cadute – «Poor Molly! Qui non trovi il pai con fleva».

 

Ma, eccoci al punto, in Stanze di vita quotidiana quel clima e quel dolce gas poetico erano svaniti. Forse ero io che avevo il naso chiuso ma tirava un’altra aria che mi sembrava più triste, stanca, apatica. Facevo fatica a trovare canzoni belle (in realtà solo una, e ancor oggi la penso così: Canzone delle situazioni differenti) e soprattutto mi dava fastidio la rassegnazione che aleggiava in molti testi e fin da subito, nella Canzone delle osterie di fuori porta. Mi indignava in particolare quel verso, «stare a letto il giorno dopo è forse l’unica mia meta». Ma come, proprio in quegli anni, con tutto quello che fuori accadeva! In realtà, a considerar le cose a mente fredda, quel brano e un po’ tutto il disco erano una specie di «Guccini contro Guccini», l’addio alle speranze e ai ricordi di un periodo che si chiudeva senza che nulla di preciso si fosse ancora annunciato. Non per niente il tempo avrebbe rimarcato questa vena di passaggio dell’album, che sta fra Radici e Via Paolo Fabbri come un vaso di coccio tra due otri di ferro. Certo con il senno di poi viene facile dirlo, ma anche senza avrei dovuto meditare, distinguere, dar la tara, insomma, per usare una parolaccia, sforzarmi di capire. Ma ero un piccolo ayatollah che amava usare scudiscio e scimitarra e così scrissi la recensione che segue. La rileggo oggi dopo tanti anni e, beh, insomma, me la ricordavo più soft.

 

«Non intendo discutere le scelte di vita del Francesco. Vino + intimismo + lezioni d’italiano + vita provinciale è una somma che non comprendo nel momento stesso in cui non è la mia: e il raccontare che ‘stare a letto il giorno dopo è forse l’unica mia meta’, come insegna Canzone delle osterie di fuori porta, non mi fa nemmeno rabbia, tanto è personale e piena di pudori l’occhiata all’esistenza che ognuno di noi deve dare. Quello che intendo dire è che non capisco perché Guccini continui a far canzoni: dato che i primi tre album erano il fischio ingenuo a speranze e illusioni di un ’67-’68 effimero come i propri vent’anni e Radici era l’amarcord inevitabile che getta fuori ciò che è rimasto e poi più niente, perché lasciarsi irretire da una ruota come quella del bisogno discografico che rende impossibile l’abbandono del Francesco Guccini-trentamila-copie-per-LP?

 

«Buona parte della tristezza sciorinata lungo queste Stanze (tristezza feroce, impietosa, senza deroghe o pentimenti) credo vada a parare all’angolo del ruolo che l’uomo sa di avere assunto oggi come oggi; la poesia è un pezzo di carta da consegnare al pubblico e non mai un esercizio di rabbia/purificazione intima, la musica è una vecchia stampa con cui tappezzare il salotto dell’acquirente e meno che mai la scintilla individuale del ‘mi piace’ o dell”io la penso così’.

 

Francesco Guccini non appartiene più a se stesso: e finisce col ripetersi, regalando una ‘pianta topografica’ della propria anima tanto diffusa quanto vana. I suoi testi sono senza magia, nudi, freddi, con piccoli rami sfrondati dall’albero francese o dall’America anni Trenta-Cinquanta, che già sappiamo sino all’ebbrezza: noiosi, addirittura, e si perdoni la cattiveria di un uomo-ex ragazzo alle prese con gli stessi problemi di crescita del Francesco e con i medesimi sbalzi d’umore letterario che qui suggeriscono Canzone della vita quotidiana o Canzone delle ragazze che se ne vanno – magniloquenza dal cuore fragile, come già la Canzone dei dodici mesi su «Radici» insegnava a sufficienza. Insomma, «vanità delle vanità», bombe non esplose, morti nel cuore e morti nel fisico, impotenza e paura del domani, il «son sempre qui a scrivermi addosso, ho dai miei giorni quanto basta» che equivale all’«io son sempre lo stesso, sempre diverso» che compendiava la tenera Piccola città un po’ di tempo addietro. Per chi sgranare un rosario assolutamente senza novità?

 

«Questo senza malizia, ‘con amore’, come dicevamo sulle rive dell’Amstel 1968 che Francesco, ‘i blue jeans vecchi e le poche lire’, certo conosce, mentre un po’ di malvagità la voglio sparare su Vince Tempera, che distrugge la già traballante musica con un arrangiamento dai mille strumenti, tanto ambizioso quanto stridente con i testi che scivolano sotto.

 («Gong», gennaio 1975)

 

Meno male che era scritta con amore, sennò sai che botti. A rileggerla sembra quasi che mi candidassi a essere assunto dal Guccini, viste le idee nette e indiscutibili che avevo praticamente su tutto: direzione artistica management arrangiamenti (ringrazio qui Vince Tempera per non avere mai reagito, almeno lui: chessò, una pernacchia in diretta da San Remo). Era un viziaccio dell’epoca insegnare agli artisti cosa dovevano fare, anzi, chi dovevano essere, e io c’ero cascato con lo zelo leninista di una Guardia Rossa. Senza volerlo, ero finito dalle parti di A.J. Weberman, quel tale che aveva fondato un «Dylan Liberation Front» per «liberare Dylan da se stesso» e passava le giornate a rovistare tra i rifiuti di casa Zimmerman per scoprire le prove che Bob «si era venduto». Posso giurare che non ho mai frugato tra le bottiglie vuote di Via Paolo Fabbri ma carta canta: quel memorabile «Francesco Guccini non appartiene più a se stesso» l’ho scritto proprio io.

 

Ad ogni buon conto, la recensione uscì e io me ne dimenticai. Passò qualche mese, cominciai le registrazioni di Per voi giovani estate (l’ultima Per voi giovani, l’ultima beata estate prima delle radio libere). Lavoravo con Massimo Villa e fu proprio lui che un mattino arrivò in studio con un sorriso malizioso e mi disse: «Ho visto ieri sera un concerto del tuo amico Guccini». Io non capivo. «E allora? E poi non sono amico di Guccini, neanche lo conosco». «Sarà, ma lui conosce te. Ha scritto una canzone in cui ti cita.» Pensai a uno scherzo, che strana storia era quella? Poi mi capitò tra le mani un numero di «Muzak», l’altra tendenziosa rivista di tendenza di quegli anni, e anche lì Guccini a sorpresa mi citava. «Bertoncelli è uno che non capisce niente» ricordo a memoria, «uno di quelli che scrive ancora Amerika con la kappa.» Non era un’offesa così grave, e in effetti scrivevo volentieri Amerika con la kappa, ma insomma, si era accertato un caso tra di noi; e come nei film dei cowboy che si rispettino, «tra la via Emilia e il West», la questione andava risolta affrontandosi.

 

Presi il telefono e chiamai Francesco per fissare un incontro: una sfida all’OK Corral, un duello dietro il convento delle carmelitane scalze, una gara di versi in ottava rima, facesse lui. Fu sorpreso ma gentile. Mi invitò a casa sua, in Via Paolo Fabbri, e io ci capitai qualche giorno dopo un pomeriggio alle cinque, dopo un rocambolesco viaggio in treno che ancora ricordo.

 

Fu una bella serata a cominciare da subito, da quando Francesco mi aprì la porta e mi apostrofò stupito: «Ti credevo piccolo, brufoloso e con gli occhiali». No, non ero quel tipo di frustrato con Olivetti lettera 22: mentre lui invece era proprio il tranquillo ciclone che mi ero immaginato, diviso fra cento interessi anche e soprattutto non musicali. Parlammo di Bob Dylan ma anche di Carl Barks e Paperino, di feuilleton d’inizio secolo, dell’improbabile Trimurti Ginsberg-Kerouac-Giovanni Pascoli. Fu un bel «riscaldamento» per arrivare al momento topico: quella canzone, L’avvelenata, come diavolo ti è venuta in mente?

 

 

Mi raccontò che l’aveva scritta di getto, in treno, sull’onda di quella recensione che io mi ero dimenticato e che per lui era stata la classica goccia non più sopportabile. Tutti lo tiravano per la manica, in quel periodo, tutti gli dicevano cosa fare e chi essere, trasformandolo da «personaggio pubblico» in una sorta di «pubblico prigioniero», secondo usi e modi che presto sarebbero degenerati (ero con Francesco, un anno più tardi, quando lo informarono di De Gregori «sequestrato» su un palco a Milano dagli autonomi: e ricordo la sua amarezza e il suo smarrimento per quella brutta storia che purtroppo era nell’aria da tempo – il «gioco» del fare musica stava diventando una dannazione). Quella recensione su «Gong» aveva incendiato i suoi umori più cupi e la sua voglia di polemica. «Guarda che non hai capito un cazzo» mi spiegò, «l’idea che io possa far dischi per soddisfare la casa discografica è pura fantascienza. Non ho mai avuto una carriera e non ce l’avrò mai. Faccio i dischi quando voglio, tengo (pochi) concerti quando mi viene. E il paragone con «Radici» è sbagliato: quello era un momento di stanchezza, non viceversa.» Era lucido, tranquillo. Prese la chitarra, si appoggiò indietro sulla sedia e in diretta, vivo live, mi cantò L’Avvelenata tutta d’un fiato, senza errori e senza omissis. Fu divertente, davvero, ero stupito dalla valanga che le mie parole avevano provocato più che offeso dall’insulto che andava in onda: e respinsi con sdegno la sincera offerta di levare il mio nome dalla canzone, «ora che ci siamo conosciuti non ha più senso». «Guai a te» lo minacciai, «è la volta che ti denuncio per ‘omissione dolosa’. La canzone è nata così e così deve rimanere». «Comunque è un pezzo che non inciderò mai» mi rassicurò alla fine, «uno sfogo da concerto che non ha senso su un LP.»

 

La storia sarebbe andata un po’ diversamente. Nel giro di pochi mesi, quella «canzone con le parolacce» diventò un classico dei concerti e a furor di popolo venne inclusa nel disco successivo, «Via Paolo Fabbri 43» 43, con una breve, affettuosa spiega per la citazione. A un certo punto diventò addirittura un 45, se non ricordo male, di quelli per i jukebox. Ancor oggi il brano è un must dei concerti e, se manca, il popolo gucciniano fa bùu. Francesco ha provato a cambiare più volte i versi e ora, per esempio, il mio spazio viene regolarmente usurpato da Berlusconi, che al di là di tutto è anche lui quadrisillabo. «Il fatto è che sei diventato obsoleto», mi sfotte lui. «Sono in molti a chiedermi: ma chi era quel Bertoncelli della canzone?» Io, forte di sondaggi Abacus che mi danno al massimo di popolarità, non cedo. Ribatto anzi: «Fossimo stati in America ti avrei fatto una causa da un milione di dollari. Avrei una villa come quella di Elvis Presley e la chiamerei Gucciniland.» «Tu piuttosto» insiste lui, «ti ho fatto una pubblicità gratis che neanche una campagna miliardaria con passaggi TV.»

 

Ma noto che la narrazione sta prendendo una piega buonista, e non va mica bene. Perché è vero che quel pomeriggio in Via Paolo Fabbri fumammo il calumet della pace, è vero che da allora ci siam visti molte volte e con piacere, compreso un leggendario stage novarese fine ’76 con tre serate di fila (record) più jam notturna nella cantina di un amico (immaginate un’Opera buffa per due, per tre, per cinque – avessi i nastri, ci farei un bootleg); ma è anche vero che a un certo punto tornammo in rotta di collisione e sfiorammo il disastro atomico. Non per malevolenza ma come in certe storie da Dottor Stranamore: per un equivoco, per un’interferenza, per un tasto schiacciato sbadatamente. Questa non la sa nessuno. È l’ottobre 1989. Francesco ha appena scritto Cronache epifaniche e io ne parlo su «Cuore» tra il serio e il faceto.

 

«Francesco Guccini ha scritto un libro che mi guarderò bene dal recensire. se mai ne avessi avuto intenzione, un’intervista recente mi ha fatto passare la voglia. ‘Son proprio curioso di leggere cosa ne scriverà la critica paludata’, diceva l’Avvelenato, e dietro le compite parole mi sembrava di vederlo, con la bava alla bocca e la penna pronta (pardon, il mouse) a immortalare chi avesse osato. Va bene che non appartengo alla critica paludata (né a quella paludosa, peraltro) ma non si sa mai. No, grazie, abbiamo già dato.

 

«Preferisco stare al di qua della critica e chiedermi piuttosto perché. Perché uno stimato Professionista, quindici LP all’attivo, buona posizione in classifica, centomila copie per album mette in gioco la sua immagine? Perché un agiato possidente con immobili a Bologna, via Paolo Fabbri, a Pavana (mappa catastale 4N) perché perde il suo tempo per un pugno di royalties? Mi sono lambiccato il cervello ma non sono giunto a risultati soddisfacenti. Poi mi sono ricordato di una sera, una sera di tanti anni fa passata con il Guccini (dove, se non in osteria?) a convincerlo a pubblicare certi scritti che aveva nel cassetto. Anziché snobbarmi dall’alto della sua fama o trattarmi come un seccatore, l’ancor giovine F.G. mi aveva dato retta e alla fine aveva sentenziato, meditabondo: «Potrebbe essere un’idea per quando sarò vecchio. Devo pur badare alla pensione; mica posso continuare a fare il cantautore fino a sessant’anni.»

 

Diavolo d’un Guccini! Due parole e mi aveva spalancato un orizzonte sconosciuto, un mondo da brividi. Eh già, anche i cantautori sono fiorellini che vanno ad appassire, futuri nonnetti destinati alle rughe, alle crepe, agli stenti: come non averci pensato prima? E mi immaginavo con raccapriccio Lucio Dalla suonare il clarino per le vie di Bologna, un cupo Natale del 2000; e il Guccini medesimo ridotto a cibarsi di bacche e gramigne dell’Appennino dopo aver dato fondo a tutti i risparmi, alle bottiglie più remote della cantina, perfino alla collezione integrale di Paperino in americano.

 

Ecco, forse questo ricordo spiega tutto. Da buon latinista montanaro, Guccini sa che disca volant, scripta manent e per garantirsi appunto qualcosa che manet si è assicurato con la Feltrinelli, usandola come un Fondo Pensioni. Brillante idea che peraltro, dal mio punto di vista, capovolgerei volentieri. Io ci provo: cedesi avviata attività giornalistica in cambio di contatto con multinazionale discografica, ingaggio pronta cassa, primo LP pronto per Sanremo.

 

 («Cuore», 2 ottobre 1989)

 

Ora, mi sembra chiaro che era tutto uno scherzo. Mi era piaciuta quest’idea dei «signori della canzone» ridotti a stracci e caldarroste e ci avevo ricamato un po’ su, partendo da un aneddoto vero: perché, il Francesco se l’è dimenticato ma io no, quella cena in trattoria c’era stata davvero, alla fine dei ’70, combinata dall’allora direttore editoriale della Mazzotta, Andrea Rivas, che aveva intuito in anticipo la strada dei «cantautori scrittori» e voleva saggiare un po’ il terreno. Parlando della cosa, era venuta fuori per davvero quella frase («mica farò il cantautore fino a sessant’anni») che a tradimento avevo rispolverato dieci anni dopo, usandola come grimaldello per i miei scassi. Ueh, niente di cui vergognarsi: credo che nessuno fra i cantautori-leader di quegli anni pensasse di durare nel tempo, e mica solo i cantautori. Pete Townshend lo sfottono ancora adesso per aver scritto in gioventù «spero di morire prima di diventare vecchio»: hai cinquant’anni, fottuto bugiardo, cosa aspetti a crepare?

 

Guccini però se la prese. E la situazione peggiorò all’annuale raduno del «Club Tenco», di lì a poco, quando Roberto Vecchioni lo prese perfidamente in giro interpretando in scena una sua canzone «molto attuale, visto un recente articolo»: Il pensionato. Da San Remo mi giunsero notizie bellicose e per un attimo temetti un «Ritorno del figlio dell’Avvelenata part 2 – La vendetta», che sinceramente anche le mie spalle Miketysoniane non so se avrebbero sopportato. Cercai disperatamente Guccini prima che accadesse l’irreparabile e per fortuna lo trovai un po’ sulle sue ma non così incazzato. Argomentai, spiegai, ricordai – e, porco Giuda, possibile che tu sia così allergico alla mia penna e che ti vengan fuori i puntini rossi al secondo aggettivo?

 

Qualche mese dopo il Francesco compì cinquant’anni e io gli regalai, anziché un rasoio elettrico o una torta di ribes, un articolo ancora su «Cuore» tutto garrulo e affettuoso, a chiudere la disfida e a fumare un’altra volta il calumet della pace. «Francesco Guccini ha compiuto cinquant’anni e a Vignola gli hanno consegnato la Ciliegia d’oro» scrivevo. «Non so giudicare il premio ma per non sbagliare dico di sì, che va benissimo. Il Francesco la Ciliegia se la merita, anzi, stiamo larghi come Totò con Peppino (‘Punto. Macché: due punti!’); si merita anche il Culatello d’argento, il Tartufo di platino, la Castagna di peltro e tutte quelle targhe, coppe, medaglioni che l’Italia delle Pro Loco e degli assessori elargisce volentieri». E chiudevo: «Auguri, Francesco. Sei durato più del muro di Berlino e questo, Diobono, deve pur significare qualcosa.»

 

Un po’ lo facevo per medicare lo sgarbo ma molto, lo dico with the coeur in man, mi veniva spontaneo. Perchè, lo so che adesso non ci crederete, lo so che siete maliziosi e pensate sempre male, ma a me Guccini piace e sta simpatico. Giuro, parola di lupo. L’ho anche scritto di recente, e motivato, in un articolo per «Linus» (1) che mi ha consentito di spiegare una volta per tutte cosa penso di lui e delle sue canzoni, premesso e sottolineato (due volte) che la sua musica e i dintorni dei cantautori non sono proprio la mia passion. Proprio perchè ho scritto quelle righe «una volta per tutte», mi perdonerete qui se le riprendo praticamente pari pari, senza peraltro la noia della citazione diretta. Servono a completare il quadro e a rispondere agli impazienti (agli spazientiti), che immagino con la carta in bocca e la domanda in aria: «Sì, va bene tutte queste chiacchiere e intrichi, ma, al dunque, stringi stringi, cosa pensi di Guccini?»

 

Dunque la prima cosa che mi viene in mente, per connotare il personaggio e spiegarne il successo e l’affetto che lo avvolge, è l’assoluta trasparenza, il fatto cioé che il Guccini vero è esattamente sovrapponibile al Guccini che si ascolta nei dischi, senza reticenze o finzioni. D’altro canto, uno che intitola un suo disco «Via Paolo Fabbri 43» 43 e poi abita veramente a quell’indirizzo, be’, è uno che la sincerità la pratica fino al masochismo. E mica è solo questione di residenza: di Guccini conosciamo l’albero genealogico, la casa delle vacanze, gli amori di ieri e di oggi, la figlia, i vicini, il bar sotto casa, grazie a canzoniche volano sì nei cieli della fantasia ma non così in alto da perdere il contorno della realtà e della vita vera. E’ proprio questa sincerità, credo, una sincerità mai spataccosa e ostentata ma molto pudica, difficile, da vero montanaro, a rendere Guccini vicino a chi ascolta e a far quindi scattare in chi ascolta un sentimento di complicità e trasporto. E questo non solo nei confronti dei suoi/miei coetanei, della ingombrante obsoleta generazione 1940-1955, ma anche nei confronti dei più giovani e perfino dei teenager. E se è logico che fra quaranta/cinquantenni venga facile il dialogo per affinità di temi e ricordi (Auschwitz piuttosto che l’atomica cinese, «un Dio che è morto» o «la giustizia proletaria») credo che a un ventenne l’avvicinamento a Guccini riesca solo in virtù di un acrobatico salto con l’asta della fiducia e della curisoità, ma roba davvero da finale olimpica.

 

Questo è un mio vecchio pallino, che torna in ballo tutte le volte che penso a Guccini. Faccio fatica a trovare un artista meno moderno e «alla moda» di lui, e meno interessato a esserlo. Musicalmente Francesco viene da prima del rock, cioé dal pleistocene inferiore, e i suoi grandi amori di gioventù, è lui a dirlo, non furono Elvis e i maestri neri ma una dimenticata banda di pop jazz, i Firehouse 4+2; e poi sì, arrivò Dylan con il suo nuovo folk ma prima c’era stato l’innamoramento ben più intenso e profondo con Brel, con Brassens, con gli chansonnier francesi – insomma, monete musicali più difficili da cambiare del renminbi cinese e che anche dal numismatico guardano storto. Lo stesso con i versi, con quel che è giusto chiamare «le liriche», che han forma e sonanze auliche, eleganza ricercata, come da ore di seria letteratura italiana in un Liceo Classico di una volta. La generazione di Internet non parla in quel modo, fra un po’ nemmeno leggerà più così, neanche nelle aule di contenzione delle superiori l’anno della maturità. Eppure la stessa generazione trainspotting e cyber-pulp è disposta ad ascoltare, sono i materiali della tournèe di questi mesi, variazioni sul Cirano di Edmond de Rostand (che, sia chiaro, non ha mai giocato nel Paris St. Germain), citazioni dal Libro di Isaia e dal Cantico dei Cantici, testi che parlano di «chiasmi filosofanti» e in cui «paese» fa rima con «maggese», per tacere degli omaggi al babbino putativo, il già citato Pascoli, o a Guido Gozzano, quel dark torinese che scrisse L’isola non trovata quando il signor Edison non aveva ancora inventato il fonografo, altro che il cd. Chi sia Guccini per quelle verdi orecchie, uno stravagante istrione un melodioso fossile un punto interrogativo, io non so dire. Mi viene però da pensare che lo considerino uno vero, e qui torniamo al punto; le sue canzoni possono essere anche distanti come i frammenti di Eraclito ma vengono percepite come opere originali e coerenti, pezzi di vita e non «prodotti», e quindi degne di interesse. Credo che risultato migliore Guccini non potesse augurarsi: lui che ha sempre amato cantare la terra e le vere cose di sempre, lui che inizia il suo ultimo disco celebrando ciliegi fioriti e grida di rondini, ora con orgoglio può constatare che le sue canzoni son diventate di quella stessa fatta e chi le assaggia sa di non gustare polvere di Pvc ma, chissà, «il sapore dell’uva rubata a un filare».

 

Di un tal metaforico grappolo io sono onorato di essere un acino, per quanto piccolo, stortignaccolo e brusco, di quelli che è facile che vadano di traverso. Diogene Laerzio racconta che Aristotile morì di un cosino del genere, nel 322 a.C., il che a ben pensarci potrebbe servirmi per un audace paragone fra filosofi greci e cantautori italiani. Ma forse è meglio di no, forse è meglio che mi fermi qui sennò una Avvelenata part 2 (1998 Veltroni Remix) non me la leva nessuno.

(1) Canzone dei veleni e dei fiori, su Linus, gennaio 1997.

 

 dall’articolo “La vera storia dell’Avvelenata” di Riccardo Bertoncelli (1998)

 

 

per chi fosse ” troppo ” curioso come noi…

 

DELMORE SCHWARTZ E LOU REED: NEI SOGNI COMINCIANO LE RESPONSABILITÀ

 

 

È da poco in libreria Topi Caldi (Giunti), una raccolta di scritti di Riccardo Bertoncelli fra musica e letteratura. Pubblichiamo un pezzo sulla raccolta di racconti Nei sogni cominciano le responsabilità di Delmore Schwartz, ringraziando l’autore e la casa editrice (fonte immagine).

 

di Riccardo Bertoncelli

 

Ci fu un tempo in cui i dischi (in vinile) si ascoltavano per una vita e la loro esplorazione durava più di un viaggio di Livingstone in Africa. Si studiavano note, fotografie, ogni particolare. Si cercavano collegamenti, la fantasia ronzava. Nascevano leggende. In un angolo di un disco del genere, il primo Velvet “con la banana”, trovai il nome di Delmore Schwartz.

 

Era accoppiato alla canzone più brutale e traumatica, European Son, e “canzone” è un pietoso pour parler; una sorta di Chuck Berry pelle e ossa uscito da uno scantinato della Lower East Side che dopo una manciata di versi precipitava per sei minuti da un’alta scogliera di rumori e distorsioni. Chi era Delmore Schwartz? Un musicista ispiratore, un amico, uno magari della Factory che Warhol aveva imbucato in quel party?

 

Non c’era Internet allora, non cercai abbastanza. Ma il nome e la dedica mi rimasero impressi, anche se venni poi travolto dalle molte altre sirene di quell’album, dai conturbanti intrecci di arte droga musica cinema e dalle trivialissime quisquilie della copertina cult e dalla foto di quarta.

 

Ora so chi è Delmore Schwartz e mi è chiaro che di tutte quelle storie e storielle “intorno alla banana” è la più avvincente e favolosa. Lo so perché la sua opera si è insinuata anche nel nostro provinciale buco di mondo, perché Lou Reed non ha mai smesso di parlarne e perché Neri Pozza ce lo ricorda (ri)pubblicando la più famosa antologia di racconti, Nei sogni cominciano le responsabilità, che Serra & Riva aveva già edito nel 1990 in versione leggermente più corta e con titolo diverso (Il mondo è un matrimonio).

 

LOU REED by MICK ROCK LOU REED, TRASNFORMED ALBUM COVER, LONDRA, 1972 - Wall of Sound Gallery - Fine Art Music Photography

LOU REED–1972
Wall of Sound Gallery

 

 

ARTRIBUNE- REDAZIONE – 27- 10-2013

CON ALCUNE SUE FOTO

È morto Lou Reed. A settantuno anni se ne va il cantautore, polistrumentista e poeta americano creatore dei Velvet Underground, da anni anche celebre fotografo

 

 

 

 

L’introduzione è appunto di Lou Reed, e leggendola (così alata, poetica, per niente “da studioso”, piuttosto da amico ancora coinvolto) ho pensato che sarebbe stato un bel pendant con la dedica di European Son, e se fosse stata nelle note “della banana” avrebbe cambiato forse il corso letterario di tanti della mia generazione. Ma ci voleva tempo, Schwartz era appena morto e Lou non aveva ancora elaborato il lutto e soprattutto i chilotoni di materia atomica acquisiti con quell’amicizia.

 

 

Schwartz, Delmore (1913-1966) | Harvard Square Library

foto da Hatvard Square Library

(1) dallo stesso link. Hravard Square Library, pubblichiamo al fondo una sua poesia che cci pare faccia capire molto di lui

 

Delmore Schwartz era un ebreo rumeno nato a Brooklyn nel 1913 che già nel 1937 aveva sconvolto le cronache letterarie con un breve racconto, Nei sogni cominciano le responsabilità, elogiato da una fila di letterati e accademici fra cui alcuni famosi signornò, da Ezra Pound a T.S. Eliot. In quel racconto Schwartz immaginava di assistere all’incontro tra i genitori come se fosse lo spettatore di un film; partecipe ma anche atterrito dalle conseguenze, sconvolto dall’idea di poter risalire il tempo con la fantasia, proiettandone le immagini sullo schermo della mente senza poterne mutare il corso.

 

Sarebbe stata una delle costanti della sua opera: la potenza del passato, raccontato spesso con toni mitologici, e l’imprevedibilità del futuro, sofferta con un misto di rassegnazione, malinconia e scarti di umor nero. Quel gusto, con un che di più astratto e sulfureo, Schwartz conservò anche nelle opere della maturità, passando dalla prosa alla poesia. Lo leggevano, lo consideravano, nel 1959 fu il più giovane premiato nella storia di un prestigioso premio di poesia come il Bollingen.

 

Lui però era sordo agli elogi e distante da tutto, da tutti. Il mondo lo infastidiva, viveva isolato e ciò che più amava era bere, e trangugiare pillole per estraniarsi in una bolla di letteratura in cui campeggiava la stella dell’adorato Joyce. Raccontano che il giorno dell’insediamento di Kennedy alla Casa Bianca ci fosse anche lui tra gli invitati del bel mondo letterario; ma riuscirono a recapitargli l’invito solo quattro mesi dopo, facendo la posta in uno dei bar dove ogni tanto si rifugiava e leggeva ad alta voce le pagine preferite.

 

Fu allora che Lou Reed lo conobbe, 1961, quando la Syracuse University invitò Schwartz a insegnare scrittura creativa, non senza polemiche; parte del corpo accademico e degli studenti lo guardava in cagnesco, altri erano incantati. Lou capeggiava gli entusiasti. Era un figlio della piccola borghesia ebraica vessato da genitori crudeli, che lottavano per estirpare in lui il seme degenerato dell’“arte” e gli infliggevano elettrochoc perché guarisse dalla dichiarata bisessualità.

Schwartz fu il primo a dargli fiducia, aveva intuito in lui la tempra dello scrittore e lo ricopriva di attenzioni, lo spronava mentre gli schiudeva meravigliosi orizzonti insegnandogli Dostoevskij, Shakespeare, Yeats e naturalmente Joyce, il Finnegan’s Wake, l’Ulysses. “Dicevi che il modo migliore per vivere la propria vita era consacrarla a Joyce”, scrive Reed oggi ancora inebriato da quelle lezioni.

 

“Oh Delmore, quanto mi manchi. Sei tu che mi hai incoraggiato a scrivere. Eri l’uomo più grande che avessi mai incontrato. Riuscivi a esprimere le emozioni più profonde con le parole più semplici”.

Le lezioni si tenevano in aula ma sempre più di frequente nei bar, e l’allievo accompagnava il maestro fin dalla mattina, ammaliato da quei discorsi alti che presto diventavano farneticazioni, fisime, distorti ricordi per tornare chissà come folgoranti e significativi. “Il Mozart della conversazione”, lo avrebbe definito Saul Bellow, premio Nobel 1976 anche grazie a un romanzo, Il dono di Humboldt, incentrato su quella figura maledetta e sfuggente.

 

Nella sua fantasia Delmore era diventato Von Humboldt Fleisher, simbolo della purezza artistica e della sua fragilità, dissipatore di un talento che peraltro nessun letterato abile e assennato, Bellow per esempio, avrebbe saputo conquistare. Lou Reed assisté di persona a quella dissipazione, seguendo per un paio d’anni l’inabissarsi di Delmore, discepolo amico complice, prima di abbandonarlo perché altre sirene suonavano – il rock & roll per esempio.

 

Schwartz per inciso odiava la musica e al bar non sopportava i sottofondi sonori. “Il juke-box che detestavi – i testi erano così patetici”. Il maestro sapeva dell’amore rock di Lou ma lo considerava una malattia infantile che il tempo e la letteratura avrebbero guarito. L’allievo la pensava diversamente; perché invece non mettere insieme rock e letteratura?

 

Delmore Schwartz morì d’infarto all’hotel Columbia di New York, una sera del luglio 1966. Rimase tre giorni all’obitorio prima che ne reclamassero il corpo. Lou lo seppe mentre era in ospedale a curare un’epatite che rischiò di tagliarlo fuori dai VU. Gli avevano prescritto tre altre settimane di degenza; lui si fece portare jeans neri, camicia nera, giacca nera, stivaletti neri e andò alla veglia dell’amico per non tornare più in reparto. Non vedeva Schwartz da tempo, quasi non lo riconobbe per il gonfiore e gli sfregi di alcol e pillole. Fu quel giorno forse che decise di dargli retta (“Lou deve diventare uno scrittore!”), però a modo suo, con la musica e senza perdersi in nebbie di infelicità.

 

L’“album con la banana” era finito ad aprile, la dedica di European Son venne aggiunta poi considerando la natura del pezzo e la brevità del testo. Se Delmore lo avesse ascoltato da qualche juke-box, ragionò Lou, avrebbe avuto poco da recriminare.

 

Lou Reed non ha mai smesso di onorare Delmore Schwartz, in una bella canzone dimenticata (My House, su Blue Mask) lo ha anche ospitato spiriticamente tra le mura di casa. Ha sempre espresso la sua riconoscenza, lo ha amato e riverito con l’umiltà del discepolo. “Volevo scrivere. Un solo verso che fosse all’altezza dei tuoi. La mia montagna. La mia fonte d’ispirazione”. Forse è stato così grande perché non ha mai dimenticato l’innamorata maledizione del maestro. “Tu hai il dono della scrittura ma se ti venderai e scriverai per soldi, sappi che dovunque io sia verrò a perseguitarti”.

 

 

IL VERO AMERICANO

 

Jeremiah Dickson era un vero americano,
Perché era un ragazzino che capiva l’America, perché sentiva di dover
pensare a tutto; perché è tutto ciò a cui pensare,
Conoscendo immediatamente l’intimità della verità e della commedia,
Sapendo intuitivamente come il senso dell’umorismo fosse una necessità
Per tutti coloro che vivono in America. Così, in modo nativo e
naturale quando una domenica di aprile in una gelateria a Jeremiah
fu chiesto di scegliere tra una coppa di gelato al cioccolato e una banana split,
rispose senza esitazione, senza bisogno di pensarci
Essendo un vero americano, determinato a continuare come aveva iniziato:
Rifiutò l’o-o di Kierkegaard e di molti altri europei;
Rifiutando di accettare alternative, rifiutando di credere alla scelta tra;
Rifiutando la selezione; negando il dilemma; eleggendo l’affermazione assoluta: conoscendo
nel suo petto
L’infinito e l’oro
Della frontiera infinita, l’immortale Occidente.
“Entrambi: li avrò entrambi!” dichiarò questo vero americano
a Cambridge, Massachusetts, in una domenica di aprile, istruito
dai grandi magazzini, dal Five-and-Ten,
istruito dal Natale, dal circo, dalla volgarità e dalla grandiosità delle
Cascate del Niagara e del Grand Canyon,
istruito dalla grandiosità, dalla volgarità e dall’infinito appetito appagato e
splendente nell’oscurità del chiaro di luna
il sabato con i doppi spettacoli al cinema,
il coronamento delle pubblicità dell’immaginazione della luce
che è com’era: l’infinita fede nella speranza infinita di Colombo,
Barnum, Edison e Jeremiah Dickson.

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Santa Lucia luntana–canzone napoletana scritta dal grandissimo E. M. Mario nel 1919 — se la vera Santa Lucia luntana è per noi sempre quella di Roberto Murolo, questa nuova sembra bella, poi sappiamo da oggi di Giusy – una supercantante che piano piano conosceremo– notte !

 

Santa Lucia luntana è una canzone napoletana scritta da E. A. Mario nel 1919.

 

 

 

(NAP)«Parteno ‘e bastimente pe terre assaje luntane…
Càntano a buordo:
só Napulitane!
Cantano pe tramente
‘o golfo già scumpare,
e ‘a luna, ‘a miez’ô mare,
nu poco ‘e Napule
lle fa vedé Santa Lucia!
Luntano ‘a te,
quanta malincunia!
Se gira ‘o munno sano,
se va a cercà furtuna…
ma, quanno sponta ‘a luna,
luntano ‘a Napule
nun se pô stá!

E sònano…Ma ‘e mane
trèmmano ‘n coppa ‘e corde…
Quanta ricorde, ahimmé,
quanta ricorde…
E ‘o core nun ‘o sane
nemmeno cu ‘e canzone:
Sentenno voce e suone,
se mette a chiagnere
ca vô turná

Santa Lucia, tu tiene
sulo nu poco ‘e mare…
ma, chiù luntana staje,
chiù bella pare…
È ‘o canto dê sirene
ca tesse ancora ‘e rezze!
Core nun vô ricchezze:
si è nato a Napule,
ce vô murí!

Santa Lucia,»

(IT)«Partono le bastimenti
per le terre assai lontane…
Cantano a bordo:
sono Napoletani!
Cantano mentre
il golfo già scompare
e la luna in mezzo al mare
un poco di Napoli
gli fa vedereSanta Lucia!
Lontano da te
quanta malinconia!
Si gira il mondo intero
si va a cercar fortuna…
ma, quando spunta la luna
lontano da Napoli
non si può stare!

E suonano!Ma le mani
tremano sulle corde…
quanti ricordi, ahimé,
quanti ricordi…
E il cuore non lo guarisci
nemmeno con le canzoni:
sentendo voce e suoni,
si mette a piangere
che vuol tornare…

Santa Lucia,
…………

Santa Lucia, tu hai
solo un poco di mare…
ma più lontana sei,
più bella sembri…
Ed il canto delle Sirene
che tesse ancora le reti
Il cuore non vuol ricchezze:
se è nato a Napoli
ci vuol morire!

Santa Lucia,
…………»

 

 

 

NAPOLI. REPUUBLICA  – 6 MARZO 2021

https://napoli.repubblica.it/dossier/napoli-stampe/2021/03/06/news/santa_lucia_il_borgo_senza_piu_mare_cosi_cambio_la_citta_a_fine_ottocento-290699059/

Santa Lucia, il borgo senza più mare: così cambiò la città a fine Ottocento

Santa Lucia, il borgo senza più mare: così cambiò la città a fine Ottocento - la Repubblica

 

SE VUOI, LEGGI NEL LINK DEL GIORNALE ALL’INIZIO

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MIRKO MUSSETTI, IL PARLAMENTO DI ISRAELE DICE ‘NO’ ALLO STATO DI PALESTINA E ALTRE NOTIZIE INTERESSANTI. La rassegna geopolitica della giornata. — LIMESONLINE — 18 LUGLIO 2024 –14.13

 

 

LIMESONLINE — 18 LUGLIO 2024 –14.13

https://www.limesonline.com/rubriche/il-mondo-oggi/israele-usa-cina-kosovo-venezuela-haiti-migranti-africa-16488989/

 

IL PARLAMENTO DI ISRAELE DICE ‘NO’ ALLO STATO DI PALESTINA E ALTRE NOTIZIE INTERESSANTI.

La rassegna geopolitica della giornata.

 

a cura di Mirko Mussetti

 

 

Carta di Laura Canali - 2023

Carta di Laura Canali – 2023

 

 

ISRAELE VS PALESTINA

 

La Knesset (parlamento monocamerale) ha approvato a larga maggioranza – 68 voti favorevoli, 9 contrari – una risoluzione che suggella l’opposizione di Israele all’istituzione di uno Stato di Palestina. Già a febbraio l’assemblea aveva approvato un documento simile, ma con un’importante differenza: in quel caso si esprimeva contrarietà alla costituzione di uno Stato in via unilaterale, cioè in assenza di negoziati diretti con le autorità israeliane. Questa volta l’opposizione è totale. Inoltre, non si tratta solo di un’iniziativa del governo di Binyamin Netanyahu. La proposta infatti è stata presentata anche dal partito Nuova Speranza fondato da Gideon Sa’ar, che in passato è uscito dal Likud in polemica con l’attuale primo ministro. La risoluzione è stata inoltre approvata anche da Benny Gantz e da tre parlamentari del suo partito, la più consistente delle forze politiche ostili a “re Bibi”. Persino il partito centrista di Yair Lapid non ha votato contro la mozione, preferendo l’astensione. Gli unici a votare contro sono stati i laburisti, il partito arabo Hadash-Ta’al e il partito arabo islamista Ra’am. La risoluzione ampiamente condivisa giunge a pochi giorni dalla visita ufficiale di Netanyahu negli Stati Uniti, dove incontrerà il presidente Joe Biden, sostenitore della soluzione “due popoli, due Stati”.

 

Per approfondire: ‘I due Stati non si faranno’. Voci dalla Terrasanta +++ 

 

 

Carta di Laura Canali - 2023

Carta di Laura Canali – 2023

 

 

LA RASSEGNAS GEOPOLITICA DELLA GIORNATA ( 18 LUGLIO ’24 ) CONTINUA CON ALTRI TEMI NEL LINK ALL’ INIZIO

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Mauro Biani @maurobiani — 17.10 — 18 luglio 2024 — grazie !

 

 

#Usa #diritti #democrazia
Proprio ora, ricordare l’America che resiste.
#RosaParks
Oggi su @repubblica

 

 

 

 

 

 

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ANSA.IT  18 LUGLIO 2024 — 17.07 :: Von der Leyen rieletta presidente della Commissione Ue con 401 voti. Fdi ha votato contro. Il piano von der Leyen: Green deal e lotta agli estremismi

 

 

ANSA.IT  18 LUGLIO 2024 — 17.07
https://www.ansa.it/europa/notizie/rubriche/altrenews/2024/07/18/ursula-von-der-leyen-rieletta-con-401-voti_60849afc-2b7c-46b5-9e9e-47b02ddbcfa7.html

 

Von der Leyen rieletta presidente della Commissione Ue con 401 voti. Fdi ha votato contro.

Il piano von der Leyen: Green deal e lotta agli estremismi

 

 

Bruxelles, 18 luglio 2024, 17:07

Redazione ANSA

 

Ursula von der Leyen © ANSA/AFP

Ursula von der Leyen © ANSA/AF

 

Il Parlamento europeo ha rieletto Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea con 401 voti a favore, 284 contrari e 15 astenuti.

Sette le schede nulle. I votanti sono stati 707. La maggioranza minima richiesta per l’elezione era 360.

 

Biografia di Fidanza Carlo e vita professionale

CARLO FIDANZA, CAPODELEGAZIONE Fdi ( 1976 San Benedetto del Tronto, Ascoli Piceno nelle Marche) — dal 2019 è al Parlamento Europeo

 

 

Gli europarlamentari di Fdi hanno votato contro Ursula Von der Leyen, confermano fonti autorevoli di governo. “Le scelte fatte in questi giorni, la piattaforma politica, la ricerca di un consenso a sinistra fino ai Verdi hannreso impossibile il nostro sostegno a riconferma della presidente Ursula von der Leyen“, ha detto il capodelegazione di Fdi all’Eurocamera Carlo Fidanza sottolineando che con la rielezione “non viene dato seguito al forte messaggio di cambiamento uscito dalle urne del 9 giugno”. “Questo non pregiudica il nostro rapporto di lavoro istituzionale che siamo certi possa portare alla definizione di un ruolo adeguato in seno alla prossima commissione che l’Italia merita“, ha aggiunto.

Il voto a favore dei Verdi è stato decisivo per il bis di von der Leyen. E’ quanto emerge da una prima analisi del numero dei voti. La tedesca ha incassato 401 consensi, superando ampiamente la soglia necessaria dei 360. Con l’annunciato sostegno dei Greens, la maggioranza su cui poteva contare con Popolari, Socialisti e Liberali avrebbe raggiunto la quota teorica di 454 voti. Sulla carta i franchi tiratori risultano quindi oltre 50.

“Sono molto grata ai Verdi per il loro sostegno. Lavorerò il più possibile con coloro che mi hanno sostenuto, che sono pro-Ue, pro-Ucraina, pro-Stato di diritto. Sono molto grata alla piattaforma Ppe-S&d-Renew, ma sono anche molto grata al gruppo dei Verdi. Abbiamo avuto scambi approfonditi su tutti i temi ed è un buon segno che alla fine abbiano votato sì”, ha detto von der Leyen.

Altri 5 anni. Non so come esprimere quanto sono grata per la fiducia di tutti gli eurodeputati che hanno votato per me”, ha scritto Ursula von der Leyen su X dopo aver ottenuto il bis alla guida della Commissione europea. Poi in conferenza stampa: “L’altra volta ho avuto 8 voti sopra la maggioranza, questa volta 41: è molto meglio. E lancia anche un messaggio di fiducia e testimonia il lavoro che abbiamo fatto insieme al Parlamento”. “Noi abbiamo lavorato per una maggioranza democratica, per un centro pro-Ue. E alla fine mi ha sostenuto. Credo che il nostro approccio è stato corretto”, ha detto ancora la presidente della Commissione rispondendo a chi gli chiedeva se il voto contrario di Fratelli d’Italia non abbia mostrato che poteva essere messo in campo un approccio diverso.

Congratulazioni von der Leyen! Fieri del grande lavoro di squadra del Ppe per sostenere la tua conferma alla guida della Commissione europea – ha scritto su X il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani -. Conta sempre su Forza Italia per costruire un’Europa più competitiva, più sicura e portatrice di pace”.

Per il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, la rielezione di Ursula von der Leyen è “un chiaro segno della nostra capacità di agire” nell’Ue.

“Per un’Europa più sovrana, più prospera e competitiva, più democratica, felicitazioni cara Ursula von der Leyen”. Lo scrive su X il presidente francese Emmanuel Macron, postando una foto insieme alla presidente della Commissione Ue.

 

Europee - Nicola Procaccini da record, oltre 120 mila preferenze -  EtruriaNewsNICOLA PROCACCINI  ( Roma, 1976 ), due volte sindaco di Terracina ( provincia di Latina- Lazio ), dal 2019 parlamentare europeo.  Co- capogruppo Fdi  al Parlamento Europoeo

 

 

“Per noi votare a favore di von der Leyen avrebbe significato andare contro ad alcuni dei nostri principi. Alcune tematiche ci hanno reso impossibile votare a favore”, ha detto l’eurodeputato di Fratelli d’Italia e co-presidente di Ecr, Nicola Procaccini, dopo il voto sulla riconferma della presidente della Commissione europea. “D’altra parte vogliamo avere un rapporto estremamente costruttivo”, ha aggiunto Procaccini, evidenziando che nel corso della legislatura “la partita si giocherà sui contenuti”.

“La conferma di Ursula Von der Leyen è una brutta notizia per i cittadini europei e per gli italiani in particolare, soprattutto per il pericoloso sostegno di sinistre ed eco-fanatici. Tradito il voto di milioni di elettori che chiedevano il cambiamento e che ora subiranno le scelte scellerate degli estremisti verdi”. Così una nota della Lega.

“Con la complicità dell’ennesimo inciucio, eletta von der Leyen a capo della Commissione europea. Un altro schiaffo a colpi di nuove tasse green, sbarchi e guerra, contro il voto di milioni di cittadini che chiedevano un cambiamento netto a Bruxelles”. Lo afferma sui social il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini.

Un lungo applauso nell’emiciclo di Strasburgo ha seguito l’annuncio dei risultati del voto. In piedi gli eurodeputati di Verdi, Socialisti, Liberali e Popolari. Gelo dai Patrioti e dall’estrema destra. Seduti senza applaudire gli eurodeputati di Fratelli d’Italia.

Il voto a favore dei Verdi è stato decisivo per il bis di Ursula von der Leyen. Con l’annunciato sostegno dei Greens, la maggioranza su cui poteva contare con Popolari, Socialisti e Liberali avrebbe raggiunto la quota teorica di 454 voti. Sulla carta i franchi tiratori risultano quindi oltre 50.

 

 

SEGUE SULL’ANSA LA PARTE CHE ABBIAMO PUBBLICATO NEL POST PRECEDENTE

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ANSA.IT — 18 LUGLIO 2024 –  11.50 :: Von der Leyen: ‘Non lascerò che gli estremismi distruggano l’Ue’. Il discorso di candidatura alla presidenza della Commissione alla Plenaria dell’Eurocamera

 

 

ANSA.IT — 18 LUGLIO 2024 –  11.50
https://www.ansa.it/europa/notizie/rubriche/altrenews/2024/07/18/von-der-leyen-serve-unue-forte-il-destino-dipende-da-noi_60849afc-2b7c-46b5-9e9e-47b02ddbcfa7.html

 

 

Von der Leyen: ‘Non lascerò che gli estremismi distruggano l’Ue’.

 

Il discorso di candidatura alla presidenza della Commissione alla Plenaria dell’Eurocamera

Redazione ANSA

 

Ursula von der Leyen © ANSA/EPA

E’terminata la sessione dei lavori della Plenaria dedicata alle linee guida politiche della candidata alla presidenza della Commissione Ue Ursula von der Leyen.

I gruppi, ora, si riuniranno per un ultimo scambio di vedute prima della votazione, che inizierà alle ore 13.

Il voto sarà a scrutinio segreto ed è previsto che termini attorno alle ore 15. La maggioranza pro-Ue sulla quale finora ha fatto perno von der Leyen – Ppe-Socialisti-Liberali – conta di 401 seggi.

A questo numero va aggiunta la compagine dei Verdi, che hanno di fatto annunciato il loro sostegno alla presidente designata. Sono 53 i Greens che compongono il gruppo. Von der Leyen, quindi, parte da un teorico sostegno di 454 voti su 720. A loro vanno aggiunti sei voti dal gruppo Ecr: la delegazione belga di N-Va e quella dei cechi dell’Ods hanno annunciato il loro sì. Ognuna delle delegazioni è composta da tre europdeputati. Ogni previsione, comunque, resta soggetta al grande rebus dei franchi tiratori.

 

 

LA DIRETTA

IL DISCORSO DI URSULA VON DER LEYEN

 

Gli eurodeputati hanno dedicato un lungo applauso all’ex presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, citato durante il discorso della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen in aula a Strasburgo.

“Le scelte definiscono il destino e in un mondo pieno di avversità il destino dipende da ciò che faremo ora. L’Europa è davanti ad una scelta decisiva che definirà la nostra posizione nel mondo nel prossimo quinquennio. L’Europa non può controllare dittatori e demagoghi nel mondo ma può scegliere di tutelare la nostra democrazia”, ha detto Ursula von der Leyen nel suo discorso di candidatura alla presidenza della Commissione alla Plenaria dell’Eurocamera sottolineando la necessità di una scelta per una “Europa forte”.

 

Von der Leyen annuncia un “vicepresidente per l’implementazione, la semplificazione e le relazioni interistituzionali” tra le deleghe del prossimo esecutivo Ue. “Dobbiamo rendere le imprese più facili e veloci in Europa. Metterò velocità, coerenza e semplificazione tra le principali priorità politiche”, sottolinea von der Leyen nelle sue linee guida politiche, indicando che “ogni commissario avrà il compito di concentrarsi sulla riduzione degli oneri amministrativi e sulla semplificazione dell’attuazione: meno burocrazia e rendicontazione, più fiducia, migliore applicazione, autorizzazioni più rapide”.

 

“Sono convinta che la versione dell’Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale sia comunque la migliore versione dell’Ue della storia. Non lascerò che la polarizzazione estrema della nostra società venga accettata e non accetterò che gli estremismi o le demagogie distruggano il nostro stile di vita europeo”, ha detto ancora von der Leyen, pronunciando il discorso al Parlamento europeo di Strasburgo per la riconferma alla guida delle Commissione

 

“La nostra competitività ha bisogno di una forte spinta: i fondamenti dell’economia globale stanno cambiando: chi resta fermo resterà indietro, chi non sarà competitivo sarà dipendente. La corsa è aperta e voglio che l’Europa cambi marcia”. “Le nostre prime priorità” nel prossimo mandato “saranno la prosperità e la competitività”, ha sottolineato.

 

Due settimane fa un premier europeo si è recato a Mosca – ha detto poi von der Leyen facendo riferimento a Viktor Orban -. Questa cosiddetta missione di pace è stata solo una missione dell’acquiescenza, dell’appeasement, una politica di eccessive concessioni“. “Solo due giorni dopo i jet di Putin hanno colpito un ospedale pediatrico. Era un messaggio del Cremlino per raggelare noi tutti. Nessuno vuole la pace più dell’Ucraina e l’Ue sosterrà l’Ucraina finché sarà necessario”, ha scandito.

 

Nei prossimi anni “il Next Generation Eu finirà, mentre le nostre esigenze di investimento no“, ha detto Ursula von der Leyen nel suo discorso di candidatura al bis davanti alla plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo. “Per sfruttare gli investimenti privati abbiamo bisogno anche di finanziamenti pubblici”, ha evidenziato.

 

“L’obiettivo di tagliare le emissioni di gas serra del 90% entro il 2040 sarà scritto nella nostra legge Ue sul clima”, ha confermato von der Leyen.

 

“Lo spargimento di sangue a Gaza deve fermarsi, qui e ora. L’umanità non può sopportare oltre. Stiamo lavorando per un maggior sostegno all’Autorità Nazionale Palestinese”, ha aggiunto poi nel suo discorso. “La soluzione a due Stati è il modo migliore per garantire la sicurezza, per entrambi, israeliani e palestinesi. La gente della regione merita la pace e la prosperità, e l’Ue sarà con loro”, ha aggiunto.

 

“Nominerò un commissario per il Mediterraneo che si concentri su investimenti e partenariati, stabilità economica, creazione di posti di lavoro, energia, sicurezza, migrazione e altre aree di interesse reciproco, nel rispetto dei nostri valori e principi“, si legge nelle linee guida politiche della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, per i prossimi cinque anni di mandato. Il futuro commissario, precisa von der Leyen, lavorerà a stretto contatto con l’Alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza.

 

“Dobbiamo impedire che attori esterni interferiscano con i nostri processi democratici, la Commissione europea proporrà uno scudo democratico europeo”. “Oggi le nostre democrazie sono in pericolo, i nostri giornalisti, di cui plaudo il lavoro, stanno affrontando casi di spionaggio e campagne di disinformazione da parte di attori stranieri, soprattutto russi e cinesi. Mai gli attacchi ibridi sono stati a questo livello”, ha aggiunto.

 

“Affronteremo la piaga del cyberbullismo, agiremo contro la progettazione delle piattaforme che inducono dipendenza e convocheremo la prima inchiesta a livello Ue sull’impatto dei social media sulla salute dei giovani”, ha anche detto von der Leyen. “L’infanzia e l’adolescenza sono periodi di straordinario sviluppo ma anche di vulnerabilità, vediamo sempre più report sulla crisi della salute mentale. I social media, l’eccessivo tempo davanti allo schermo e le pratiche di dipendenza hanno fatto il loro tempo”.

 

“La nostra comunità non è solo il frutto della storia, ma della nostra volontà”. E’ la frase di Jacques Delors che Ursula von der Leyen ha citato concludendo il suo discorso di candidatura alla Plenaria dell’Eurocamera. “Gli ultimi cinque anni hanno mostrato di cosa siamo capaci se lavoriamo assieme, quindi continuiamo a lavorare assieme, facciamo una scelta di leadership, scegliamo l’Europa”, ha concluso.

 

“Vorrei concludere con le ultime parole pronunciate da David Sassoli prima della sua scomparsa: la speranza siamo noi. Noi, i cittadini europei, siamo la nostra migliore speranza in un mondo pericoloso. E oggi la speranza dell’Europa è nelle vostre mani” come “forze democratiche”, ha detto ancora la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo intervento conclusivo alla plenaria di Strasburgo prima del voto per il suo bis, ricordando l’ex presidente del Parlamento europeo.

 

Patrioti urlano ‘Bravo Orban’ dopo la condanna di von der Leyen

 

Applausi e urla di “Bravo Orban” si sono sentiti in aula a Strasburgo dagli scranni dei Patrioti mentre la presidente condannava il viaggio a Mosca del premier ungherese. Le urla solo state sommersi da un lunghissimo applauso dell’Aula alle parole della presidente della Commissione che ha bocciato in maniera nettissima il viaggio di Viktor Orban a Mosca.

 

Applausi a von der Leyen, ma non da Lega e Patrioti

 

Dopo dieci minuti di discorso da parte della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in aula a Strasburgo gli eurodeputati hanno già dedicato 6 lunghi applausi alla presidente. Nessuno degli eurodeputati seduti negli scranni dei Patrioti, tra cui i leghisti , ha però applaudito.

 

Linee guida di von der Leyen in 30 pagine, ‘la scelta dell’Ue’

 

“L’Europa si trova ora di fronte a una scelta chiara. La scelta di affrontare da soli il mondo incerto che ci circonda. Oppure unire le nostre società e unirci intorno ai nostri valori. Una scelta per far prevalere gli estremisti e gli acquiescenti. O di garantire che le nostre forze democratiche rimangano forti”. E’ quanto si legge nelle linee guida politiche di Ursula von der Leyen, che sottolinea: “la scelta migliore è l’Europa”. “E’ essenziale che il centro democratico in Europa regga. Ma se questo centro deve reggere, deve essere all’altezza delle preoccupazioni e delle sfide che i cittadini devono affrontare”, si legge ancora.

 

La presidente della Commissione designata Ursula von der Leyen si impegna a mantenere la rotta sul Green Deal europeo e intende lanciare un piano per l’industria pulita nei primi 100 giorni del mandato. E’ quanto si legge nelle linee guida sui prossimi cinque anni di mandato pubblicate prima del dibattito in Aula al Parlamento europeo. “Questo preparerà la strada verso l’obiettivo di riduzione delle emissioni del 90% per il 2040, che proporremo di inserire nella nostra legge europea sul clima”, si legge nel documento in cui von der Leyen annuncia che proporrà una legge per accelerare la decarbonizzazione industriale.

 

“Guardando al futuro – si legge ancora nelle linee guida politiche -, il Clean Industrial Deal deve consentirci di investire di più insieme nelle tecnologie pulite e strategiche e nelle industrie ad alta intensità energetica” e “per questo proporrò un nuovo Fondo europeo per la competitività nel quadro della nostra proposta per un bilancio nuovo e rafforzato”. “Per quanto riguarda i finanziamenti e gli investimenti pubblici, la prima priorità sarà garantire l’utilizzo delle risorse disponibili tramite NextGenerationEU e il bilancio attuale”, ha sottolineato.

 

Gli ultimi contatti di Ursula von der Leyen con i gruppi politici hanno avuto luogo fino a poco prima della pubblicazione delle linee guida politiche. E tra questi contatti, spiegano fonti qualificate europee, c’è stato anche il colloquio tra la presidente della Commissione designata e la premier Giorgia Meloni. La telefonata, si spiega, avrebbe avuto luogo ieri in tarda serata. A Meloni, come a tutti gli interlocutori, von der Leyen ha spiegato che, nel suo discorso in Plenaria, non ci sarebbero stati cambi di linea rispetto a quanto illustrato nei giorni scorsi.

 

Il discorso sulle linee politiche di von der Leyen è stato, spiegano le stesse fonti, frutto di un lavoro durato giorni, calibrato in ogni punto per venire incontro alle richieste delle forze politiche con cui la presidente della Commissione ha intenzione di dialogare. Tra queste forze c’è anche Fratelli d’Italia, e non è un caso – viene sottolineato – che nel testo si sia posto l’accento sul dossier migrazione ma anche su quello relativo all’area del Mediterraneo, al quale von der Leyen ha intenzione di dedicare un portafoglio ad hoc. Ogni paragrafo ha tenuto conto delle istanze che von der Leyen ha recepito negli incontri con i gruppi: il commissario ad hoc agli Alloggi, ad esempio, è una richiesta che ha portato con forza la compagine socialista. Richiesta alla quale la presidente ha voluto andare incontro.

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ruggiero filannino @ruggierofilann4 – 20.24 — 17 luglio 2024 – bellissima, grazie ! – link sotto la foto

 

 

 

 

BUONA SERATA DA ALBEROBELLO-VALLE D’ITRIA.

 

Immagine

 

 

 

 X   RUGGERO FILANNINO — LINK

https://x.com/ruggierofilann4/status/1813641055583318284

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UNA PAROLA AL GIORNO, 6 MAGGIO 2019 –link sotto // ” ASSORTO ” + altro

 

 

 

 

 

 

un artista, Renzo, piuttosto assorto–

 

 

 

Colore su tela

Live Painting di Francabandera: con Corrado D’Elia a Teatro Litta – Milano 18/2/2019

da:
https://www.renzofrancabandera.it/ancora-un-live-painting-di-francabandera-con-corrado-delia-a-teatro-litta/

 

biografia
Nato a Bari nel 1973, Renzo Francabandera vive e lavora a Bologna.
Dopo le collaborazioni con i settimanali satirici Cuore e Boxer-Il manifesto all’inizio degli anni Novanta, ha maturato il percorso artistico con una spiccata vocazione per la creazione d’immagine, raffinando l’esperienza pittorica con  classi di perfezionamento fra cui quelle a Milano con il prof. Italo Chiodi, cattedra di disegno dell’Accademia di Brera e sviluppando un originale percorso fra live performance e riutilizzo di materiali che impasta in un continuo collage della sua pratica artistica. 

 

segue in :

ARTISTA

 

 

 

 

Un meriggiare pallido e assorto

 

 

 

Einaudi 1943
1a edizione Einaudi, 1925

 

 

 

 

6 MAGGIO 2019

UNA PAROLA AL GIORNO

https://unaparolaalgiorno.it/significato/A/assorto?utm_source=notification&utm_medium=push&utm_campaign=pdg

 

 

Assorto

  • as-sòr-to

SIGNIFICATO :: Profondamente intento, immerso in un pensiero o in un lavoro

voce dotta, recuperata dal latino absorptus, participio passato di absorbére ‘assorbire’, da sorbére ‘sorbire, bere’ col prefisso ab ‘da’.

L’assorto è assente: c’è qualcosa di imperscrutabile che ne raccoglie l’intera attenzione, e lo vediamo lì, con lo sguardo perso e il mestolo fermo nella pentola, o che avvita degli scaffali insensibile a rumori e chiamate, solo una mano sulla spalla lo risveglia. «Scusa, ero assorto.»

 

La precisione di questo aggettivo è impressionante, e lo è anche la sua forza, ancora più apprezzabile quando ci si accorge che ‘assorto’ è una variante di sapore latino del participio passato di ‘assorbire’ (si tratta di un recupero dotto attestato già nel Trecento).

In effetti chi è assorto è assorbito, totalmente attratto e penetrato e isolato in altro. Non è più da sé in sé. Ma l’assorbito, per come lo conosciamo, richiede sempre di specificare in che cosa: non è astratto. Posso essere assorbito in un gioco, da un film, da una danza, nella lettura di un romanzo, e posso spiegare come e perché queste cose mi assorbono.

Invece l’assorto conserva impenetrabilmente incognito che cosa è precisamente ad assorbire l’attenzione, la mente, la presenza.


Anzi è uno di quei casi in cui, anche rotto l’incantesimo di assorbimento, chi era assorto difficilmente ne può riportare una cronaca analitica: della vera assenza non si ha memoria. Infatti l’assorto si coglie in comportamenti esteriori – assorto nel lavoro, nello studio. anche l’osservazione di qualcuno assorto nei suoi pensieri rileva soltanto l’atteggiamento esterno del pensare totalizzante, e non una virgola di intimità.

 

Forse è una parola così bella perché segna il confine di ciò in cui nessuno ci può seguire.

 

 

L’OCEANO ASSORTO…   — Gina Marie Dunn, Texas.

 

 

Blue abstract art by Tony Saladino. He was born in New Orleans. He has taught at The Modern Art Museum of Fort Worth, and Oxbow Summer School of Art, Michigan. #abstractart

TONY SALADINO-BLU ASSORTO/ ASTRATTO

 

 

 

 

ASSORTITO ?

Vassoio assortito ! - Foto di Pasticceria Artigianale Croquembouche, Pre-Saint-Didier - Tripadvisor

pasticceria artigianale Croquembouche, Pré-Saint Diedier / è su Facebook
foto Tripadvisor

 

Ma c’entra qualcosa l’assortito? Posso mangiare assorto dei biscotti assortiti, ma no. L’assortito è un derivato di ‘sorta’, e spiega semplicemente qualcosa che è fornito variamente secondo un certo criterio, in un’armonia di specie, in cui la sorta è una configurazione. Quindi no, l’assortito non è nemmeno tirato ‘a sorte’.

 

 

Risultati immagini per ASSORTO IMMAGINE?

UNA FOTO DI EUGENIO MONTALE, CERTAMENTE ” ASSORTO “…direi negli anni Trenta, forse quando nel 1939 pubblica ” Le Occasioni ”

 

 

Eugenio Montale In His Library

 

Montale nel 1962

 

 

 

 

Palmiro Togliatti ripreso sui banchi della Camera assorto nella lettura del giornale -1957- Roma- Discorso di Pella alla Camera dei Deputati– ” Togliatti ascolta con grande attenzione il discorso “,  a quanto si vede

 

https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL0030001309/11/discorso-pella-alla-camera-deputati.html?indexPhoto=78

 

 

PRE’ SAINT DIDIER — VAL D’AOSTA –+ famosa per le Terme

Pré-Saint-Didier

 

Pré-Saint-Didier - Casa e pericoli

 

 

 

Terme di Pré Saint Didier – CourmayeurMontBlanc

 

 

 

Ristorante QC Terme Monte Bianco in Prè-saint-didier con cucina Cucina valdostana

colazioni spettacolari e ” assortite ” che ti lasceranno “assorto assai ”
Gastroranking

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da : Giancarlo Raimondo Due — Facebook di Ahmed Yasin Art – 18 maggio 2021 — è un artista palestinese che insegna arte- nato a Nablus nel 1995- è anche scultore

 

 

grazie a Giancarlo !
https://www.facebook.com/giancarlo.raimondodue

 

 

 

 

segue 

dal Facebook di

Ahmed Yasin Art—   link

 

 

 

 

La nostra maschera

 

Nessuna descrizione della foto disponibile.

 

 

 

Ahmed Yasin Art ha aggiornato l'indirizzo del suo sito Web.

21 ottobre 2019

 

 

 

 

10 marzo 2018

Under the rubble of Cactus
In progress…

 

 

 

 

6 dicembre 2017

Study of a hardworking man
Acrylic on cardboard, 30*42cm

 

 

 

 

 

Cactus Nest
Installation

22 maggio 2017

 

 

 

 

Study of the mother of palestinian martyr Yasir Hamdouni
Oil pastel on cardboard, 35*50cm

24 aprile 2017

 

 

 

 

 

The mother of cactus
Oil on cactus

25 febbraio 2017

 

 

 

 

 

Resistance
Acrylic on Cactus and installation (Stone)

17 febbraio 2016

 

 

foto di Ahmed Yasin

 

da :

è il sito dell’Università An-Najah dove si è laureato in pittura
https://staff.najah.edu/en/profiles/8764/

 

 

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Mauro Biani @maurobiani – 16.19 — 17 luglio 2024 — grazie caro Mauro, ciao e baci

 

 

 

#persone #migranti #sbarchi #naufragi
Silenzio.
Oggi su
@repubblica

 

 

 

 

 

 

 

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Catullo, Viviamo, mia Lesbia — traduzione di Salvatore Quasimodo

 

 

File:Affresco romano - Pompei - eros e Psiche.JPG

Eros e Psiche

Affresco romano affresco da Pompei, Casa di Terenzio Neo
IV stile (45-79 d.C.).
Museo Archeologico Nazionale di Napoli

da : /it.wikipedia.org

 

 

 

Vivamus, mea Lesbia

Traduzione di Quasimodo

 

Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo,
e ogni mormorio perfido dei vecchi
valga per noi la più vile moneta.
Il giorno può morire e poi risorgere,
ma quando muore il nostro breve giorno,
una notte infinita dormiremo.
Tu dammi mille baci, e quindi cento,
quindi mille continui, quindi cento.
E quando poi saranno mille e mille,
nasconderemo il loro vero numero,
che non getti il malocchio l’invidioso
per un numero di baci così alto.

 

 

 

da :

nostri pensieri.altervista
nostripensieri.altervista.org

 

 

 

 

Saffo

immagine di Saffo
da: biografiaonline

Donna con tavolette cerate e stilo (cosiddetta “Saffo”) –
trovatoa  Pompei
affresco su gesso
altezza: 37 cm ; larghezza: 38 cm
Museo Archeologico Nazionale di Napoli ( MAN )
wikipedia

 

 

 

 

 

SAFFO,   A me pare uguale agli dei

traduzione di Quasimodo

 

 

A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.

Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.

 

 

 

da :

www.libriantichionline.com/

 

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ELISA BUSON — ANSA.IT — 17  LUGLIO  2024 / 8.54 — SCIENZA –Giorni più lunghi per colpa del riscaldamento globale. Il clima sposta l’asse della Terra e ne rallenta la rotazione

 

 

 

ANSA.IT — 17  LUGLIO  2024 – 8.54
https://www.ansa.it/canale_scienza/notizie/terra_poli/2024/07/17/giorni-piu-lunghi-per-colpa-del-riscaldamento-globale-_a3d83b6b-c576-4ea9-9c91-c948de579836.html

 

 

Giorni più lunghi per colpa del riscaldamento globale.

Il clima sposta l’asse della Terra e ne rallenta la rotazione

di Elisa Buson

La Terra illuminata dal Sole (fonte: NASA) - RIPRODUZIONE RISERVATA
 La Terra illuminata dal Sole (fonte: NASA) – 

Giorni più lunghi (di pochi millisecondi) a causa del cambiamento climatico.

Lo scioglimento delle masse di ghiaccio in Groenlandia e Antartide e il conseguente flusso di acqua verso latitudini più basse sta aumentando la massa a livello dell’equatore, rallentando di conseguenza la rotazione terrestre: se le emissioni di gas serra continueranno ad aumentare, entro la fine del secolo il riscaldamento globale potrà condizionare la rotazione del nostro pianeta più della forza di gravità esercitata dalla Luna.

Lo indica lo studio internazionale guidato dal Politecnico federale di Zurigopubblicato sulla rivista dell’Accademia americana delle scienze (Pnas).

“È come quando una pattinatrice fa una piroetta, prima tenendo le braccia vicine al corpo e poi allungandole”, spiega Benedickt Soja, docente di Geodesia spaziale all’Eth di Zurigo.

 

“La rotazione inizialmente veloce diventa più lenta perché le masse si allontanano dall’asse di rotazione aumentando l’inerzia fisica“, secondo la legge di conservazione del momento angolare.

 

Stando ai calcoli dei ricercatori, il cambiamento climatico e il conseguente spostamento delle masse di acqua ha fatto sì che i giorni diventassero più lunghi di circa 0,8 millisecondi dal 1900 a oggi, con una particolare accelerazione a partire dal 2000.

 

Se in futuro dovesse avverarsi lo scenario climatico peggiore, caratterizzato da emissioni elevate, entro il 2100 il riscaldamento globale da solo potrebbe essere responsabile di un allungamento dei giorni di 2,6 millisecondi, superando così i 2,4 millisecondi al secolo dovuti all’attrazione della Luna.

 

In un secondo studio pubblicato sulla rivista Nature Geoscience, lo stesso gruppo di ricerca ha sfruttato nuove tecniche di intelligenza artificiale per mettere a punto il modello più completo mai realizzato per spiegare come l’asse di rotazione terrestre si sposti per effetto di fenomeni che riguardano il nucleo terrestre, il mantello terrestre e anche il clima.

Il cambiamento climatico sta causando lo spostamento dell’asse di rotazione della Terra e sembra che il feedback derivante dalla conservazione del momento angolare stia cambiando anche la dinamica del nucleo terrestre”, spiega Soja.

“I cambiamenti climatici in corso potrebbero quindi influenzare anche i processi più profondi della Terra e avere una portata maggiore di quanto precedentemente ipotizzato”, aggiunge Kiani Shahvandi. 

 

Questo non comporterebbe particolari rischi, ma è un fenomeno che va tenuto presente “quando si naviga nello spazio, ad esempio quando si invia una sonda spaziale per atterrare su un altro pianeta”, dice Soja. Anche una piccola deviazione di un solo centimetro sulla Terra può infatti determinare a una deviazione di centinaia di metri per un veicolo diretto su Marte.

 

 

NOTA — GEODESIA  (pron. geodesìa )

La geodesia (dal greco γῆ, , “terra” e δαίω, dàio, “divido”; pron. geodesìa) è una disciplina appartenente alle scienze della Terra che si occupa della misura e della rappresentazione della Terra, del suo campo gravitazionale e dei fenomeni geodinamici (spostamento dei polimaree terrestri e movimenti della crosta).

 

SEGUE NEL LINK:
https://it.wikipedia.org/wiki/Geodesia

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LEOARDO BISON, Il Torso del Belvedere, gioiello dei Vaticani che conquistò anche Michelangelo + altro

 

 

 

Torso del Belvedere

 

 

museivaticani.va
https://www.museivaticani.va/content/museivaticani/it/collezioni/musei/museo-pio-clementino/sala-delle-muse/torso-del-belvedere.html

 

 

 

SEGUE DA :

FINESTRE SULL’ARTE – 1 LUGLIO 2024

https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/torso-del-belvedere-gioiello-dei-musei-vaticani

 

Il Torso del Belvedere, gioiello dei Vaticani che conquistò anche Michelangelo

 

 

 

Camminando per gli interminabili corridoi dei Musei Vaticani, ormai colmi di visitatori anche nei martedì mattina invernali, non è semplice concentrarsi sulle opere più straordinarie, cogliere la differenza tra meraviglia e capolavoro, tra il particolare e il generale. E la cartellonistica che (con grande cura, senza intaccare allestimenti ormai storicizzati) ha pur recentemente evidenziato 100 opere notevoli, contribuisce solo in parte ad orientare l’occhio del visitatore poco avvezzo all’arte moderna, contemporanea e, ancor più, antica. Ma certo non si corre il rischio di non notare, nel mezzo del corridoio centrale del complesso Pio-Clementino, datato alla fine del XVIII secolo, un mozzicone di statua che per qualche motivo catturerà il nostro interesse, spingendo a chiedersi di che si tratta, a piegarsi a leggere la didascalia: una domanda che percorre la storia dell’arte e di Roma da più di 500 anni.

Quel frammento anonimo è il cosiddetto Torso del Belvedere, e nel nostro sguardo curioso e stupito c’è lo sguardo di tanti prima di noi.

Il Torso del Belvedere è, in estrema sintesi, una statua mutila, un busto e una parte delle gambe. Rappresenta un uomo nell’atto di torcersi, appoggiato su una roccia, seduto su una pelle di felino (leone?), piegato in avanti. Datata al I secolo avanti Cristo, è firmata, in greco, da Apollonio di Atene: una firma che doveva essere un marchio di qualità (di bottega, più che d’artista nel senso moderno) che in effetti la […]

 

 

Leonardo Bison

Dottore di ricerca in archeologia all’Università di Bristol (Regno Unito), collabora con Il Fatto Quotidiano ed è attivista dell’associazione Mi Riconosci.

 

 

 

 

segue da wikipedia_ link al fondo

 

Opera autografa dallo stile neoattico, la scultura ha una notevole importanza nella ricezione culturale dell’arte greca in età moderna, per l’influenza esercitata (insieme al Gruppo del Laocoonte e all’Apollo del Belvedere) sullo sviluppo della storia dell’arte europea  del   ‘ 5/600 in epoca successiva alla sua scoperta, grazie alla fortuna e alla fama di cui godette presso scultori e pittori di varie età, a partire dall’arte rinascimentale.

Ce lo attestano le parole dei contemporanei e alcune figure di Michelangelo, specie nella Cappella Sistina, che senza essere copie della scultura del Belvedere, ne rivelano la discendenza. La fortuna del pezzo continua nel ‘6oo (per il Bernini l’opera, insieme al Pasquino, è “di più perfetta maniera del Laocoonte stesso”) e nel 700, specialmente per opera del Winckelmann, concorde col giudizio dell’amico Mengs, il quale trovava riunite in questa “tutte le bellezze delle altre statue”.

La lunga permanenza nei giardini  all’interno del Cortile del Belvedere nel ‘500 gli valse il nome di “Torso del Belvedere“.

 

 

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Photography: F. Bucher

 

 

 

 

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Veduta posteriore della scultura
Yair Haklai – Opera propria

 

Il marmo è firmato sul piedistallo come “opera di Apollonio, figlio di Nestore, ateniese” ed è da datarsi intorno al I secolo a.C. Al tempo ritenuto originale, è oggi considerato una copia di un bronzo del II secolo a.C.

https://it.wikipedia.org/wiki/Torso_del_Belvedere

 

 

Emiliovillegas24 – Opera propria

 

 

 

Belvedere Torso in Museo Pio-Clementino.
Wknight94 – Opera propria

 

 

 

 

Yair Haklai – Opera propria

 

 

 

jmax@flickr https://www.flickr.com/photos/joaomaximo/ – https://www.flickr.com/photos/joaomaximo/192939502/

 

 

 

la firma di Apollonio, figlio di Nestore
Marie-Lan Nguyen (2009)

 

 

 

 

Clockchime – Opera propria

 

 

 

Fb78

 

 

 

Sailko – Opera propria

 

 

 

Torso del Belvedere. Museo Pio Clementino, Musei Vaticani (Roma)

 

 

 

 

Fb78

 

 

 

 

 

 

 

 

林高志 – Opera propria

immagini da :

 

COMMONS.WIKIMEDIA.ORG
https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Belvedere_Torso?uselang=it

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video, 5.50 —.Vi presentiamo, se mai non la conosceste, l’Orchestra da Camera di Basilea : fondata nel 1984 è oggi una delle più famose–

 

W. A. Mozart: Don Giovanni – Ouverture | Kammerorchester Basel | Giovanni Antonini

 

 

WIKIPEDIA:

” Orchestra da camera ” era un tempo un’orchestra con vari strumenti che poteva essere ingaggiata in un palazzo in genere nobiliare, di solito più ristretto che un teatro. Pare ad alcuni critici che dal XX secolo, la musica da camera sia così in auge, per le cifre straordinarie che costano le orchestre e i solisti.

 

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andrea cherchi @cherchiandrea – 7.08 — 17 luglio — ciao Andrea, grazie del Buongiorno ! anche a te

 

 

X  andrea cherchi

https://x.com/cherchiandrea

 

 

 

Buongiorno Milano (foto andrea cherchi)

 

 

 

 

 

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questa è una prova — 17 luglio — mario bardelli

 

insomma…

 

 

 

 

 

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video, 8.23 — LUCIO CARACCIOLO– L’Ucraina conferma: l’Europa è un bluff – L’APPROFONDIMENTO — LIMESONLINE — 13 LUGLIO 2024

 

 

C’è la guerra in Europa, ma non ci sono gli europei. Il viaggio di Orbán e gli incontri con Zelens’kyj (Zelensky), Putin, Xi Jinping, Biden e Trump. Il tentativo di mediazione per un cessate il fuoco in Ucraina e avviare una trattativa. Il possibile ruolo di Italia, Francia, Germania e Polonia

 

 

 

 

 

 

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